< Istorie fiorentine
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Libro settimo


Sendo il principio di questo ottavo libro posto in mezzo di due congiure, l’una già narrata, e successa a Milano, l’altra per doversi narrare, e seguita a Firenze, parrebbe conveniente cosa, volendo seguitare il costume nostro, che delle qualità delle congiure e della importanza di esse ragionassimo; il che si farebbe volentieri quando, o in altro luogo io non ne avesse parlato, o ella fusse materia da potere con brevità passarla. Ma sendo cosa che desidera assai considerazione, e già in altro luogo detta, la lasceremo indrieto; e passando ad un’altra materia, diremo come lo stato de’ Medici, avendo vinte tutte le inimicizie le quali apertamente lo avevono urtato, a volere che quella casa prendesse unica autorità nella città e si spiccasse col vivere civile da le altre, era necessario che ella superasse ancora quelle che occultamente contro gli macchinavano. Perché, mentre che i Medici di pari di autorità e di riputazione con alcune dell’altre famiglie combattevono, potevono i cittadini che alla loro potenza avevono invidia apertamente a quelli opporsi, sanza temere di essere ne’ principii delle loro nimicizie oppressi, perché, sendo diventati i magistrati liberi, niuna delle parti, se non dopo la perdita, aveva cagione di temere. Ma, dopo la vittoria del ’66, si ristrinse in modo lo stato tutto a’ Medici, i quali tanta autorità presono, che quelli che ne erano mal contenti conveniva o con pazienza quel modo del vivere comportassero, o, se pure lo volessero spegnere, per via di congiure e secretamente di farlo tentassero: le quali perché con difficultà succedono, partoriscono il più delle volte a chi le muove rovina, e a colui contro al quale sono mosse grandezza. Donde che quasi sempre uno principe d’una città, da simili congiure assalito, se non è come il duca di Milano ammazzato, il che rade volte interviene, saglie in maggiore potenza, e molte volte, sendo buono, diventa cattivo; perché queste, con lo esemplo loro, gli danno cagione di temere, il temere di assicurarsi, l’assicurarsi di ingiuriare: donde ne nascono gli odii, di poi, e molte volte la sua rovina. E così queste congiure opprimono subito chi le muove, e quello contro a chi le son mosse in ogni modo con il tempo offendono.

Era la Italia, come di sopra abbiamo dimostro, divisa in due fazioni: Papa e Re da una parte; da l’altra Viniziani, Duca e Fiorentini; e benché ancora infra loro non fusse accesa guerra, non di meno ciascuno giorno infra essi si dava nuove cagioni di accenderla; e il Pontefice massime, in qualunque sua impresa, di offendere lo stato di Firenze s’ingegnava. Onde che, sendo morto messere Filippo de’ Medici, arcivescovo di Pisa, il Papa, contro alla volontà della signoria di Firenze, Francesco Salviati, il quale cognosceva alla famiglia de’ Medici nimico, di quello arcivescovado investì: talché, non gli volendo la Signoria dare la possessione, ne seguì tra il Papa e quella, nel maneggio di questa cosa, nuove offese. Oltra di questo, faceva in Roma alla famiglia de’ Pazzi favori grandissimi, e quella de’ Medici in ogni azione disfavoriva. Erano i Pazzi, in Firenze, per ricchezze e nobilità, allora, di tutte l’altre famiglie fiorentine splendidissimi: capo di quelli era messer Iacopo, fatto, per le sue ricchezze e nobilità, dal popolo cavaliere. Non aveva altri figliuoli che una figliuola naturale: aveva bene molti nipoti, nati di messer Piero e Antonio suoi frategli; i primi de’ quali erano Guglielmo, Francesco, Rinato, Giovanni, e apresso Andrea, Niccolò e Galeotto. Aveva Cosimo de’ Medici, veggendo la ricchezza e nobilità di costoro, la Bianca sua nipote con Guglielmo congiunta, sperando che quel parentado facesse queste famiglie più unite e levasse via le inimicizie e gli odii che dal sospetto il più delle volte sogliono nascere. Non di meno, tanto sono i disegni nostri incerti e fallaci, la cosa procedette altrimenti: perché chi consigliava Lorenzo gli mostrava come gli era pericolosissimo, e alla sua autorità contrario, raccozzare ne’ cittadini ricchezze e stato. Questo fece che a messer Iacopo e a’ nipoti non erano conceduti quegli gradi di onore che a loro, secondo gli altri cittadini, pareva meritare: da qui nacque ne’ Pazzi il primo sdegno e ne’ Medici il primo timore, e l’uno di questi che cresceva dava materia all’altro di crescere; donde i Pazzi, in ogni azione dove altri cittadini concorressero, erano da’ magistrati non bene veduti. E il magistrato degli Otto, per una leggieri cagione, sendo Francesco de’ Pazzi a Roma, sanza avere a lui quel rispetto che a’ grandi cittadini si suole avere, a venire a Firenze lo constrinse: tanto che i Pazzi, in ogni luogo, con parole ingiuriose e piene di sdegno si dolevano; le quali cose accrescevono ad altri il sospetto e a sé le ingiurie. Aveva Giovanni de’ Pazzi per moglie la figliuola di Giovanni Buonromei, uomo ricchissimo, le sustanze di cui, sendo morto, alla sua figliuola, non avendo egli altri figliuoli, ricadevono. Non di meno Carlo, suo nipote, occupò parte di quegli beni; e venuta la cosa in litigio, fu fatta una legge per virtù della quale la moglie di Giovanni de’ Pazzi fu della eredità di suo padre spogliata, e a Carlo concessa; la quale ingiuria i Pazzi al tutto dai Medici ricognobbono. Della qual cosa Giuliano de’ Medici molte volte con Lorenzo suo fratello si dolfe, dicendo come e’ dubitava che, per volere delle cose troppo, che le non si perdessero tutte.

Non di meno Lorenzo, caldo di gioventù e di potenza, voleva ad ogni cosa pensare, e che ciascuno da lui ogni cosa ricognoscesse. Non potendo adunque i Pazzi, con tanta nobilità e tante ricchezze, sopportare tante ingiurie, cominciorono a pensare come se ne avessero a vendicare. Il primo che mosse alcuno ragionamento contro a’ Medici fu Francesco. Era costui più animoso e più sensitivo che alcuno degli altri; tanto che deliberò o di acquistare quello che gli mancava, o di perdere ciò che gli aveva. E perché gli erano in odio i governi di Firenze, viveva quasi sempre a Roma, dove assai tesoro, secondo il costume de’ mercatanti fiorentini, travagliava. E perché egli era al conte Girolamo amicissimo, si dolevano costoro spesso, l’uno con l’altro, de’ Medici: tanto che, dopo molto doglienze, e’ vennono a ragionamento come gli era necessario, a volere che l’uno vivesse ne’ suoi stati e l’altro nella sua città securo, mutare lo stato di Firenze: il che sanza la morte di Giuliano e di Lorenzo pensavano non si potessi fare. Giudicorono che il Papa e il Re facilmente vi acconsentirebbono purché all’uno e all’altro si mostrasse la facilità della cosa. Sendo adunque caduti in questo pensiero, comunicorono il tutto con Francesco Salviati arcivescovo di Pisa, il quale, per essere ambizioso e di poco tempo avanti stato offeso da’ Medici, volentieri vi concorse. Ed esaminando infra loro quello fusse da fare, deliberorono, perché la cosa più facilmente succedessi, di tirare nella loro volontà messer Iacopo de’ Pazzi, sanza il quale non credevano potere cosa alcuna operare. Parve adunque che Francesco de’ Pazzi, a questo effetto, andasse a Firenze, e l’Arcivescovo e il Conte a Roma rimanessero, per essere con il Papa quando e’ paresse tempo da comunicargliene. Trovò Francesco messer Iacopo più respettivo e più duro non arebbe voluto; e fattolo intendere a Roma, si pensò che bisognasse maggiore autorità a disporlo: onde che l’Arcivescovo e il Conte ogni cosa a Giovan Batista da Montesecco, condottieri del Papa, comunicorono. Questo era stimato assai nella guerra, e al Conte e al Papa obligato: non di meno mostrò la cosa essere difficile e pericolosa; i quali periculi e difficultà l’Arcivescovo s’ingegnava spegnere, mostrando gli aiuti che il Papa e il Re farebbono alla impresa, e di più gli odii che i cittadini di Firenze portavano a’ Medici, i parenti che i Salviati e i Pazzi si tiravano dietro, la facilità dello ammazzargli, per andare per la città sanza compagnia e sanza sospetto, e di poi, morti che fussero, la facilità del mutare lo stato. Le quali cose Giovan Batista interamente non credeva, come quello che da molti altri Fiorentini aveva udito altrimenti parlare.

Mentre che si stava in questi ragionamenti e pensieri, occorse che il signor Carlo di Faenza ammalò, tale che si dubitava della morte. Parve per tanto allo Arcivescovo e al Conte di avere occasione di mandare Giovan Batista a Firenze, e di quivi in Romagna, sotto colore di riavere certe terre che il signore di Faenza gli occupava. Commisse per tanto il Conte a Giovan Batista parlasse con Lorenzo, e da sua parte gli domandasse consiglio, come nelle cose di Romagna si avesse a governare; di poi parlasse con Francesco de’ Pazzi, e vedessero, insieme, di disporre messer Iacopo de’ Pazzi a seguitare la loro volontà. E perché lo potesse con la autorità del Papa muovere, vollono, avanti alla partita, parlasse al Pontefice; il quale fece tutte quelle offerte possette maggiori in benifizio della impresa. Arrivato per tanto Giovan Batista a Firenze, parlò con Lorenzo, dal quale fu umanissimamente ricevuto e ne’ consigli domandati saviamente e amorevolmente consigliato; tanto che Giovan Batista ne prese ammirazione, parendogli avere trovato altro uomo che non gli era stato mostro, e giudicollo tutto umano, tutto savio, e al Conte amicissimo. Non di meno volle parlare con Francesco, e non ve lo trovando, perché era ito a Lucca, parlò con messer Iacopo, e trovollo nel principio molto alieno dalla cosa: non di meno, avanti partisse, l’autorità del Papa lo mosse alquanto, e per ciò disse a Giovan Batista che andasse in Romagna e tornasse, e che intanto Francesco sarebbe in Firenze, e allora più particularmente della cosa ragionerebbono. Andò e tornò Giovan Batista, e con Lorenzo de’ Medici seguitò il simulato ragionamento delle cose del Conte; di poi con messer Iacopo e Francesco de’ Pazzi si ristrinse; e tanto operorono, che messer Iacopo acconsentì alla impresa. Ragionorono del modo. A messer Iacopo non pareva che fusse riuscibile sendo ambedui i frategli in Firenze; e per ciò si aspettasse che Lorenzo andasse a Roma, come era fama che voleva andare, e allora si esequisse la cosa. A Francesco piaceva che Lorenzo fusse a Roma; non di meno, quando bene non vi andasse, affermava che o a nozze, o a giuoco, o in chiesa, ambiduoi i frategli si potevono opprimere. E circa gli aiuti forestieri, gli pareva che il Papa potesse mettere gente insieme per la impresa del castello di Montone, avendo giusta cagione di spogliarne il conte Carlo, per avere fatti i tumulti già detti nel Sanese e nel Perugino. Non di meno non si fece altra conclusione, se non che Francesco de’ Pazzi e Giovan Batista ne andassero a Roma, e quivi con il Conte e con il Papa ogni cosa concludessero. Praticossi di nuovo a Roma questa materia; e in fine si concluse, sendo la impresa di Montone resoluta, che Giovanfrancesco da Tolentino, soldato del Papa, ne andasse in Romagna, e messer Lorenzo da Castello nel paese suo, e ciascheduno di questi, con le genti del paese, tenessero le loro compagnie ad ordine per fare quanto da l’Arcivescovo de’ Salviati e Francesco de’ Pazzi fusse loro ordinato, i quali con Giovan Batista da Montesecco se ne venissero a Firenze dove provedessero a quanto fusse necessario per la esecuzione della impresa; alla quale il re Ferrando, mediante il suo oratore, prometteva qualunque aiuto. Venuti pertanto l’Arcivescovo e Francesco de’ Pazzi a Firenze tirorono nella sentenza loro Iacopo di messer Poggio, giovane litterato, ma ambizioso e di cose nuove desiderosissimo, tiroronvi duoi Iacopi Salviati l’uno fratello, l’altro affine dello Arcivescovo; condussonvi Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi, giovani arditi e alla famiglia de’ Pazzi obligatissimi. De’ forestieri, oltre a’ prenominati, messer Antonio da Volterra e uno Stefano sacerdote, il quale nelle case di messer Iacopo alla sua figliuola la lingua latina insegnava, v’intervennono. Rinato de’ Pazzi, uomo prudente e grave, e che ottimamente cognosceva il male che da simili imprese nascono, alla congiura non acconsentì; anzi la detestò, e con quel modo che onestamente potette adoperare la interruppe.

Aveva il Papa tenuto nello Studio pisano a imparar lettere pontificie Raffaello de’ Riario, nipote del conte Girolamo; nel quale luogo ancora essendo, fu dal Papa alla dignità del cardinalato promosso. Parve per tanto a’ congiurati di condurre questo cardinale a Firenze, acciò che la sua venuta e la congiura ricoprisse, possendosi infra la sua famiglia quelli congiurati de’ quali avevono bisogno nascondere, e da quello prendere cagione di esequirla. Venne adunque il Cardinale, e fu da messere Iacopo de’ Pazzi a Montughi, sua villa propinqua a Firenze, ricevuto. Desideravano i congiurati di accozzare insieme, mediante costui, Lorenzo e Giuliano; e come prima questo occorresse, ammazzargli. Ordinorono per tanto convitassero il Cardinale nella villa loro di Fiesole, dove Giuliano, o a caso o a studio, non convenne; tanto che, tornato il disegno vano, giudicorono, che, se lo convitassero a Firenze, di necessità ambiduoi vi avessero ad intervenire. E così dato l’ordine, la domenica de’ dì 26 d’aprile, correndo l’anno 1478, a questo convito deputorono. Pensando adunque i congiurati di potergli nel mezzo del convito ammazzare, furono il sabato notte insieme, dove tutto quello che la mattina seguente si avesse ad esequire disposono. Venuto di poi il giorno, fu notificato a Francesco come Giuliano ad il convito non interveniva. Per tanto di nuovo i capi della congiura si ragunorono, e conclusono che non fusse da differire il mandarla ad effetto; perché gli era impossibile, sendo nota a tanti, che la non si scoprisse. E per ciò deliberorono nella chiesa cattedrale di Santa Reparata ammazzargli, dove sendo il Cardinale, i duoi frategli, secondo la consuetudine, converrebbono. Volevano che Giovan Batista prendesse la cura di ammazzare Lorenzo, e Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini, Giuliano. Recusò Giovan Batista il volerlo fare: o che la familiarità aveva tenuta con Lorenzo gli avesse adolcito lo animo, o che pure altra cagione lo movesse: disse che non gli basterebbe mai l’animo commettere tanto eccesso in chiesa e accompagnare il tradimento con il sacrilegio. Il che fu il principio della rovina della impresa loro: perché, strignendoli il tempo, furono necessitati dare questa cura a messer Antonio da Volterra e a Stefano sacerdote, duoi che, per pratica e per natura, erano a tanta impresa inettissimi: perché, se mai in alcuna faccenda si ricerca l’animo grande e fermo, e nella vita e nella morte per molte esperienze risoluto, è necessario averlo in questa, dove si è assai volte veduto agli uomini nelle arme esperti e nel sangue intrisi lo animo mancare. Fatto adunque questa deliberazione, vollono che il segno dello operare fusse quando si comunicava il sacerdote che nel tempio la principale messa celebrava; e che, in quel mezzo, lo arcivescovo de’ Salviati, insieme con i suoi e con Iacopo di messer Poggio, il palagio publico occupassero, acciò che la Signoria, o voluntaria o forzata, seguita che fusse de’ duoi giovani la morte, fusse loro favorevole.

Fatta questa deliberazione se n’andorono nel tempio, nel quale già il Cardinale insieme con Lorenzo de’ Medici era venuto. La chiesa era piena di popolo e lo oficio divino cominciato, quando ancora Giuliano de’ Medici non era in chiesa; onde che Francesco de’ Pazzi insieme con Bernardo, alla sua morte destinati, andorono alle sue case a trovarlo, e con prieghi e con arte nella chiesa lo condussono. È cosa veramente degna di memoria che tanto odio, tanto pensiero di tanto eccesso si potesse con tanto cuore e tanta ostinazione d’animo da Francesco e da Bernardo ricoprire: perché, conduttolo nel tempio, e per la via e nella chiesa con motteggi e giovinili ragionamenti lo intrattennero; né mancò Francesco, sotto colore di carezzarlo, con le mani e con le braccia strignerlo, per vedere se lo trovava o di corazza o d’altra simile difesa munito. Sapevano Giuliano e Lorenzo lo acerbo animo de’ Pazzi contra di loro, e come eglino desideravano di torre loro l’autorità dello stato, ma non temevono già della vita, come quelli che credevano che, quando pure eglino avessero a tentare cosa alcuna, civilmente e non con tanta violenza lo avessero a fare; e per ciò anche loro, non avendo cura alla propria salute, di essere loro amici simulavano. Sendo adunque preparati gli ucciditori, quegli a canto a Lorenzo, dove, per la moltitudine che nel tempio era, facilmente e sanza sospetto potevono stare, e quegli altri insieme con Giuliano, venne l’ora destinata; e Bernardo Bandini, con una arme corta a quello effetto apparecchiata, passò il petto a Giuliano, il quale dopo pochi passi cadde in terra; sopra il quale Francesco de’ Pazzi gittatosi, lo empié di ferite; e con tanto studio lo percosse, che, accecato da quel furore che lo portava, se medesimo in una gamba gravemente offese. Messer Antonio e Stefano, dall’altra parte, assalirono Lorenzo, e menatogli più colpi, di una leggieri ferita nella gola lo percossono; perché, o la loro negligenzia, o lo animo di Lorenzo, che, vedutosi assalire, con l’arme sua si difese, o lo aiuto di chi era seco, fece vano ogni sforzo di costoro. Tale che quegli, sbigottiti, si fuggirono e si nascosono; ma di poi ritrovati, furono vituperosamente morti e per tutta la città strascinati. Lorenzo dall’altra parte, ristrettosi con quegli amici che gli aveva intorno, nel sacrario del tempio si rinchiuse. Bernardo Bandini, morto che vide Giuliano, ammazzò ancora Francesco Nori, a’ Medici amicissimo, o perché lo odiasse per antico, o perché Francesco di aiutare Giuliano s’ingegnasse; e non contento a questi duoi omicidii corse per trovare Lorenzo e supplire con lo animo e prestezza sua a quello che gli altri per la tardità e debilezza loro avevono mancato, ma trovatolo nel sacrario rifuggito, non potette farlo. Nel mezzo di questi gravi e tumultuosi accidenti i quali furono tanti terribili che pareva che il tempio rovinasse, il Cardinale si ristrinse allo altare, dove con fatica fu dai sacerdoti tanto salvato che la Signoria, cessato il romore, potette nel suo palagio condurlo; dove con grandissimo sospetto infino alla liberazione sua dimorò.

Trovavansi in Firenze in questi tempi alcuni Perugini, cacciati, per le parti, di casa loro, i quali i Pazzi, promettendo di rendere loro la patria, avevano tirati nella voglia loro; donde che l’arcivescovo de’ Salviati, il quale era ito per occupare il Palagio insieme con Iacopo di messer Poggio e i suoi Salviati e amici, gli avea condotti seco. E arrivato al Palagio, lasciò parte de’ suoi da basso, con ordine che, come eglino sentissero il romore, occupassero la porta; ed egli, con la maggior parte de’ Perugini, salì da alto; e trovato che la Signoria desinava, perché era l’ora tarda, fu, dopo non molto, da Cesare Petrucci gonfaloniere di giustizia intromesso. Onde che, entrato con pochi de’ suoi, lasciò gli altri fuora; la maggiore parte de’ quali nella cancelleria per se medesimi si rinchiusono, perché in modo era la porta di quella congegnata, che, serrandosi, non si poteva se non con lo aiuto della chiave, così di dentro come di fuora, aprire. L’Arcivescovo intanto, entrato dal Gonfaloniere, sotto colore di volergli alcune cose per parte del Papa riferire, gli cominciò a parlare con parole spezzate e dubie; in modo che l’alterazione che dal viso e dalle parole mostrava generorono nel Gonfaloniere tanto sospetto che a un tratto, gridando, si pinse fuora di camera, e trovato Iacopo di messer Poggio, lo prese per i capegli e nelle mani de’ suoi sergenti lo misse. E levato il romore tra i Signori, con quelle armi che il caso sumministrava loro, tutti quegli che con l’Arcivescovo erano saliti da alto, sendone parte rinchiusi e parte inviliti, o subito furono morti, o così vivi, fuori delle finestre del Palagio gittati; intra i quali l’Arcivescovo, i duoi Iacopi Salviati e Iacopo di messer Poggio appiccati furono. Quegli che da basso in Palagio erano rimasi avevano sforzata la guardia, e la porta e le parti basse tutte occupate, in modo che i cittadini che in questo romore al Palagio corsono, né armati aiuto, né disarmati consiglio alla Signoria potevano porgere.

Francesco de’ Pazzi intanto e Bernardo Bandini, veggendo Lorenzo campato, e uno di loro, in chi tutta la speranza della impresa era posta, gravemente ferito, si erono sbigottiti donde che Bernardo, pensando con quella franchezza d’animo alla sua salute, che gli aveva allo ingiuriare i Medici pensato, veduta la cosa perduta, salvo se ne fuggì. Francesco, tornatosene a casa ferito, provò se poteva reggersi a cavallo; perché l’ordine era di circuire con armati la terra e chiamare il popolo alla libertà e all’arme; e non potette: tanta era profonda la ferita, e tanto sangue aveva per quella perduto; onde che, spogliatosi, si gittò sopra il suo letto ignudo, e pregò messer Iacopo che quello da lui non si poteva fare facesse egli. Messer Iacopo, ancora che vecchio e in simili tumulti non pratico, per fare questa ultima esperienza della fortuna loro, salì a cavallo, con forse cento armati, suti prima per simile impresa preparati, e se n’andò alla piazza del Palagio, chiamando in suo aiuto il popolo e la libertà. Ma perché l’uno era dalla fortuna e liberalità de’ Medici fatto sordo, l’altra in Firenze non era cognosciuta, non gli fu risposto da alcuno. Solo i Signori, che la parte superiore del Palagio signoreggiavano, con i sassi lo salutorono, e con le minacce in quanto poterono lo sbigottirono. E stando messer Iacopo dubio, fu da Giovanni Serristori, suo cognato, incontrato; il quale prima lo riprese degli scandoli mossi da loro, di poi lo confortò a tornarsene a casa, affermandogli che il popolo e la libertà era a cuore agli altri cittadini come a lui. Privato adunque messer Iacopo d’ogni speranza, veggendosi il Palagio nimico, Lorenzo vivo, Francesco ferito, e da niuno seguitato, non sapiendo altro che farsi, deliberò di salvare, se poteva, con la fuga, la vita; e con quella compagnia che gli aveva seco in Piazza, si uscì di Firenze per andarne in Romagna.

In questo mezzo tutta la città era in arme, e Lorenzo de’ Medici da molti armati accompagnato, s’era nelle sue case ridutto: il Palagio dal popolo era stato ricuperato, e gli occupatori di quello tutti fra presi e morti. Già per tutta la città si gridava il nome de’ Medici, e le membra de’ morti, o sopra le punte delle armi fitte, o per la città strascinate si vedevano; e ciascheduno, con parole piene d’ira e con fatti pieni di crudeltà, i Pazzi perseguitava. Già erano le loro case dal popolo occupate; e Francesco, così ignudo, fu di casa tratto, e al Palagio condotto, fu a canto all’Arcivescovo e agli altri appiccato. Né fu possibile, per ingiuria che per il cammino o poi gli fusse fatta o detta, farli parlare alcuna cosa; ma guardando altrui fiso, sanza dolersi altrimenti, tacito sospirava. Guglielmo de’ Pazzi, di Lorenzo cognato, nelle case di quello, e per la innocenza sua e per lo aiuto della Bianca sua moglie, si salvò. Non fu cittadino che, armato o disarmato, non andasse alle case di Lorenzo in quella necessità; e ciascheduno sé e le sustanze sue gli offeriva: tanta era la fortuna e la grazia che quella casa, per la sua prudenza e liberalità, si aveva acquistata. Rinato de’ Pazzi s’era, quando il caso seguì nella sua villa ritirato, donde, intendendo la cosa, si volle, travestito, fuggire: non di meno fu per il cammino cognosciuto, e preso, e a Firenze condotto. Fu ancora preso messer Iacopo nel passare l’alpi, perché, inteso da quegli alpigiani il caso seguito a Firenze e veduta la fuga di quello, fu da loro assalito e a Firenze menato: né potette ancora che più volte ne gli pregasse impetrare di essere da loro per il cammino ammazzato. Furono messer Iacopo e Rinato giudicati a morte, dopo quattro giorni che il caso era seguito, e infra tante morti che in quelli giorni erano state fatte, che avevono piene di membra di uomini le vie, non ne fu con misericordia altra che questa di Rinato riguardata, per essere tenuto uomo savio e buono, né di quella superbia notato, che gli altri di quella famiglia accusati erano. E perché questo caso non mancasse di alcuno estraordinario esemplo, fu messer Iacopo prima nella sepultura de’ suoi maggiori sepulto; di poi, di quivi, come scomunicato, tratto, fu lungo le mura della città sotterrato; e di quindi ancora cavato, per il capresto con il quale era stato morto, fu per tutta la città ignudo strascinato; e da poi che in terra non aveva trovato luogo alla sepultura sua, fu da quegli medesimi che strascinato l’avevono, nel fiume d’Arno, che allora aveva le sue acque altissime gittato. Esemplo veramente grandissimo di fortuna, vedere uno uomo da tante ricchezze e da sì felicissimo stato, in tanta infelicità, con tanta rovina e con tale vilipendio cadere! Narronsi de’ suoi alcuni vizi, intra i quali erano giuochi e bestemmie più che a qualunche perduto uomo non si converrebbe; quali vizi con le molte elimosine ricompensava, perché a molti bisognosi e luoghi pii largamente suvveniva. Puossi ancora, di quello, dire questo bene, che il sabato davanti a quella domenica deputata a tanto omicidio, per non fare partecipe dell’avversa sua fortuna alcuno altro, tutti i suoi debiti pagò, e tutte le mercatanzie che gli aveva in dogana e in casa, le quali ad alcuni appartenessero, con maravigliosa sollecitudine a’ padroni di quelle consegnò. Fu a Giovan Batista da Montesecco, dopo una lunga esamine fatta di lui, tagliata la testa; Napoleone Franzesi con la fuga fuggì il supplizio; Guglielmo de’ Pazzi fu confinato, e i suoi cugini che erano rimasi vivi, nel fondo della rocca di Volterra in carcere posti. Fermi tutti i tumulti, e puniti i congiurati, si celebrorono le esequie di Giuliano; il quale fu con le lagrime da tutti i cittadini accompagnato, perché in quello era tanta liberalità e umanità quanta in alcuno altro in tale fortuna nato si potesse desiderare. Rimase di lui uno figliuolo naturale, il quale dopo a pochi mesi che fu morto nacque, e fu chiamato Giulio; il quale fu di quella virtù e fortuna ripieno, che in questi presenti tempi tutto il mondo cognosce, e che da noi, quando alle presenti cose perverremo, concedendone Iddio vita, sarà largamente dimostro. Le genti che sotto messer Lorenzo da Castello in Val di Tevere, e quelle che sotto Giovan Francesco da Talentino in Romagna erano, insieme, per dare favore a’ Pazzi s’erano mosse per venire a Firenze; ma poi ch’eglino intesero la rovina della impresa, si tornorono indietro.

Ma non essendo seguita in Firenze la mutazione dello stato, come il Papa e il Re desideravano, deliberarono quello che non avevono potuto fare per congiure farlo per guerra; e l’uno e l’altro, con grandissima celerità, messe le sue genti insieme per assalire lo stato di Firenze, publicando non volere altro da quella città, se non che la rimovesse da sé Lorenzo de’ Medici, il quale solo di tutti i Fiorentini avieno per nimico. Avevano già le genti del Re passato il Tronto, e quelle del Papa erano nel Perugino; e perché, oltre alle temporali i Fiorentini ancora le spirituali ferite sentissero, gli scomunicò e maladisse. Onde che i Fiorentini, veggendosi venire contro tanti eserciti, si preparorono con ogni sollecitudine alle difese. E Lorenzo de’ Medici, innanzi ad ogni altra cosa, volle, poi che la guerra per fama era fatta a lui, ragunare in Palagio, con i Signori, tutti i qualificati cittadini, in numero di più di trecento; a’ quali parlò in questa sentenza: - Io non so, eccelsi Signori, e voi, magnifici cittadini, se io mi dolgo con voi delle seguite cose, o se io me ne rallegro. E veramente quando io penso con quanta fraude, con quanto odio io sia stato assalito e il mio fratello morto, io non posso fare non me ne contristi e con tutto il cuore e con tutta l’anima non me ne dolga. Quando io considero di poi con che prontezza, con che studio, con quale amore, con quanto unito consenso di tutta la città il mio fratello sia stato vendicato e io difeso, conviene, non solamente me ne rallegri, ma in tutto me stesso esalti e glorii. E veramente, se la esperienza mi ha fatto conoscere come io aveva in questa città più nimici che io non pensava, m’ha ancora dimostro come io ci aveva più ferventi e caldi amici che io non credeva. Son forzato, adunque, a dolermi con voi per le ingiurie d’altri, e rallegrarmi per i meriti vostri; ma son bene constretto a dolermi tanto più delle ingiurie, quanto le sono più rare, più senza esemplo e meno da noi meritate. Considerate, magnifici cittadini, dove la cattiva fortuna aveva condotta la casa nostra, che fra gli amici, fra i parenti, nella chiesa non era secura. Sogliono quelli che dubitano della morte ricorrere agli amici per aiuti, sogliono ricorrere a’ parenti; e noi gli trovavamo armati per la distruzione nostra: sogliono rifuggire nelle chiese tutti quegli che, per publica o per privata cagione, sono perseguitati. Adunque, da chi gli altri sono difesi, noi siamo morti; dove i parricidi, gli assassini sono sicuri, i Medici trovorono gli ucciditori loro. Ma Iddio, che mai per lo addietro non ha abbandonata la casa nostra, ha salvato ancora noi, e ha presa la defensione della giusta causa nostra. Perché quale ingiuria abbiamo noi fatta ad alcuno, che se ne meritasse tanto desiderio di vendetta? E veramente questi che ci si sono dimostri tanto nimici, mai privatamente non gli offendemmo; perché, se noi gli avessimo offesi, e’ non arebbono avuto commodità di offendere noi. S’eglino attribuiscono a noi le publiche ingiurie, quando alcuna ne fusse stata loro fatta, che non lo so, eglino offendono più voi che noi, più questo Palagio e la maestà di questo governo che la casa nostra, dimostrando che per nostra cagione voi ingiuriate immeritamente i cittadini vostri. Il che è discosto al tutto da ogni verità; perché noi quando avessimo potuto, e voi quando noi avessimo voluto, non lo aremmo fatto: perché chi ricercherà bene il vero troverrà la casa nostra non per altra cagione con tanto consenso essere stata sempre esaltata da voi, se non perché la si è sforzata, con la umanità, liberalità, con i beneficii, vincere ciascuno. Se noi abbiamo adunque onorati gli strani, come aremmo noi ingiuriati i parenti? Se si sono mossi a questo per desiderio di dominare, come dimostra lo occupare il Palagio, venire con gli armati in Piazza, quanto questa cagione sia brutta, ambiziosa e dannabile, da se stessa si scuopre e si condanna; se lo hanno fatto per odio e invidia avevano alla autorità nostra, eglino offendono voi, non noi, avendocela voi data. E veramente quelle autoritadi meritono di essere odiate che gli uomini si usurpano, non quelle che gli uomini per liberalità, umanità e munificenza si guadagnano. E voi sapete che mai la casa nostra salse a grado alcuno di grandezza, che da questo Palagio e dallo unito consenso vostro non vi fusse spinta: non tornò Cosimo mio avolo dallo esilio con le armi e per violenza, ma con il consenso e unione vostra, mio padre, vecchio e infermo, non difese già lui contro a tanti nimici lo stato, ma voi con l’autorità e benivolenza vostra lo difendesti; non arei io, dopo la morte di mio padre, sendo ancora, si può dire, un fanciullo, mantenuto il grado della casa mia, se non fussero stati i consigli e favori vostri; non arebbe potuto né potrebbe reggere la mia casa questa republica, se voi, insieme con lei, non l’avessi retta e reggesse. Non so io adunque qual cagione di odio si possa essere il loro contro di noi, o quale giusta cagione di invidia: portino odio agli loro antenati, i quali, con la superbia e con la avarizia, si hanno tolta quella reputazione che i nostri si hanno saputa, con studi a quegli contrari, guadagnare. Ma concediamo che le ingiurie fatte a loro da noi sieno grandi, e che meritamente eglino desiderassero la rovina nostra: perché venire ad offendere questo Palagio? perché fare lega con il Papa e con il Re contro alla libertà di questa republica? perché rompere la lunga pace di Italia? A questo non hanno eglino scusa alcuna; perché dovevono offendere chi offendeva loro, e non confundere le inimicizie private con le ingiurie publiche; il che fa che, spenti loro, il male nostro è più vivo, venendoci, alle loro cagioni, il Papa e il Re a trovare con le armi: la qual guerra affermano fare a me e alla casa mia. Il che Dio volessi che fusse il vero, perché i rimedi sarebbono presti e certi, né io sarei sì cattivo cittadino che io stimasse più la salute mia che i pericoli vostri; anzi volentieri spegnerei lo incendio vostro con la rovina mia. Ma perché sempre le ingiurie che i potenti fanno con qualche meno disonesto colore le ricuoprono, eglino hanno preso questo modo a ricoprire questa disonesta ingiuria loro. Pure non di meno, quando voi credessi altrimenti, io sono nelle braccia vostre: voi mi avete a reggere o lasciare; voi miei padri, voi miei defensori; e quanto da voi mi sarà commesso che io faccia, sempre farò volentieri; né ricuserò mai, quando così a voi paia, questa guerra con il sangue del mio fratello cominciata, di finirla col mio. - Non potevono i cittadini, mentre che Lorenzo parlava, tenere le lagrime; e con quella pietà che fu udito, gli fu da uno di quegli, a chi gli altri commissono, risposto; dicendogli che quella città ricognosceva tanti meriti da lui e dai suoi, che gli stesse di buono animo, ché con quella prontezza ch’eglino avevono vendicata del fratello la morte, e di lui conservata la vita, gli conserverebbono la reputazione e lo stato; né prima perderebbe quello, che loro la patria perdessero. E perché le opere corrispondessero alle parole, alla custodia del corpo suo di certo numero di armati publicamente providono, acciò che dalle domestiche insidie lo defendessero.

Di poi si prese modo alla guerra, mettendo insieme genti e danari in quella somma poterono maggiore. Mandorono per aiuti, per virtù della lega, al duca di Milano e a’ Viniziani; e poi che il Papa si era dimostro lupo e non pastore, per non essere come colpevoli devorati, con tutti quelli modi potevono la causa loro giustificavano, e tutta la Italia del tradimento fatto contro allo stato loro riempierono, mostrando la impietà del Pontefice e la ingiustizia sua; e come quello pontificato che gli aveva male occupato, male esercitava; poi che gli aveva mandato quelli che alle prime prelature aveva tratti, in compagnia di traditori e parricidi, a commettere tanto tradimento in nel tempio, nel mezzo del divino officio, nella celebrazione del Sacramento; e da poi, perché non gli era successo ammazzare i cittadini, mutare lo stato della loro città e quella a suo modo saccheggiare, la interdiceva e con le pontificali maledizioni la minacciava e offendeva. Ma se Dio era giusto, se a Lui le violenzie dispiacevono, gli dovevono quelle di questo suo vicario dispiacere; ed essere contento che gli uomini offesi, non trovando presso a quello luogo, ricorressero a Lui. Per tanto, non che i Fiorentini ricevessero lo interdetto e a quello ubbidissero, ma sforzorono i sacerdoti a celebrare il divino oficio, feciono un concilio, in Firenze, di tutti i prelati toscani che allo imperio loro ubbidivono, nel quale appellorono delle ingiurie del Pontefice al futuro Concilio. Non mancavano ancora al Papa ragioni da giustificare la causa sua; e per ciò allegava appartenersi ad uno pontefice spegnere le tirannide, opprimere i cattivi, esaltare i buoni; le quali cose ei debbe con ogni opportuno rimedio fare; ma che non è già l’uficio de’ principi seculari detinere i cardinali, impiccare i vescovi, ammazzare, smembrare e strascinare i sacerdoti, gli innocenti e i nocenti sanza alcuna differenzia uccidere.

Non di meno, intra tante querele e accuse, i Fiorentini il Cardinale, ch’eglino avieno in mano, al Pontefice restituirono; il che fece che il Papa, sanza rispetto, con tutte le forze sue e del Re gli assalì. Ed entrati gli duoi eserciti, sotto Alfonso primogenito di Ferrando e duca di Calavria, e al governo di Federigo conte di Urbino, nel Chianti per la via de’ Sanesi, i quali dalle parti inimiche erano, occuporono Radda e più altre castella, e tutto il paese predorono; di poi andorono con il campo alla Castellina. I Fiorentini, veduti questi assalti, erano in grande timore, per essere sanza gente e vedere gli aiuti degli amici lenti; perché, non ostante che il Duca mandasse soccorso, i Viniziani avevono negato essere obligati aiutare i Fiorentini nelle cause private, perché, sendo la guerra fatta a privati, non erano obligati in quella a suvvenirli, perché le inimicizie particulari non si avevono publicamente a defendere. Di modo che i Fiorentini, per disporre i Viniziani a più sana opinione, mandorono oratore a quel senato messer Tommaso Soderini; e in quel mentre soldorono gente, e feciono capitano de’ loro eserciti Ercule marchese di Ferrara. Mentre che queste preparazioni si facevano, lo esercito nimico strinse in modo la Castellina, che quegli terrieri, desperati del soccorso, si dierono, dopo quaranta giorni che eglino avieno sopportata la obsidione. Di quivi si volsono i nimici verso Arezzo, e campeggiorono il Monte a San Sovino. Era di già l’esercito fiorentino ad ordine, e andato alla volta de’ nimici, s’era posto propinquo a quelli a tre miglia, e dava loro tanta incommodità che Federigo d’Urbino domandò per alcuni giorni tregua. La quale gli fu conceduta con tanto disavvantaggio de’ Fiorentini, che quegli che la dimandavono di averla impetrata si maravigliorono; perché, non la ottenendo, erano necessitati partirsi con vergogna; ma avuti quelli giorni di commodità a riordinarsi, passato il tempo della tregua, sopra la fronte delle genti nostre quel castello occuporono. Ma essendo già venuto il verno, i nimici, per ridursi a vernare in luoghi commodi, dentro nel Sanese si ritirorono. Ridussonsi ancora le genti fiorentine nelli alloggiamenti più commodi; e il marchese di Ferrara, avendo fatto poco profitto a sé e meno ad altri, se ne tornò nel suo stato.

In questi tempi Genova si ribellò dallo stato di Milano per queste cagioni: poi che fu morto Galeazzo, e restato Giovan Galeazzo suo figliuolo, di età inabile al governo, nacque dissensione intra Sforza, Lodovico e Ottaviano e Ascanio suoi zii, e madonna Bona sua madre, perché ciascuno di essi voleva prendere la cura del piccolo Duca. Nella quale contenzione madonna Bona, vecchia duchessa, per il consiglio di messer Tommaso Soderini, allora per i Fiorentini in quello stato oratore, e di messer Cecco Simonetta, stato secretario di Galeazzo, restò superiore. Donde che, fuggendosi gli Sforzeschi di Milano, Ottaviano nel passare l’Adda affogò, e gli altri furono in varii luoghi confinati insieme con il signore Ruberto da San Severino, il quale in quegli travagli aveva lasciata la Duchessa e accostatosi a loro. Sendo di poi seguiti i tumulti di Toscana, quegli principi, sperando per gli nuovi accidenti potere trovare nuova fortuna, ruppono i confini, e ciascuno di loro tentava cose nuove per ritornare nello stato suo. Il re Ferrando, che vedeva che i Fiorentini solamente, nelle loro necessità, erano stati dallo stato di Milano soccorsi, per torre loro ancora quegli aiuti, ordinò di dare tanto che pensare alla Duchessa nello stato suo, che agli aiuti de’ Fiorentini provedere non potesse, e per il mezzo di Prospero Adorno e del signore Ruberto e rebelli sforzeschi, fece ribellare Genova dal Duca. Restava solo nella potestà sua il Castelletto, sotto la speranza del quale la Duchessa mandò assai genti per recuperare la città, e vi furono rotte, tal che, veduto il pericolo che poteva soprastare allo stato del figliuolo e a lei, se quella guerra durava, sendo la Toscana sottosopra e i Fiorentini, in chi ella solo sperava, afflitti, deliberò, poi che la non poteva avere Genova come subietta, averla come amica; e convenne con Batistino Fregoso, nimico di Prospero Adorno, di dargli il Castelletto e farlo in Genova principe, pure che ne cacciasse Prospero e a’ ribelli sforzeschi non facesse favore. Dopo la quale conclusione, Batistino, con lo aiuto del castello e della parte, s’insignorì di Genova, e se ne fece, secondo il costume loro, doge; tanto che gli Sforzeschi e il signore Ruberto, cacciati del Genovese, con quelle genti che li seguirono ne vennono in Lunigiana. Donde che il Papa e il Re, veduto come e travagli di Lombardia erano posati, presono occasione da questi cacciati da Genova a turbare la Toscana di verso Pisa, acciò che i Fiorentini, dividendo le loro forze, indebolissero; e per ciò operorono, sendo già passato il verno, che il signore Ruberto si partisse con le sue genti di Lunigiana, e il paese pisano assalisse. Mosse adunque il signor Ruberto uno tumulto grandissimo, e molte castella del Pisano saccheggiò e prese, e infino alla città di Pisa predando corse.

Vennono, in questi tempi, a Firenze oratori dello Imperadore e del re di Francia e del re d’Ungheria, i quali dai loro principi erano mandati al Pontefice, i quali persuasono a’ Fiorentini mandassero oratori al Papa, promettendo fare ogni opera con quello, che con una ottima pace si ponesse fine a questa guerra. Non recusorono i Fiorentini di fare questa esperienza, per essere apresso qualunque escusati, come per la parte loro amavano la pace. Andati adunque gli oratori, sanza alcuna conclusione tornorono. Onde che i Fiorentini, per onorarsi della reputazione del re di Francia poi che dagli Italiani erano parte offesi parte abbandonati, mandorono oratore a quel re Donato Acciaiuoli, uomo delle greche e latine lettere studiosissimo, di cui sempre gli antenati hanno tenuti gradi grandi nella città. Ma nel cammino, sendo arrivato a Milano, morì; onde che la patria, per remunerare chi era rimaso di lui e per onorare la sua memoria, con publiche spese onoratissimamente lo seppellì, e a’ figliuoli esenzione, e alle figliuole dote conveniente a maritarle concesse; e in suo luogo, per oratore al Re, messer Guid’Antonio Vespucci, uomo delle imperiali e pontificie lettere peritissimo, mandò. Lo assalto fatto dal signore Ruberto nel paese di Pisa turbò assai, come fanno le cose inaspettate, i Fiorentini; perché, avendo da la parte di Siena una gravissima guerra, non vedevano come si potere a’ luoghi di verso Pisa provedere; pure, con comandati e altre simili provisioni, alla città di Pisa soccorsono. E per tenere i Lucchesi in fede, acciò che o danari o viveri al nimico non sumministrassero, Piero di Gino di Neri Capponi ambasciadore vi mandorono; il quale fu da loro con tanto sospetto ricevuto, per l’odio che quella città tiene con il popolo di Firenze, nato da le antiche ingiurie e dal continuo timore, che portò molte volte pericolo di non vi essere popolarmente morto: tanto che questa sua andata dette cagione a nuovi sdegni, più tosto che a nuova unione. Rivocorono i Fiorentini il marchese di Ferrara, soldorono il marchese di Mantova, e con instanzia grande richiesono a’ Viniziani il conte Carlo, figliuolo di Braccio, e Deifebo, figliuolo del conte Iacopo, i quali furono alla fine, dopo molte gavillazioni, da’ Viniziani conceduti; perché, avendo fatto tregua con il Turco, e per ciò non avendo scusa che gli ricoprissi, a non osservare la fede della lega si vergognorono. Vennono per tanto il conte Carlo e Deifebo con buono numero di genti d’arme; e messe insieme, con quelle, tutte le genti d’arme che poterono spiccare dallo esercito che sotto il marchese di Ferrara alle genti del duca di Calavria era opposto, se ne andorono inverso Pisa per trovare il signore Ruberto, il quale con le sue genti si trovava propinquo al fiume del Serchio. E benché gli avesse fatto sembiante di volere aspettare le genti nostre, non di meno non le aspettò, ma ritirossi in Lunigiana, in quelli alloggiamenti donde si era, quando entrò nel paese di Pisa, partito. Dopo la cui partita furono dal conte Carlo tutte quelle terre recuperate che dai nimici nel paese di Pisa erano state prese.

Liberati i Fiorentini dagli assalti di verso Pisa, feciono tutte le genti loro infra Colle e San Gimignano ridurre. Ma sendo in quello esercito, per la venuta del conte Carlo, Sforzeschi e Bracceschi, subito si risentirono le antiche nimicizie loro; e si credeva, quando avessero ad essere lungamente insieme, che fussero venuti alle armi. Tanto che, per minore male, si deliberò di dividere le genti, e una parte di quelle, sotto il conte Carlo, mandare nel Perugino, un’altra parte fermare a Poggibonzi, dove facessero uno alloggiamento forte, da potere tenere i nimici, che non entrassero nel Fiorentino. Stimorono, per questo partito, constrignere ancora i nimici a dividere le genti; perché credevono, o che il conte Carlo occuperebbe Perugia, dove pensavano avesse assai partigiani, o che il Papa fusse necessitato mandarvi grossa gente per difenderla. Ordinorono oltra di questo, per condurre il Papa in maggiore necessità, che messer Niccolò Vitelli, uscito di Città di Castello, dove era capo messer Lorenzo suo nimico, con gente si appressasse alla terra, per fare forza di cacciarne lo avversario e levarla dalla ubbidienza del Papa. Parve, in questi principii, che la fortuna volesse favorire le cose fiorentine; perché e’ si vedeva il conte Carlo fare nel Perugino progressi grandi; messer Niccolò Vitelli, ancora che non gli fusse riuscito entrare in Castello, era con le sue genti superiore in campagna, e d’intorno alla città sanza opposizione alcuna predava; così ancora le genti che erano restate a Poggibonzi ogni dì correvano alle mura di Siena: non di meno, alla fine, tutte queste speranze tornorono vane. In prima morì il conte Carlo, nel mezzo della speranza delle sue vittorie. La cui morte ancora migliorò le condizioni de’ Fiorentini, se la vittoria che da quella nacque si fusse saputa usare, perché, intesasi la morte del Conte, subito le genti della Chiesa, che erano di già tutte insieme a Perugia, presono speranza di potere opprimere le genti fiorentine; e uscite in campagna, posono il loro alloggiamento sopra il Lago propinquo a’ nimici a tre miglia. Dall’altra parte Iacopo Guicciardini, il quale si trovava di quello esercito commissario, con il consiglio del magnifico Ruberto da Rimine, il quale, morto il conte Carlo, era rimaso il primo e più reputato di quello esercito, cognosciuta la cagione dell’orgoglio de’ nimici, deliberorono aspettargli, tal che, venuti alle mani accanto al Lago, dove già Annibale cartaginese dette quella memorabile rotta a’ Romani, furono le genti della Chiesa rotte. La quale vittoria fu ricevuta in Firenze con laude de’ capi e piacere di ciascuno, e sarebbe stata con onore e utile di quella impresa, se i disordini che nacquono nello esercito che si trovava a Poggibonzi non avessero ogni cosa perturbato. E così il bene che fece l’uno esercito fu dall’altro interamente destrutto: perché, avendo quelle genti fatto preda sopra il Sanese, venne, nella divisione di essa, differenza intra il marchese di Ferrara e quello di Mantova; tal che, venuti alle armi, con ogni qualità di offesa si assalirono; e fu tale che, giudicando i Fiorentini non si potere più d’ambeduoi valere, si consentì che il marchese di Ferrara con le sue genti se ne tornasse a casa.

Indebolito adunque quello esercito, e rimaso sanza capo, e governandosi in ogni parte disordinatamente, il duca di Calavria, che si trovava con lo esercito suo propinquo a Siena, prese animo di venirli a trovare, e così fatto come pensato, le genti fiorentine, veggendosi assalire, non nelle armi, non nella moltitudine, che erano al nimico superiori non nel sito dove erano, che era fortissimo, confidarono, ma sanza aspettare non che altro di vedere il nimico, alla vista della polvere si fuggirono, e a’ nimici le munizioni, i carriaggi e l’artiglierie lasciorono: di tanta poltroneria e disordine erano allora quelli eserciti ripieni, che nel voltare uno cavallo o la testa o la groppa dava la perdita o la vittoria d’una impresa. Riempié questa rotta i soldati del Re di preda, e i Fiorentini di spavento; perché, non solo la città loro si trovava dalla guerra, ma ancora da una pestilenza gravissima afflitta; la quale aveva in modo occupata la città, che tutti i cittadini, per fuggire la morte, per le loro ville si erano ritirati. Questo fece ancora questa rotta più spaventevole; perché quelli cittadini che per la Val di Pesa e per la Val d’Elsa avevono le loro possessioni, sendosi ridutti in quelle, seguita la rotta, subito, come meglio poterono, non solamente con i figliuoli e robe loro, ma con i loro lavoratori, a Firenze corsono: tal che pareva che si dubitasse che ad ogni ora il nimico alla città si potesse presentare. Quegli che alla cura della guerra erano preposti, veggendo questo disordine, comandorono alle genti che erano state nel Perugino vittoriose che, lasciata la impresa contro a’ Perugini, venissero in Val d’Elsa per opporsi al nimico, il quale, dopo la vittoria, sanza alcuno contrasto scorreva il paese. E benché quelle avessero stretta in modo la città di Perugia, che ad ogni ora se ne aspettasse la vittoria, non di meno vollono i Fiorentini prima difendere il loro, che cercare di occupare quello d’altri: tanto che quello esercito, levato dai suoi felici successi, fu condotto a San Casciano, castello propinquo a Firenze a otto miglia, giudicando non si potere altrove fare testa, infino a tanto che le reliquie dello esercito rotto fussero insieme. I nimici dall’altra parte, quegli che erano a Perugia, liberi per la partita delle genti fiorentine, divenuti audaci, grandi prede nello Aretino e nel Cortonese ciascuno giorno facevano; e quegli altri, che sotto Alfonso duca di Calavria avevano a Poggibonzi vinto, si erano di Poggibonzi prima, e di Vico di poi insignoriti, e Certaldo messo a sacco; e fatte queste espugnazioni e prede, andorono con il campo al castello di Colle, il quale in quegli tempi era stimato fortissimo, e avendo gli uomini allo stato di Firenze fedeli, potette tenere tanto a bada il nimico, che si fussero ridutte le genti insieme. Avendo adunque i Fiorentini raccozzate le genti tutte a San Casciano, ed espugnando i nimici con ogni forza Colle, deliberorono di appressarsi a quelli, e dare animo a’ Colligiani a defendersi. E perché i nimici avessero più respetto ad offendergli, avendo gli avversarii propinqui, fatta questa deliberazione, levorono il campo da San Casciano e posonlo a San Gimignano, propinquo a cinque miglia a Colle, donde con i cavalli leggieri e con altri più espediti soldati ciascuno dì il campo del Duca molestavano. Non di meno a’ Colligiani non era sufficiente questo soccorso, per che, mancando delle loro cose necessarie, a dì 13 di novembre si dierono, con dispiacere de’ Fiorentini e con massima letizia de’ nimici, e massimamente de’ Sanesi, i quali oltre al comune odio che portono alla città di Firenze, lo avevano con i Colligiani particulare.

Era di già il verno grande, e i tempi sinistri alla guerra, tanto che il Papa e il Re, mossi, o da volere dare speranza di pace, o da volere godersi le vittorie avute più pacificamente, offersono tregua a’ Fiorentini per tre mesi, e dierono dieci giorni tempo alla risposta; la quale fu accettata subito. Ma come avviene a ciascuno, che più le ferite, raffreddi che sono i sangui, si sentono, che quando le si ricevono, questo breve riposo fece cognoscere più a’ Fiorentini i sostenuti affanni. E i cittadini, liberamente e sanza rispetto, accusavano l’uno l’altro, e manifestavano gli errori nella guerra commessi: mostravano le spese invano fatte, le gravezze ingiustamente poste; le quali cose, non solamente ne’ circuli, intra i privati, ma ne’ consigli publici animosamente parlavano. E prese tanto ardire alcuno, che, voltosi a Lorenzo de’ Medici, gli disse: - Questa città è stracca, e non vuole più guerra; - e per ciò era necessario che pensasse alla pace. Onde che Lorenzo, cognosciuta questa necessità, si ristrinse con quegli amici che pensava più fedeli e più savi, e prima conclusono, veggendo i Viniziani freddi e poco fedeli, il Duca pupillo e nelle civili discordie implicato, che fusse da cercare con nuovi amici nuova fortuna; ma stavano dubi nelle cui braccia fusse da rimettersi, o del Papa o del Re. Ed esaminato tutto, approvorono l’amicizia del Re, come più stabile e più secura: perché la brevità della vita de’ papi, la variazione della successione, il poco timore che la Chiesa ha de’ principi, i pochi rispetti che la ha nel prendere i partiti, fa che uno principe seculare non può in uno pontefice interamente confidare, né può securamente accomunare la fortuna sua con quello; perché chi è, nelle guerre e pericoli, del papa amico, sarà nelle vittorie accompagnato e nelle rovine solo, sendo il pontefice dalla spirituale potenza e reputazione sostenuto e difeso. Deliberato adunque che fusse a maggiore profitto guadagnarsi il Re, giudicorono non si potere fare meglio né con più certezza che con la presenza di Lorenzo; perché, quanto più con quello re si usasse liberalità, tanto più credevano potere trovare remedi alle nimicizie passate. Avendo per tanto Lorenzo fermo lo animo a questa andata, raccomandò la città e lo stato a messer Tommaso Soderini, che era in quel tempo gonfaloniere di giustizia, e al principio di decembre partì di Firenze, e arrivato a Pisa, scrisse alla Signoria la cagione della sua partita. E quelli signori, per onorarlo, e perché e’ potesse trattare con più reputazione la pace con il Re, lo feciono oratore per il popolo fiorentino, e gli dettono autorità di collegarsi con quello, come a lui paresse meglio per la sua republica.

In questi medesimi tempi il signore Ruberto da San Severino, insieme con Lodovico e Ascanio, perché Sforza loro fratello era morto, riassalirono di nuovo lo stato di Milano per tornare nel governo di quello; e avendo occupata Tortona, ed essendo Milano e tutto quello stato in arme, la duchessa Bona fu consigliata ripatriasse gli Sforzeschi, e per levare via queste civili contese, gli ricevesse in stato. Il principe di questo consiglio fu Antonio Tassino ferrarese, il quale, nato di vile condizione, venuto a Milano, pervenne alle mani del duca Galeazzo, e alla duchessa sua donna per cameriere lo concesse. Questi, o per essere bello di corpo, o per altra sua segreta virtù, dopo la morte del Duca salì in tanta reputazione apresso alla Duchessa, che quasi lo stato governava; il che dispiaceva assai a messer Cecco, uomo per prudenza e per lunga pratica eccellentissimo; tanto che, in quelle cose poteva, e con la Duchessa e con gli altri del governo, di diminuire l’autorità del Tassino s’ingegnava. Di che accorgendosi quello, per vendicarsi delle ingiurie, e per avere apresso chi da messer Cecco lo defendesse, confortò la Duchessa a ripatriare gli Sforzeschi; la quale, seguitando i suoi consigli, sanza conferirne cosa alcuna con messer Cecco, gli ripatriò: donde che quello le disse: - Tu hai preso uno partito il quale torrà a me la vita e a te lo stato. - Le quali cose poco di poi intervennono, perché messer Cecco fu da il signore Lodovico fatto morire, ed essendo, dopo alcun tempo, stato cacciato del ducato il Tassino, la Duchessa ne prese tanto sdegno, che la si partì di Milano e renunziò nelle mani di Lodovico il governo del figliuolo. Restato adunque Lodovico solo governatore del ducato di Milano, fu, come si dimosterrà, cagione della rovina di Italia. Era partito Lorenzo de’ Medici per a Napoli, e la tregua intra le parti vegghiava, quando, fuora di ogni espettazione, Lodovico Fregoso, avuta certa intelligenza con alcuno Serezanese, di furto entrò con armati in Serezana, e quella terra occupò, e quello che vi era per il popolo fiorentino prese prigione. Questo accidente dette grande dispiacere a’ principi dello stato di Firenze, perché si persuadevano che tutto fusse seguito con ordine del re Ferrando. E si dolfono con il duca di Calavria, che era con lo esercito a Siena, di essere, durante la tregua, con nuova guerra assaliti; il quale fece ogni demostrazione, e con lettere e con ambasciate, che tale cosa fusse nata sanza consentimento del padre o suo. Pareva non di meno a’ Fiorentini essere in pessime condizioni, vedendosi voti di danari, il capo della republica nelle mani del Re, e avere una guerra antica con il Re e con il Papa e una nuova con i Genovesi, ed essere sanza amici; perché ne’ Viniziani non speravano, e del governo di Milano più tosto temevano, per essere vario e instabile. Solo restava a’ Fiorentini una speranza, di quello che avesse Lorenzo de’ Medici a trattare con il Re.

Era Lorenzo, per mare, arrivato a Napoli; dove, non solamente da il Re, ma da tutta quella città fu ricevuto onoratamente e con grande espettazione, perché essendo nata tanta guerra solo per opprimerlo, la grandezza degli inimici che gli aveva avuti lo aveva fatto grandissimo. Ma arrivato alla presenza del Re, e’ disputò in modo delle condizioni di Italia, degli umori de’ principi e popoli di quella, e quello che si poteva sperare nella pace e temere nella guerra, che quel re si maravigliò più, poi che l’ebbe udito, della grandezza dello animo suo e della destrezza dello ingegno e gravità del iudizio, che non si era prima dello avere egli solo potuto sostenere tanta guerra maravigliato; tanto che gli raddoppiò gli onori, e cominciò a pensare come più tosto e’ lo avesse a lasciare amico che a tenerlo nimico. Non di meno, con varie cagioni, dal dicembre al marzo lo intrattenne, per fare non solamente di lui duplicata sperienza, ma della città: perché non mancavano a Lorenzo, in Firenze, nimici che arebbono avuto desiderio che il Re lo avesse ritenuto e come Iacopo Piccinino trattato; e sotto ombra di dolersene, per tutta la città ne parlavano, e nelle deliberazioni publiche a quello che fusse in favore di Lorenzo si opponevano. E avevano con questi loro modi sparta fama che, se il Re lo avesse molto tempo tenuto a Napoli, che in Firenze si muterebbe governo. Il che fece che il Re soprasedé lo espedirlo quel tempo, per vedere se in Firenze nasceva tumulto alcuno. Ma veduto come le cose passavano quiete, a dì 6 di marzo, nel 1479, lo licenziò; e prima con ogni generazione di beneficio e dimostrazione di amore se lo guadagnò; e infra loro nacque accordi perpetui a conservazione de’ comuni stati. Tornò per tanto Lorenzo in Firenze grandissimo, s’egli se n’era partito grande; e fu con quella allegrezza da la città ricevuto, che le sue grandi qualità e i freschi meriti meritavano, avendo esposto la propria vita per rendere alla patria sua la pace. Perché, duoi giorni dopo l’arrivata sua, si publicò lo accordo fatto infra la republica di Firenze e il Re: per il quale si obligavano ciascuno alla conservazione de’ comuni stati; e delle terre tolte nella guerra a’ Fiorentini fusse in arbitrio del Re il restituirle; e che i Pazzi posti nella torre di Volterra si liberassero; e al Duca di Calavria, per certo tempo, certe quantità di danari si pagassero. Questa pace, subito che fu publicata, riempié di sdegno il Papa e i Viniziani: perché al Papa pareva essere stato poco stimato da il Re, e i Viniziani da’ Fiorentini; ché, sendo stati l’uno e l’altro compagni nella guerra, si dolevano non avere parte nella pace. Questa indegnazione, intesa e creduta a Firenze, subito dette a ciascheduno sospetto che da questa pace fatta non nascesse maggiore guerra: in modo che i principi dello stato deliberorono di ristrignere il governo, e che le deliberazioni importanti si riducessero in minore numero; e feciono un consiglio di settanta cittadini, con quella autorità gli poterono dare maggiore nelle azioni principali. Questo nuovo ordine fece fermare l’animo a quelli che volessero cercare nuove cose. E per darsi reputazione, prima che ogni cosa, accettorono la pace fatta da Lorenzo con il Re, destinorono oratori al Papa e a quello messer Antonio Ridolfi e Piero Nasi. Non di meno non ostante questa pace, Alfonso duca di Calavria non si partiva con lo esercito da Siena, mostrando essere ritenuto dalle discordie di quegli cittadini; le quali furono tante che, dove gli era alloggiato fuora della città, lo ridussero in quella e lo ferono arbitro delle differenze loro. Il Duca, presa questa occasione molti di quegli cittadini punì in danari, molti ne giudicò alle carcere, molti allo esilio, e alcuni alla morte: tanto che, con questi modi, egli diventò sospetto, non solamente a’ Sanesi, ma a’ Fiorentini, che non si volesse di quella città fare principe. Né vi si cognosceva alcuno rimedio, trovandosi la città in nuova amicizia con il Re, e al Papa e a’ Viniziani nimica. La qual suspizione, non solamente nel popolo universale di Firenze, sottile interpetre di tutte le cose, ma in ne’ principi dello stato appariva; e afferma ciascuno la città nostra non essere mai stata in tanto pericolo di perdere la libertà. Ma Iddio, che sempre in simili estremità ha di quella avuta particulare cura, fece nascere uno accidente insperato, il quale dette al Re, al Papa e a’ Viniziani maggiori pensieri che quelli di Toscana.

Era Maumetto gran Turco andato con un grandissimo esercito a campo a Rodi, e quello aveva per molti mesi combattuto; non di meno, ancora che le forze sue fussero grandi, e la ostinazione nella espugnazione di quella terra grandissima, la trovò maggiore nelli assediati; i quali con tanta virtù da tanto impeto si defesono, che Maumetto fu forzato da quello assedio partirsi con vergogna. Partito per tanto da Rodi, parte della sua armata, sotto Iacometto bascià, se ne venne verso la Velona; e o che quello vedesse la facilità della impresa, o che pure il signore gliele comandasse, nel costeggiare la Italia pose, in un tratto, quattro mila soldati in terra; e assaltata la città di Otranto, subito la prese e saccheggiò; e tutti gli abitatori di quella ammazzò. Di poi, con quelli modi gli occorsono migliori, e dentro in quella e nel porto si affortificò; e riduttovi buona cavalleria, il paese circunstante correva e predava. Veduto il Re questo assalto, e conosciuto di quanto principe ella fusse impresa, mandò per tutto nunzi a significarlo, e a domandare contro al comune nimico aiuti e con grande instanzia revocò il duca di Calavria e le sue genti che erano a Siena.

Questo assalto, quanto egli perturbò il Duca e il resto di Italia, tanto rallegrò Firenze e Siena, parendo a questa di avere riavuta la sua libertà, e a quella di essere uscita di quelli pericoli che gli facieno temere di perderla. La quale opinione accrebbono le doglienze che il Duca fece nel partire da Siena, accusando la fortuna, che, con uno insperato e non ragionevole accidente, gli aveva tolto lo imperio di Toscana. Questo medesimo caso fece al Papa mutare consiglio; e dove prima non aveva mai voluto ascoltare alcuno oratore fiorentino, diventò in tanto più mite che gli udiva qualunque della universale pace gli ragionava: tanto che i Fiorentini furono certificati che, quando s’inclinassero a domandare perdono al Papa, che lo troverebbono. Non parve adunque di lasciare passare questa occasione; e mandorono al Pontefice dodici ambasciadori; i quali, poi che furono arrivati a Roma, il Papa, con diverse pratiche, prima che desse loro audienza gli intrattenne. Pure, alla fine, si fermò intra le parti come per lo avvenire si avesse a vivere, e quanto nella pace e quanto nella guerra per ciascuna di esse a contribuire. Vennono di poi gli ambasciadori a’ piedi del Pontefice, il quale, in mezzo dei suoi cardinali, con eccessiva pompa gli aspettava. Escusorono costoro le cose seguite, ora accusandone la necessità, ora la malignità d’altri, ora il furore popolare e la giusta ira sua; e come quelli sono infelici, che sono forzati o combattere o morire. E perché ogni cosa si doveva sopportare per fuggire la morte, avevono sopportato la guerra, gli interdetti, e le altre incommodità che si erano tirate dietro le passate cose, perché la loro republica fuggisse la servitù, la quale, suole essere la morte delle città libere. Non di meno, se, ancora che forzati, avessero commesso alcuno fallo, erano per tornare a menda; e confidavano nella clemenza sua, la quale, ad esemplo del Sommo Redentore, sarà per riceverli nelle sue pietosissime braccia. Alle quali scuse il Papa rispose con parole piene di superbia e di ira, rimproverando loro tutto quello che ne’ passati tempi avevono contro alla Chiesa commesso: non di meno, per conservare i precetti di Dio, era contento concedere loro quel perdono che domandavano; ma che faceva loro intendere come eglino avieno ad ubbidire; e quando eglino rompessero l’ubbidienza, quella libertà che sono stati per perdere ora, e’ perderebbono poi, e giustamente; perché coloro sono meritamente liberi, che nelle buone, non nelle cattive opere si esercitano; perché la libertà male usata offende se stessa e altri; e potere stimare poco Iddio e meno la Chiesa non è oficio di uomo libero, ma di sciolto e più al male che al bene inclinato; la cui correzione non solo a’ principi, ma a qualunque cristiano appartiene. Tale che delle cose passate si avevono a dolere di loro, che avevono con le cattive opere dato cagione alla guerra, e con le pessime nutritola, la quale si era spenta più per la benignità d’altri che per i meriti loro. Lessesi poi la formula dello accordo e della benedizione; alla quale il Papa aggiunse, fuori delle cose praticate e ferme che, se i Fiorentini volevono godere il frutto della benedizione, tenessero armate, di loro danari, quindici galee tutto quel tempo che il Turco combattesse il Regno. Dolfonsi assai gli oratori di questo peso, posto sopra allo accordo fatto; né poterono in alcuna parte, per alcuno mezzo o favore, e per alcuna doglienza, alleggerirlo. Ma tornati a Firenze, la Signoria, per fermare questa pace, mandò oratore al Papa messer Guidantonio Vespucci, che di poco tempo innanzi era tornato di Francia. Questi, per la sua prudenza, ridusse ogni cosa a termini sopportabili, e dal Pontefice molte grazie ottenne; il che fu segno di maggiore riconciliazione.

Avendo per tanto i Fiorentini ferme le loro cose con il Papa, ed essendo libera Siena e loro dalla paura del Re per la partita di Toscana del duca di Calavria, e seguendo la guerra de’ Turchi, strinsono il Re, per ogni verso, alla restituzione delle loro castella le quali il duca di Calavria, partendosi, aveva lasciate nelle mani de’ Sanesi. Donde che quel re dubitava che i Fiorentini, in tanta sua necessità, non si spiccassero da lui, e con il muovere guerra a’ Sanesi gli impedissero gli aiuti che dal Papa e dagli altri Italiani sperava. E per ciò fu contento che le si restituissero, e con nuovi oblighi di nuovo i Fiorentini si obligò: e così la forza e la necessità, non le scritture e gli oblighi, fa osservare a’ principi la fede. Ricevute adunque le castella, e ferma questa nuova confederazione, Lorenzo de’ Medici riacquistò quella riputazione che prima la guerra e di poi la pace, quando del Re si dubitava, gli aveva tolta: e non mancava, in quelli tempi, chi lo calunniasse apertamente, dicendo che per salvare sé, egli aveva venduta la sua patria; e come nella guerra si erano perdute le terre, e nella pace si perderebbe la libertà. Ma riavute le terre, e fermo con il Re onorevole accordo, e ritornata la città nella antica riputazione sua, in Firenze, città di parlare avida e che le cose dai successi e non dai consigli giudica, si mutò ragionamento: e celebravasi Lorenzo infino al cielo; dicendo che la sua prudenza aveva saputo guadagnarsi nella pace quello che la cattiva fortuna gli aveva tolto nella guerra; e come gli aveva potuto più il consiglio e iudizio suo che l’armi e le forze del nimico. Avevono gli assalti del Turco differita quella guerra la quale, per lo sdegno che il Papa e i Viniziani avevono preso per la pace fatta, era per nascere; ma come il principio di quello assalto fu insperato e cagione di molto bene, così il fine fu inaspettato e cagione di assai male: perché Maumetto, gran Turco, morì, fuori di ogni opinione, e venuta intra i figliuoli discordia, quegli che si trovavano in Puglia, dal loro signore abbandonati, concessono, d’accordo, Otranto al Re. Tolta via adunque questa paura, che teneva gli animi del Papa e de’ Viniziani fermi, ciascuno temeva di nuovi tumulti. Dall’una parte erano in lega Papa e Viniziani; con questi erano Genovesi, Sanesi e altri minori potenti dall’altra erano Fiorentini, Re e Duca a’ quali si accostavano Bolognesi e molti altri signori. Desideravano i Viniziani di insignorirsi di Ferrara; e pareva loro avere cagione ragionevole alla impresa e speranza certa di conseguirla. La cagione era perché il Marchese affermava non essere più tenuto a ricevere il Visdomine e il sale da loro, sendo, per convenzione fatta, che, dopo settanta anni dell’uno e dell’altro carico quella città fusse libera. Rispondevano dall’altro canto i Viniziani che quanto tempo riteneva il Pulesine, tanto doveva ricevere il Visdomine e il sale. E non ci volendo il Marchese acconsentire, parve a’ Viniziani di avere giusta presa di prendere l’armi, e commodo tempo a farlo, veggendo il Papa contro a’ Fiorentini e il Re pieno di sdegno. E per guadagnarselo più, sendo ito il conte Girolamo a Vinegia, fu da loro onoratissimamente ricevuto, e donatogli la città e la gentiligia loro, segno sempre di onore grandissimo a qualunque la donano. Avevano, per essere presti a quella guerra, posti nuovi dazi, e fatto capitano de’ loro eserciti il signor Ruberto da San Severino, il quale, sdegnato con il signore Lodovico, governatore di Milano, s’era fuggito a Tortona, e, quivi fatti alcuni tumulti, andatone a Genova; dove sendo, fu chiamato da’ Viniziani e fatto delle loro armi principe.

Queste preparazioni a nuovi moti, cognosciute dalla lega avversa, feciono che quella ancora si preparasse alla guerra: e il duca di Milano per suo capitano elesse Federigo signore di Urbino, i Fiorentini il signore Gostanzo di Pesero. E per tentare l’animo del Papa, e chiarirsi se i Viniziani con suo consentimento movieno guerra a Ferrara, il re Ferrando mandò Alfonso duca di Calavria con il suo esercito sopra il Tronto, e domandò passo al Papa, per andare in Lombardia al soccorso del Marchese; il che gli fu dal Papa al tutto negato. Tanto che, parendo al Re e a’ Fiorentini essere certificati dello animo suo, deliberorono strignerlo con le forze, acciò che per necessità egli diventasse loro amico, o almeno darli tanti impedimenti, che non potesse a’ Viniziani porgere aiuti. Perché già quegli erano in campagna, e avevano mosso guerra al Marchese, e scorso prima il paese suo, e poi posto lo assedio a Ficheruolo, castello assai importante allo stato di quel signore. Avendo per tanto il Re e i Fiorentini deliberato di assalire il Pontefice Alfonso duca di Calavria scorse verso Roma, e con lo aiuto de’ Colonnesi, che si erano congiunti seco perché gli Orsini si erano accostati al Papa, faceva assai danni nel paese; e dall’altra parte le genti fiorentine assalirono, con messer Niccolò Vitelli, Città di Castello, e quella città occuporono, e ne cacciorono messer Lorenzo, che per il Papa la teneva, e di quella feciono come principe messer Niccolò. Trovavasi per tanto il Papa in massime angustie, perché Roma drento dalla parte era perturbata, e fuora il paese da’ nimici corso. Non di meno, come uomo animoso, e che voleva vincere e non cedere al nimico, condusse per capitano il magnifico Ruberto da Rimine; e fattolo venire in Roma, dove tutte le sue genti d’arme aveva ragunate, gli mostrò quanto onore gli sarebbe se, contro alle forze d’uno Re, egli liberasse la Chiesa da quelli affanni in ne’ quali si trovava, e quanto obligo, non solo egli, ma tutti i suoi successori arebbono seco; e come, non solo gli uomini, ma Iddio sarebbe per ricognoscerlo. Il magnifico Ruberto, considerate prima le genti d’arme del Papa e tutti gli apparati suoi, lo confortò a fare quanta più fanteria e’ poteva; il che con ogni studio e celerità si misse ad effetto. Era il duca di Calavria propinquo a Roma, in modo che ogni giorno correva e predava infino alle porte della città; la qual cosa fece in modo indegnare il popolo romano, che molti voluntariamente s’offersono ad essere con il magnifico Ruberto alla liberazione di Roma; i quali furono tutti da quello signore ringraziati e ricevuti. Il Duca, sentendo questi apparati, si discostò alquanto dalla città, pensando che, trovandosi discosto, il magnifico Ruberto non avesse animo ad andarlo a trovare; e parte aspettava Federigo suo fratello, il quale con nuova gente gli era mandato dal padre. Il magnifico Ruberto, vedendosi quasi al Duca di gente d’arme uguale, e di fanterie superiore, uscì instierato di Roma, e pose uno alloggiamento propinquo a due miglia al nimico. Il Duca, veggendosi gli avversarii addosso fuori d’ogni sua opinione, giudicò convenirgli o combattere, o come rotto fuggirsi; onde che, quasi constretto, per non fare cosa indegna d’un figliuolo d’un re, deliberò combattere; e volto il viso al nimico, ciascuno ordinò le sue genti in quel modo che allora ordinavono, e si condussono alla zuffa, la quale durò infino a mezzogiorno. E fu questa giornata combattuta con più virtù che alcuna altra che fusse stata fatta in cinquanta anni in Italia, perché vi morì, tra l’una parte e l’altra, più che mille uomini, e il fine di essa fu per la Chiesa glorioso, perché la moltitudine delle sue fanterie offesono in modo le cavallerie ducali, che quello fu constretto a dare la volta, e sarebbe il Duca rimaso prigione, se da molti Turchi, di quelli che erano stati ad Otranto e allora militavano seco, non fusse stato salvato. Avuta il magnifico Ruberto questa vittoria, tornò come trionfante in Roma. La quale egli potette godere poco, perché, avendo, per lo affanno del giorno, bevuta assai acqua, se gli mosse un flusso che in pochi giorni lo ammazzò. Il corpo del quale fu da il Papa con ogni qualità di onore onorato. Avuta il Pontefice questa vittoria, mandò subito il Conte verso Città di Castello, per vedere di restituire a messer Lorenzo quella terra, e parte tentare la città di Rimine; perché, sendo, dopo la morte del magnifico Ruberto, rimaso di lui, in guardia della donna, un suo piccolo figliuolo, pensava che gli fusse facile occupare quella città. Il che gli sarebbe felicemente succeduto, se quella donna da’ Fiorentini non fusse stata difesa; i quali se gli opposono in modo con le forze, che non potette né contro a Castello, né contro a Rimine fare alcuno effetto.

Mentre che queste cose in Romagna e a Roma si travagliavano, i Viniziani avevano occupato Ficheruolo, e con le genti loro passato il Po, e il campo del duca di Milano e del Marchese era in disordine, perché Federigo conte di Urbino si era ammalato, e fattosi portare per curarsi a Bologna si morì, tale che le cose del Marchese andavano declinando, e a’ Viniziani cresceva ciascun dì la speranza di occupare Ferrara. Dall’altra parte, il Re e i Fiorentini facevano ogni opera per ridurre il Papa alla voglia loro, e non essendo succeduto di farlo cedere alle armi, lo minacciavano del concilio, il quale già dallo Imperadore era stato pronunziato per a Basilea; onde che, per mezzo degli oratori di quello, che si trovavano a Roma, e de’ primi cardinali, i quali la pace desideravano, fu persuaso e stretto il Papa a pensare alla pace e alla unione di Italia. Onde che il Pontefice, per timore, e anche per vedere come la grandezza de’ Viniziani era la rovina della Chiesa e di Italia, si volse allo accordarsi con la lega; e mandò suoi nunzi a Napoli, dove per cinque anni feciono lega Papa, Re duca di Milano e Fiorentini, riserbando il luogo a’ Viniziani ad accettarla. Il che seguito fece il Papa intendere a’ Viniziani che si astenessero dalla guerra di Ferrara. A che i Viniziani non vollono acconsentire; anzi con maggiori forze si prepararono alla guerra, e avendo rotte le genti del Duca e del Marchese ad Argenta, si erano in modo appressati a Ferrara, ch’eglino avieno posti nel parco del Marchese gli alloggiamenti loro.

Onde che alla lega non parve da differire più di porgere gagliardi aiuti a quel signore, e feciono passare a Ferrara il duca di Calavria con le genti sue e con quelle del Papa; e similmente i Fiorentini tutte le loro genti vi mandorono. E per meglio dispensare l’ordine della guerra, fece la lega una dieta a Cremona, dove convenne il legato del Papa con il conte Girolamo, il duca di Calavria, il signore Lodovico e Lorenzo de’ Medici con molti altri principi italiani; nella quale intra questi principi si divisorono tutti i modi della futura guerra. E perché eglino giudicavano che Ferrara non si potesse meglio soccorrere che con il fare una diversione gagliarda, volevano che il signore Lodovico acconsentisse a rompere guerra a’ Viniziani per lo stato del duca di Milano; a che quel signore non voleva acconsentire, dubitando di non si tirare una guerra addosso da non la potere spegnere a sua posta. E per ciò si deliberò di fare alto con tutte le genti a Ferrara; e messo insieme quattro mila uomini d’arme e otto mila fanti, andorono a trovare i Viniziani, i quali avieno dumiladugento uomini d’arme e sei mila fanti. Alla lega parve, la prima cosa, di assalire l’armata che i Viniziani avieno nel Po; e quella assalita, appresso al Bondeno, ruppono con perdita di più che dugento legni; dove rimase prigioniero messer Antonio Iustiniano, provveditore dell’armata. I Viniziani poi che viddono Italia tutta unita loro contro, per darsi più reputazione, avieno condotto il duca dello Reno con dugento uomini d’arme, onde che, avendo ricevuto questo danno della armata, mandorono quello, con parte del loro esercito, a tenere a bada il nimico, e il signore Ruberto da San Severino feciono passare l’Adda con il restante dello esercito loro e accostarsi a Milano, gridando il nome del Duca e di madonna Bona sua madre; perché credettono, per questa via, fare novità in Milano, stimando il signore Lodovico e il governo suo fusse in quella città odiato. Questo assalto portò seco, nel principio, assai terrore, e messe in arme quella città; non di meno partorì fine contrario al disegno de’ Viniziani, perché quello che il signore Lodovico non aveva voluto acconsentire, questa ingiuria fu cagione che gli acconsentisse. E per ciò, lasciato il marchese di Ferrara alla difesa delle cose sue con quattro mila cavagli e due mila fanti, il duca di Calavria con dodici mila cavagli e cinque mila fanti entrò nel Bergamasco, e di quivi nel Bresciano, e di poi nel Veronese; e quelle tre città, sanza che i Viniziani vi potessero fare alcuno rimedio, quasi che di tutti i loro contadi spogliò; perché il signore Ruberto con le sue genti con fatica poteva salvare quelle città. Dall’altra banda ancora il marchese di Ferrara aveva ricuperate gran parte delle cose sue, però che il duca dello Reno, che gli era allo incontro, non poteva opposergli, non avendo più che due mila cavagli e mille fanti. E così tutta quella state dell’anno 1483 si combatté felicemente per la lega.

Venuta poi la primavera del seguente anno, perché la vernata era quietamente trapassata, si ridussono gli eserciti in campagna; e la lega, per potere con più prestezza opprimere i Viniziani, aveva messo tutto lo esercito suo insieme. E facilmente, se la guerra si fusse come l’anno passato mantenuta, si toglieva a’ Viniziani tutto lo stato tenevano in Lombardia; perché si erano ridutti con sei mila cavagli e cinque mila fanti e aveno allo incontro tredici mila cavagli e sei mila fanti; perché il duca dello Reno, fornito l’anno della sua condotta, se ne era ito a casa. Ma come avviene spesso dove molti di uguale autorità concorrono, il più delle volte la disunione loro dà la vittoria al nimico. Sendo morto Federigo Gonzaga, marchese di Mantova, il quale con la sua autorità teneva in fede il duca di Calavria e il signore Lodovico, cominciò fra quegli a nascere dispareri, e da’ dispareri gelosia: perché Giangaleazzo duca di Milano era già in età da potere prendere il governo del suo stato, e avendo per moglie la figliuola del duca di Calavria, desiderava quello, che non Lodovico, ma il genero lo stato governasse. Conoscendo per tanto Lodovico questo desiderio del Duca, deliberò di torgli la commodità di esequirlo. Questo sospetto di Lodovico, cognosciuto dai Viniziani, fu preso da loro per occasione; e giudicorono potere, come sempre avevono fatto, vincere con la pace, poi che con la guerra avevono perduto; e praticato segretamente infra loro e il signore Lodovico lo accordo, lo agosto del 1484 lo conclusono. Il quale, come venne a notizia degli altri confederati, dispiacque assai, massimamente poi che e’ viddono come a’ Viniziani si avevono a restituire le terre tolte, e lasciare loro Rovigo e il Pulesine, ch’eglino avevono al marchese di Ferrara occupato, e appresso riavere tutte quelle preminenze che sopra quella città per antico avevono avute. E pareva a ciascuno di avere fatto una guerra dove si era speso assai e acquistato nel trattarla onore e nel finirla vergogna, poi che le terre prese si erano rendute, e non ricuperate le perdute. Ma furono constretti i collegati ad accettarla, per essere per le spese stracchi, e per non volere fare pruova più, per i difetti e ambizione d’altri, della fortuna loro.

Mentre che in Lombardia le cose in tal forma si governavano, il Papa, mediante messer Lorenzo, strigneva Città di Castello per cacciarne Niccolò Vitelli, il quale dalla lega, per tirare il Papa alla voglia sua, era stato abbandonato; e nello strignere la terra, quelli che di dentro erano partigiani di Niccolò uscirono fuora, e venuti alle mani con li inimici li ruppono. Onde che il Papa rivocò il conte Girolamo di Lombardia, e fecelo venire a Roma, per instaurare le forze sue e ritornare a quella impresa; ma giudicando di poi che fusse meglio guadagnarsi messer Niccolò con la pace, che di nuovo assalirlo con la guerra, si accordò seco; e con messer Lorenzo suo avversario, in quel modo potette migliore, lo riconciliò. A che lo constrinse più un sospetto di nuovi tumulti che lo amore della pace, perché vedeva intra Colonnesi e Orsini destarsi maligni umori. Fu tolto dal re di Napoli agli Orsini, nella guerra fra lui e il Papa, il contado di Tagliacozzo, e dato a’ Colonnesi, che seguitavano le parti sue: fatta di poi la pace tra il Re e il Papa, gli Orsini, per virtù delle convenzioni, lo domandavano. Fu molte volte dal Papa a’ Colonnesi significato che lo restituissero; ma quelli, né per preghi delli Orsini, né per minacci del Papa, alla restituzione non condescesono anzi di nuovo gli Orsini con prede e altre simili ingiurie offesono. Donde, non potendo il Pontefice comportarle, mosse tutte le sue forze insieme, e quelle degli Orsini, contro a di loro, e a quelli le case avieno in Roma saccheggiò, e chi quelle volle difendere ammazzò e prese e della maggiore parte de’ loro castelli li spogliò: tanto che quelli tumulti, non per pace ma per afflizione d’una parte, posorono.

Non furono ancora a Genova e in Toscana le cose quiete: perché i Fiorentini tenevano il conte Antonio da Marciano con gente alle frontiere di Serezana, e mentre che la guerra durò in Lombardia, con scorrerie e simili leggieri zuffe i Serezanesi molestavano, e in Genova Batistino Fregoso, doge di quella città, fidandosi di Pagolo Fregoso arcivescovo, fu preso con la moglie e con i figliuoli da lui; e ne fece sé principe. L’armata ancora viniziana aveva assalito il Regno, e occupato Galipoli, e gli altri luoghi allo intorno infestava. Ma seguita la pace in Lombardia, tutti i tumulti posorono, eccetto che in Toscana e a Roma; perché il Papa, pronunziata la pace, dopo cinque giorni morì, o perché fusse il termine di sua vita venuto, o perché il dolore della pace fatta, come nimico a quella, lo ammazzasse. Lasciò per tanto questo pontefice quella Italia in pace la quale, vivendo, aveva sempre tenuta in guerra. Per la costui morte fu subito Roma in arme: il conte Girolamo si ritirò con le sue genti a canto al Castello; gli Orsini temevano che i Colonnesi non volessero vendicare le fresche ingiurie, i Colonnesi ridomandavano le case e castelli loro: onde seguirono, in pochi giorni, uccisioni, ruberie e incendii in molti luoghi di quella città. Ma avendo i cardinali persuaso al Conte che facesse restituire il Castello nelle mani del Collegio, e che se ne andasse ne’ suoi stati e liberasse Roma dalle sue armi, quello, desiderando di farsi benivolo il futuro pontefice, ubbidì, e restituito il Castello al Collegio, se ne andò ad Imola. Donde che, liberati i cardinali da questa paura, e i baroni da quello sussidio che nelle loro differenze dal Conte speravano, si venne alla creazione del nuovo pontefice; e dopo alcuno disparere, fu eletto Giovanbatista Cibo, cardinale di Malfetta, genovese, e si chiamò Innocenzio VIII; il quale, per la sua facile natura, ché umano e quieto uomo era, fece posare le armi, e Roma per allora pacificò.

I Fiorentini, dopo la pace di Lombardia, non potevano quietare, parendo loro cosa vergognosa e brutta che un privato gentile uomo gli avesse del castello di Serezana spogliati. E perché ne’ capituli della pace era che, non solamente si potesse ridomandare le cose perdute, ma fare guerra a qualunque lo acquisto di quelle impedisse, si ordinorono subito con danari e con genti a fare quella impresa. Onde che Agostino Fregoso, il quale aveva Serezana occupata, non gli parendo potere con le sue private forze sostenere tanta guerra, donò quella terra a San Giorgio. Ma poi che di San Giorgio e de’ Genovesi si ha più volte a fare menzione, non mi pare inconveniente gli ordini e modi di quella città, sendo una delle principali di Italia, dimostrare. Poi che i Genovesi ebbono fatta pace con i Viniziani, dopo quella importantissima guerra che molti anni adietro era seguita infra loro, non potendo sodisfare quella loro repubblica a quelli cittadini che gran somma di danari avevono prestati, concesse loro l’entrate della dogana, e volle che, secondo i crediti, ciascuno, per i meriti della principale somma, di quelle entrate participasse infino a tanto che dal Comune fussero interamente sodisfatti; e perché potessero convenire insieme, il palagio il quale è sopra la dogana loro consegnorono. Questi creditori adunque ordinorono fra loro uno modo di governo, faccendo uno consiglio di cento di loro, che le cose publiche deliberasse, e uno magistrato di otto cittadini, il quale, come capo di tutti, le esequisse, e i crediti loro divisono in parti, le quali chiamorono Luoghi, e tutto il corpo loro in San Giorgio intitulorono. Distribuito così questo loro governo, occorse al comune della città nuovi bisogni, onde ricorse a San Giorgio per nuovi aiuti; il quale, trovandosi ricco e bene amministrato, lo poté servire; e il Comune allo incontro, come prima gli aveva la dogana conceduta, gli cominciò, per pegno de’ danari aveva, a concedere delle sue terre. E in tanto è proceduta la cosa, nata dai bisogni del Comune e i servigi di San Giorgio, che quello si ha posto sotto la sua amministrazione la maggiore parte delle terre e città sottoposte allo imperio genovese; le quali e’ governa e difende, e ciascuno anno, per publici suffragi, vi manda suoi rettori, sanza che il Comune in alcuna parte se ne travagli. Da questo è nato che quelli cittadini hanno levato lo amore dal Comune, come cosa tiranneggiava, e postolo a San Giorgio, come parte bene e ugualmente amministrata: onde ne nasce le facili e spesse mutazioni dello stato, e che ora ad un loro cittadino, ora ad uno forestiero ubbidiscono, perché non San Giorgio, ma il Comune varia governo. Tale che, quando infra i Fregosi e gli Adorni si è combattuto del principato, perché si combatte lo stato del Comune, la maggior parte de’ cittadini si tira da parte e lascia quello in preda al vincitore; né fa altro l’ufficio di San Giorgio, se non, quando uno ha preso lo stato, che fare giurargli la osservanzia delle leggi sue; le quali infino a questi tempi non sono state alterate, perché, avendo arme, e danari, e governo, non si può, sanza pericolo di una certa e pericolosa rebellione, alteralle. Esemplo veramente raro e da i filosofi in tante loro imaginate e vedute repubbliche mai non trovato, vedere dentro ad uno medesimo cerchio infra i medesimi cittadini, la libertà e la tirannide, la vita civile e la corrotta la giustizia e la licenza: perché quello ordine solo mantiene quella città piena di costumi antichi e venerabili; e se gli avvenisse, che con il tempo in ogni modo avverrà, che San Giorgio tutta quella città occupasse, sarebbe quella una republica più che la viniziana memorabile.

A questo San Giorgio adunque Agostino Fregoso concesse Serezana. Il quale la ricevé volentieri, e prese la difesa di quella; e subito misse un’armata in mare, e mandò gente a Pietrasanta, perché impedissero qualunque al campo de’ Fiorentini, che già si trovava propinquo a Serezana, andasse. I Fiorentini, dall’altra parte, desideravano occupar Pietrasanta, come terra che, non l’avendo, faceva lo acquisto di Serezana meno utile, sendo quella terra posta infra quella e Pisa; ma non potevano ragionevolmente campeggiarla, se già dai Pietrasantesi, o da chi vi fusse dentro, non fussero nello acquisto di Serezana impediti. E perché questo seguisse, mandorono da Pisa al campo grande somma di munizioni e vettovaglie, e con quelle una debile scorta, acciò che chi era in Pietrasanta, per la poca guardia temesse meno, e per la assai preda desiderassi più lo assalirli. Successe per tanto secondo il disegno la cosa: perché quelli che erano in Pietrasanta, veggendosi innanzi agli occhi tanta preda, la tolsono; il che dette legittima cagione a’ Fiorentini di fare la impresa, e così, lasciata da canto Serezana, si accamporono a Pietrasanta, la quale era piena di defensori che gagliardamente la defendevano. I Fiorentini, poste nel piano le loro artiglierie, feciono una bastia sopra il monte, per poterla ancora da quella parte strignere. Era dello esercito commissario Iacopo Guicciardini; e mentre che a Pietrasanta si combatteva, l’armata genovese prese e arse la rocca di Vada, e le sue genti, poste in terra, il paese allo intorno correvano e predavano. Allo incontro delle quali si mandò, con fanti e cavagli messer Bongianni Gianfigliazzi; il quale in parte raffrenò l’orgoglio loro, tale che con tanta licenza non scorrevano. Ma l’armata, seguitando di molestare i Fiorentini, andò a Livorno, e con puntoni e altre sue preparazioni, si accostò alla torre nuova e quella più giorni con l’artiglierie combatté, ma veduto di non fare alcuno profitto, se ne tornò indietro con vergogna.

In quel mezzo a Pietrasanta si combatteva pigramente; onde che i nimici, preso animo, assalirono la bastia e quella occuporono; il che seguì con tanta reputazione loro e timore dello esercito fiorentino, che fu per rompersi da se stesso; tale che si discostò quattro miglia dalla terra; e quelli capi giudicavano che, sendo già il mese d’ottobre, che fusse da ridursi alle stanze e riserbarsi a tempo nuovo a quella espugnazione. Questo disordine, come si intese a Firenze, riempié di sdegno i principi dello stato, e subito, per ristorare il campo di reputazione e di forze, elessono per nuovi commissari Antonio Pucci e Bernardo del Nero. I quali con gran somma di danari andorono in campo, e a quelli capitani mostrorono la indegnazione della Signoria, dello stato e di tutta la città, quando non si ritornasse con lo esercito alle mura, e quale infamia sarebbe la loro, che tanti capitani, con tanto esercito, sanza avere allo incontro altri che una piccola guardia, non potessero sì vile e sì debile terra espugnare. Mostrorono l’utile presente e quello che in futuro di tale acquisto potevano sperare; talmente che gli animi di tutti si raccesono a tornare alle mura; e prima che ogni altra cosa deliberorono di acquistare la bastia. Nello acquisto della quale si cognobbe quanto l’umanità, l’affabilità, le grate accoglienze e parole negli animi de’ soldati possono; perché Antonio Pucci, quello soldato confortando, a quell’altro promettendo, all’uno porgendo la mano, l’altro abbracciando, gli fece ire a quello assalto con tanto impeto ch’eglino acquistorono quella bastia in uno momento, ne fu lo acquisto sanza danno, imperciò che il conte Antonio da Marciano da una artiglieria fu morto. Questa vittoria dette tanto terrore a quelli della terra, che cominciorono a ragionare di arrendersi: onde, acciò che le cose con più reputazione si concludessero, parve a Lorenzo de’ Medici condursi in campo; e arrivato quello, non dopo molti giorni si ottenne il castello. Era già venuto il verno, e per ciò non parve a quelli capitani da procedere più avanti con la impresa, ma di aspettare il tempo nuovo, massime perché quello autunno, mediante la trista aria, aveva infermato quello esercito, e molti de’ capi erano gravemente malati; intra’ quali Antonio Pucci e messer Bongianni Gianfigliazzi, non solamente ammalorono, ma morirono, con dispiacere di ciascuno, tanta fu la grazia che Antonio nelle cose fatte da lui a Pietrasanta si aveva acquistata. I Lucchesi, poi che i Fiorentini ebbono acquistata Pietrasanta, mandorono oratori a Firenze a domandare quella, come terra stata già della loro republica, perché allegavano intra gli oblighi essere che si dovesse restituire al primo signore tutte quelle terre che l’uno dell’altro recuperasse. Non negorono i Fiorentini le convenzioni; ma risposono non sapere se, nella pace che si trattava fra loro e i Genovesi, si avieno a restituire quella; e per ciò non potevano prima che a quel tempo deliberarne; e quando bene non avessero a restituirla, era necessario che i Lucchesi pensassero a sodisfarli della spesa fatta e del danno ricevuto per la morte di tanti loro cittadini; e quando questo facessero, potevano facilmente sperare di riaverla. Consumossi adunque tutto quel verno nelle pratiche della pace intra i Genovesi e i Fiorentini, la quale a Roma, mediante il Pontefice, si praticava. Ma non si essendo conclusa, arebbono i Fiorentini, venuta la primavera, assalita Serezana, se non fussero stati da la malattia di Lorenzo de’ Medici e da la guerra che nacque intra il Papa e il re Ferrando, impediti: perché Lorenzo, non solamente da le gotte, le quali come ereditarie del padre lo affliggevano, ma da gravissimi dolori di stomaco fu assalito, in modo che fu necessitato andare a’ bagni per curarsi.

Ma più importante cagione fu la guerra; della quale fu questa la origine. Era la città della Aquila in modo sottoposta al regno di Napoli, che quasi libera viveva. Aveva in essa assai riputazione il conte di Montorio. Trovavasi propinquo al Tronto, con le sue genti d’arme, il duca di Calavria, sotto colore di volere posare certi tumulti che in quelle parti intra i paesani erano nati; e disegnando ridurre l’Aquila interamente alla ubbidienza del Re, mandò per il conte di Montorio, come se se ne volesse servire in quelle cose che allora praticava. Ubbidì il Conte, sanza alcuno sospetto; e arrivato dal Duca, fu fatto prigione da quello e mandato a Napoli. Questa cosa, come fu nota all’Aquila, alterò tutta quella città; e prese popularmente l’arme, fu morto Antonio Concinello, commissario del Re, e con quello alcuni cittadini i quali erano cognosciuti a quella maestà partigiani. E per avere gli Aquilani chi nella rebellione gli difendesse, rizzorono le bandiere della Chiesa, e mandorono oratori al Papa, a dare la città e loro, pregando quello che, come cosa sua, contra alla regia tirannide gli aiutasse. Prese il Pontefice animosamente la loro difesa, come quello che per cagioni private e publiche odiava il Re; e trovandosi il signore Ruberto da San Severino nimico dello stato di Milano e senza soldo, lo prese per suo capitano, e lo fece con massima celerità venire a Roma. Sollecitò, oltre di questo, tutti gli amici e parenti del conte di Montorio, che contro al Re si ribellassero: tale che il principe d’Altemura, di Salerno e di Bisignano presono l’armi contro a quello. Il Re, veggendosi da sì subita guerra assalire, ricorse a’ Fiorentini e al duca di Milano per aiuti. Stettero i Fiorentini dubi di quello dovessero fare; perché e’ pareva loro difficile il lasciare, per le altrui, le imprese loro; e pigliare di nuovo l’arme contro alla Chiesa pareva loro pericoloso. Non di meno, sendo in lega, preposono la fede alle commodità e pericoli loro, e soldorono gli Orsini; e di più mandorono tutte le loro genti, sotto il conte di Pitigliano, verso Roma, al soccorso del Re. Fece per tanto quel Re duoi campi: l’uno, sotto il duca di Calavria, mandò verso Roma, il quale, insieme con le genti fiorentine, allo esercito della Chiesa si opponesse; con l’altro, sotto il suo governo, si oppose a’ Baroni; e nell’una e nell’altra parte fu travagliata questa guerra con varia fortuna. Alla fine, restando il Re in ogni luogo superiore, d’agosto, nel 1486, per il mezzo degli oratori del re di Spagna, si concluse la pace, alla quale il Papa, per essere battuto dalla fortuna, né volere più tentare quella, acconsentì: dove tutti i potentati di Italia si unirono, lasciando solo i Genovesi da parte, come dello stato di Milano rebelli e delle terre de’ Fiorentini occupatori. Il signore Ruberto da San Severino, fatta la pace, sendo stato, nella guerra, al Papa poco fedele amico e agli altri poco formidabile nimico, come cacciato dal Papa si partì di Roma; e seguitato dalle genti del Duca e de’ Fiorentini, quando egli fu passato Cesena, veggendosi sopraggiungere, si misse in fuga, e con meno di cento cavagli si condusse a Ravenna; e dell’altre sue genti, parte furono ricevute da il Duca, parte da’ paesani disfatte. Il Re, fatta la pace, e riconciliatosi con i Baroni, fece morire Iacopo Coppola e Antonello d’Anversa con i figliuoli, come quegli che, nella guerra, avevono rivelati i suoi segreti al Pontefice.

Aveva il Papa, per lo esemplo di questa guerra, cognosciuto con quanta prontezza e studio i Fiorentini conservono le loro amicizie; tanto che, dove prima, e per amore de’ Genovesi e per gli aiuti avieno fatti al Re, quello gli odiava, cominciò ad amarli e a fare maggiori favori che l’usato a’ loro oratori. La quale inclinazione, cognosciuta da Lorenzo de’ Medici, fu con ogni industria aiutata; perché giudicava essergli di grande reputazione quando alla amicizia teneva con il Re e’ potesse aggiungnere quella del Papa. Aveva il Pontefice uno figliuolo chiamato Francesco, e desiderando di onorarlo di stati, e di amici perché potesse dopo la sua morte mantenergli, non cognobbe in Italia con chi lo potesse più securamente congiugnere che con Lorenzo; e per ciò operò in modo che Lorenzo gli dette per donna una sua figliuola. Fatto questo parentado, il Papa desiderava che i Genovesi, d’accordo, cedessero Serezana a’ Fiorentini, mostrando loro come e’ non potevano tenere quello che Agostino aveva venduto, né Agostino poteva a San Giorgio donare quello che non era suo. Non di meno non potette mai fare alcuno profitto; anzi i Genovesi, mentre che queste cose a Roma si praticavano, armorono molti loro legni, e sanza che a Firenze se ne intendesse cosa alcuna, posono tremila fanti in terra e assalirono la rocca di Serezanello, posta sopra Serezana e posseduta da i Fiorentini; e il borgo quale è a canto a quella predorono e arsono; e apresso, poste l’artiglierie alla rocca, quella con ogni sollecitudine combattevano. Fu questo assalto nuovo e insperato a’ Fiorentini; onde che subito le loro genti, sotto Virginio Orsino, a Pisa ragunorono; e si dolfono col Papa, che, mentre quello trattava della pace, i Genovesi avieno mosso loro la guerra. Mandorono di poi Piero Corsini a Lucca, per tenere in fede quella città; mandorono Pagolantonio Soderini a Vinegia, per tentare gli animi di quella republica, domandorono aiuti al Re e al signore Lodovico, né da alcuno gli ebbono, perché il Re disse dubitare della armata del Turco, e Lodovico, sotto altre gavillazioni, differì il mandarli. E così i Fiorentini nelle guerre loro quasi sempre sono soli, né truovono chi con quello animo li suvvenga, che loro altri aiutano. Né questa volta, per essere dai confederati abbandonati, non sendo loro nuovo, si sbigottirono; e fatto un grande esercito, sotto Iacopo Guicciardini e Piero Vettori contro al nimico lo mandorono, i quali feciono uno alloggiamento sopra il fiume della Magra. In quel mezzo Serezanello era stretto forte da’ nimici, i quali con cave e ogni altra forza lo espugnavano: tale che i commessari deliberorono soccorrerlo, né i nimici recusorono la zuffa; e venuti alle mani, furono i Genovesi rotti; dove rimase prigione messer Luigi dal Fiesco, con molti altri capi del nimico esercito. Questa vittoria non sbigottì in modo i Serezanesi che e’ si volessero arrendere; anzi ostinatamente si preparorono alla difesa, e i commissari fiorentini alla offesa: tanto che la fu gagliardamente combattuta e difesa. E andando questa espugnazione in lungo, parve a Lorenzo de’ Medici di andare in campo. Dove arrivato, presono i nostri soldati animo, e Serezanesi lo perderono; perché, veduta la ostinazione de’ Fiorentini ad offenderli e la freddezza de’ Genovesi a soccorrergli, liberamente, e sanza altre condizioni, nelle braccia di Lorenzo si rimissono; e venuti nella potestà de’ Fiorentini, furono, eccetto pochi della ribellione autori, umanamente trattati. Il signore Lodovico, durante quella espugnazione, aveva mandate le sue genti d’arme a Pontremoli, per mostrare di venire a’ favori nostri; ma avendo intelligenza in Genova, si levò la parte contro a quelli che reggevano, e con lo aiuto di quelle genti, si dierono al duca di Milano.

In questi tempi i Tedeschi avevono mosso guerra a’ Viniziani; e Boccolino da Osimo nella Marca aveva fatto ribellare Osimo al Papa, e presone la tirannide. Costui, dopo molti accidenti, fu contento, persuaso da Lorenzo de’ Medici, di rendere quella città al Pontefice; e ne venne a Firenze, dove, sotto la fede di Lorenzo, più tempo onoratissimamente visse, di poi andandone a Milano; dove, non trovando la medesima fede, fu da il signore Lodovico fatto morire. I Viniziani, assaliti da’ Tedeschi, furono, propinqui alla città di Trento, rotti, e il signore Ruberto da San Severino, loro capitano, morto. Dopo la quale perdita, i Viniziani, secondo l’ordine della fortuna loro, feciono uno accordo con i Tedeschi, non come perdenti, ma come vincitori: tanto fu per la loro republica onorevole. Nacquono ancora, in questi tempi, tumulti in Romagna, importantissimi. Francesco d’Orso, furlivese, era uomo di grande autorità in quella città: questi venne in sospetto al conte Girolamo, tal che più volte da il Conte fu minacciato, donde che, vivendo Francesco con timore grande, fu confortato da’ suoi amici e parenti di prevenire; e poi che temeva di essere morto da lui, ammazzasse prima quello, e fuggisse, con la morte d’altri, i pericoli suoi. Fatta adunque questa deliberazione, e fermo l’animo a questa impresa, elessono il tempo, il giorno del mercato di Furlì, perché, venendo in quel giorno in quella città assai del contado loro amici, pensorono sanza avergli a fare venire, potere della opera loro valersi. Era del mese di maggio, e la maggiore parte delli Italiani hanno per consuetudine di cenare di giorno. Pensorono i congiurati che l’ora commoda fusse, ad ammazzarlo, dopo la sua cena, nel qual tempo, cenando la sua famiglia, egli quasi restava in camera solo. Fatto questo pensiero, a quella ora deputata Francesco ne andò alle case del Conte, e lasciati i compagni nelle prime stanze, arrivato alla camera dove il Conte era, disse ad un suo cameriere che gli facesse intendere come gli voleva parlare. Fu Francesco intromesso, e trovato quello solo, dopo poche parole d’uno simulato ragionamento lo ammazzò; e chiamati i compagni, ancora il cameriere ammazzorono. Veniva a sorte il capitano della terra a parlare al Conte, e arrivato in sala con pochi dei suoi, fu ancora egli dagli ucciditori del Conte morto. Fatti questi omicidii, levato il romore grande, fu il capo del Conte fuori delle finestre gittato; e gridando Chiesa e Libertà, feciono armare tutto il popolo, il quale aveva in odio l’avarizia e crudeltà del Conte; e saccheggiate le sue case, la contessa Caterina e tutti i suoi figliuoli presono. Restava solo la fortezza a pigliarsi, volendo che questa loro impresa avesse felice fine. A che non volendo il castellano condescendere, pregorono la Contessa fusse contenta disporlo a darla. Il che ella promesse fare, quando eglino la lasciassero entrare in quella; e per pegno della fede ritenessero i suoi figliuoli. Credettono i congiurati alle sue parole, e permissonle l’entrarvi. La quale, come fu dentro, gli minacciò di morte e d’ogni qualità di supplizio in vendetta del marito; e minacciando quegli di ammazzargli i figliuoli, rispose come ella aveva seco il modo a rifarne degli altri. Sbigottiti per tanto i congiurati, veggendo come dal Papa non erano suvvenuti, e sentendo come il signore Lodovico, zio alla Contessa, mandava gente in suo aiuto, tolte delle sustanzie loro quello poterono portare, se ne andorono a Città di Castello. Onde che la Contessa, ripreso lo stato, la morte del marito con ogni generazione di crudeltà vendicò. I Fiorentini, intesa la morte del Conte, presono occasione di recuperare la rocca di Piancaldoli, stata loro dal Conte per lo adietro occupata. Dove mandate loro genti, quella con la morte del Cecca, architettore famosissimo, recuperorono.

A questo tumulto di Romagna un altro in quella provincia, non di minore momento, se ne aggiunse. Aveva Galeotto, signore di Faenza, per moglie la figliuola di messer Giovanni Bentivogli, principe in Bologna. Costei, o per gelosia, o per essere male dal marito trattata, o per sua cattiva natura, aveva in odio il suo marito; e in tanto procedé con lo odiarlo, che la deliberò di torgli lo stato e la vita. E simulata certa sua infirmità, si pose nel letto; dove ordinò che, venendo Galeotto a vicitarla, fusse da certi suoi confidenti i quali a quello effetto aveva in camera nascosti, morto. Aveva costei di questo suo pensiero fatto partecipe il padre, il quale sperava, dopo che fusse morto il genero, divenire signore di Faenza. Venuto per tanto il tempo destinato a questo omicidio, entrò Galeotto in camera della moglie, secondo la sua consuetudine, e stato seco alquanto a ragionare, uscirono de’ luoghi segreti della camera gli ucciditori suoi, i quali, sanza che vi potesse fare rimedio, lo ammazzorono. Fu, dopo la costui morte, il romore grande: la moglie, con uno suo piccolo figliuolo detto Astorre, si fuggì nella rocca; il popolo prese le armi; messer Giovanni Bentivogli, insieme con uno Bergamino, condottieri del duca di Milano, prima preparatosi con assai armati, entrorono in Faenza, dove ancora era Antonio Boscoli, commissario fiorentino. E congregati in tale tumulto tutti quelli capi insieme, e parlando del governo della terra, gli uomini di Val di Lamona, che erano a quello romore popularmente corsi, mossono l’armi contro a messer Giovanni e a Bergamino, e questo ammazzorono, e quello presono prigione; e gridando il nome di Astorre e de’ Fiorentini, la città ad il loro commissario raccomandorono. Questo caso, inteso a Firenze, dispiacque assai a ciascuno, non di meno feciono messer Giovanni e la figliuola liberare, e la cura della città e di Astorre con volontà di tutto il popolo, presono. Seguirono ancora, oltre a questi, poi che le guerre principali intra i maggiori principi si composono, per molti anni, assai tumulti, in Romagna, nella Marca, e a Siena; i quali, per essere stati di poco momento, giudico essere superfluo il raccontargli. Vero è che quelli di Siena poi che il duca di Calavria dopo la guerra del ’78 se ne partì, furono più spessi; e dopo molte variazioni, che ora dominava la plebe, ora i nobili, restorono i nobili superiori: intra i quali presono più autorità che gli altri Pandolfo e Iacobo Petrucci; i quali, l’uno per prudenza, l’altro per animo, diventorono come principi di quella città.

Ma i Fiorentini, finita la guerra di Serezana, vissono infino al 1492 che Lorenzo de’ Medici morì, in una felicità grandissima: perché Lorenzo, posate l’armi d’Italia, le quali per il senno e autorità sua si erano ferme, volse l’animo a fare grande sé e la sua città, e a Piero, suo primogenito, l’Alfonsina, figliuola del cavaliere Orsino, congiunse; di poi Giovanni, suo secondo figliuolo, alla dignità del cardinalato trasse. Il che tanto fu più notabile, quanto, fuora d’ogni passato esemplo, non avendo ancora quattordici anni, fu a tanto grado condotto; il che fu una scala da potere fare salire la sua casa in cielo, come poi ne’ seguenti tempi, intervenne. A Giuliano, terzo suo figliuolo, per la poca età sua e per il poco tempo che Lorenzo visse, non potette di estraordinaria fortuna provedere. Delle figliuole, l’una a Iacopo Salviati, l’altra a Francesco Cibo, la terza a Piero Ridolfi congiunse; la quarta, la quale egli, per tenere la sua casa unita, aveva maritata a Giovanni de’ Medici, si morì. Nelle altre sue private cose fu, quanto alla mercanzia, infelicissimo; perché per il disordine de’ suoi ministri, i quali, non come privati, ma come principi le sue cose amministravano, in molte parti molto suo mobile fu spento; in modo che convenne che la sua patria di gran somma di danari lo suvvenisse. Onde che quello, per non tentare più simile fortuna, lasciate da parte le mercatantili industrie, alle possessioni, come più stabili e più ferme ricchezze, si volse; e nel Pratese, nel Pisano e in Val di Pesa fece possessioni, e per utile e per qualità di edifizi e di magnificenza, non da privato cittadino, ma regie. Volsesi, dopo questo, a fare più bella e maggiore la sua città; e per ciò, sendo in quella molti spazi sanza abitazioni, in essi nuove strade, da empiersi di nuovi edifizi, ordinò, onde che quella città ne divenne più bella e maggiore. E perché in nel suo stato più quieta e secura vivesse, e potesse i suoi nimici, discosto da sé, combattere o sostenere, verso Bologna, nel mezzo delle alpi, il castello di Fiorenzuola affortificò; verso Siena dette principio ad instaurare il Poggio Imperiale e farlo fortissimo; verso Genova, con lo acquisto di Pietrasanta e di Serezana, quella via al nimico chiuse. Di poi, con stipendi e provisioni, manteneva suoi amici i Baglioni in Perugia, i Vitelli in Città di Castello; e di Faenza il governo particulare aveva: le quali tutte cose erano come fermi propugnacoli alla sua città. Tenne ancora, in questi tempi pacifici, sempre la patria sua in festa; dove spesso giostre e rappresentazioni di fatti e trionfi antichi si vedevano; e il fine suo era tenere la città abbondante, unito il popolo, e la nobiltà onorata. Amava maravigliosamente qualunque era in una arte eccellente; favoriva i litterati, di che messer Agnolo da Montepulciano, messer Cristofano Landini e messer Demetrio greco ne possono rendere ferma testimonianza, onde che il conte Giovanni della Mirandola, uomo quasi che divino, lasciate tutte l’altre parti di Europa che egli aveva peragrate, mosso dalla munificenzia di Lorenzo, pose la sua abitazione in Firenze. Della architettura, della musica e della poesia maravigliosamente si dilettava; e molte composizioni poetiche, non solo composte, ma comentate ancora da lui appariscono. E perché la gioventù fiorentina potesse negli studi delle lettere esercitarsi, aperse nella città di Pisa uno studio, dove i più eccellenti uomini che allora in Italia fussero condusse. A fra’ Mariano da Ghinazzano, dell’ordine di Santo Agostino, perché era predicatore eccellentissimo, uno munistero propinquo a Firenze edificò. Fu dalla fortuna e da Dio sommamente amato, per il che tutte le sue imprese ebbono felice fine e tutti i suoi nimici infelice: perché oltre ai Pazzi, fu ancora voluto, nel Carmine da Batista Frescobaldi, e nella sua villa da Baldinotto da Pistoia, ammazzare; e ciascuno d’essi, insieme con i consci de’ loro segreti, dei malvagi pensieri loro patirono giustissime pene. Questo suo modo di vivere, questa sua prudenza e fortuna, fu dai principi, non solo di Italia, ma longinqui da quella, con ammirazione cognosciuta e stimata: fece Mattia re d’Ungheria molti segni dell’amore gli portava, il Soldano con i suoi oratori e suoi doni lo vicitò e presentò; il gran Turco gli pose nelle mani Bernardo Bandini, del suo fratello ucciditore. Le quali cose lo facevano tenere in Italia mirabile. La quale reputazione ciascuno giorno, per la prudenzia sua cresceva; perché era, nel discorrere le cose eloquente e arguto, nel risolverle savio, nello esequirle presto e animoso. Né di quello si possono addurre vizi che maculassero tante sue virtù, ancora che fusse nelle cose veneree maravigliosamente involto, e che si dilettasse di uomini faceti e mordaci, e di giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva si convenisse, in modo che molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli e figliuole intra i loro trastulli mescolarsi. Tanto che, a considerare in quello e la vita leggieri, voluttuosa e la grave, si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile coniunzione congiunte. Visse, negli ultimi tempi, pieno di affanni, causati dalla malattia che lo teneva maravigliosamente afflitto, perché era da intollerabili doglie di stomaco oppresso; le quali tanto lo strinsono che di aprile, nel 1492, morì, l’anno quarantaquattro della sua età. Né morì mai alcuno, non solamente in Firenze, ma in Italia, con tanta fama di prudenza, né che tanto alla sua patria dolesse. E come dalla sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine ne mostrò il cielo molti evidentissimi segni: intra i quali, l’altissima sommità del tempio di Santa Reparata fu da uno fulmine con tanta furia percossa, che gran parte di quel pinnacolo rovinò, con stupore e maraviglia di ciascuno. Dolfonsi adunque della sua morte tutti i suoi cittadini e tutti i principi di Italia: di che ne feciono manifesti segni, perché non ne rimase alcuno che a Firenze, per suoi oratori, il dolore preso di tanto caso non significasse. Ma se quelli avessero cagione giusta di dolersi, lo dimostrò poco di poi lo effetto; perché, restata Italia priva del consiglio suo, non si trovò modo, per quegli che rimasono, né di empiere né di frenare l’ambizione di Lodovico Sforza, governatore del duca di Milano. Per la quale, subito morto Lorenzo cominciorono a nascere quegli cattivi semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi gli sapesse spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia.

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