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E’ parrà forse a quelli che il libro superiore aranno letto che uno scrittore delle cose fiorentine si sia troppo disteso in narrare quelle seguite in Lombardia e nel Regno; non di meno io non ho fuggito né sono per lo avvenire per fuggire simili narrazioni, perché, quantunque io non abbia mai promesso di scrivere le cose di Italia, non mi pare per ciò da lasciare indietro di non narrare quelle che saranno in quella provincia notabili. Perché, non le narrando, la nostra istoria sarebbe meno intesa e meno grata; massimamente perché dalle azioni degli altri popoli e principi italiani nascono il più delle volte le guerre nelle quali i Fiorentini sono di intromettersi necessitati, come dalla guerra di Giovanni d’Angiò e del re Ferrando gli odii e le gravi inimicizie nacquono le quali poi intra Ferrando e i Fiorentini, e particularmente con la famiglia de’ Medici seguirono. Perché il Re si doleva, in quella guerra, non solamente non essere stato suvvenuto, ma essere stati prestati favori al nimico suo; il quale sdegno fu di grandissimi mali cagione, come nella narrazione nostra si dimosterrà. E perché io sono, scrivendo le cose di fuora, infino al 1463 transcorso, mi è necessario, a volere i travagli di dentro in quel tempo seguiti narrare, ritornare molti anni indietro. Ma prima voglio alquanto, secondo la consuetudine nostra ragionando, dire come coloro che sperano che una republica possa essere unita, assai di questa speranza s’ingannono. Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle republiche, e alcune giovano: quelle nuocono che sono dalle sette e da partigiani accompagnate; quelle giovano che senza sette e senza partigiani si mantengono. Non potendo adunque provedere uno fondatore di una republica che non sieno inimicizie in quella, ha a provedere almeno che non vi sieno sette. E però è da sapere come in due modi acquistono riputazione i cittadini nelle città: o per vie publiche, o per modi privati. Publicamente si acquista, vincendo una giornata, acquistando una terra, faccendo una legazione con sollecitudine e con prudenza, consigliando la republica saviamente e felicemente; per modi privati si acquista, benificando questo e quell’altro cittadino, defendendolo da’ magistrati, suvvenendolo di danari, tirandolo immeritamente agli onori, e con giochi e doni publici gratificandosi la plebe. Da questo modo di procedere nascono le sette e i partigiani; e quanto questa reputazione così guadagnata offende, tanto quella giova quando ella non è con le sette mescolata, perché la è fondata sopra un bene comune, non sopra un bene privato. E benché ancora tra i cittadini così fatti non si possa per alcuno modo provedere che non vi sieno odii grandissimi non di meno, non avendo partigiani che per utilità propria li seguitino, non possono alla republica nuocere; anzi conviene che giovino, perché è necessario, per vincere le loro pruove, si voltino alla esaltazione di quella, e particularmente osservino l’uno l’altro, acciò che i termini civili non si trapassino. Le inimicizie di Firenze furono sempre con sette, e per ciò furono sempre dannose; né stette mai una setta vincitrice unita, se non tanto quanto la setta inimica era viva, ma come la vinta era spenta, non avendo quella che regnava più paura che la ritenesse né ordine infra sé che la frenasse, la si ridivideva. La parte di Cosimo de’ Medici rimase, nel 1434, superiore; ma per essere la parte battuta grande e piena di potentissimi uomini, si mantenne un tempo, per paura, unita e umana, intanto che fra loro non feciono alcuno errore, e al popolo per alcuno loro sinistro modo non si feciono odiare; tanto che qualunque volta quello stato ebbe bisogno del popolo per ripigliare la sua autorità, sempre lo trovò disposto a concedere a i capi suoi tutta quella balia e potenza che desideravano. E così, dal 1434 al ’55, che sono anni ventuno, sei volte, e per i Consigli ordinariamente, la autorità della balia riassunsono.
Erano in Firenze, come più volte abbiamo detto, duoi cittadini potentissimi Cosimo de’ Medici e Neri Capponi; de’ quali Neri era uno di quelli che aveva acquistata la sua reputazione per vie publiche, in modo che gli aveva assai amici e pochi partigiani; Cosimo, dall’altra parte, avendosi alla sua potenza la publica e la privata via aperta, aveva amici e partigiani assai. E stando costoro uniti, mentre tutti a duoi vissero, sempre ciò che vollono sanza alcuna difficultà dal popolo ottennono, perché gli era mescolata con la potenza la grazia. Ma venuto l’anno 1455, ed essendo morto Neri, e la parte nimica spenta, trovò lo stato difficultà nel riassumere l’autorità sua; e i propri amici di Cosimo, e nello stato potentissimi, ne erano cagione, perché non temevano più la parte avversa, che era spenta, e avevano caro di diminuire la potenza di quello. Il quale umore dette principio a quelle divisioni che di poi, nel 1466 seguirono; in modo che quelli a’ quali lo stato apparteneva, ne’ Consigli dove publicamente si ragionava della publica amministrazione, consigliavano che gli era bene che la potestà della balia non si riassumesse, e che si serrassero le borse e i magistrati a sorte, secondo i favori de’ passati squittini, si sortissero. Cosimo, a frenare questo umore aveva uno de’ duoi rimedi: o ripigliare lo stato per forza, con i partigiani che gli erano rimasi, e urtare tutti gli altri, o lasciare ire la cosa e con il tempo fare a’ suoi amici cognoscere che non a lui, ma a loro propri, lo stato e la reputazione toglievono. De’ quali duoi remedi questo ultimo elesse; perché sapeva bene che in tale modo di governo, per essere le borse piene di suoi amici, egli non correva alcuno pericolo, e come a sua posta poteva il suo stato ripigliare. Riduttasi per tanto la città a creare i magistrati a sorte, pareva alla universalità de’ cittadini avere riavuta la sua libertà, e i magistrati, non secondo la voglia de’ potenti, ma secondo il giudicio loro proprio giudicavano; in modo che ora uno amico d’uno potente, ora quello d’uno altro era battuto, e così quelli che solevano vedere le case loro piene di salutatori e di presenti, vote di sustanze e di uomini le vedevano. Vedevonsi ancora diventati uguali a quelli che solevono avere di lunga inferiori, e superiori vedevano quelli che solevono essere loro eguali. Non erano riguardati né onorati, anzi molte volte beffati e derisi, e di loro e della republica per le vie e per le piazze sanza alcuno riguardo si ragionava; di qualità che cognobbono presto, non Cosimo, ma loro avere perduto lo stato. Le quali cose Cosimo dissimulava, e come e’ nasceva alcuna deliberazione che piacessi al popolo, ed egli era il primo a favorirla. Ma quello che fece più spaventare i Grandi, e a Cosimo dette maggiore occasione a farli ravvedere fu che si risuscitò il modo del catasto del 1427, dove, non gli uomini, ma le leggi le gravezze ponesse.
Questa legge vinta, e di già fatto il magistrato che la esequisse, li fé al tutto ristrignere insieme, e ire a Cosimo, a pregarlo che fusse contento volere trarre loro e sé delle mani della plebe, e rendere allo stato quella riputazione che faceva lui potente e loro onorati. Ai quali Cosimo rispose che era contento; ma che voleva che la legge si facesse ordinariamente e con volontà del popolo, e non per forza, pella quale per modo alcuno non gli ragionassero. Tentossi ne’ Consigli la legge di fare nuova balia, e non si ottenne, onde che i cittadini grandi tornavano a Cosimo, e con ogni termine di umilità lo pregavano volesse acconsentire al parlamento; il che Cosimo al tutto negava come quello che voleva ridurli in termine che appieno lo errore loro cognoscessero. E perché Donato Cocchi trovandosi gonfalonieri di giustizia, volle senza suo consentimento fare il parlamento, lo fece in modo Cosimo da’ Signori che con seco sedevano sbeffare, che gli impazzò, e come stupido ne fu alle case sue rimandato. Non di meno, perché non è bene lasciare tanto transcorrere le cose, che le non si possino poi ritirare a sua posta, sendo pervenuto al gonfaloniere della giustizia Luca Pitti, uomo animoso e audace, gli parve tempo di lasciare governare la cosa a quello, acciò, se di quella impresa s’incorreva in alcuno biasimo, fusse a Luca, non a lui, imputato. Luca per tanto, nel principio del suo magistrato, prepose al popolo molte volte di rifare la balia; e non si ottenendo, minacciò quelli che ne’ Consigli sedevano con parole ingiuriose e piene di superbia. Alle quali poco di poi aggiunse i fatti; perché di agosto, nel 1458, la vigilia di Santo Lorenzo avendo ripieno di armati il Palagio chiamò il popolo in Piazza, e per forza e con le armi, gli fece acconsentire quello che prima volontariamente non aveva acconsentito. Riassunto per tanto lo stato, e creato la balia e di poi i primi magistrati secondo il parere de’ pochi, per dare principio a quello governo con terrore, ch’eglino avieno cominciato con forza, confinorono messer Girolamo Machiavelli con alcuni altri, e molti ancora degli onori privorono. Il quale messer Girolamo, per non avere di poi osservati i confini, fu fatto ribelle; e andando circuendo Italia, sullevando i principi contro alla patria, fu in Lunigiana, per poca fede d’uno di quelli signori, preso; e condotto a Firenze, fu morto in carcere.
Fu questa qualità di governo, per otto anni che durò insopportabile e violento; perché Cosimo, già vecchio e stracco e per la mala disposizione del corpo fatto debole, non potendo essere presente in quel modo soleva alle cure publiche, pochi cittadini predavano quella città. Fu Luca Pitti, per premio della opera aveva fatta in benifizio della republica, fatto cavaliere; ed egli, per non essere meno grato verso di lei, che quella verso di lui fussi stata, volle che, dove prima si chiamavano Priori dell’Arti, acciò che della possessione perduta almeno ne riavessero il titulo, si chiamassero Priori di Libertà: volle ancora che dove prima il gonfaloniere sedeva sopra la destra de’ rettori, in mezzo di quelli per lo avvenire sedesse. E perché Iddio paressi partecipe di questa impresa, feciono publice processioni e solenni offizi per ringraziare quello de’ riassunti onori. Fu messer Luca dalla Signoria e da Cosimo riccamente presentato, dietro ai quali tutta la città a gara concorse; e fu opinione che i presenti alla somma di ventimila ducati aggiugnessero. Donde egli salì in tanta reputazione, che non Cosimo ma messer Luca la città governava. Da che lui venne in tanta confidenza che gli cominciò duoi edifici, l’uno in Firenze l’altro a Ruciano, luogo propinquo uno miglio alla città, tutti superbi e regii; ma quello della città al tutto maggiore che alcuno altro che da privato cittadino infino a quel giorno fusse stato edificato. I quali per condurre a fine non perdonava ad alcuno estraordinario modo; perché, non solo i cittadini e gli uomini particulari lo presentavano e delle cose necessarie allo edifizio lo suvvenivano, ma i comuni e popoli interi gli sumministravano aiuti. Oltra di questo, tutti gli sbanditi, e qualunque altro avesse commesso omicidio, o furto o altra cosa per che egli temesse publica penitenzia, purché e’ fusse persona a quella edificazione utile, dentro a quelli edifizi sicuro si rifuggiva. Gli altri cittadini, se non edificavano come quello, non erano meno violenti, né meno rapaci di lui, in modo che, se Firenze non aveva guerra di fuori che la distruggesse, dai suoi cittadini era distrutta. Seguirono, come abbiamo detto, durante questo tempo, le guerre del Regno, e alcune che ne fece il Pontefice in Romagna contro a quelli Malatesti; perché egli desiderava spogliarli di Rimino e di Cesena, che loro possedevano; sì che, infra queste imprese e i pensieri di fare la impresa del Turco, papa Pio consumò il pontificato suo.
Ma Firenze seguitò nelle disunioni e ne’ travagli suoi. Cominciò la disunione nella parte di Cosimo nel ’55, per le cagioni dette, le quali per la prudenza sua, come abbiamo narrato, per allora si posorono. Ma venuto l’anno ’64, Cosimo riaggravò nel male, di qualità che passò di questa vita. Dolfonsi della morte sua gli amici e i nimici; perché quelli che per cagione dello stato non lo amavano, veggendo quale era stata la rapacità de’ cittadini vivente lui, la cui reverenza gli faceva meno insopportabili, dubitavano, mancato quello, non essere al tutto rovinati e distrutti; e in Piero suo figliuolo non confidavano molto, perché, non ostante che fusse uomo buono, non di meno giudicavano che, per essere ancora lui infermo e nuovo nello stato, fusse necessitato ad avere loro rispetto, talché quelli, sanza freno in bocca, potessero essere più strabocchevoli nelle rapacità loro. Lasciò per tanto di sé in ciascuno grandissimo desiderio. Fu Cosimo il più reputato e nomato cittadino, di uomo disarmato, che avesse mai, non solamente Firenze, ma alcuna altra città di che si abbia memoria perché, non solamente superò ogni altro de’ tempi suoi d’autorità e di ricchezze, ma ancora di liberalità e di prudenza; perché intra tutte le altre qualità che lo feciono principe nella sua patria fu lo essere sopra tutti gli altri uomini liberale e magnifico. Apparve la sua liberalità molto più dopo la sua morte, quando Piero, suo figliuolo, volle le sue sustanze ricognoscere, perché non era cittadino alcuno che avesse nella città alcuna qualità, a chi Cosimo grossa somma di danari non avesse prestata, e molte volte, sanza essere richiesto, quando intendeva la necessità d’uno uomo nobile, lo suvveniva. Apparve la sua magnificenzia nella copia degli edifizi da lui edificati; perché in Firenze i conventi e i templi di San Marco e di San Lorenzo e il munistero di Santa Verdiana, e ne’ monti di Fiesole San Girolamo e la Badia, e nel Mugello un tempio de’ frati minori non solamente instaurò, ma da e fondamenti di nuovo edificò. Oltra di questo, in Santa Croce, ne’ Servi, negli Angioli, in San Miniato, fece fare altari e cappelle splendidissime; i quali templi e cappelle, oltre allo edificare, riempié di paramenti e d’ogni cosa necessaria allo ornamento del divino culto. A questi sacri edifizi si aggiunsono le private sue case; le quali sono, una nella città, di quello essere che a tanto cittadino si conveniva; quattro di fuora, a Careggi, a Fiesole, a Cafaggiuolo e al Trebbio: tutti palagi, non da privati cittadini, ma regii. E perché nella magnificenzia degli edifizi non gli bastava essere cognosciuto in Italia, edificò ancora in Ierusalem un recettaculo per i poveri e infermi peregrini; nelle quali edificazioni uno numero grandissimo di danari consumò. E benché queste abitazioni e tutte le altre opere e azioni sue fussero regie, e che solo, in Firenze, fusse principe, non di meno tanto fu temperato dalla prudenza sua, che mai la civile modestia non trapassò: perché nelle conversazioni, ne’ servidori, nel cavalcare, in tutto il modo del vivere, e ne’ parentadi, fu sempre simile a qualunque modesto cittadino; perché sapeva come le cose estraordinarie che a ogni ora si veggono e appariscono recono molto più invidia agli uomini, che quelle che sono in fatto e con onestà si ricuoprono. Avendo per tanto a dare moglie a’ suoi figliuoli, non cercò i parentadi de’ principi, ma con Giovanni la Cornelia degli Alessandri e con Piero la Lucrezia de’ Tornabuoni congiunse; e delle nipoti nate di Piero la Bianca a Guglielmo de’ Pazzi, e la Nannina a Bernardo Rucellai sposò. Degli stati de’ principi e civili governi niuno altro al suo tempo per intelligenza lo raggiunse: di qui nacque che in tanta varietà di fortuna, e in sì varia città e volubile cittadinanza, tenne uno stato trentuno anno; perché, sendo prudentissimo, cognosceva i mali discosto e per ciò era a tempo, o a non li lasciare crescere, o a prepararsi in modo che cresciuti, non lo offendessero: donde non solamente vinse la domestica e civile ambizione, ma quella di molti principi superò con tanta felicità e prudenza che qualunque seco e colla sua patria si collegava, rimaneva o pari o superiore al nimico, e qualunque se gli opponeva, o e’ perdeva il tempo e’ denari, o lo stato. Di che ne possono rendere buona testimonianza i Viniziani; i quali, con quello, contro al duca Filippo sempre furono superiori, e disiunti da lui, sempre furono, e da Filippo prima, e da Francesco poi, vinti e battuti; e quando con Alfonso contro alla republica di Firenze si collegorono, Cosimo con il credito suo vacuò Napoli e Vinegia di danari in modo che furono constretti a prendere quella pace che fu voluta concedere loro. Delle dificultà adunque che Cosimo ebbe, dentro alla città e fuori, fu il fine glorioso per lui e dannoso per gli inimici; e per ciò sempre le civili discordie gli accrebbono in Firenze stato, e le guerre di fuora potenza e reputazione: per il che allo imperio della sua republica il Borgo a San Sipolcro, Montedoglio, il Casentino e Val di Bagno aggiunse. E così la virtù e fortuna sua spense tutti i suoi nimici, e gli amici esaltò.
Nacque nel 1389, il giorno di Santo Cosimo e Damiano. Ebbe la sua prima età piena di travagli, come lo esilio, la cattura, i pericoli di morte dimostrano; e da il concilio di Gostanza, dove era ito con papa Giovanni, dopo la rovina di quello, per campare la vita, gli convenne fuggire travestito. Ma passati i quaranta anni della sua età, visse felicissimo, tanto che, non solo quelli che si accostorono a lui nelle imprese publiche, ma quelli ancora che i suoi tesori per tutta la Europa amministravano della felicità sua participorono: da che molte eccessive ricchezze in molte famiglie di Firenze nacquono, come avvenne in quella de’ Tornabuoni, de’ Benci, de’ Portinari e de’ Sassetti; e dopo questi, tutti quelli che da il consiglio e fortuna sua dependevono arricchirono: talmente che, ben che negli edifizi de’ templi e nelle limosine egli spendesse continuamente, si doleva qualche volta con gli amici che mai aveva potuto spendere tanto in onore di Dio che lo trovassi ne’ suoi libri debitore. Fu di comunale grandezza, di colore ulivigno e di presenza venerabile. Fu sanza dottrina, ma eloquentissimo e ripieno d’una naturale prudenza; e per ciò era officioso nelli amici, misericordioso ne’ poveri, nelle conversazione utile, ne’ consigli cauto, nelle esecuzioni presto, e ne’ suoi detti e risposte era arguto e grave. Mandogli messer Rinaldo degli Albizi, ne’ primi tempi del suo esilio a dire che la gallina covava, a cui Cosimo rispose che la poteva mal covare fuora del nidio, e ad altri ribelli, che li feciono intendere che non dormivano disse che lo credeva, avendo cavato loro il sonno. Disse di papa Pio, quando e’ citava i principi per la impresa contro al Turco, che gli era vecchio e faceva una impresa da giovani. Agli oratori viniziani, i quali vennono a Firenze insieme con quelli del re Alfonso a dolersi della republica, mostrò il capo scoperto, e dimandolli di qual colore fusse; al quale risposono: - Bianco, - ed egli allora soggiunse: - E’ non passerà gran tempo che i vostri senatori lo aranno bianco come io. - Domandandogli la moglie, poche ore avanti la morte, perché tenesse gli occhi chiusi, rispose: - Per avvezzargli. - Dicendogli alcuni cittadini, dopo la sua tornata dallo esilio, che si guastava la città e facevasi contro a Dio a cacciare di quella tanti uomini da bene, rispose come gli era meglio città guasta che perduta; e come due canne di panno rosato facevono uno uomo da bene; e che gli stati non si tenevono co’ paternostri in mano: le quali voci dettono materia a’ nimici di calunniarlo, come uomo che amasse più se medesimo che la patria, e più questo mondo che quell’altro. Potrebbonsi riferire molti altri suoi detti, i quali, come non necessari, si ommetteranno. Fu ancora Cosimo degli uomini litterati amatore ed esaltatore; e per ciò condusse in Firenze lo Argilopolo, uomo di nazione greca e in quelli tempi litteratissimo, acciò che da quello la gioventù fiorentina la lingua greca e l’altre sue dottrine potesse apprendere; nutrì nelle sue case Marsilio Ficino, secondo padre della platonica filosofia, il quale sommamente amò; e perché potesse più commodamente seguire gli studi delle lettere, e per poterlo con più sua commodità usare, una possessione propinqua alla sua di Careggi gli donò. Questa sua prudenza adunque, queste sue ricchezze, modo di vivere e fortuna, lo feciono, a Firenze, da’ cittadini temere e amare, e dai principi, non solo di Italia, ma di tutta la Europa, maravigliosamente stimare. Donde che lasciò tale fondamento a’ suoi posteri che poterono con la virtù pareggiarlo e con la fortuna di gran lunga superarlo, e quella autorità che Cosimo ebbe in Firenze, non solo in quella città, ma in tutta la cristianità averla. Non di meno negli ultimi tempi della sua vita sentì gravissimi dispiaceri; perché de’ duoi figliuoli che gli ebbe, Piero e Giovanni, questo morì in nel quale egli più confidava, quell’altro era infermo e, per la debilezza del corpo, poco atto alle publiche e alle private faccende. Di modo che, faccendosi portare, dopo la morte del figliuolo, per la casa, disse sospirando: - Questa è troppa gran casa a sì poca famiglia. - Angustiava ancora la grandezza dello animo suo non gli parere di avere accresciuto lo imperio fiorentino d’uno acquisto onorevole; e tanto più se ne doleva, quanto gli pareva essere stato da Francesco Sforza ingannato; il quale, mentre era conte, gli aveva promesso, comunque si fusse insignorito di Milano, di fare la impresa di Lucca per i Fiorentini. Il che non successe, perché quel conte con la fortuna mutò pensiero, e diventato duca, volle godersi quello stato colla pace che si aveva acquistato con la guerra; e per ciò non volle né a Cosimo né ad alcuno altro di alcuna impresa sodisfare; né fece, poi che fu duca, altre guerre che quelle che fu per difendersi necessitato. Il che fu di noia grandissima a Cosimo cagione, parendogli avere durato fatica e speso per fare grande uno uomo ingrato e infedele. Parevagli, oltre a di questo, per la infirmità del corpo, non potere nelle faccende publiche e private porre l’antica diligenza sua; di qualità che l’una e l’altra vedeva rovinare, perché la città era distrutta da’ cittadini, e le sustanze da’ ministri e da’ figliuoli. Tutte queste cose gli feciono passare gli ultimi tempi della sua vita inquieti. Non di meno morì pieno di gloria, e con grandissimo nome nella città e fuori. Tutti i cittadini e tutti i principi cristiani si dolfono con Piero suo figliuolo della sua morte, e fu con pompa grandissima da tutti i cittadini alla sepultura accompagnato, e nel tempio di San Lorenzo sepellito, e per publico decreto sopra la sepultura sua PADRE DELLA PATRIA nominato. Se io, scrivendo le cose fatte da Cosimo, ho imitato quelli che scrivono le vite de’ principi, non quelli che scrivono le universali istorie, non ne prenda alcuno ammirazione, perché, essendo stato uomo raro nella nostra città, io sono stato necessitato con modo estraordinario lodarlo.
In questi tempi, che Firenze e Italia nelle dette condizioni si trovava, Luigi re di Francia era da gravissima guerra assalito, la quale gli avieno i suoi baroni, con lo aiuto di Francesco duca di Brettagna e di Carlo duca di Borgogna, mossa; la quale fu di tanto momento che non potette pensare di favorire il duca Giovanni d’Angiò nelle imprese di Genova e del Regno; anzi, giudicando di avere bisogno degli aiuti di ciascuno, sendo restata la città di Savona in potestà de’ Franciosi, insignorì di quella Francesco duca di Milano, e gli fece intendere che, se voleva, con sua grazia poteva fare la impresa di Genova. La qual cosa fu da Francesco accettata; e con la reputazione che gli dette l’amicizia del Re, e con li favori che gli ferono gli Adorni, s’insignorì di Genova; e per non mostrarsi ingrato verso il Re de’ beneficii ricevuti, mandò al soccorso suo, in Francia, millecinquecento cavagli, capitaneati da Galeazzo suo primogenito. Restati per tanto Ferrando di Aragona e Francesco Sforza, l’uno duca di Lombardia e principe di Genova, l’altro re di tutto il regno di Napoli, e avendo insieme contratto parentado, pensavano come e’ potessero in modo fermare gli stati loro, che vivendo li potessero securamente godere e morendo agli loro eredi liberamente lasciare. E per ciò giudicorono che fusse necessario che il Re si assicurasse di quelli baroni che lo aveno nella guerra di Giovanni d’Angiò offeso, e il Duca operasse di spegnere le armi braccesche al sangue suo naturali nimiche, le quali sotto Iacopo Piccinino in grandissima reputazione erano salite, perché egli era rimaso il primo capitano di Italia, e non avendo stato, qualunque era in stato doveva temerlo, e massimamente il Duca, il quale, mosso da lo esemplo suo, non gli pareva potere tenere quello stato, né securo a’ figliuoli lasciarlo, vivente Iacopo. Il Re per tanto con ogni industria cercò lo accordo con i suoi baroni, e usò ogni arte in assicurarli, il che gli succedette felicemente, perché quelli principi, rimanendo in guerra con il Re, vedevono la loro rovina manifesta, e facendo accordo e di lui fidandosi, ne stavano dubi. E perché gli uomini fuggono sempre più volentieri quel male che è certo, ne seguita che i principi possono i minori potenti facilmente ingannare: credettono quelli principi alla pace del Re, veggendo i pericoli manifesti nella guerra, e rimessisi nelle braccia di quello, furono di poi da lui in varii modi e sotto varie cagioni spenti. La qual cosa sbigottì Iacopo Piccinino, il quale con le sue genti si trovava a Solmona; e per torre occasione al Re di opprimerlo, tenne pratica con il duca Francesco, per mezzo de’ suoi amici, di riconciliarsi con quello; e avendogli il Duca fatte quante offerte potette maggiori, deliberò Iacopo rimettersi nelle braccia sua, e lo andò, accompagnato da cento cavagli, a trovare a Milano.
Aveva Iacopo sotto il padre e con il fratello militato gran tempo, prima per il duca Filippo e di poi per il popolo di Milano, tanto che, per la lunga conversazione, aveva in Milano amici assai e universale benivolenza; la quale le presenti condizioni avevano accresciuta perché agli Sforzeschi la prospera fortuna e la presente potenza aveva partorito invidia, e a Iacopo le cose avverse e la lunga assenza avevano in quel popolo generato misericordia, e di vederlo grandissimo desiderio. Le quali cose tutte apparsono nella venuta sua, perché pochi rimasono della nobilità che non lo incontrassero, e le strade donde ei passò di quelli che desideravano vederlo erano ripiene; il nome della gente sua per tutto si gridava. I quali onori affrettorono la sua rovina, perché al Duca crebbe, con il sospetto, il desiderio di spegnerlo. E per poterlo più copertamente fare, volle che celebrasse le nozze con Drusiana sua figliuola naturale, la quale più tempo innanzi gli aveva sposata; di poi convenne con Ferrando lo prendesse a’ suoi soldi con titulo di capitano delle sue genti e centomila fiorini di provisione. Dopo la quale conclusione, Iacopo, insieme con uno ambasciadore ducale e Drusiana sua moglie, se ne andò a Napoli; dove lietamente e onoratamente fu ricevuto e per molti giorni con ogni qualità di festa intrattenuto. Ma avendo domandato licenza per gire a Solmona, dove aveva le sue genti, fu da il Re nel Castello convitato, e appresso il convito, insieme con Francesco suo figliuolo, imprigionato, e dopo poco tempo morto. E così i nostri principi italiani quella virtù che non era in loro temevano in altri, e la spegnevano: tanto che, non la avendo alcuno, esposono questa provincia a quella rovina la quale, dopo non molto tempo, la guastò e afflisse.
Papa Pio, in questi tempi, aveva composte le cose di Romagna; e per ciò gli parve tempo, veggendo seguita universale pace, di muovere i Cristiani contro al Turco; e riprese tutti quelli ordini che da’ suoi antecessori erano stati fatti; e tutti i principi promissono o danari o genti, e in particulari Mattia re d’Ungheria e Carlo duca di Borgogna promissono essere personalmente seco, i quali furono da il Papa fatti capitani della impresa. E andò tanto avanti il Pontefice con la speranza, che partì da Roma e andonne in Ancona, dove si era ordinato che tutto lo esercito convenisse; e i Viniziani gli avieno promessi navigi per passarlo in Stiavonia. Convenne per tanto in quella città, dopo lo arrivare del Pontefice, tanta gente che in pochi giorni tutti i viveri che in quella città erano e che dai luoghi vicini vi si potevano condurre mancorono, di qualità che ciascuno era dalla fame oppressato. Oltra di questo non vi era danari da provederne quelli che ne avevano di bisogno, né arme da rivestire quelli che ne mancavano; e Mattia e Carlo non comparsono, e i Viniziani vi mandorono uno loro capitano con alquante galee, più tosto per mostrare la pompa loro, e di avere osservata la fede, che per potere quello esercito passare. Onde che il Papa, sendo vecchio e infermo, nel mezzo di questi travagli e disordini morì. Dopo la cui morte ciascheduno alle sue case se ne ritornò. Morto il Papa, l’anno 1465, fu eletto al pontificato Paulo II, di nazione viniziano. E perché quasi che tutti i principati di Italia mutassero governo, morì ancora, l’anno seguente, Francesco Sforza duca di Milano, dopo sedici anni ch’egli aveva occupato quel ducato, e fu dichiarato duca Galeazzo suo figliuolo.
La morte di questo principe fu cagione che le divisioni di Firenze diventassero più gagliarde e facessero i suoi effetti più presto. Poi che Cosimo morì, Piero suo figliuolo, rimaso erede delle sustanze e dello stato del padre, chiamò a sé messer Dietisalvi Neroni, uomo di grande autorità e secondo gli altri cittadini reputatissimo, nel quale Cosimo confidava tanto che commisse, morendo, a Piero che delle sustanze e dello stato al tutto secondo il consiglio di quello si governasse. Dimostrò per tanto Piero a messer Dietisalvi la fede che Cosimo aveva avuta in lui; e perché voleva ubbidire a suo padre dopo morte come aveva ubbidito in vita, desiderava con quello del patrimonio e del governo della città consigliarsi. E per cominciare dalle sustanze proprie, farebbe venire tutti i calculi delle sue ragioni e gliene porrebbe in mano, acciò che potesse l’ordine e disordine di quelle cognoscere, e cognosciuto, secondo la sua prudenza consigliarlo. Promisse messer Dietisalvi in ogni cosa usare diligenzia e fede; ma venuti i calculi, e quelli bene esaminati, cognobbe in ogni parte essere assai disordini. E come quello che più lo strigneva la propria ambizione che lo amore di Piero o gli antichi benifizi da Cosimo ricevuti, pensò che fusse facile torgli la reputazione e privarlo di quello stato che il padre come ereditario gli aveva lasciato. Venne per tanto messer Dietisalvi a Piero con uno consiglio che pareva tutto onesto e ragionevole; ma sotto a quello era la sua rovina nascosa. Dimostrogli il disordine delle sue cose, e a quanti danari gli era necessario provedere non volendo perdere, con il credito, la reputazione delle sustanze e dello stato suo. E perciò gli disse che e’ non poteva con maggiore onestà rimediare a’ disordini suoi, che cercare di fare vivi quelli danari che suo padre doveva avere da molti, così forestieri come cittadini: perché Cosimo, per acquistarsi partigiani in Firenze e amici di fuora, nel fare parte a ciascuno delle sue sustanze fu liberalissimo, in modo che quello di che per queste cagioni era creditore ad una somma di danari non piccola né di poca importanza ascendeva. Parve a Piero il consiglio buono e onesto, volendo a’ disordini suoi rimediare con il suo; ma subito che gli ordinò che questi danari si domandassero, i cittadini, come se quello volesse torre il loro, non domandare il suo, si risentirono; e sanza rispetto dicevano male di lui, e come ingrato e avaro lo calunniavano.
Donde che, veduta messer Dietisalvi questa comune e populare disgrazia in la quale Piero era per i suoi consigli incorso, si ristrinse con messer Luca Pitti, messer Agnolo Acciaiuoli e Niccolò Soderini, e deliberorono di torre a Piero la reputazione e lo stato. Erano mossi costoro da diverse cagioni: messer Luca desiderava succedere nel luogo di Cosimo, perché era diventato tanto grande che si sdegnava avere ad osservare Piero; messer Dietisalvi, il quale conosceva messer Luca non essere atto ad essere capo del governo, pensava che di necessità, tolto via Piero, la reputazione del tutto, in breve tempo, dovesse cadere in lui; Niccolò Soderini amava che la città più liberamente vivesse, e che secondo la voglia de’ magistrati si governasse. Messer Agnolo con i Medici teneva particulari odii per tali cagioni: aveva Raffaello suo figliuolo, più tempo innanzi, presa per moglie la Lessandra de’ Bardi con grandissima dote: costei o per i mancamenti suoi o per i difetti d’altri, era da il suocero e dal marito male trattata; onde che Lorenzo di Larione, suo affine, mosso a pietà di questa fanciulla, una notte, con di molti armati accompagnato, la trasse di casa messer Agnolo. Dolfonsi gli Acciaiuoli di questa ingiuria fatta loro dai Bardi: fu rimessa la causa in Cosimo; il quale giudicò che gli Acciaiuoli dovessero alla Lessandra restituire la sua dote, e di poi il tornare con il marito suo allo arbitrio della fanciulla si rimettesse. Non parve a messer Agnolo che Cosimo, in questo giudicio, lo avesse come amico trattato; e non si essendo potuto contro a Cosimo, deliberò contro al figliuolo vendicarsi. Questi congiurati non di meno, in tanta diversità di umori, publicavano una medesima cagione, affermando volere che la città con i magistrati, e non con il consiglio di pochi, si governasse. Accrebbono oltra di questo gli odii verso Piero e le cagioni di morderlo molti mercatanti che in questo tempo fallirono: di che publicamente ne fu Piero incolpato, che, volendo, fuori di ogni espettazione, riavere i suoi danari, gli aveva fatti con vituperio e danno della città fallire. Aggiunsesi a questo che si praticava di dare per moglie la Clarice degli Orsini a Lorenzo suo primogenito; il che porse a ciascuno più larga materia di calunniarlo, dicendo come e’ si vedeva espresso, poi ch’egli voleva rifiutare per il figliuolo uno parentado fiorentino, che la città più come cittadino non lo capeva, e per ciò egli si preparava a occupare il principato: perché colui che non vuole i suoi cittadini per parenti gli vuole per servi, e per ciò è ragionevole che non gli abbia amici. Pareva a questi capi della sedizione avere la vittoria in mano, perché la maggior parte de’ cittadini, ingannati da quel nome della libertà che costoro, per adonestare la loro impresa, avevano preso per insegna, gli seguivano.
Ribollendo adunque questi umori per la città, parve ad alcuno di quelli a’ quali le civili discordie dispiacevano che si vedesse se con qualche nuova allegrezza si potessero fermare, perché il più delle volte i popoli oziosi sono strumento a chi vuole alterare. Per torre via adunque questo ozio, e dare che pensare agli uomini qualche cosa, che levassero il pensiero dello stato, sendo già passato l’anno che Cosimo era morto, presono occasione da che fusse bene rallegrare la città, e ordinorono due feste secondo l’altre che in quella città si fanno, solennissime: una che rappresentava quando i tre Re vennono di Oriente dietro alla stella che dimostrava la natività di Cristo; la quale era di tanta pompa e sì magnifica, che in ordinarla e farla teneva più mesi occupata tutta la città, l’altra fu uno torniamento (che così chiamano uno spettaculo che rappresenta una zuffa di uomini a cavallo) dove i primi giovani della città si esercitorono insieme con i più nominati cavalieri di Italia. E intra i giovani fiorentini il più reputato fu Lorenzo, primogenito di Piero, il quale, non per grazia, ma per proprio suo valore ne riportò il primo onore. Celebrati questi spettaculi, ritornorono ne’ cittadini i medesimi pensieri, e ciascuno con più studio che mai la sua opinione seguitava: di che dispareri e travagli grandi ne risultavano; i quali da duoi accidenti furono grandemente accresciuti: l’uno fu che l’autorità della balia mancò, l’altro la morte di Francesco duca di Milano. Donde che Galeazzo, nuovo duca, mandò a Firenze ambasciadori per confermare i capitoli che Francesco suo padre aveva con la città; in ne’ quali, tra le altre cose, si disponeva che qualunque anno si pagasse a quel duca certa somma di danari. Presono per tanto i principi contrari a’ Medici occasione da questa domanda, e publicamente, ne’ Consigli, a questa deliberazione si opposono, mostrando non con Galeazzo, ma con Francesco essere fatta l’amiciza, sì che, morto Francesco, era morto l’obligo; né ci era cagione di risuscitarlo, perché in Galeazzo non era quella virtù che era in Francesco, e per consequente non se ne doveva né poteva sperare quello utile; e se da Francesco si era avuto poco, da questo si arebbe meno; e se alcuno cittadino lo volesse soldare per la potenza sua, era cosa contro al vivere civile e alla libertà della città. Piero, allo incontro, mostrava che e’ non era bene una amicizia tanto necessaria per avarizia perderla, e che niuna cosa era tanto salutifera alla republica e a tutta Italia, quanto essere collegati con il duca, acciò che i Viniziani, veggendo loro uniti, non sperino, o per finta amicizia o per aperta guerra, opprimere quel ducato; perché non prima sentiranno i Fiorentini essere da quel duca alienati, ch’eglino aranno l’armi in mano contro di lui, e trovandolo giovane, nuovo nello stato e sanza amici, facilmente se lo potranno, o con inganno o con forza, guadagnare; e nell’uno e nell’altro caso vi si vedeva la rovina della republica.
Non erano accettate queste ragioni, e le nimicizie cominciorono a mostrarsi aperte, e ciascheduna delle parti di notte, in diverse compagnie conveniva, perché gli amici de’ Medici nella Crocetta, e gli avversarii nella Pietà si riducevano i quali, solleciti nella rovina di Piero, avevono fatto soscrivere come alla impresa loro favorevoli, molti cittadini. E trovandosi, tra le altre volte, una notte insieme, tennono particulare consiglio del modo di procedere loro; e a ciascuno piaceva diminuire la potenza de’ Medici, ma erano differenti nel modo. Una parte, la quale era la più temperata e modesta, voleva che, poi che gli era finita l’autorità della balia, che si attendessi ad obstare che la non si riassumesse; e fatto questo, ci era la intenzione di ciascuno, perché i Consigli e i magistrati governerebbono la città, e in poco tempo l’autorità di Piero si spegnerebbe; e verrebbe, con la perdita della reputazione dello stato, a perdere il credito nelle mercatanzie, perché le sustanze sue erano in termine che, se si teneva forte che e’ non si potessi de’ danari publici valere, era a rovinare necessitato; il che come fusse seguito, non ci era di lui più alcuno pericolo, e venivasi ad avere, sanza esili e sanza sangue, la sua libertà recuperata; il che ogni buono cittadino doveva desiderare. Ma se si cercava di adoperare la forza, si potrebbe in moltissimi pericoli incorrere; perché tale lascia cadere uno che cade da sé, che, se gli è spinto da altri, lo sostiene. Oltra di questo, quando non si ordinasse alcuna cosa straordinaria contro a di lui, non arebbe cagione di armarsi o di cercare amici; e quando e’ lo facessi, sarebbe con tanto suo carico, e genererebbe in ogni uomo tanto sospetto, che farebbe a sé più facile la rovina e ad altri darebbe maggiore occasione di opprimerlo. A molti altri de’ ragunati non piaceva questa lunghezza, affermando come il tempo era per favorire lui e non loro: perché, se si voltavano ad essere contenti alle cose ordinarie, Piero non portava pericolo alcuno, e loro ne correvono molti, perché i magistrati suoi nimici gli lasceranno godere la città, e gli amici lo faranno, con la rovina loro, come intervenne nel ’58, principe. E se il consiglio dato era da uomini buoni, questo era da uomini savi; e per ciò, mentre che gli uomini erano infiammati contro a di lui, conveniva spegnerlo. Il modo era: armarsi dentro, e fuori soldare il marchese di Ferrara, per non essere disarmato; e quando la sorte dessi di avere una Signoria amica, essere parati ad assicurarsene. Rimasono per tanto in questa sentenza: che si aspettasse la nuova Signoria, e secondo quella governarsi. Trovavasi intra questi congiurati ser Niccolò Fedini il quale tra loro come cancelliere si esercitava. Costui, tirato da più certa speranza, rivelò tutte le pratiche tenute da’ suoi inimici a Piero, e la listra de’ congiurati e de’ soscritti gli portò. Sbigottissi Piero, vedendo il numero e la qualità de’ cittadini che gli erano contro, e consigliatosi con gli amici, deliberò ancora egli fare degli amici suoi una soscrizione; e dato di questa impresa la cura ad alcuno de’ più suoi fidati, trovò tanta varietà e instabilità negli animi de’ cittadini, che molti de’ soscritti contro di lui ancora in favore suo si soscrissono.
Mentre che queste cose in questa maniera si travagliavano, venne il tempo che il supremo magistrato si rinnuova; al quale per gonfalonieri di giustizia fu Niccolò Soderini assunto. Fu cosa maravigliosa a vedere con quanto concorso non solamente di onorati cittadini ma di tutto il popolo, e’ fusse al Palazzo accompagnato; e per il cammino gli fu posta una grillanda di ulivo in testa, per mostrare che da quello avesse e la salute e la libertà di quella patria a dependere. Vedesi, per questa e per molte altre esperienze, come non è cosa desiderabile prendere o uno magistrato o uno principato con estraordinaria opinione; perché, non potendosi con le opere a quella corrispondere, desiderando più gli uomini, che non possono conseguire, ti partorisce, con il tempo, disonore e infamia. Erano messer Tommaso Soderini e Niccolò fratelli: era Niccolò più feroce e animoso; messer Tommaso più savio. Questi, perché era a Piero amicissimo, cognosciuto l’umore del fratello, come egli desiderava solo la libertà della città e che sanza offesa di alcuno lo stato si fermasse, lo confortò a fare nuovo squittino, mediante il quale le borse de’ cittadini che amassero il vivere libero si riempiessero; il che fatto, si verrebbe a fermare e assicurare lo stato sanza tumulto e sanza ingiuria di alcuno, secondo la volontà sua. Credette facilmente Niccolò a’ consigli del fratello, e attese in questi vani pensieri a consumare il tempo del suo magistrato; e dai capi de’ congiurati, suoi amici, gli fu lasciato consumare, come quelli che per invidia non volevono che lo stato con l’autorità di Niccolò si rinnovasse, e sempre credevano con uno altro gonfaloniere essere a tempo ad operare il medesimo. Venne per tanto il fine del magistrato di Niccolò, e avendo cominciate assai cose e non ne fornite alcuna, lasciò quello assai più disonorevolmente, che onorevolemente non lo aveva preso.
Questo esemplo fece la parte di Piero più gagliarda; e gli amici suoi più nella speranza si confermorono, e quelli che erano neutrali a Piero si aderirono; tal che, essendo le cose pareggiate, più mesi sanza altro tumulto si temporeggiorono. Non di meno la parte di Piero sempre pigliava più forze; onde che gli inimici si risentirono e si ristrinsono insieme, e quello che non avevono saputo o voluto fare per il mezzo de’ magistrati e facilmente, pensorono di fare per forza; e conclusono di fare ammazzare Piero, che, infermo, si trovava a Careggi; e a questo effetto fare venire il marchese di Ferrara con le genti verso la città; e morto Piero, venire armati in Piazza, e fare che la Signoria fermassi uno stato secondo la volontà loro; perché, sebbene tutta non era loro amica, speravano quella parte che fusse contraria farla per paura cedere. Messer Dietisalvi, per celare meglio lo animo suo, vicitava Piero spesso, e ragionavali della unione della città, e lo consigliava. Erano state a Piero rivelate tutte queste pratiche; e di più messer Domenico Martelli gli fece intendere come Francesco Neroni, fratello di messer Dietisalvi, lo aveva sollecitato a volere essere con loro, mostrandogli la vittoria certa e il partito vinto. Onde che Piero deliberò di essere il primo a prender le armi; e prese la occasione dalle pratiche tenute da’ suoi avversarii con il marchese di Ferrara. Finse per tanto avere ricevuta una lettera da messer Giovanni Bentivogli principe in Bologna, che gli significava come il marchese di Ferrara si trovava sopra il fiume Albo con gente, e che publicamente dicevono venire a Firenze. E così, sopra questo avviso, Piero prese l’arme, e in mezzo d’una grande moltitudine di armati ne venne a Firenze. Dopo il quale tutti quelli che seguivono le parti sue si armorono; e la parte avversa fece il simile; ma con migliore ordine quella di Piero, come coloro che erano preparati, e quegli altri non erano ancora secondo il disegno loro a ordine. Messer Dietisalvi, per avere le sue case propinque a quelle di Piero, in esse non si teneva securo; ma ora andava in Palazzo a confortare la Signoria a fare che Piero posasse l’arme, ora a trovare messer Luca, per tenerlo fermo nelle parti loro. Ma di tutti si mostrò più vivo che alcuno Niccolò Soderini, il quale prese l’arme, e fu seguitato quasi che da tutta la plebe del suo quartiere, e ne andò alle case di messer Luca, e lo pregò montasse a cavallo e venisse in Piazza a’ favori della Signoria, che era per loro; dove senza dubio s’arebbe la vittoria certa, e non volesse, standosi in casa, essere o dagli armati nimici vilmente oppresso, o dai disarmati vituperosamente ingannato; e che a ora si pentirebbe non avere fatto, che non sarebbe a tempo a fare; e che, se e’ voleva con la guerra la rovina di Piero, egli poteva facilmente averla; se voleva la pace, era molto meglio essere in termine da dare, non ricevere, le condizioni di quella. Non mossono queste parole messer Luca, come quello che aveva già posato lo animo, ed era stato da Piero, con promesse di nuovi parentadi e nuove condizioni, svolto; perché avevano con Giovanni Tornabuoni una sua nipote in matrimonio congiunta. In modo che confortò Niccolò a posare l’armi e tornarsene a casa; perché e’ doveva bastargli che la città si governasse con i magistrati; e così seguirebbe, e che le arme ogni uomo le poserebbe, e i Signori, dove loro avevono più parte, sarebbono giudici delle differenze loro. Non potendo adunque Niccolò altrimenti disporlo, se ne tornò a casa; ma prima gli disse: - Io non posso, solo, fare bene alla mia città; ma io posso bene pronosticarle il male: questo partito che voi pigliate farà alla patria nostra perdere la sua libertà, a voi lo stato e le sustanze, a me e agli altri la patria.
La Signoria, in questo tumulto, aveva chiuso il Palazzo, e con i suoi magistrati si era ristretta, non mostrando favore ad alcuna delle parti. I cittadini, e massimamente quegli che avevano seguite le parti di messer Luca, veggendo Piero armato e gli avversarii disarmati, cominciorono a pensare, non come avessino a offendere Piero, ma come avessino a diventare suoi amici. Donde che i primi cittadini, capi delle fazioni, convennono in Palazzo, alla presenza della Signoria, dove molte cose dello stato della città, molte della reconciliazione di quella ragionorono. E perché Piero, per la debilità del corpo, non vi poteva intervenire, tutti d’accordo deliberorono andare alle sue case a trovarlo, eccetto che Niccolò Soderini, il quale, avendo prima raccomandato i suoi figliuoli e le sue cose a messer Tommaso, se ne andò nella sua villa, per aspettare quivi il fine della cosa, il quale reputava a sé infelice e alla patria sua dannoso. Arrivati per tanto gli altri cittadini da Piero, uno di quelli, a chi era stato commesso il parlare, si dolfe de’ tumulti nati nella città, mostrando come di quelli aveva maggiore colpa chi aveva prima prese l’arme; e non sapendo quello che Piero, che era stato il primo a pigliarle, si volesse, erano venuti per intendere la volontà sua, e quando la fusse al bene della città conforme, erano per seguirla. Alle quali parole Piero rispose come, non quello che prende prima le arme è cagione degli scandoli, ma colui che è primo a dare cagione che le si prendino; e se pensassero più quali erano stati i modi loro verso di lui, si maraviglierebbono meno di quello che per salvare sé avesse fatto: perché vedrebbono che le convenzioni notturne, le soscrizioni, le pratiche di torgli la città e la vita lo avevono fatto armare; le quali arme non avendo mosse dalle case sue, facevano manifesto segno dello animo suo, come per difendere sé, non per offendere altri, le aveva prese. Né voleva altro, né altro desiderava che la securtà o la quiete sua; né aveva mai dato segno di sé di desiderare altro; perché, mancata l’autorità della balia, non pensò mai alcuno estraordinario modo per renderliene, ed era molto contento che i magistrati governassero la città, contentandosene quelli. E che si dovevono ricordare come Cosimo e i figliuoli sapevono vivere in Firenze, con la balia e sanza la balia, onorati; e nel ’58, non la casa sua, ma loro la avevano riassunta; e che, se ora non la volevono, che non la voleva ancora egli; ma che questo non bastava loro, perché aveva veduto che non credevono potere stare in Firenze standovi egli. Cosa veramente che non arebbe mai, non che creduta, pensata, che gli amici suoi e del padre non credessero potere vivere in Firenze con lui, non avendo mai dato altro segno di sé, che di quieto e pacifico uomo. Poi volse il suo parlare a messer Dietisalvi e ai fratelli, che erano presenti, e rimproverò loro, con parole gravi e piene di sdegno, i beneficii ricevuti da Cosimo, la fede avuta in quelli e la grande ingratitudine loro. E furono di tanta forza le sue parole, che alcuni de’ presenti in tanto si commossono, che, se Piero non li raffrenava, gli arebbono con l’arme manomessi. Concluse alla fine Piero, che era per approvare tutto quello che loro e la Signoria deliberassero, e che da lui non si domandava altro che vivere quieto e securo. Fu sopra questo parlato di molte cose, né per allora deliberatone alcuna, se non generalmente che gli era necessario riformare la città e dare nuovo ordine allo stato.
Sedeva in quelli tempi gonfaloniere di giustizia Bernardo Lotti, uomo non confidente a Piero, in modo che non gli parve, mentre che quello era in magistrato, da tentare cosa alcuna, il che non giudicò importante molto, sendo propinquo al fine del magistrato suo. Ma venuta la elezione de’ Signori i quali di settembre e di ottobre seggono, l’anno 1466, fu eletto al sommo magistrato Ruberto Lioni; il quale, subito che ebbe preso il magistrato, sendo tutte le altre cose preparate, chiamò il popolo in Piazza, e fece nuova balia, tutta della parte di Piero; la quale poco di poi creò i magistrati secondo la volontà del nuovo stato. Le quali cose spaurirono i capi della fazione nimica; e messer Agnolo Acciaiuoli si fuggì a Napoli, messer Dietisalvi Neroni e Niccolò Soderini a Vinegia, messer Luca Pitti si restò in Firenze, confidandosi nelle promesse fattegli da Piero e nel nuovo parentado. Furono quelli che si erano fuggiti declarati rebelli, e tutta la famiglia de’ Neroni fu dispersa; e messer Giovanni di Nerone, allora arcivescovo di Firenze, per fuggire maggiore male, si elesse voluntario esilio a Roma. Furono molti altri cittadini, che subito si partirono, in varii luoghi confinati. Né bastò questo, che si ordinò una processione per ringraziare Iddio dello stato conservato e della città riunita; nella solennità della quale furono alcuni cittadini presi e tormentati, e di poi parte di loro morti e parte posti in esilio. Né in questa variazione di cose fu esemplo tanto notabile quanto quello di messer Luca Pitti; perché subito si cognobbe la differenza quale è dalla vittoria alla perdita, da il disonore all’onore. Vedevasi nelle sue case una solitudine grandissima, dove prima erano da moltissimi cittadini frequentate; per la strada gli amici, i parenti, non che di accompagnarlo, ma di salutarlo temevano, perché a parte di essi erano stati tolti gli onori e a parte la roba, e tutti parimente minacciati; i superbi edifici che gli aveva cominciati furono dagli edificatori abbandonati; i beneficii che gli erano per lo adietro stati fatti si convertirono in ingiurie, gli onori in vituperii; onde che molti di quelli che gli avieno per grazia alcuna cosa donata di grande prezzo, come cosa prestata ridomandavano; e quelli altri che solevono insino al cielo lodarlo, come uomo ingrato e violento lo biasimavano. Tal che si pentì, tardi, non avere a Niccolò Soderini creduto e cercò più tosto di morire onorato con le armi in mano, che vivere intra i vittoriosi suoi nimici disonorato.
Quelli che si trovavano cacciati cominciorono a pensare infra loro varii modi di racquistare quella città che non si avevano saputo conservare. Messer Agnolo Acciaiuoli non di meno, trovandosi a Napoli, prima che pensasse di innovare cosa alcuna, volle tentare l’animo di Piero, per vedere se poteva sperare di riconciliarsi seco; e scrissegli una lettera in questa sentenza: - Io mi rido de’ giuochi della fortuna, e come a sua posta ella fa gli amici diventare nimici, e gli nimici amici. Tu ti puoi ricordare come, nello esilio di tuo padre, stimando più quella ingiuria che i pericoli miei, io ne perdei la patria, e fui per perderne la vita; né ho mai, mentre sono vivuto con Cosimo, mancato di onorare e favorire la casa vostra né dopo la sua morte ho avuto animo di offenderti. Vero è che la tua mala complessione, la tenera età de’ tuoi figliuoli in modo mi sbigottivono, che io giudicai che fusse da dare tal forma allo stato, che dopo la tua morte la patria nostra non rovinasse. Da questo sono nate le cose fatte, non contro a te, ma in benifizio della patria mia; il che, se pure è stato errore, merita e dalla mia buona mente e dalle opere mie passate essere cancellato. Né posso credere, avendo la casa tua trovato in me, tanto tempo, tanta fede, non trovare ora in te misericordia, e che tanti miei meriti da un solo fallo debbino essere destrutti. - Piero, ricevuta questa lettera, così gli rispose: - Il ridere tuo costì è cagione che io non pianga; perché, se tu ridessi a Firenze, io piangerei a Napoli. Io confesso che tu hai voluto bene a mio padre; e tu confesserai di averne da quello ricevuto; in modo che tanto più era l’obligo tuo che il nostro, quanto si debbono stimare più i fatti che le parole. Sendo tu stato adunque del tuo bene ricompensato, non ti debbi ora maravigliare se del male ne riporti giusti premii. Né ti scusa lo amore della patria; perché non sarà mai alcuno che creda questa città essere stata meno amata e accresciuta dai Medici che dagli Acciaiuoli. Vivi per tanto disonorato costì, poi che qui onorato vivere non hai saputo.
Disperato per tanto messer Agnolo di potere impetrare perdono, se ne venne a Roma, e accozzossi con lo Arcivescovo e altri fuori usciti, e con quelli termini potette più vivi si sforzorono di torre il credito alla ragione de’ Medici che in Roma si travagliava; a che Piero con difficultà provide; pure, aiutato dagli amici, fallì il disegno loro. Messer Dietisalvi dall’altra parte e Niccolò Soderini con ogni diligenza cercorono di muovere il Senato viniziano contra alla patria loro, giudicando che, se i Fiorentini fussero da nuova guerra assaliti per essere lo stato loro nuovo e odiato, che non potrieno sostenerla. Trovavasi in quel tempo a Ferrara Giovan Francesco, figliuolo di messer Palla Strozzi, il quale era, nella mutazione del ’34, stato cacciato con il padre da Firenze. Aveva costui credito grande ed era, secondo gli altri mercatanti, estimato ricchissimo. Mostrorono questi nuovi ribelli a Giovan Francesco la facilità del ripatriarsi, quando e Viniziani ne facessero impresa; e facilmente credevono la farieno, quando si potesse in qualche parte contribuire alla spesa; dove altrimenti ne dubitavano. Giovan Francesco, il quale desiderava vendicarsi delle ingiurie ricevute, credette facilmente a’ consigli di costoro, e promesse essere contento concorrere a questa impresa con tutte le sue facultà. Donde che quelli se ne andorono al Doge, e con quello si dolfono dello esilio, il quale non per altro errore dicevano sopportare, che per avere voluto che la patria loro con le leggi sue vivesse e che i magistrati, e non i pochi cittadini, si onorassero: perché Piero de’ Medici con altri, suoi seguaci, i quali erano a vivere tirannicamente consueti, avevono con inganno prese le armi, con inganno fattole posare a loro, e con inganno cacciatigli poi della loro patria; né furono contenti a questo, che eglino usorono mezzano Iddio ad opprimere molti altri che sotto la fede data erano rimasi nella città; e come nelle publiche e sacre cerimonie e solenni supplicazioni, acciò che Iddio de’ loro tradimenti fusse partecipe, furono molti cittadini incarcerati e morti: cosa d’uno impio e nefando esemplo. Il che per vendicare non sapevono dove con più speranza si potere ricorrere che a quel Senato; il quale, per essere sempre stato libero, doverrebbe di coloro avere compassione che avessero la sua libertà perduta. Concitavano adunque contro a’ tiranni gli uomini liberi, contro agli impii i pietosi; e che si ricordassero come la famiglia de’ Medici aveva tolto loro lo imperio di Lombardia, quando Cosimo, fuora della volontà degli altri cittadini, contro a quel Senato favorì e suvvenne Francesco; tanto che, se la giusta causa loro non li moveva, il giusto odio e giusto desiderio di vendicarsi muovere gli doverrebbe.
Queste ultime parole tutto quel Senato commossono; e deliberorono che Bartolomeo Colione, loro capitano, assalisse il dominio fiorentino. E quanto si potette prima fu insieme lo esercito; con il quale si accostò Ercule da Esti, mandato da Borso marchese di Ferrara. Costoro, nel primo assalto, non sendo ancora i Fiorentini ad ordine, arsono il borgo di Dovadola e feciono alcuni danni nel paese allo intorno. Ma i Fiorentini, cacciata che fu la parte nimica a Piero, avieno con Galeazzo duca di Milano e con il re Ferrando fatta nuova lega, e per loro capitano condotto Federigo conte di Urbino, in modo che trovandosi ad ordine con gli amici, stimorono meno i nimici; perché Ferrando mandò Alfonso suo primogenito, e Galeazzo venne in persona, e ciascheduno con conveniente forze; e feciono tutti testa a Castracaro, castello de’ Fiorentini posto nelle radici delle alpi che scendono dalla Toscana in Romagna. I nimici, in quel mezzo, si erano ritirati verso Imola; e così fra l’uno e l’altro esercito seguivano, secondo i costumi di que’ tempi, alcune leggieri zuffe; né per l’uno né per l’altro si assalì o campeggiò terre, né si dette copia al nimico di venire a giornata; ma standosi ciascuno nelle sue tende, ciascuno con maravigliosa viltà si governava. Questa cosa dispiaceva a Firenze; perché si vedeva essere oppressa da una guerra nella quale si spendeva assai e si poteva sperare poco; e i magistrati se ne dolfono con quelli cittadini ch’eglino avieno a quella impresa deputati commissari. I quali risposono essere di tutto il duca Galeazzo cagione, il quale, per avere assai autorità e poca esperienza, non sapeva prendere partiti utili, né prestava fede a quelli che sapevono; e come gli era impossibile, mentre quello nello esercito dimorava, che si potesse alcuna cosa virtuosa o utile operare. Feciono i Fiorentini per tanto intendere a quel Duca come gli era loro commodo e utile assai che personalmente e’ fussi venuto agli aiuti loro, perché sola tale reputazione era atta a potere sbigottire i nimici, non di meno stimavano molto più la salute sua e del suo stato che i commodi propri, perché, salvo quello, ogni altra cosa speravano prospera, ma patendo quello, temevono ogni avversità. Non giudicavano per tanto cosa molto secura che egli molto tempo dimorasse assente da Milano, sendo nuovo nello stato, e avendo i vicini potenti e sospetti, talmente che chi volesse macchinare cosa alcuna controgli, potrebbe facilmente. Donde che lo confortavano a tornarsene nel suo stato e lasciare parte delle genti per la difesa loro. Piacque a Galeazzo questo consiglio e sanza altro pensare se ne tornò a Milano. Rimasi adunque i capitani de’ Fiorentini sanza questo impedimento, per dimostrare che fusse vera la cagione che del lento loro procedere avevano accusata, si strinsono più al nimico, in modo che vennono ad una ordinata zuffa, la quale durò mezzo un giorno, sanza che niuna delle parti inclinasse. Nondimeno non vi morì alcuno: solo vi furno alcuni cavagli feriti, e certi prigioni da ogni parte presi. Era già venuto il verno e il tempo che gli eserciti erano consueti ridursi alle stanze, per tanto messer Bartolomeo si ritirò verso Ravenna, le genti fiorentine in Toscana; quelle del Re e del Duca ciascuna negli stati de’ loro signori si ridussono. Ma da poi che per questo assalto non si era sentito alcuno moto in Firenze, secondo che i rebelli fiorentini avieno promesso, e mancando il soldo alle genti condotte, si trattò l’accordo, e dopo non molte pratiche fu concluso. Per tanto i rebelli fiorentini, privi d’ogni speranza, in varii luoghi si partirono: messer Dietisalvi si ridusse a Ferrara, dove fu dal marchese Borso ricevuto e nutrito; Niccolò Soderini se ne andò a Ravenna, dove con una piccola provisione avuta da’ Viniziani invecchiò e morì. Fu costui tenuto uomo giusto e animoso, ma nel risolversi dubio e lento, il che fece che, gonfaloniere di giustizia, ei perdé quella occasione del vincere che di poi, privato, volle racquistare e non potette.
Seguita la pace, quelli cittadini che erano rimasi in Firenze superiori non parendo loro avere vinto, se con ogni ingiuria, non solamente i nimici, ma i sospetti alla parte loro non affliggevano, operorono con Bardo Altoviti, che sedeva gonfaloniere di giustizia, che di nuovo a molti cittadini togliessi gli onori, a molti altri la città. La qual cosa crebbe a loro potenza, e agli altri spavento; la qual potenza sanza alcuno rispetto esercitavano, e in modo si governavano, che pareva che Iddio e la fortuna avesse dato loro quella città in preda. Delle quali cose Piero poche ne intendeva, e a quelle poche non poteva, per essere dalla infirmità oppresso, rimediare; perché era in modo contratto, che d’altro che della lingua non si poteva valere. Né ci poteva fare altri rimedi che ammunirli e pregarli dovessero civilmente vivere e godersi la loro patria salva più tosto che destrutta. E per rallegrare la città, deliberò di celebrare magnificamente le nozze di Lorenzo suo figliuolo, con il quale la Clarice nata di casa Orsina aveva congiunta; le quali nozze furono fatte con quella pompa di apparati e di ogni altra magnificenza che a tanto uomo si richiedeva; dove più giorni in nuovi ordini di balli, di conviti e di antiche rapresentazioni si consumorono. Alle quali cose si aggiunse, per mostrare più la grandezza della casa de’ Medici e dello stato, duoi spettaculi militari: l’uno fatto dagli uomini a cavallo, dove una campale zuffa si rapresentò; l’altro una espugnazione di una terra dimostrò; le quali cose con quello ordine furono fatte e con quella virtù esequite, che si potette maggiore.
Mentre che queste cose in questa maniera in Firenze procedevano, il resto della Italia viveva quietamente, ma con sospetto grande della potenza del Turco, il quale con le sue imprese seguiva di combattere i Cristiani e aveva espugnato Negroponte, con grande infamia e danno del nome cristiano. Morì, in questi tempi, Borso marchese di Ferrara, e a quello successe Ercule suo fratello. Morì Gismondo da Rimino, perpetuo nimico alla Chiesa, ed erede del suo stato rimase Ruberto, suo naturale figliuolo, il quale fu poi intra i capitani di Italia nella guerra eccellentissimo. Morì papa Paulo, e fu a lui creato successore Sisto IV, detto prima Francesco da Savona, uomo di bassissima e vile condizione; ma per le sue virtù era divenuto generale dell’ordine di San Francesco, e di poi cardinale. Fu questo pontefice il primo che cominciasse a mostrare quanto uno pontefice poteva, e come molte cose, chiamate per lo adietro errori, si potevono sotto la pontificale autorità nascondere. Aveva intra la sua famiglia Pietro e Girolamo, i quali, secondo che ciascuno credeva, erano suoi figliuoli; non di manco sotto altri più onesti nomi gli palliava. Piero, perché era frate, condusse alla dignità del cardinalato, del titolo di San Sisto; a Girolamo dette la città di Furlì, e tolsela ad Antonio Ordelaffi, i maggiori del quale erano di quella città stati lungo tempo principi. Questo modo di procedere ambizioso lo fece più dai principi di Italia stimare, e ciascuno cercò di farselo amico; e perciò il duca di Milano dette per moglie a Girolamo la Caterina, sua figliuola naturale, e per dote di quella la città di Imola, della quale aveva spogliato Taddeo degli Alidosi. Intra questo duca ancora e il re Ferrando si contrasse nuovo parentado, perché Elisabella, nata d’Alfonso primogenito del Re, con Giovan Galeazzo, primo figliuolo del Duca, si congiunse.
Vivevasi per tanto in Italia assai quietamente, e la maggior cura di quelli principi era di osservare l’uno l’altro, e con parentadi, nuove amicizie e leghe, l’uno dell’altro assicurarsi. Non di meno, in tanta pace, Firenze era da’ suoi cittadini grandemente afflitta, e Piero alla ambizione loro, dalla malattia impedito, non poteva opporsi. Non di meno, per sgravare la sua conscienza, e per vedere se poteva farli vergognare, gli chiamò tutti in casa, e parlò loro in questa sentenza: - Io non arei mai creduto che potesse venire tempo che i modi e costumi degli amici mi avessero a fare amare e desiderare i nimici, e la vittoria la perdita; perché io mi pensava avere in compagnia uomini che nelle cupidità loro avessero qualche termine o misura, e che bastasse loro vivere nella loro patria securi e onorati, e di più, de’ loro nimici vendicati. Ma io cognosco ora come io mi sono di gran lunga ingannato, come quello che cognosceva poco la naturale ambizione di tutti gli uomini, e meno la vostra: perché non vi basta essere in tanta città principi e avere voi pochi quegli onori, dignità e utili de’ quali già molti cittadini si solevono onorare; non vi basta avere intra voi divisi i beni de’ nimici vostri; non vi basta potere tutti gli altri affliggere con i publici carichi, e voi, liberi da quelli, avere tutte le publiche utilità; che voi con ogni qualità di ingiuria ciascheduno affliggete. Voi spogliate de’ suoi beni il vicino, voi vendete la giustizia, voi fuggite i giudicii civili, voi oppressate gli uomini pacifici, e gli insolenti esaltate. Né credo che sia in tutta Italia tanti esempli di violenza e di avarizia, quanti sono in questa città. Dunque questa nostra patria ci ha dato la vita perché noi la togliamo a lei? ci ha fatti vittoriosi perché noi la distruggiamo? ci onora perché noi la vituperiamo? Io vi prometto per quella fede che si debbe dare e ricevere dagli uomini buoni, che, se voi seguiterete di portarvi in modo che io mi abbi a pentire di avere vinto, io ancora mi porterò in maniera che voi vi pentirete di avere male usata la vittoria. - Risposono quelli cittadini secondo il tempo e il luogo accomodatamente; non di meno dalle loro sinistre operazioni non si ritrassono. Tanto che Piero fece venire celatamente messer Agnolo Acciaiuoli in Cafaggiuolo, e con quello parlò a lungo delle condizioni della città: né si dubita punto che, se non era dalla morte interrotto, che gli avesse tutti i fuorusciti per frenare le rapine di quegli di dentro alla patria restituiti. Ma a questi suoi onestissimi pensieri si oppose la morte; perché, aggravato dal male del corpo e dalle angustie dello animo, si morì l’anno della età sua cinquantatreesimo. La virtù e bontà del quale la patria sua non potette interamente cognoscere, per essere stato da Cosimo suo padre infino quasi che allo estremo della sua vita accompagnato, e per avere quelli pochi anni che sopravisse nelle contenzioni civili e nella infirmità consumati. Fu sotterrato Piero nel tempio di San Lorenzo, propinquo al padre; e furno le sue esequie fatte con quella pompa che tanto cittadino meritava. Rimasono di lui duoi figliuoli, Lorenzo e Giuliano, i quali benché dessero a ciascheduno speranza di dovere essere uomini alla repubblica utilissimi, non di meno la loro gioventù sbigottiva ciascuno.
Era in Firenze intra i primi cittadini del governo, e molto di lunga agli altri superiore, messer Tommaso Soderini, la cui prudenza e autorità, non solo in Firenze, ma appresso a tutti i principi di Italia era nota. Questi, dopo la morte di Piero, da tutta la città era osservato; e molti cittadini alle sue case, come capo della città, lo vicitorono, molti principi gli scrissono. Ma egli, che era prudente e che ottimamente la fortuna sua e di quella casa cognosceva, alle lettere de’ principi non rispose, e a’ cittadini fece intendere come, non le sue case, ma quelle de’ Medici si avevano a vicitare. E per mostrare con l’effetto quello che con i conforti aveva dimostro, ragunò tutti i primi delle famiglie nobili nel convento di Santo Antonio, dove fece ancora Lorenzo e Giuliano de’ Medici venire; e quivi disputò, con una lunga e grave orazione, delle condizioni della città, di quelle di Italia e degli umori de’ principi d’essa, e concluse che, se volevano che in Firenze si vivesse unito e in pace, e dalle divisioni di dentro e dalle guerre di fuora securo, era necessario osservare quegli giovani e a quella casa la reputazione mantenere: perché gli uomini di fare le cose che sono fare consueti mai non si dolgono, le nuove, come presto si pigliano, così ancora presto si lasciano, e sempre fu più facile mantenere una potenza la quale con la lunghezza del tempo abbia spenta la invidia, che suscitarne una nuova la quale per moltissime cagioni si possa facilmente spegnere. Parlò, apresso a messer Tommaso, Lorenzo, e benché fusse giovane, con tanta gravità e modestia, che dette a ciascheduno speranza di essere quello che di poi divenne. E prima partissero di quel luogo, quegli cittadini giurorono di prendergli in figliuoli, e loro in padri. Restati adunque in questa conclusione, erano Lorenzo e Giuliano come principi dello stato onorati; e quelli dal consiglio di messer Tommaso non si partivano.
E vivendosi assai quietamente dentro e fuora, non sendo guerra che la comune quiete perturbasse, nacque uno inopinato tumulto, il quale fu come un presagio de’ futuri danni. Intra le famiglie le quali con la parte di messer Luca Pitti rovinorono fu quella de’ Nardi; perché Salvestro e i frategli, capi di quella famiglia, furono prima mandati in esilio, e di poi, per la guerra che mosse Bartolommeo Colioni, fatti rebelli. Intra questi era Bernardo, fratello di Salvestro, giovane pronto e animoso. Costui, non potendo, per la povertà, sopportare lo esilio, né veggendo, per la pace fatta, modo alcuno al ritorno suo, deliberò di tentare qualche cosa da potere, mediante quella, dare cagione ad una nuova guerra: perché molte volte un debile principio partorisce gagliardi effetti, con ciò sia che gli uomini sieno più pronti a seguire una cosa mossa che a muoverla. Aveva Bernardo conoscenza grande in Prato, e nel contado di Pistoia grandissima, e massimamente con quelli del Palandra, famiglia, ancora che contadina, piena di uomini, e secondo gli altri Pistolesi, nelle armi e nel sangue nutriti. Sapeva come costoro erano mal contenti, per essere stati in quelle loro nimicizie da’ magistrati fiorentini male trattati. Conosceva oltre a di questo gli umori de’ Pratesi, e come e’ pareva loro essere superbamente e avaramente governati; e di alcuno sapeva il male animo contro allo stato. In modo che tutte queste cose gli davano speranza di potere accendere un fuoco in Toscana, faccendo ribellare Prato, dove poi concorressero tanti a nutrirlo, che quelli che lo volessero spegnere non bastassero. Comunicò questo suo pensiero con messer Dietisalvi; e lo domandò, quando lo occupare Prato gli riuscisse, quali aiuti potesse, mediante lui, dai principi sperare. Parve a messer Dietisalvi la impresa pericolosissima e quasi impossibile a riuscire: non di meno, veggendo di potere, con il pericolo d’altri, di nuovo tentare la fortuna, lo confortò al fatto, promettendogli da Bologna e da Ferrara aiuti certissimi, quando gli operasse in modo che tenesse e difendesse Prato almeno quindici giorni. Ripieno adunque Bernardo, per questa promessa, d’una felice speranza, si condusse celatamente a Prato, e comunicata la cosa con alcuni, li trovò dispostissimi. Il quale animo e volontà trovò ancora in quelli del Palandra, e convenuti insieme del tempo e del modo, fece Bernardo il tutto a messer Dietisalvi intendere.
Era podestà di Prato per il popolo di Firenze Cesare Petrucci. Hanno questi simili governatori di terre consuetudine di tenere le chiavi delle porti appresso di loro; e qualunque volta, ne’ tempi massime non sospetti, alcuno della terra le domanda, per uscire o entrare di notte in quella, gliene concedono. Bernardo, che sapeva questo costume, propinquo al giorno, insieme con quelli del Palandra e circa cento armati, alla porta che guarda verso Pistoia si presentò; e quelli che, dentro, sapevano il fatto ancora s’armorono; uno de’ quali domandò al Podestà le chiavi, fingendo che uno della terra per entrare le domandasse. Il Podestà, che niente d’uno simile accidente poteva dubitare, mandò uno suo servidore con quelle: al quale, come fu alquanto dilungatosi dal Palagio, furono tolte da’ congiurati; e aperta la porta, fu Bernardo con i suoi armati intromesso, e convenuti insieme, in due parti si divisono, una delle quali, guidata da Salvestro Pratese, occupò la cittadella, l’altra, insieme con Bernardo, prese il Palagio, e Cesare con tutta la sua famiglia dierono in guardia ad alcuni di loro. Di poi levorono il romore, e per la terra andavano il nome della libertà gridando. Era già apparito il giorno, e a quel romore molti popolani corsono in Piazza, e intendendo come la rocca e il Palagio erano stati occupati e il Podestà con i suoi preso, stavano ammirati donde potesse questo accidente nascere. Gli Otto cittadini che tengono in quella terra il supremo grado nel palagio loro convennono, per consigliarsi di quello fussi da fare. Ma Bernardo e i suoi, corso che gli ebbe un tempo per la terra, e veggendo di non essere seguito da alcuno, poi che gli intese gli Otto essere insieme, se n’andò da quelli; e narrò la cagione della impresa sua essere volere liberare loro e la patria sua dalla servitù; e quanta gloria sarebbe a quelli, se prendevono l’arme e in questa gloriosa impresa lo accompagnavano, dove acquisterieno quiete perpetua ed eterna fama. Ricordò loro l’antica loro libertà e le presenti condizioni; mostrò gli aiuti certi, quando e’ volessero, pochissimi giorni, a quelle tante forze che i Fiorentini potessero mettere insieme opporsi; affermò di avere intelligenza in Firenze, la quale si dimosterrebbe subito che si intendesse quella terra essere unita a seguirlo. Non si mossono gli Otto per quelle parole; e gli risposono non sapere se Firenze si viveva libera o serva, come cosa che a loro non si aspettava intenderla; ma che sapevano bene che per loro non si desiderò mai altra libertà che servire a quegli magistrati che Firenze governavano, da’ quali mai non avevono ricevuta tale ingiuria che gli avessero a prendere l’armi contro a quelli. Per tanto lo confortavano a lasciare il Podestà nella sua libertà, e la terra libera dalle sue genti; e sé da quel pericolo con prestezza traessi nel quale con poca prudenza era entrato. Non si sbigottì Bernardo per queste parole, ma deliberò di vedere se la paura moveva i Pratesi, poi che i prieghi non li movevono: e per spaventargli pensò di fare morire Cesare, e tratto quello di prigione, comandò che fusse alle finestre del Palagio appiccato. Era già Cesare propinquo alle finestre, con il capestro al collo, quando ei vide Bernardo che sollecitava la sua morte. Al quale voltosi disse: - Bernardo, tu mi fai morire, credendo essere di poi dai Pratesi seguitato: ed egli ti riuscirà il contrario; perché la reverenzia che questo popolo ha agli rettori che ci manda il popolo di Firenze è tanta che, come ei si vedrà questa ingiuria fattami, ti conciterà tanto odio contro, che ti partorirà la tua rovina. Per tanto non la morte, ma la vita mia puote essere cagione della vittoria tua: perché, se io comanderò loro quello che ti parrà, più facilmente a me che a te ubbidiranno; e seguendo io gli ordini tuoi, ci verrai ad avere la intenzione tua. - Parve a Bernardo, come quello che era scarso di partiti, questo consiglio buono; e gli comandò che, venuto sopra uno verone che risponde in Piazza, comandasse al popolo che lo ubbidisse. La quale cosa fatta che Cesare ebbe, fu riposto in prigione.
Era già la debolezza de’ congiurati scoperta; e molti Fiorentini che abitavano la terra erano convenuti insieme, intra i quali era messer Giorgio Ginori, cavaliere di Rodi. Costui fu il primo che mosse le armi contro di loro; e assalì Bernardo, il quale andava discorrendo per la Piazza, ora pregando, ora minacciando se non era seguitato e ubbidito; e fatto impeto contra di lui con molti che messer Giorgio seguirono, fu ferito e preso. Fatto questo, fu facil cosa liberare il Podestà e superare gli altri, perché, sendo pochi e in più parti divisi, furono quasi che tutti presi o morti. A Firenze era venuto, in quel mezzo, la fama di questo accidente, e di molto maggiore che non era seguito, intendendosi essere preso Prato, il Podestà con la famiglia morto, piena di nimici la terra; Pistoia essere in arme, e molti di quelli cittadini essere in questa congiura: tanto che subito fu pieno il Palagio di cittadini, e con la Signoria a consigliarsi convennono. Era allora in Firenze Ruberto da San Severino, capitano nella guerra reputatissimo: per tanto si deliberò di mandarlo, con quelle genti che potette più adunare insieme, a Prato; e gli commissono si appropinquasse alla terra, e dessi particulare notizia della cosa, faccendovi quelli rimedi che alla prudenza sua occorressero. Era passato Ruberto di poco il castello di Campi quando fu da uno mandato di Cesare incontrato, che significava Bernardo essere preso, e i suoi compagni fugati e morti, e ogni tumulto posato. Onde che si ritornò a Firenze: e poco di poi vi fu condotto Bernardo, e ricerco dal magistrato del vero della impresa, e trovatala debile, disse averla fatta perché, avendo deliberato più tosto di morire in Firenze che vivere in esilio, volle che la sua morte almeno fusse da qualche ricordevole fatto accompagnata.
Nato quasi che in un tratto e oppresso questo tumulto, ritornorono i cittadini al loro consueto modo di vivere, pensando di godersi sanza alcuno rispetto quello stato che si avevano stabilito e fermo. Di che ne nacquono alla città quelli mali che sogliono nella pace il più delle volte generarsi; perché i giovani, più sciolti che l’usitato, in vestire, in conviti, in altre simili lascivie sopra modo spendevano, ed essendo oziosi, in giuochi e in femmine il tempo e le sustanze consumavano e gli studi loro erano apparire con il vestire splendidi e con il parlare sagaci e astuti; e quello che più destramente mordeva gli altri era più savio e da più stimato. Questi così fatti costumi furono da’ cortigiani del duca di Milano accresciuti, il quale insieme con la sua donna e con tutta la sua ducale corte, per sodisfare, secondo che disse, ad uno boto, venne in Firenze; dove fu ricevuto con quella pompa che conveniva un tanto principe e tanto amico alla città ricevere. Dove si vide, cosa in quel tempo nella nostra città ancora non veduta, che, sendo il tempo quadragesimale, nel quale la Chiesa comanda che sanza mangiar carne si digiuni, quella sua corte, sanza rispetto della Chiesa o di Dio, tutta di carne si cibava. E perché si feciono molti spettaculi per onorarlo, intra i quali, nel tempio di Santo Spirito, si rapresentò la concessione dello Spirito Santo agli Apostoli, e perché, per i molti fuochi che in simile solennità si fanno, quel tempio tutto arse, fu creduto da molti Dio, indegnato contro di noi, avere voluto della sua ira dimostrare quel segno. Se adunque quel duca trovò la città di Firenze piena di cortigiane delicatezze e costumi ad ogni bene ordinata civilità contrari, la lasciò molto più; onde che i buoni cittadini pensorono che fusse necessario porvi freno, e con nuova legge a’ vestiri, a’ mortorii, ai conviti termine posero.
Nel mezzo di tanta pace nacque uno nuovo e insperato tumulto in Toscana. Fu trovata nel contado di Volterra da alcuni di quelli cittadini una cava d’allumi, della quale cognoscendo quelli la utilità, per avere chi con i danari li aiutasse e con la autorità gli difendesse, ad alcuni cittadini fiorentini si accostorono, e degli utili che di quella si traevano li ferono partecipi. Fu questa cosa nel principio, come il più delle volte delle imprese nuove interviene, dal popolo di Volterra stimata poco; ma con il tempo, cognosciuto l’utile, volle rimediare a quello, tardi e sanza frutto, che a buona ora facilmente arebbe rimediato. Cominciossi ne’ Consigli loro ad agitare la cosa, affermando non essere conveniente che una industria trovata ne’ terreni publici in privata utilità si converta. Mandorono sopra questo oratori a Firenze: fu la causa in alcuni cittadini rimessa, i quali, o per essere corrotti dalla parte, o perché giudicassero cosa essere bene, riferirono il popolo volterrano non volere le cose giuste desiderando privare i suoi cittadini delle fatiche e industrie loro, e per ciò ai privati, non a lui, quelle lumiere appartenevano; ma essere bene conveniente che ciascuno anno certa quantità di danari pagassero, in segno di ricognoscerlo per superiore. Questa risposta fece non diminuire, ma crescere i tumulti e gli odii in Volterra; e niuna altra cosa, non solamente ne’ loro Consigli, ma fuora, per tutta la città, s’agitava; richiedendo l’universale quello che pareva gli fusse stato tolto, e volendo i particulari conservare quello che si avevano prima acquistato e di poi era stato loro dalla sentenzia de’ Fiorentini confermato. Tanto che, in queste dispute, fu morto uno cittadino in quella città reputato, chiamato il Pecorino, e dopo lui molti altri che con quello si accostavano, e le loro case saccheggiate e arse; e da quello impeto medesimo mossi, con fatica dalla morte de’ rettori che quivi erano per il popolo fiorentino si astennono.
Seguito questo primo insulto, deliberorono, prima che ogni cosa, mandare oratori a Firenze; i quali feciono intendere a quelli Signori che, se volevono conservare loro i capituli antichi, che ancora eglino la città nella antica sua servitù conserverebbono. Fu assai disputata la risposta. Messer Tommaso Soderini consigliava che fusse da ricevere i Volterrani in qualunque modo e’ volessero ritornare, non gli parendo tempi da suscitare una fiamma sì propinqua, che potesse ardere la casa nostra, perché temeva la natura del Papa, la potenza del Re, né confidava nella amicizia de’ Viniziani, né in quella del Duca, per non sapere quanta fede si fusse nell’una e quanta virtù nell’altra, ricordando quella trita sentenza: essere meglio uno magro accordo che una grassa vittoria. Dall’altra parte Lorenzo de’ Medici, parendogli avere occasione di dimostrare quanto con il consiglio e con la prudenza valesse, sendo massime di così fare confortato da quegli che alla autorità di messer Tommaso avevono invidia, deliberò fare la impresa, e con l’armi punire l’arroganza de’ Volterrani; affermando che, se quelli non fussero con esemplo memorabile corretti, gli altri sanza reverenzia o timore alcuno, di fare il medesimo per ogni leggera cagione non dubiterebbono. Deliberata adunque la impresa, fu risposto a’ Volterrani come eglino non potevano domandare la osservanza di quegli capitoli che loro medesimi avevano guasti, e per ciò, o e’ si rimettessero nell’arbitrio di quella Signoria, o eglino aspettassero la guerra. Ritornati adunque i Volterrani con questa risposta, si preparavano alle difese, affortificando la terra e mandando a tutti i principi italiani per convocare aiuti, e furono da pochi uditi, perché solamente i Sanesi e il signore di Piombino dettono loro alcuna speranza di soccorso. I Fiorentini dall’altra parte pensando che la importanza della vittoria loro fusse nello accelerare, messono insieme dieci mila fanti e due mila cavagli, i quali, sotto lo imperio di Federigo signore d’Urbino, si presentorono nel contado di Volterra, e facilmente quello tutto occuporono. Messono di poi il campo alla città, la quale, sendo posta in luogo alto e quasi da ogni parte tagliato, non si poteva, se non da quella banda dove è il tempio di Santo Alessandro, combattere. Avevano i Volterrani per loro difesa condotti circa mille soldati; i quali, veggendo la gagliarda espugnazione che i Fiorentini facevono, diffidandosi di poterla difendere, erano nelle difese lenti e nelle ingiurie che ogni dì facevono a’ Volterrani prontissimi. Dunque quegli poveri cittadini, e fuori dai nimici erano combattuti, e dentro dagli amici oppressi; tanto che, desperati della salute loro, cominciorono a pensare all’accordo, e non lo trovando migliore, nelle braccia de’ commissari si rimissono. I quali si feciono aprire le porti, e intromesso la maggior parte dello esercito, se ne andorono al Palagio dove i Priori loro erano; a’ quali comandorono se ne tornassero alle loro case; e nel cammino fu uno di quegli, da uno de’ soldati, per dispregio, spogliato. Da questo principio, come gli uomini sono più pronti al male che al bene, nacque la destruzione e il sacco di quella città; la quale per tutto un giorno fu rubata e scorsa; né a donne né a luoghi pii si perdonò; e i soldati, così quegli che l’avevano male difesa, come quegli che l’avevano combattuta, delle sue sustanze la spogliarono. Fu la novella di questa vittoria con grandissima allegrezza da’ Fiorentini ricevuta; e perché la era stata tutta impresa di Lorenzo, ne salì quello in reputazione grandissima. Onde che uno dei suoi più intimi amici rimproverò a messer Tommaso Soderini il consiglio suo, dicendogli: - Che dite voi, ora che Volterra si è acquistata? - a cui messer Tommaso rispose: - A me pare ella perduta: perché, se voi la ricevevi d’accordo, voi ne traevi utile e securtà, ma avendola a tenere per forza, ne’ tempi avversi vi porterà debolezza e noia, e ne’ pacifici danno e spesa.
In questi tempi il Papa, cupido di tenere le terre della Chiesa nella obbedienza loro, aveva fatto saccheggiare Spuleto, che si era, mediante le intrinseche fazioni, ribellato; di poi, perché Città di Castello era nella medesima contumacia, l’aveva obsediata. Era in quella terra principe Niccolò Vitelli: teneva costui grande amicizia con Lorenzo de’ Medici; donde che da quello non gli fu mancato di aiuti, i quali non furono tanti che defendessero Niccolò, ma furono ben suffizienti a gittare i primi semi della nimicizia intra Sisto e i Medici; i quali poco di poi produssono malissimi frutti. Né arebbono differito molto a dimostrarsi, se la morte di frate Piero, cardinale di Santo Sisto, non fusse seguita; perché, avendo questo cardinale circuito Italia, e ito a Vinegia e Milano, sotto colore di onorare le nozze di Ercule marchese di Ferrara, andava tentando gli animi di quelli principi, per vedere come inverso i Fiorentini gli trovava disposti. Ma ritornato a Roma si morì, non sanza suspizione di essere stato da’ Viniziani avvelenato, come quelli che temevano della potenza di Sisto, quando si fusse potuto dell’animo e dell’opera di frate Piero valere: perché, non ostante che fusse dalla natura di vile sangue creato, e di poi intra i termini d’uno convento vilmente nutrito, come prima al cardinalato pervenne, apparse in lui tanta superbia e tanta ambizione che, non che il cardinalato, ma il pontificato non lo capeva; perché non dubitò di celebrare uno convito in Roma, che a qualunque re sarebbe stato giudicato estraordinario; dove meglio che ventimila fiorini consumò. Privato adunque Sisto di questo ministro, seguitò i disegni suoi con più lentezza. Non di meno, avendo i Fiorentini, Duca e Viniziani rinnovato la lega, e lasciato il luogo al Papa e al Re per entrare in quella, Sisto ancora e il Re si collegorono, lasciando luogo agli altri principi di potervi entrare. E già si vedeva l’Italia divisa in due fazioni, perché ciascuno dì nascevano cose che infra queste due leghe generavono odio; come avvenne dell’isola di Cipri, alla quale il re Ferrando aspirava, e i Viniziani la occuporono; onde che il Papa e il Re si venivano a ristringere più insieme. Era in Italia allora tenuto nelle arme eccellentissimo Federigo principe di Urbino, il quale molto tempo aveva per il popolo fiorentino militato. Deliberorono per tanto il Re e il Papa, acciò che la lega nimica mancasse di questo capo, guadagnarsi Federigo; e il Papa lo consigliò, e il Re lo pregò andasse a trovarlo a Napoli. Ubbidì Federigo, con ammirazione e dispiacere de’ Fiorentini, i quali credevano che a lui come a Iacopo Piccinino intervenisse. Non di meno ne avvenne il contrario: perché Federigo tornò da Napoli e da Roma onoratissimo, e di quella loro lega capitano. Non mancavano ancora il Re e il Papa di tentare gli animi de’ signori di Romagna e de’ Sanesi per farsegli amici e per potere, mediante quegli, più offendere i Fiorentini. Della qual cosa accorgendosi quegli, con ogni rimedio opportuno contro alla ambizione loro si armavano; e avendo perduto Federigo da Urbino, soldorono Ruberto da Rimino; rinnovorono la lega con i Perugini, e con il signore di Faenza si collegorono. Allegavano il Papa e il Re la cagione dello odio contro a’ Fiorentini essere che desideravano da’ Viniziani si scompagnassero e conlegassinsi con loro; perché il Papa non giudicava che la Chiesa potesse mantenere la reputazione sua, né il conte Girolamo gli stati di Romagna, sendo i Fiorentini e Viniziani uniti. Dall’altra parte i Fiorentini dubitavano che volessero inimicargli con i Viniziani, non per farseli amici, ma per potere più facilmente ingiuriargli: tanto che in questi sospetti e diversità d’umori si visse in Italia duoi anni prima che alcuno tumulto nascesse. Ma il primo che nacque fu, ancora che piccolo, in Toscana.
Di Braccio da Perugia, uomo, come più volte abbiamo dimostro, nella guerra reputatissimo, rimasono duoi figliuoli: Oddo e Carlo. Questi era di tenera età, quell’altro fu dagli uomini di Val di Lamona ammazzato, come di sopra mostrammo; ma Carlo, poi che fu agli anni militari pervenuto, fu dai Viniziani, per la memoria del padre e per la speranza che di lui si aveva, intra i condottieri di quella republica ricevuto. Era venuto, in questi tempi, il fine della sua condotta; e quello non volle che per allora da quel senato gli fusse confermata; anzi deliberò vedere se, con il nome suo e riputazione del padre, ritornare negli stati suoi di Perugia poteva. A che i Viniziani facilmente consentirono, come quelli che nelle innovazioni delle cose sempre solevano accrescere lo imperio loro. Venne per tanto Carlo in Toscana; e trovando le cose di Perugia difficili, per essere in lega con i Fiorentini, e volendo che questa sua mossa partorisse qualche cosa degna di memoria, assaltò i Sanesi, allegando essere quelli debitori suoi per servizi avuti da suo padre nelli affari di quella repubblica, e per ciò volerne essere sodisfatto, e con tanta furia gli assaltò, che quasi tutto il dominio loro mandò sottosopra. Quegli cittadini, veggendo tale insulto, come eglino sono facili a credere male de’ Fiorentini, si persuasono tutto essere con loro consenso esequito, e il Papa e il Re di rammarichii riempierono. Mandorono ancora oratori a Firenze; i quali si dolfono di tanta ingiuria, e destramente mostrorono che, sanza essere suvvenuto, Carlo non arebbe potuto con tanta securtà ingiuriargli. Di che i Fiorentini si escusorono, affermando essere per fare ogni opera che Carlo si astenesse da lo offendergli; e in quel modo che gli oratori vollono, a Carlo comandorono che da lo offendere i Sanesi si astenesse. Di che Carlo si dolfe, mostrando che i Fiorentini, per non lo suvvenire, si erano privi d’un grande acquisto e avieno privo lui d’una gran gloria: perché, in poco tempo, prometteva loro la possessione di quella terra: tanta viltà aveva trovata in essa, e tanti pochi ordini alla difesa. Partissi adunque Carlo e alli stipendi usati de’ Viniziani si ritornò, e i Sanesi, ancora che mediante i Fiorentini fussero da tanti danni liberi rimasono non di meno pieni di sdegno contro a quelli, perché non pareva loro avere alcuno obligo con coloro che gli avessero d’un male di che prima fussero stati cagione liberati.
Mentre che queste cose ne’ modi sopra narrati tra il Re e il Papa e in Toscana si travagliavano, nacque in Lombardia uno accidente di maggiore momento e che fu presagio di maggiori mali. Insegnava in Milano la latina lingua a’ primi giovani di quella città Cola Montano, uomo litterato e ambizioso. Questo, o che gli avesse in odio la vita e costumi del Duca, o che pure altra cagione lo movesse, in tutti i suoi ragionamenti il vivere sotto un principe non buono detestava, gloriosi e felici chiamando quegli a’ quali di nascere e vivere in una republica aveva la natura e la fortuna conceduto; mostrando come tutti gli uomini famosi si erano nelle republiche e non sotto i principi nutriti; perché quelle nutriscono gli uomini virtuosi, e quegli gli spengono, facendo l’una profitto dell’altrui virtù, l’altra temendone. I giovani con chi egli aveva più familiarità presa erano Giovannandrea Lampognano, Carlo Visconti e Girolamo Olgiato. Con costoro più volte della pessima natura del Principe, della infelicità di chi era governato da quello ragionava; e in tanta confidenza dello animo e volontà di quegli giovani venne, che gli fece giurare che, come per la età e’ potessero, la loro patria dalla tirannide di quel principe libererebbono. Sendo ripieni adunque questi giovani di questo desiderio, il quale sempre con gli anni crebbe, i costumi e modi del Duca, e di più le particulari ingiurie contro a loro fatte, di farlo mandare ad effetto affrettorono. Era Galeazzo libidinoso e crudele, delle quali due cose gli spessi esempli lo avevono fatto odiosissimo; perché non solo non gli bastava corrompere le donne nobili, che prendeva ancora piacere di publicarle; né era contento fare morire gli uomini, se con qualche modo crudele non gli ammazzava. Non viveva ancora sanza infamia di avere morta la madre; perché, non gli parendo essere principe, presente quella, con lei in modo si governò, che le venne voglia di ritirarsi nella sua dotale sede a Cremona, nel quale viaggio, da subita malattia presa morì: donde molti giudicorono quella dal figliuolo essere stata fatta morire. Aveva questo duca, per via di donne, Carlo e Girolamo disonorati, e a Giovannandrea non aveva voluto la possessione della badia di Miramondo, stata ad un suo propinquo dal Pontefice resignata, concedere. Queste private ingiurie accrebbono la voglia a questi giovani, con il vendicarle, liberare la loro patria da tanti mali; sperando che, qualunque volta riuscisse loro lo ammazzarlo, di essere, non solamente da molti de’ nobili ma da tutto il popolo seguiti. Deliberatisi adunque a questa impresa, si trovavano spesso insieme; di che l’antica familiarità non dava alcuna ammirazione: ragionavano sempre di questa cosa, e per fermare più l’animo al fatto, con le guaine di quelli ferri ch’eglino avieno a quella opera destinati, ne’ fianchi e nel petto l’uno l’altro percotevono. Ragionorono del tempo e del loco: in Castello non pareva loro securo; a caccia, incerto e pericoloso; ne’ tempi che quello per la terra giva a spasso, difficile e non riuscibile; ne’ conviti, dubio. Per tanto deliberarono in qualche pompa e publica festivitate opprimerlo, dove fussero certi che venisse, ed eglino, sotto varii colori, vi potessero loro amici ragunare. Conclusono ancora che, sendo alcuno di loro per qualunque cagione dalla corte ritenuti, gli altri dovessero, per il mezzo del ferro e de’ nimici armati, ammazzarlo.
Correva l’anno 1476, ed era propinqua la festività del Natale di Cristo; e perché il Principe, il giorno di Santo Stefano, soleva con pompa grande vicitare il tempio di quello martire, deliberorono che quello fusse il luogo e il tempo commodo ad esequire il pensiero loro. Venuta adunqua la mattina di quel santo, feciono armare alcuni de’ loro più fidati amici e servidori, dicendo volere andare in aiuto di Giovannandrea, il quale contro alla voglia di alcuni suoi emuli voleva condurre nelle sue possessioni uno aquedutto; e quelli così armati al tempio condussono, allegando volere, avanti partissero, prendere licenza dal Principe. Feciono ancora venire in quel luogo, sotto varii colori, più altri loro amici e congiunti, sperando che, fatta la cosa, ciascheduno nel resto della impresa loro gli seguitasse. E lo animo loro era, morto il Principe, ridursi insieme con quegli armati, e gire in quella parte della terra dove credessero più facilmente sollevare la plebe, e quella contro alla Duchessa e a’ principi dello stato fare armare. E stimavano che il popolo, per la fame dalla quale era aggravato, dovesse facilmente seguirgli, perché disegnavano dargli la casa di messer Cecco Simonetta, di Giovanni Botti e di Francesco Lucani, tutti principi del governo, in preda, e per questa via assicurare loro, e rendere la libertà al popolo. Fatto questo disegno, e confirmato l’animo a questa esecuzione, Giovannandrea con gli altri furno al tempio di buona ora; udirono messa insieme; la quale udita, Giovannandrea si volse ad una statua di Santo Ambrogio e disse: - O padrone di questa nostra città, tu sai la intenzione nostra e il fine a che noi voliamo metterci a tanti pericoli: sia favorevole a questa nostra impresa; e dimostra, favorendo la giustizia, che la ingiustizia ti dispiaccia. - Al Duca dall’altro canto, avendo a venire al tempio, intervennono molti segni della sua futura morte: perché, venuto il giorno, si vestì, secondo che più volte costumava, una corazza, la quale di poi subito si trasse, come se nella presenza o nella persona lo offendesse, volle udire messa in Castello, e trovò che il suo cappellano era ito a Santo Stefano con tutti i suoi apparati di cappella; volle che, in cambio di quello, il vescovo di Como celebrasse la messa, e quello allegò certi impedimenti ragionevoli: tanto che, quasi per necessità, deliberò di andare al tempio, e prima si fece venire Giovangaleazzo ed Ermes suoi figliuoli, e quelli abbracciò e baciò molte volte, né pareva potesse spiccarsi da quelli; pure alla fine, deliberato allo andare, si uscì di Castello, ed entrato in mezzo dello oratore di Ferrara e di Mantova, ne andò al tempio. I congiurati, in quel tanto, per dare di loro minore suspizione, e fuggire il freddo che era grandissimo, si erano in una camera dello arciprete della chiesa, loro amico, ritirati; e intendendo come il Duca veniva, se ne vennono in chiesa: e Giovanni Andrea e Girolamo si posono dalla destra parte allo entrare del tempio, e Carlo dalla sinistra. Entravano già nel tempio quelli che precedono al Duca; di poi entrò egli, circundato da una moltitudine grande, come era conveniente, in quella solennità, ad una ducale pompa. I primi che mossano fu il Lampognano e Girolamo. Costoro, simulando di far fare largo al Principe, se gli accostorono, e strette le armi, che corte e acute avevono nelle maniche nascose, lo assalirono. Il Lampognano gli dette due ferite, l’una nel ventre, l’altra nella gola; Girolamo ancora nella gola e nel petto lo percosse. Carlo Visconte, perché si era posto più propinquo alla porta, ed essendogli il Duca passato avanti, quando dai compagni fu assalito, nol potette ferire davanti, ma con duoi colpi la schiena e la spalla gli trafisse. E furono queste sei ferite sì preste e sì subite, che il Duca fu prima in terra che quasi niuno del fatto si accorgesse; né quello potette altro fare o dire, salvo che, cadendo, una volta sola il nome della Nostra Donna in suo aiuto chiamare. Caduto il Duca in terra, il romore si levò grande; assai spade si sfoderorono e, come avviene nelli casi non preveduti, chi fuggiva del tempio e chi correva verso il tumulto sanza avere alcuna certezza o cagione della cosa. Non di meno quegli che erano al Duca più propinqui, e che avevono veduto il Duca morto, e gli ucciditori cognosciuti, li perseguitorono. E de’ congiurati, Giovannandrea volendo tirarsi fuori di chiesa, entrò fra le donne, le quali trovando assai, e secondo il loro costume a sedere in terra implicato e ritenuto intra le loro veste fu da un moro, staffiero del Duca, sopraggiunto e morto. Fu ancora da’ circunstanti ammazzato Carlo. Ma Girolamo Olgiato, uscito fra gente e gente di chiesa, vedendo i suoi compagni morti non sapiendo dove altrove fuggirsi, se ne andò alle sue case; dove non fu dal padre né da’ frategli ricevuto. Solamente la madre, avendo al figliuolo compassione, lo raccomandò ad uno prete, antico amico alla famiglia loro; il quale, messogli suoi panni indosso, alle sue case lo condusse; dove stette duoi giorni, non sanza speranza che in Milano nascesse qualche tumulto che lo salvasse. Il che non succedendo, e dubitando non essere in quel loco ritrovato, volse sconosciuto fuggirsi; ma, conosciuto, nella podestà della giustizia pervenne, dove tutto l’ordine della congiura aperse. Era Girolamo di età di ventitré anni; né fu nel morire meno animoso che nello operare si fusse stato; perché trovandosi ignudo e con il carnefice davanti, che aveva il coltello in mano per ferirlo, disse queste parole in lingua latina, perché litterato era: - Mors acerba, fama perpetua, stabit vetus memoria facti. - Fu questa impresa di questi infelici giovani secretamente trattata e animosamente esequita; e allora rovinorono quando quelli ch’eglino speravano gli avessero a seguire e defendere non gli defesono né seguirono. Imparino per tanto i principi a vivere in maniera, e farsi in modo reverire e amare, che niuno speri potere, ammazzandogli, salvarsi; e gli altri cognoschino quanto quel pensiero sia vano che ci faccia confidare troppo che una moltitudine, ancora che mal contenta, ne’ pericoli tuoi ti seguiti o ti accompagni. Sbigottì questo accidente tutta Italia; ma molto più quegli che, indi a breve tempo, in Firenze seguirono; i quali quella pace che per dodici anni era stata in Italia ruppono, come nel libro seguente sarà da noi dimostrato. Il quale, se arà il fine suo mesto e lagrimoso, arà il principio sanguinoso e spaventevole.