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Napoleone
Pasquale Paoli Cecco d'Ascoli

1. Origine — II. La rivoluzione francese — III. Primordj di Napoleone — IV. Prima campagna d’Italia — V. Spedizione d’Egitto — VI. Ritorno. Caduta del Direttorio — VII. Il Consolato. Seconda spedizione d’Italia — VIII. Il Concordato — IX. Napoleone imperatore — X. Onnipotenza interna — XI. Lotte religiose — XII. Sua strategia — XIII. Politica estera — XIV. Sua caduta — XV. Gli Alleati. I cento giorni — XVI. La fine — XVII. Gli effetti.


I.


Alla famiglia Buonaparte, dopo che diventò la più celebre del nostro secolo, mentre la marea crescente dell’eguaglianza e dell’uniformità sommerge tutte l’altre, molte città pretesero aver dato origine. Le ragioni di Treviso furono sostenute non è guari, ma pajono migliori quelle di Pistoja, donde, nel quattrocento, per le fazioni civili, peste e vita delle repubbliche medievali, un Guglielmo migrò a Sarzana, e di là nel 1520 Francesco trapiantò la famiglia nell’isola di Corsica. Quivi nel secolo passato essa accordavasi coi Saliceti nel favorire i Francesi, contraddicendo ai Paoli e ai Pozzodiborgo, avversissimi a Francia, Pertanto, allor che quelli prevalsero, i Buonaparte fuoruscirono, e stabilironsi a Marsiglia.

Capo della casa era allora Carlo, marito di Letizia Ramolino, nella quale avea generato molti figliuoli. Fra essi il più famoso, Napoleone, nacque ad Ajaccio il 5 febbrajo 17681. Lasciamo alle mercatine e ai caporali le circostanze miracolaje del suo nascimento e i pronostici della sua fanciullezza: diciam solo che visse i primi anni modestissimamente a Marsiglia, dove sua madre, rimasta vedova, attendeva ella stessa colle belle sue figliuole ai servigi della casa, mentre i maschi erano mantenuti sulle scuole dallo zio arcidiacono Luciano, finchè lo scoppio della rivoluzione li spinse in quei vortici, che innalzano chi non affogano.


II


La necessità di avere istituzioni rappresentative e la difficoltà di fondarne, sono i due poli fra cui oscillano da novant’anni i Francesi, ora smaniati di sbrigliarsi a libertà, ora ricoverantisi nel despotismo per sottrarsi ai proprj eccessi. Quanto non s’è scritto sulla rivoluzione di Francia, su quel gran fatto, che gli uomini stessi che v’ebbero parte non hanno nè preveduto nè compreso! fatto studiato in mille libri, opuscoli, giornali, e a cui o si riferiscono o alludono anche quando non ne parlano direttamente: fatto, ove l’osservatore troverà sempre, se non verità nuove, nuove applicazioni; fatto sul quale non corrono uniformi i giudizj se non nel dichiarare che nella vita delle nazioni nessun altro gli si può paragonare; a segno che taluno non vede nel passato che le cause di esso, nel presente che i suoi effetti, nell’avvenire che il suo compimento. Ma esaminando coloro che, in quel tempo, cercavano con irrefrenabile slancio la libertà dentro, la gloria fuori, ci accertiamo che nè all’una nè all’altra si arriva veramente e stabilmente se non per le vie della giustizia.

La Chiesa tenea tanto luogo nelle antiche costituzioni, che non poteva essere scossa senza che tutto lo Stato ne risentisse. Ciò apparve sopratutto all’irrompere del protestantesimo, che in fondo distruggeva l’autorità, mentre pretendea solo frenarla; rompeva l’unità per costituire Chiese nazionali che avessero per centro il centro della nazione, e voleva dominare il popolo mediante il solo organamento civile. In Francia non causò che ribellioni, ove l’aristocrazia cercò spodestare i re: Enrico IV vi riparò restituendo la supremazia del cattolicismo, conforme al voto del popolo, e insieme costituendo la libertà religiosa. Da quell’ora il popolo considerò il re come suo rappresentante e fautore; da lui chiedeva i miglioramenti; a lui esponeva i suoi lamenti; da lui solo aspettava i rimedj.

Su queste ale Luigi XIV riuscì il più dispotico dei re, ma insieme rendeva la sua la più grande nazione. L’assolutismo per cui egli avea potuto dire «Lo Stato son io», come lo dicono i parlamenti odierni, non erasi formato col sopprimere le libertà politiche, le quali mai non erano esistite, bensì col mozzare le libertà provinciali e municipali, che erano comuni nell’età precedente. Quanto alla nobiltà, che formava un altro ritegno all’assolutismo, i re, oltre sottoporla poco a poco alle leggi comuni, la allettarono alla fastosa vanità della Corte; ai posti e agli uffizj, di cui essa pretendeva il privilegio, introdussero popolani di merito; con brevetti creavano nobili e attribuivano stemmi. Pure i nobili restavano distinti dal popolo; la milizia cernivasi solo fra’ plebei: ma intanto la classe industriosa cresceva di ricchezza e d’importanza, quanto ne scadeva la nobiltà. Di qui nascevano divisioni, astj, gelosie: il nobile voleva umiliare gli ecclesiastici; la classe media guardava con invidia la magistratura, che pur usciva dal suo seno; la nobiltà di spada dispettava quella di toga; quella di Corte, la nobiltà di provincia; le ricchezze acquistate dai finanzieri indispettivano i borghesi non meno che i gentiluomini.

Tale scontentezza non poteva essere tolta dai re, ai quali non venne mai in mente di ritemprarsi col concorso della nazione mediante libertà politiche. Ma, salito al trono il buon Luigi XVI, ecco il paese mutarsi; tutto prosperava, commercio, industria, popolazione; le imposte rendeansi più uniformi; l’istruzione si diffondeva; aristocrazia e clero desideravano e proclamavano i miglioramenti proposti dai filantropi e dai filosofi; e le commissioni che si diedero ai deputati del 1789 attestano come fossero e conosciuti e voluti tutti quei provedimenti e quelle garanzie, che non si ottennero se non dopo tanto sangue.

Luigi XVI, che desiderava le riforme, lasciò ogni libertà di proporle e dibatterle; invitò la Francia a rigenerarsi da sè: tanto che fu proclamato restauratore della pubblica libertà. Ma i rivoluzionarj non voleano restaurare, bensì distruggere il passato, in maniera che nulla ne restasse nell’ordine nuovo. Questo proposito inchiude un disprezzare i proprj padri, rinnegare il progresso e la Provvidenza; e in ciò somigliavano a’ Protestanti del XVI secolo, che esaltavano fino all’entusiasmo la passione d’annichilare tutto quanto non era stato fatto da essi. Da quella fonte erano venuti il vilipendio alle cose sacre, la ripugnanza contro ogni autorità, l’opporre il rispetto della parola effimera a quello della parola eterna, il non credere che a sè stessi, eppur pretendere d’essere creduti da tutti.

Questi insegnamenti dei filosofisti riceveano fomento dalla sregolatezza dei nobili, dallo scandalo della Corte, dagli spiriti secolareschi del clero; sicchè l’anelito di cambiamento trasfondeasi in ogni istituzione; nessun fatto si conoscea più necessario che un grande innovamento, nessuno prometteva d’esser più conforme alla ragione: eppure nessuno procedette più disordinato e violento.

In questo farnetico di abbattere consiste la capitale differenza fra due rivoluzioni, che in apparenza si somigliano tanto, la francese e la inglese. In quest’ultima non si tralasciò spediente o precauzione o finzione per togliere alla nuova dinastia l’aria di novità, nè lasciar credere si fosse sovvertito il sistema ereditario. Nell’interregno fra la partenza di Giacomo II e la venuta di Guglielmo d’Orange, oltre quelli che insistevano perchè si patteggiasse col fuggitivo, i più voleano si continuasse la sua effigie sulle monete, il suo nome alle ordinanze d’una reggenza; altri, negando al popolo il diritto di stronizzare il re, diceano che colla fuga egli avesse abdicato di fatto, onde la corona passava di diritto al prossimo suo erede, cioè il marito di sua figlia Maria2. Solo il re fu dunque cambiato, e gl’Inglesi continuarono a venerare la vecchia Bretagna.

In Francia al contrario voleasi far tavola rasa di tutto ciò che fosse antico, surrogarvi cose nuove, in modo che il ripristino riuscisse impossibile; codici, sistema di proprietà, gerarchia di classi, servitù territoriali, clero, culto, divisione e denominazioni del paese, tutto fu mutato; tutto, fin la distribuzione del tempo.

La rivoluzione parve grande perchè coll’immensa voce popolare proclamò libertà, eguaglianza, fraternità; ma questi, che si intitolano i grandi principj dell’89, erano essi veramente una nuova rivelazione, contrapposta alle idee precedenti? No; sono antichi, e li troviamo proclamati principalmente dai teologi. Il più illustre di questi, san Tommaso, stabiliva che «bisogna tutti abbiano una certa parte nel governo; col che si conserva la pace del popolo, e si fa amare e custodire la costituzione. — La miglior costituzione è quella dove un solo è posto, per la sua virtù, a presedere a tutti, ed altri governano sotto di lui secondo la virtù; pure il governo appartiene a tutti, e perchè tutti possono essere eletti a capi, e perchè tutti gli eleggono. — Siffatto governo è il migliore, essendo misto di monarchia giacchè uno solo presiede; d’aristocrazia giacchè molti governano secondo virtù; di democrazia, cioè della potenza popolare, giacchè a principi posson essere eletti anche popolani, e spetta al popolo la scelta dei principi. Così fu istituito secondo la legge divina»3.

A detta di lui, il potere politico e legislativo viene da Dio per mezzo del popolo. Esaminando «se la ragione individuale possa far la legge», conchiude: — La legge ordina gli uomini pel bene comune; laonde non è la ragione di ciascuno che possa far la legge, bensì la ragione della moltitudine».

E argomenta: — La legge, propriamente, primieramente e principalmente riguarda l’ordine pel bene comune. L’ordinar una cosa pel bene comune tocca ai più, o a chi tiene il posto dei più. Il far dunque una legge compete a tutto il popolo, o alla persona che lo rappresenta; giacchè in tutte le cose l’ordinare per un fine spetta a colui, di cui è proprio quel fine»4.

«Il resistere al potere è colpa soltanto nel caso d’un attacco ingiusto contro il bene della repubblica. Il governo tirannico non è giusto, perchè non è coordinato pel bene comune, ma pel privato del governante. Pertanto il sovvertire siffatto governo non è sedizione, se pure non si turbi così disordinatamente che la moltitudine sottoposta soffra maggior pregiudizio che dal governo del tiranno. Sedizioso bisogna considerare piuttosto il tiranno che alimenta le discordie e le sedizioni fra i sudditi per dominarli più a fidanza»5.

Codesti grandi principj dunque non facea bisogno di scoprirli con avviluppati ragionamenti, nè di conquistarli a forza: erano già formulati, e furono facilmente consentiti. La libertà di coscienza restava sanzionata dacchè nel 1787 fu restituito ai Protestanti il diritto di cittadinanza, e Necker protestante fu preso a ministro. La libertà della parola chi potria lamentarsi mancasse quando, nel famoso processo di Kornmann, Bergasse stampava: — Sire, i vostri ministri vi hanno indegnamente tradito quando osarono dire che l’autorità dei re è assoluta, e che non devono conto che a sè stessi dell’uso che credono farne. Tale dottrina non potrebbe esser vera se non nel supposto che della facoltà di ragionare la Provvidenza avesse dotato soltanto quelli che governano; e gli altri uomini avesse organizzati in guisa che trovassero sempre lodevole il modo con cui sono governati.... Sire, i vostri ministri sono i soli ribelli: essi vi resero straniero al vostro popolo; essi resero diritto indispensabile il resistere alla vostra autorità, la quale, senza la giustizia, è una forza cieca; resero colpa l’obbedire a quella autorità»6.

La libertà individuale era stata garantita quando si convocarono gli Stati. La libertà della stampa era non solo sancita ma esercitata dacchè nell’88 si eccitò ogni Francese a dar il suo parere sul sistema politico. La libertà politica non apparve mai tanta, quanta nella convoca e nelle attribuzioni dell’Assemblea. Il 5 maggio 1789, quando s’apersero gli Stati Generali, la Francia passava di tratto dal governo personale alla piena possessione del governo rappresentativo, e Necker poteva conchiuder la sua esposizione finanziaria colle parole: — O Francia, felice Francia! tra le mani de’ tuoi cittadini, tra le mani de’ tuoi figliuoli, dei rappresentanti scelti da te stessa riposa oggimai la tua sorte». L’eguaglianza civile fu acclamata con entusiasmo dai principi del sangue e da tutti i nobili ed ecclesiastici quando rinunziarono ai diritti feudali, e alle immunità in fatto di imposte. Appena si dimostrò che al tesoro abbisognavano 400 milioni, il clero offerse supplirvi mediante un imprestito ch’esso assicurerebbe co’ proprj mezzi. Sarebbonsi con tale partito salvate le finanze; ma il clero rimaneva possidente, e ciò non voleva la rivoluzione, che preferì confiscare, e così riuscire agli assegnati e al fallimento.

Quel che ben presto alzò le pretensioni, e cambiò le domande in intimazioni fu il terzo stato, che non si contentò dell’eguaglianza, volle la rivincita. Sieyès avea posato un problema d’implacabile semplicità: «Cos’è il terzo stato? — Nulla. — Cosa vuol divenire? — Tutto». L’ostacolo fra quel nulla e questo tutto erano i diritti degli Ordini privilegiati. Bisognava abbatterli, e si volle farlo coll’iniziativa isolata del terzo stato; donde proruppero i dissensi, che riuscirono allo scompiglio totale. Mirabeau, nobile ma organo del terzo stato, dichiarava che «le proposizioni del re salverebbero la patria, ma i doni del despotismo sono sempre pericolosi, onde bisogna ricusarli». Il despotismo di Luigi XVI!

Stava dunque in arbitrio di scegliere fra la libertà e la rivoluzione: si preferì la rivoluzione, e come adesso in Italia, la voce della libertà fu troppo presto soffogata dall’urlo delle fazioni, dagli intrighi dell’ambizione; la libertà si risolse in fiera tirannia per la necessità di proteggere l’eguaglianza; la fraternità in una conquista universale. Dapprima l’Assemblea Costituente, col suo sistema amministrativo, trasforma ogni Comune in una repubblichetta, lasciando al vertice la monarchia, col potere esecutivo ma destituito d’ogni istromento d’autorità; onde può dirsi che nessun più era tenuto a obbedire, eccetto il re, al quale lasciavasi l’apparenza di comandare, ma contendeansi fino i titoli di sire e maestà.

La voce dell’ordine, della giustizia, della verità, della sperienza, del senso comune perdesi allora nelle esclamazioni tumultuarie di libertà, eguaglianza, fratellanza: dimenticata la subordinazione, ne seguono furti, saccheggi, assassinj, incendj; questi spingono alla migrazione; e tutto ciò nell’89, cioè ben prima di quel 93, a cui si vorrebbe imputare d’aver guasto i fausti cominciamenti. Con egual senno si dice che in Italia tutto era rose nel 1848, mentre già vi bollivano e operavano tutte le passioni che diroccarono il prospero avviamento.

Non aver più governo è tristissima condizione d’un paese: ma peggio ancora dell’anarchia materiale è quella degli spiriti, delle coscienze; come peggio del delitto è la tolleranza che gli accordano gli onest’uomini.

Ormai unico padrone della Francia restava l’Assemblea, a cui nell’elezione dell’89 si era saviamente posto il legame delle commissioni scritte. Ma mentre governare è resistere, in essa non resistono nè il partito spinto nè quello soverchiato. Questo re, omai detronizzato e servo d’un’assemblea, potette sanzionare un atto, qual non avrebbe osato Luigi XIV e neppur Pietro di Russia, abolendo tutti i privilegi dalle varie provincie, riducendo la Francia ad una grande spianata, ove l’aratro dell’amministrazione potesse volgersi e rivolgersi senza ostacolo veruno di libertà locali, di tradizioni, di parlamenti. I campioni più onesti od allibivano in faccia al popolo, o credeano con Rosseau che il popolo mai non s’inganna e non ha d’uopo d’aver ragione: non avvertendo come nessun despota può pretendere il sagrifizio della ragione e della coscienza; e come per popolo si scambii troppe volte una ciurma strepitante e un pugno d’intriganti. Bailly, tanto onest’uomo quanto illustre scienziato, vide gli orrori della rivoluzione senza cessar d’ammirarla e servirla, e nelle sue Memorie notava: — Non mi ricordo più della mia ragione quando la ragion generale si pronunziò; prima legge è la volontà della nazione; dacchè essa fu radunata, non conobbi che questa volontà sovrana». Tale culto, che facilmente diviene superstizioso, spiega molte debolezze di altri eroi d’allora e d’oggi.

L’Assemblea col nome di Costituente parve imporsi di disfare tutto, e impiantare un ordine nuovo. Da qui la necessità di urtare le due istituzioni vitali, il re e la Chiesa; ma non volendo di esse privar la patria, le scarmigliò, e pretese rimpastarle a suo talento.

Inoltre accettò come mezzo di progresso sociale il disordine. Il quale per tal via straripò onnipotente a dissolver il corpo sociale, mentre impotenti rendeansi gli argini oppostigli. E appunto l’incapacità al resistere è il carattere dei conservatori in quell’assemblea. Erano da 600 fra nobili ed ecclesiastici, ma il clero se ne ritirò quando si volle obbligarlo a prestare giuramento alla costituzione civile della Chiesa. I diritti più legittimi non erano sostenuti che da parole superbe, futili speranze, insensate pretensioni, collere impotenti, mentre erano attaccati da tutte le braccia con una furia che non soffriva ostacoli, e ch’era spinta da un branco di scellerati. I nobili formavano la parte più chiassosa ma meno attiva; stizziti contro il trascendere del movimento, non accordavansi a frenarlo; protestavano sempre, senza mai discutere; onde non seppero nè arrestar la rivoluzione, nè moderarla. Esosi alle classi basse che avevano tiranneggiate; privi di fermezza religiosa, non v’ebbe alcuno che incoraggiasse Luigi XVI a opporsi alla costituzione del clero, e così risparmiarsi l’unico rimorso che pesò poi su quell’infelice. Per ispirito di religione insorsero la Vandea e qualche campagna; Lione, che aveva conservato le consuetudini municipali, non si mosse che per abborrimento al Terrore; ed in generale le città erano tiranneggiate da pochi violenti, servili alle idee dominanti.

I migrati d’allora non furono migliori di quelli che dappoi vedemmo in tante cause; o migliori solo in quanto combatterono; ma uniti ai nemici del paese. Del resto non s’intendeano coi costituzionali dell’interno, mentre cospiravano coi nemici esterni: stavano separati dal grosso della nazione per orgoglio, mentre separavansi dal re perchè ragionevole: nulla tralasciavano di ciò che potesse irritare e infocar gli spiriti, mentre negligevano i provvedimenti di prudenza, necessarj per calmare e frenare un popolo colpito di frenesia. I principi coalizzati non osavano intervenire ad impedir i sanguinosi saturnali della Francia, mentre intervenivano per impedire alla Polonia di darsi una costituzione saviamente liberale, che la salvasse dallo sbrano e dalla morte. Essi non venivano con disinteresse a reprimere il disordine e il delitto; ma gelosi fra loro, avidi d’acquisti, come chi raccatta in un naufragio. Nè la Corte nè l’aristocrazia sapevano calcolare i proprj interessi in modo da impor silenzio ai loro risentimenti.

A Luigi XVI sarebbe spettato frenare il movimento, ma il sistema antico avea disarmato la monarchia e snervato i re, allevandoli nell’idea di poter tutto e nell’abitudine di non far nulla. Tutto quel che di meglio proponeasi nell’89, Luigi lo voleva, ma non sapea se credere all’infallibilità del re come i suoi avi, o all’infallibilità del popolo come i contemporanei; e avendo sempre veduto l’autorità senza contrappeso, dacchè non potè tutto prescrivere, non seppe che subir tutto.

Maria Antonietta non era stata avvezza a riflettere nè a costringersi; ma venuta da una madre virile, allevata in una Corte di costumi semplici e puri, in seno d’una grandezza antica e rinnovellantesi, ereditaria e conquistata, aveva conservato lo slancio d’un’anima giovane e l’altezza d’un’anima regia. Amava il piacere ma innocente, gran novità a Versailles; gran singolarità che non le perdonarono i cortigiani libertini, nè i cortigiani devoti. Per gli affari non avea verun gusto, nè conoscerli si curò fin quando la sventura e il pericolo non la obbligarono ad applicarvisi: quando videsi sotto ai piedi spalancato l’abisso, e meglio d’ogni altro misurò l’insufficienza del re, allora portò nella politica sagaci presentimenti e risoluzioni istantanee, un coraggio capace di affrontar la lotta e di accettare il sagrifizio; e sopra una fronte maestosa e bella la monarchia conservò fin al fine il suo prestigio, perchè la regina non cessò di credervi. Ma ignara dei tempi, degli uomini, delle cose, non trovava a sè daccanto in chi confidarsi, onde stentatamente da varie parti mendicava lumi per trasmetterli al re. Nè già di lumi mancava Luigi; bensì di quel che la regina aveva, ma che non si comunica, la volontà, la fede in sè e nella propria causa. La forza d’animo di Maria Antonietta non potè supplire alla fiacchezza di Luigi; onde non potendo salvarlo, ella pose l’onor suo a rimaner associata non solo alla sorte, ma a tutti i passi di lui. Però la Corte temeva i costituzionali più che i giacobini, che credeva guadagnar a denaro; teneansi corrispondenze con Mirabeau, Pethion, Vergniaud, Gaudet, Santerre; davasi loro denaro perchè calmassero la plebe, e fin 750,000 lire, con cui forse essi pagarono gli assassini del 10 agosto; ma con nessuno aveasi confidenza intera: intanto Roland, Dumouriez, Clavière spingeano il re a firmar i decreti contro il clero, contro i migrati e i proprj fratelli.

Fra sì inette oscillanze la rivoluzione trionfa; sfoggia una balda franchezza contro l’assolutismo che non esiste: e in nome della virtù si costituisce il governo più orribile che mai uomini abbiano subito, il Terrore, che non risparmiò nessuno: e che fu possibile soltanto perchè era l’ultimo termine logico degli errori predicati dai filosofisti. Erasi maledetto a Luigi XIV che disse, Lo Stato son io, ed essi dissero, Lo Stato siamo noi: erasi imprecato alle dragonate con cui egli puniva come ribelle chi professava un culto diverso; ed essi strozzarono, scannarono per violentare le coscienze.


III.


Tra questo vortice di fatti e di idee il giovane Buonaparte cresceva, certamente senza rendersene ragione non più degli altri contemporanei, ma attento a profittarne. Durante ancora il vecchio regime, egli avea preferito la carriera dell’armi, e la cominciò nella scuola militare di Brienne, poi in quella di Parigi, ove nel 1785 fu nominato sottotenente nel 4.° reggimento degli artiglieri, e capitano al 6 febbrajo 1792. Avventatosi nelle idee allora inevitabili, massime ai giovani, scriveva articoli e opuscoli, il cui tenore può argomentarsi dalla firma che vi apponeva di Bruto Buonaparte.

Da principio egli era passionato per la sua Corsica e pel Paoli. Nel 1792 mandossi a tentare uno sbarco in Sardegna per disviare il Piemonte dall’invadere la Francia colle forze che concentrava nella Savoja e nel Nizzardo. L’ammiraglio Truguet ne fu incaricato con forze scarse, e il Paoli per secondarlo spedì alquanti volontarj côrsi sotto il comando di Buonaparte, venuto allora nell’isola natìa per salutare i suoi parenti: ma la vigorosa resistenza de’ Sardi mandò a male la spedizione, che Buonaparte avrebbe voluta dimenticata da tutti, com’esso affettava di non accennarla mai.

Attaccatosi allora viepiù al Paoli, aspirava all’indipendenza della Corsica, sdegnoso di vederla sottoposta a stranieri «che ne aveano affogata la libertà in torrenti di sangue». Pure ambizioni più vaste fermentavano nel suo cervello. Quando la Convenzione citò il Paoli, Buonaparte scrisse per difenderlo: ma come quel generale gli confidò il pensiero di disobbedire, e staccarsi dalla Francia appoggiandosi all’Inghilterra, esso la ruppe seco, lo rimproverò, fuggì; onde l’assemblea generale côrsa (2 giugno 1793) dichiarò lui e la sua famiglia perturbatori del pubblico riposo. Pertanto, quando decretossi a Parigi una spedizione contro la Corsica, che erasi ribellata al giogo francese, fu affidata al Buonaparte (1794), ma egli non riuscì a prendere Ajaccio, difeso dai patrioti coll’appoggio degli Inglesi.

Anche Lione minacciava divenir capo del partito federale, che voleva scompor la Francia per sottrarla alla tirannica centralizzazione di Parigi: e il Buonaparte era ito a farne l’assedio sotto Kellerman (1793), poi nell’esercito del Varo a rincacciare oltr’Alpe i Piemontesi che davano mano ai federali, ed espugnare Saorgio nella contea di Nizza. All’assedio poi di Tolone, ch’era stata occupata dagli Inglesi, meritò il grado di capo battaglione e il comando dell’artiglieria.

Il giovane dovette esaltarsi alla grandiosità della campagna intrapresa dalla Francia contro l’Europa intera, col braccio d’eroi improvvisati e coi consigli dell’ancor giovane Carnot ministro della guerra, che alle teorie di Vauban per l’attacco e la difesa delle piazze ne sostituiva di nuove, consistenti dell’adoprare alternamente fuochi verticali in casematte per abbattere senza pericolo il nemico quando viene grosso, e in arditi colpi di mano quando debole; e regolarizzava l’impeto dell’intera nazione armata, che era spinta alle frontiere men tosto dall’amor della patria che dal desiderio di sottrarsi al Terrore, che di sangue inondava la Francia. Così mutavasi il tenor della guerra, e quel sistema nuovo che moltiplicava le masse d’uomini e ne ingagliardiva l’urto mediante la velocità, era il più adatto alla democrazia.

A tali scuole Buonaparte imparava che cosa valga il disordine, e quanto importi la disciplina, e convinceasi non potersi riparar allo scompiglio se non afferrando l’autorità. Da prima chiaritosi pel partito più esaltato, che diceasi la Montagna, allorchè questa diroccò per la rivoluzione del 9 termidoro, egli fu arrestato; ma fu rilasciato volendosi al terrore sostituir un ordine, che presto degenerò in fiacchezza. Di fatto s’introdusse un governo moderato, ma ecco le sezioni di Parigi e i giornalisti insorgere per abbatterlo (13 vendemmiale anno IV), sicchè bisognò reprimerli colla forza.

Carnot affidava tale incarico a Buonaparte. Questi era stato amico ai due Robespierre, ai quali e al Comitato di pubblica salute doveva la sua elevazione; ma attento a valersi d’ogni aura per veleggiare, volle esserne erede col sostituire il culto della forza a quello della libertà; e piantata l’artiglieria in faccia alla via Sant’Onorato, inesorabilmente mitragliò le sezioni di San Rocco e la turba ammutinata, lasciandone tre o quattrocento uccisi o feriti. Fu la prima vittoria che, in quella rivoluzione, il Governo costituito riportasse sopra la piazza, la legge sopra il tumulto. I vinti avranno bestemmiato il bombardatore, il disertore: ma la Convenzione acquistò forza, nominò Buonaparte generale in secondo delle milizie, e dopo due mesi lo mandava a capo dell’esercito d’Italia. Ciò facea per paura del giovane guerriero, ma con ciò esponeva la repubblica a pericolo ben maggiore.

Il gran nemico della rivoluzione era l’Austria, predestinata dalla postura, dall’indole, dalle tradizioni a rappresentare nella società europea l’elemento della resistenza; allora poi, animata particolarmente da esecrazione contro gli assassini di Maria Antonietta zia dell’imperatore, erasi posta a capo d’una gran coalizione, a cui mancò la fermezza di perseverare. Carnot, iniziato dallo studio di Vauban alle operazioni della gran guerra, aveva tracciato il disegno della campagna ove si trattava di mutare la difensiva in offensiva, e invadere il territorio austriaco, affinchè le truppe repubblicane, sprovvedute di vestiti e denari, potessero vivervi a spese altrui. In quell’impeto che non bada alle possibilità, parea convenisse marciare difilato sopra Vienna, e finire d’un colpo la guerra; ma i prudenti lo ravvisavano un sogno. Buonaparte, consultato, propose d’andarvi per la via d’Italia; qui s’avrebbe campo a vittorie sicure, qui messe d’amici e di denari; indi per le Alpi si potrebbe penetrar nel cuore dell’Austria, e obbligarla alla pace, dopo avere acquistato provincie, che si cederebbero in cambio de’ Paesi Bassi, arrotondamento necessario alla Francia. Secondo tale concetto, il generale Scherer era stato spedito verso le Alpi, e respingendo i Piemontesi, ne avea raggiunte le vette. Ma le costui campagne sistematiche mal soddisfaceano l’impetuosità di allora; fors’anche ne esageravano l’inettitudine coloro che voleano succedergli: fatto è che Buonaparte gli fu surrogato col titolo di generale in capo; ed egli partendo prometteva di ardire assai; colpire l’Austria, anima di tutti i principi d’Italia; eccitare contro di essa il sentimento nazionale italiano, e così schiacciarla. — Fra tre mesi (conchiudeva) o sarò di ritorno a Parigi, o vincitore a Milano».

Inutile dire che Buonaparte non avea voluto di quelle bande nè di quelle leve in massa, che gli adulatori della plebe asserivano aver salvato la Francia ne’ suoi maggiori pericoli, ma che e i buoni generali e le savie amministrazioni sempre considerarono come un flagello dei popoli e un impaccio degli eserciti.

A Nizza trovò 36,000 Francesi, o, come allora chiamavansi, Giacobini, in condizione deplorabile, senza cavalli, nè vesti, nè denaro, nè provvigioni, ma coraggio, costanza, ardore repubblicano, con valenti capitani, quali Massena, Augereau, Serrurier, Berthier, Miollis, Lannes, Murat, Junot, Marmont, tutti destinati a vivere nella storia quanto gli eroi dell’Iliade. Buonaparte smette con essi le famigliarità repubblicane e il tu caratteristico: si atteggia qual capo, benchè sia il più giovane; distribuisce ai generali quattro luigi ciascuno, e ai soldati dice: — Voi mal pasciuti, voi mal vestiti; e il Governo che tutto deve a voi, nulla per voi fa. Io, io vi condurrò nel paradiso terreste; colà piani ubertosi, grandi città, laute provincie; colà v’aspettano onore, gloria, amori, ricchezze».

Era il linguaggio di Alarico e di Alboino.

Il primo nemico che s’incontrasse erano i Piemontesi, i quali serragliavano i varchi dell’Alpi con 22,000 uomini, comandati dal generale Colli, e fiancheggiati da 36,000 Austriaci sotto Beaulieu. Ma i due generali guardandosi con gelosia, non operavano d’accordo, sicchè Buonaparte, moderato nell’ardimento, mentr’essi aspettavanlo per Genova, procede per la val della Bórmida: rottili a Montenotte e Mondovì, pel passo di Millesimo (11-14 aprile 1796) sbocca sopra il centro nemico, separa gli Austriaci dai Piemontesi, e questi sbaraglia. Il re di Sardegna, vedendo che, tra la servitù austriaca e la servitù francese, questa era meno odiata anche perchè nuova, si rassegna ad accordi, e in un armistizio (28 aprile) cede le fortezze di Ceva, Cuneo, Alessandria, Tortona, il che apriva la strada alla Lombardia.

Quanto coll’armi, altrettanto valeva Buonaparte a guerreggiare colle parole e coi sentimenti. Capì che, se avesse conquistato il Piemonte seminandovi le idee repubblicane, avrebbe sollevato il popolo contro i nobili e i preti, e si sarebbe così reso responsale degli eccessi, inevitabili in simili conflitti. Se al contrario, giungendo sul Ticino e sull’Adige, sciorinasse la magica parola d’indipendenza, il patriotismo italiano si concentrerebbe contro gli Austriaci, le varie classi accordandosi nel respingere questi e nell’innalzare il sacro nome d’Italia. Da Cherasco pertanto lanciò un proclama, ove diceva: — Italiani, l’esercito di Francia viene a spezzare le vostre catene. Il popolo francese è amico di tutti i popoli; corretegli incontro; le proprietà, le consuetudini, la religione vostra saranno rispettate. Faremo la guerra da nemici generosi, e soltanto contro i tiranni che vi tengono servi».

Eccolo allora, con esercito pasciuto, coll’artiglieria presa da tante fortezze, e ingrossando de’ volontarj che non mancano mai ai fortunati, calare nelle pingui valli sulla destra del Po, in un terreno proporzionato all’esercito. — Abbiamo riportato sei vittorie in quindici giorni, preso ventisei vascelli, cinquantacinque cannoni, molte piazze, quindicimila prigionieri; abbiam guadagnato battaglie senz’artiglieria, passato fiumi senza ponti, marciato senza scarpe, serenato senza acquavite e talora senza pane», diceva ne’ suoi bullettini, al leggere i quali la Francia smiracolava d’applausi all’eroe, testè sconosciuto: l’Italia poneasi in ascolto fra ansietà e meraviglia; e come tutte le volte che cambia padroni, fantasticava liberazione e felicità. La credeano, o almeno la promettevano quelli che aveano letto gli Enciclopedisti, seguito nelle gazzette la rivoluzione di Francia, cenato alle loggie massoniche: e quelli più serj che vagheggiavano la nazionalità italiana, e la speravano da repubblicani, non ambiziosi come i re, e da un generale italiano. La turba, ubriaca sempre d’entusiasmo per la forza, non finiva di applaudire al giovane eroe. Tremavano invece quelli attaccati all’ordine antico, alla quiete, alla religione, alle ricchezze, prevedendo come tutto sarebbe messo in subbuglio da una nazione che avea dichiarato volere strozzare l’ultimo re colle budella dell’ultimo prete.

Intanto per Buonaparte attaccare era vincere, vincere era conquistare, e subito doveva sistemare, dapertutto ai Governi antichi sostituendo i municipali. Entrato negli Stati di Parma e Piacenza, al duca concesse un armistizio per due milioni di lire, milleseicento cavalli, grano, venti quadri de’ migliori. E mentre i Tedeschi l’aspettano sul Po a Valenza, egli passa quel fiume obliquamente a Piacenza, batte Beaulieu, tardi accorso, vince di nuovo gli Austriaci al ponte di Lodi sull’Adda (9 maggio), e arriva a Milano (31 maggio), colla campagna più poetica che mai si fosse fatta.

Ufficiali militari prepone a tutte le municipalità; Binasco e Pavia, che osò far movimento, abbandona al fuoco e al saccheggio: dapertutto mette imposizione di guerra, toglie gli argenti alle chiese, i pegni ai Monti di pietà; e vede i suoi cenciosi soldati rivestiti, pingui, denarosi, carezzati dagli uomini e più dalle donne.

Imposti altri dieci milioni e viveri o quadri al duca di Modena, spedisce al Direttorio trenta milioni, cento cavalli di lusso, e altre somme all’esercito del Reno: «Prima volta (scrive egli) nella storia moderna che un esercito provvedesse ai bisogni della patria, anzichè esserle d’aggravio». A’ suoi proclama: — Altre marcie forzate ci restano, nemici a sottomettere, allori a cogliere, ingiurie a vendicare: quei che in Francia aguzzarono i pugnali fratricidi, tremino; i popoli tengansi sicuri; noi siamo amici dei popoli. Ripristinare il Campidoglio, resuscitare il popolo romano dalla lunga schiavitù, sarà frutto delle nostre vittorie. Il popolo francese, libero e rispettato da tutti darà all’Europa una pace gloriosa, che lo compenserà de’ sagrifizj di questi sei anni. Allora voi tornereste ai vostri focolari, e i concittadini additandovi diranno: Egli era nell’esercito d’Italia».

E le sue parole erano sempre di libertà, d’indipendenza, del suo grande amore pei popoli, e massime pei figliuoli dei Bruti e degli Scipioni. Eppure esso li sprezzava: — Gli Italiani son una gente fiacca, pantalona, superstiziosa, vile. Nel mio esercito non c’è neppure un Italiano, salvo 1500 arnesi, raccolti per le vie delle città, non buoni che a saccheggiare».

Così lascia trapelare quel vilipendio de’ popoli, che fu la colpa eterna della sua politica; nella quale si prefisse sempre non di uniformarsi ai sentimenti e alle credenze loro, ma d’adoprarli a propria servigio. In ciò secondavalo il Direttorio, che gli scriveva: — Alla prima occasione, spremete dai Lombardi quanto potete; fate di guastare i loro canali e le altre opere pubbliche: ma prudenza». Buonaparte guardavasi bene dal lasciar trapelare questi ordini. Sapeva che il Direttorio volea conquistar la Lombardia, per potere poi restituirla agli Austriaci in baratto de’ Paesi Bassi, ma egli non parlava che di liberazione; protestava non saremmo nè Francesi, nè Tedeschi, ma Italiani; lasciava sbaccanare i soliti appaltani di dimostrazioni, trescare i soliti ambiziosi, rubare al solito gli abbondanzieri, ma ordine e obbedienza, o guai. Insomma della rivoluzione voleva quel tanto solo che gli giovasse e servisse: sdegnava quei che lo intitolavano cittadino generale e lasciavasi dire Eccellenza; blandiva i nobili, sprezzava i capipopolo: ha troppo veduto che la violazione delle leggi porta la frenesia degli atti.

Il suo concetto era di voltare nel Tirolo, e per la valle dell’Inn e del Danubio congiungersi agli eserciti sul Reno, comandati da Moreau e Jourdan; ma Carnot, che riguardava come chimerico e pericoloso questo divisamento, e d’altra parte voleva blandire le antipatie rivoluzionarie pei re e pei papi, suggerivagli di lasciar metà dell’esercito in Lombardia, e col resto difilarsi sopra Roma e Napoli. Era per l’appunto il piano che rovinò Carlo VIII, e Buonaparte che se n’accorse, osò disobbedire, e porre assedio a Mantova, ultimo rifugio dell’aquila bicipite; indi avviossi a ritroso dell’Adige. Non potea farlo senza violare il territorio della repubblica veneta, opportunamente frapposto; ed egli non vi bada; varca il Mincio a Borghetto; si stabilisce in Peschiera; occupa Verona e assedia Mantova (3 giugno).

L’Austria allora dovette smettere il pensiero d’invader la Francia, e vedendo che, perduta Mantova, si troverebbe scoperta da quel fianco, mandò pel Tirolo il generale Wurmser con 60,000 combattenti, coi quali, secondati dai 10,000 chiusi in Mantova e dai devoti Tirolesi, sperava prender in mezzo i Cisalpini. Buonaparte non esita ad abbandonar l’assedio, si concentra alla punta del lago di Garda; nella battaglia di Lonato rintegra la sua fortuna (3 agosto), poi in quella di Castiglione compie la campagna (5 agosto), dove 30,000 uomini ne aveano superato 60,000.

L’Austria inesauribile, manda Wurmser un’altra volta, che lo respinge dal Tirolo, ma che poi battuto a Bassano (13 settembre), può a fatica gettarsi in Mantova, di cui vien rinnovato l’assedio.

Vedendo instancabile il nemico, e scarsi sussidj venir a sè, Buonaparte consigliava di far la pace cogli Stati più robusti d’Italia, e proclamare l’indipendenza degli altri. In fatto concesse armistizio al re di Napoli (11 ottobre); pace al re di Sardegna, facendosi cedere Nizza, la Savoja e liberi i passi; intanto incaloriva lo spirito democratico, col che si faceva dapertutto amici, i quali colle trame spianavangli le conquiste: Reggio e Modena s’accordano coi Cisalpini; Livorno e le fortezze toscane vengono occupate; insorgono la Lunigiana, Massa, Carrara; cacciato dalla Corsica il Paoli, v’è rialzata la bandiera francese.

Contro Roma principalmente imbaldanzivano le canzoni popolari come gli urli delle piazze e delle gazzette, e i discorsi delle tribune; e il Direttorio scriveva a Buonaparte che la religione cattolica era inconciliabile colla libertà e pretesto ai nemici di Francia, sicchè andasse, ne distruggesse il centro, rendesse spregevole il governo dei preti, e spingesse cardinali e papa a cercarsi un ricovero fuori d’Italia. Ma Buonaparte non meno che guerriero era organizzatore; onde si propose solo di fare una corsa sulle terre della Chiesa per cogliervi denari, coi quali difilarsi sopra Vienna. Infatti spoglia il santuario di Loreto, e a Tolentino detta al papa la pace (19 febbrajo 1797), costringendolo a ceder il contado Venesino e la Romagna, pagare trenta milioni, oltre preziosità d’arte7.

L’Austria intanto avea mandato nuovi soldati, e Buonaparte li rincacciò a Caldiero ed Arcole (15-17 novembre 1796); ma dopo la battaglia di Rivoli (2 febbrajo 1797) Mantova capitolò, restando così sgombra da Austriaci l’Italia. Mosso allora verso l’Alpi per assalir Vienna (10 marzo), Buonaparte al Tagliamento vince e passa; acquista le Alpi Noriche: ma veduto che il Direttorio non avea mezzi sufficienti onde mandare l’esercito del Reno a congiungersi all’italico, Buonaparte propone la pace all’arciduca Carlo, e se ne segnano i preliminari a Leoben.


V.


Noi ci badammo su questa campagna non solo perchè italiana, non solo perchè è il più bel momento della vita di Napoleone, ma perchè forma uno splendido episodio nella storia europea e in quella della Francia8, dove gli animi restarono divezzati dall’anarchia, e agli scompigli della libertà veniva sostituendosi un ordine, il quale doveva poi riuscire ai disordini della gloria.

Anche nell’esiglio di Sant’Elena Buonaparte non saziavasi di ricordare i bei giorni di quella spedizione, allorchè la gloria e l’amore

spargeano rose davanti ogni suo passo. — Ero giovane, balioso nella conoscenza delle mie forze, e smaniato di cimentarle. I vecchi mustacchi, che sdegnavano questo imberbe comandante, ammutolirono davanti alle mie strepitose geste; severa condotta, austeri principj pareano strani in un figliuolo della Rivoluzione. Dovunque passavo l’aria echeggiava d’applausi: tutto pendeva da me: dotti, ignoranti, ricchi, poveri, magistrati, clero, tutto a’ miei piedi: il nome mio sonava caro agli Italiani. Quest’accordo d’omaggi m’inebriò sì, che divenni insensibile a tutto ciò che non fosse gloria; invano le belle Italiane faceano sfoggio de’ loro vezzi; io non vedea che la posterità e la storia. Che tempi! che gloria!» E confessa che solo allora gli entrò la grande ambizione, l’idea di divenir un attore decisivo nel dramma politico.

Il Direttorio, che davasi aria di forza sotto una gran fiacchezza, pretendeva dirigere da Parigi le imprese di lui, e l’organamento de’ nuovi paesi: Buonaparte mostrava secondarlo, ma realmente facea quel che gli paresse, persuaso che la vittoria lo giustificherebbe. Ne’ carteggi suoi col Direttorio, pubblicati nella raccolta delle opere di Napoleone, non finisce di lagnarsi de’ commissarj di guerra, peste de’ popoli e de’ generali. — Non pretendo che non rubino: satollinsi a gola, ma rendano i necessarj servigi: essi invece rubano in maniera così goffa e sfacciata, che non uno sfuggirebbe al supplizio se avessi un mese di tempo». Ma nel Direttorio v’era chi tenea mano e faceva a mezzo.

Più che vincere è difficile il sistemar la vittoria; e il genio di Buonaparte manifestavasi nel costituire la repubblica Cispadana e la Cisalpina, nel raccomandare ai popoli nuovi d’armarsi, nel conservar la quiete, nel carezzare gli scienziati di qualunque partito fossero: nel Piemonte sommosso parteggiava per la Corte, e forse fin allora facea calcolo sulla Lombardia per formarsene sgabello a suprema altezza. Carnot prendea sempre maggior sospetto di costui, che come indipendente facea guerra, tregue, pace, dettava costituzioni, adunava tesori, decretava strade; ma come disfarsene quando stava in mezzo a un esercito che l’idolatrava? E Buonaparte, sentendosi forte in mezzo ai mediocri, operava senza e fin contro le istruzioni del Direttorio. Misto portentoso di mobilità e profondità, di esitanza e risolutezza, d’audacia e previdenza, di calcolo ed entusiasmo, ardito ne’ concetti, cauto nell’esecuzione: affettava ancora il tono di rivoluzionario e al direttore Röderer scriveva: — Sono un soldato, figlio della rivoluzione, uscito dal popolo, e non soffrirò d’essere insultato come un re»; ma sotto quelle sparate demagogiche aspirava a comporre e riordinare; mentre gli altri rubavano, egli accettava regali per sè, per la donna sua, pei parenti, e di continuo inviava denaro alla sua famiglia per educare i fratelli, per dotare le sorelle, per procacciarsi una casa ove riposarsi se le vicende d’allora lo riducessero ancora al nulla9: nel trattar suo già vedeasi la superiorità, e dalla sciarpa tricolore trasparivano le api imperiali. Fin d’allora diceva al Melzi e al conte Miot: — Credete voi che io trionfi per l’ingrandimento degli avvocati del Direttorio, per Carnot o Barras? credete sia per fondare una repubblica? Che idea! una repubblica di trenta milioni d’uomini coi costumi nostri e i nostri vizj! Possibil mai? È una chimera che passerà come l’altre mode de’ Francesi. Essi hanno bisogno di gloria, di soddisfar la loro vanità; di libertà non intendono un’acca. La nazione ha mestieri d’un capo: capo illustre per gloria; non di teoriche governative o di frasi ideologiche. Le si diano balocchi, e basta: si spasserà, e lascierassi guidare, purchè si dissimuli la meta a cui vuolsi dirizzarla»10.

Buonaparte avea preso affetto alla Lombardia, sua creazione, e cercando qualche altro compenso da dare all’Austria in cambio de’ Paesi Bassi, parvegli opportuna Venezia. Questa antica e gloriosa repubblica avea sperato assicurarsi l’amicizia della repubblica francese col democratizzarsi. Le trame fatte per ciò, le violente invettive lanciatele dalla sciagurata propensione degli Italiani di vilipendere il proprio passato e sconoscere le indigene grandezze, vennero secondate dalle armi francesi, sicchè l’antico governo fu abbattuto, e Venezia anch’ella gavazzò d’inni al liberatore straniero, che la salvava dall’oppressura della patria aristocrazia. Ciechi! Appunto allora Buonaparte conchiudeva a Campoformio la pace (16-17 ottobre), per la quale lo Stato Veneto sino all’Adige era consegnato all’Austria. Rimarrà questa sempre come la più indegna azione del Buonaparte; ed egli la compiva con arti da volpe, e contro agli espressi ordini del Direttorio; ma i Parigini manifestarono tanta gioja della conchiusa pace, che il Direttorio non ardì mostrarsene scontento.

Quando tornò in Francia (9 dicembre), le accoglienze non sariano potute farsi più splendide, ridestandosi l’entusiasmo dell’ammirazione ove da tempo non conosceasi che l’entusiasmo del furore: il Direttorio gli presentò una bandiera dov’erano noverate tutte le sue vittorie; e giornali a celebrarlo, e poeti a cantarlo, e non mai terminati trionfi a Parigi; eppure la pace di Campoformio era germe di non più terminabili guerre.

Nè tutti applaudivano al giovane vincitore. I Giacobini s’adombravano d’un general fortunato e silenzioso. I Liberali non perdonavangli che, passando le Alpi, avesse promesso il saccheggio come Alboino; corrotto lo spirito dell’esercito coll’eccitarne grossolane cupidigie, fin allora ignote: svogliato della Francia i popoli col tramutarla in conquistatrice e tiranna, qual erasi mostrata cogli ultimi Valois nelle guerre d’Italia che esso sciaguratamente ridestò; resala odiosa col vile tradimento di Venezia, col rapire i capi d’arti come Mummio in Grecia, e colle espilazioni regolari. Dati tali esempj, aveva egli ragione di dolersi del rubare che faceano generali, uffiziali, abbondanzieri, commissarj?

Il generale (come allora chiamavasi per antonomasia) disarmava gli avversarj affettando umiltà: — Non mi resta (diceva) che rientrar nella folla, riprendere l’aratro di Cincinnato, e dar esempio di rispetto pe’ magistrati e d’avversione pel governo militare, che distrusse tante repubbliche»; ebbe l’arte di ritirarsi in una modesta abitazione d’una via che subito fu detta della Vittoria e colà vivea privato con Giuseppina La Pagérie, bella creola, vedova del conte Beauharnais, morto sotto la ghigliottina: interveniva alle adunanze dell’Istituto di cui l’aveano eletto membro; coi costumi arcadici procurava rimuovere l’invidia.

Pure era consultato in ogni occasione; il popolo vedeva in lui il riparo d’ogni male, e stupiva di tanta modestia e che non avesse ambizione. Di fatto non avea quella piccola che si avviluppa in bassi intrighi e consorterie, bensì la grande, a cui la vista vulgare non arriva. Se n’accorgeva il Direttorio, e tenealo d’occhio; ma Buonaparte lamentavasi dell’ingiusta diffidenza, e chiedeva gli dessero nuova occupazione.

Bollendo sempre l’inimicizia nazionale de’ Francesi contro gli Inglesi, Buonaparte avea divisato di portar guerra a questi in Levante, e giacchè essi aveano occupato il Capo di Buona Speranza, assicurarsi una via più spedita alle Indie col conquistar l’Egitto. I materiali rapiti a Venezia, e tre milioni tolti al tesoro di Berna, gliene offrivano i mezzi: già aveva occupate le isole possedute dai Veneti in Levante, e tanto fece che indusse il Direttorio ad affidargli un esercito; egli fa unirvi una spedizione scientifica; e quella romanzesca spedizione alletta il fior de’ prodi e de’ sapienti. Con tredici vascelli di linea, cui ne unisce due veneti da 64, sei fregate pur venete e otto francesi, settantadue legni minori e quattrocento trasporti con diecimila marinaj e quarantamila soldati, parte senza che alcuno sappia per dove si dirige. Tra via occupa Malta, togliendola all’Ordine militare-religioso de’ Giovanniti (12 giugno 1798); sfugge alla vigilanza della flotta inglesi capitanata da Nelson; giunge ad Alessandria (1 luglio), affronta i Mamelucchi in vista delle Piramidi di Giseh (21 luglio), dicendo al suo esercito: — Quaranta secoli vi guardano dall’alto di queste»; trionfante, non fa cangiamenti inutili nel governo e negli usi, ma proclama: — Io pure venero il profeta; io distrussi l’Ordine ch’era incessante nemico de’ Musulmani; la mia nazione è nemica al capo della religione cristiana»; al Cairo assiste alle feste musulmane, recita le preghiere, edifica colla sua devozione, intanto che gli scienziati raccolgono, disegnano, studiano le antichità, la storia naturale, la geografìa dell’Egitto, che deve a questa spedizione se fu poi noto all’Europa dotta. Ma intanto Nelson batte la sua flotta ad Abukir (1 agosto), sicchè Buonaparte pareva irremissibilmente perduto, e i suoi devoti apponevano taccia al Direttorio d’averlo per gelosia mandato a finir male.


VI.


Quel Direttorio ogni giorno scadeva di credito; governo corrottissimo, dove l’onnipotenza stava nelle belle, come dianzi era stata nei carnefici, e per esse otteneasi onori, posti, impunità di rubare, di affamar gli eserciti, di espilare provincie, di dilapidare il tesoro. Ogni giorno peggiore ne diveniva la posizione, col paese disavvezzo a obbedire, non sicurezza, non giustizia, non denaro, non gloria. La nazione, smaniata di una libertà che non comprendeva, s’era trovata spinta in un abisso, ove la piazza pubblica diveniva campo alle lotte delle fazioni e ai supplizj; i confini restarono invasi dallo straniero; vile, beni, culto furono preda di pochi scellerati; la coalizione rinnovata fra la Russia, l’Austria, l’Inghilterra, le Due Sicilie, mostrava che gli eserciti repubblicani non erano invincibili; nell’Italia, sobbalzata da partiti e malmenata dalla prepotenza militare e dagli intriganti, non rimaneano ormai alla Francia che Ancona e Genova assediate. Più si soffriva, più s’invocava il lontano Buonaparte, e ripeteasi volerci, non costituzioni e arzigogoli parlamentari, ma una testa e una spada.

A Buonaparte giungeano in Africa queste voci allorchè la fortuna parea averlo abbandonato; e mal riuscito nell’alto Egitto, attorno ad Acri consumava tempo e forze, bersagliato dagli Inglesi e dalla peste. Con uno di que’ colpi che solo l’esito giustifica, abbandona tutto, e con pochi prodi traversa a gran rischio il Mediterraneo, e sbarca a Fréjus (9 ottobre 1799), violando fin le leggi sanitarie. Quanto più temerario, più incanta il popolo, che esclama al miracolo; ed egli va offrire al Direttorio la spada, che giura non isnudare se non a difesa della repubblica.

L’incognito è sempre la fiducia de’ popoli malcontenti. E come a Buonaparte attribuivasi ogni vanto, così in Buonaparte metteasi ogni speranza: i Bruti confidavano per suo mezzo ripigliare il sopravvento, salvo a uccider poi Cesare; i moderati promettevansi che egli, forte, rimetterebbe l’ordine; i realisti lusingavansi ripristinerebbe la dinastia; gli intriganti speravano pescar nel nuovo torbido; tutti i soffrenti attendevano da lui la fine dei mali; chè come tale suol guardarsi il cambiar di mali. Nessuno aveva un piano: Buonaparte solo era fisso nell’ingrandir sè stesso, ajutato dalla fortuna, dall’arte di conoscere l’opportunità, e dal non iscrupoleggiare sui mezzi. Si fa amici ne’ soldati e negli impiegati; come suole il genio, trascina i mediocri, e un bel giorno (18 brumale, 10 novembre) entra nel Corpo Legislativo, e mentre i Cinquecento gli urlano al dittatore, al Cesare, al Cromwell, e impugnano stili per trafiggerlo, egli intima loro di voler salva la repubblica, cinto da’ suoi fratelli d’armi, e accompagnato dal dio della fortuna e dal dio della guerra; e accusandoli che tentino assassinarlo, fa dalle bajonette de’ suoi sgombrare la sala. Queste insurrezioni del potere contro la moltitudine, fra tante della moltitudine contro il potere, sogliono condannarsi dai liberali declamatori: eppure gli storici più savj non solo scusano ma lodano quest’atto di Buonaparte; e fino un suo pertinace avversario, la baronessa Stäel, già allora esclamava: — La nazione era giunta a quella crisi politica ove non credesi trovar riposo che nel governo d’un solo. Così Cromwell governò l’Inghilterra coll’offrire agli uomini compromessi dalla rivoluzione il ricovero del suo dispotismo.... Gli eserciti erano sconfitti in Italia, e scarmigliati per colpe dell’amministrazione: i Giacobini cominciavano a ricomparire: il Direttorio mancava di considerazione e di forza.... La paura destata dai Giacobini servì potentemente il Buonaparte. La loro apparizione non era che quella d’uno spettro, che viene a smuovere le ceneri; ma bastava per ridestare l’odio che ispiravano, e la nazione si precipitò nelle braccia di Buonaparte fuggendo un fantasma»11.

Difatti era il caso di dire come Montesquieu di Cesare: Se Buonaparte avesse pensato come i patrioti, un altro avrebbe pensato come Buonaparte. I popoli non cercano l’estetica in fatto di governo: e quando un rimedio è necessario l’adottano, anche conoscendolo cattivo. Ora la dittatura è appunto il rimedio necessario quando il disordine è al colmo, quando le assemblee politiche usurparono i diritti sovrani. Il primo console avea per missione di sostituire l’ordine allo scompiglio, di calmare le menti frenetiche, di fortificar la legge contro l’anarchia. Per farlo doveva essere imparziale; far la causa pubblica, non la propria. Egli al contrario operò per sè.

Già d’allora l’insensata furia con cui la nazione lanciavasi verso l’oppressor suo futuro addolorava i sensati, e un membro del Governo esclamava nell’amarezza del suo cuore: — Ecco dunque ove riesce questa rivoluzione, cominciata con uno slancio quasi universale di patriotismo e amore della libertà! Che? tanto sangue versato sui campi, tanto sui patiboli, tanti sacrifizj di quanto l’uomo ha di più caro, non saranno riusciti che a farci cangiar di padrone, sostituire una famiglia dieci anni fa sconosciuta e appena francese, a quella che da dieci secoli regnava! La condizione nostra è dunque sì miserabile da non aver altro rifugio che il dispotismo? da esser obbligati, per rimuovere i mali onde siam minacciati, ad accordare al Buonaparte tutto senza domandarne nulla.... senza che qualche nuova istituzione almeno supplisca quelle che altre volte faceano argine ai capricci de’ vecchi nostri padroni? Non in un senato avvilito, in un consiglio di stato amovibile e inconsistente, in un corpo legislativo muto, in un tribunale tremante e mendicante di posti, in una magistratura disistimata può cercarsi un contrapeso al potere smisurato che confidasi a un uomo solo»12.

Pure quel colpo ad una amministrazione impura e screditata surrogava un potere eccessivo ma regolare, e gli animi, stanchi di quegli ordigni costituzionali, invocavano d’esser governati.


VII.


Il consolato poteva esser uno dei tanti cambiamenti subìti dalla rivoluzione, e di durata efimera come gli altri: oppure esser il cominciamento d’un’êra di quiete, «dove la libertà e la repubblica cessassero d’essere vani nomi».

La rivoluzione, cominciata dalle cattedre e dai libri, logicamente era arrivata alle barricate e alla ghigliottina: le rosee speranze di Saint-Pierre, Marmontel, Rousseau riuscirono a Marat, a Danton, a Saint-Just, a patiboli dove bisognava scavare fogne perchè il sangue defluisse. Sbigottita dei proprj eccessi, fiaccata da queste frenesie, la Francia non sentesi più vigore nè per continuare gli eccessi, nè per rientrare nell’ordine: e questo barcolamento appare dopo Termidoro e nel Direttorio che vi succede, con qualche risalto di ferocia in mezzo all’inerzia stanca. La immoralità era immensa, cresciuta dallo spettacolo della gente nuova, impinguatasi colle confische. Pure allora cominciavasi a gustare l’uguaglianza, la libertà, gli altri beni che colla rivoluzione eransi acquistati, pur comprendendo che sarebbonsi potuti avere ad assai minore costo: e bramavasi consolidare lo stato nuovo, per non esporsi a un’altra rivoluzione.

Lo scopo di Buonaparte riduceasi dunque ad arrestare la rivoluzione, profittando di quel ch’essa aveva recato di buono. Di fronte a un andazzo di cose che, a forza di dirlo, erasi creduto insopportabile, non poteva che esser applaudito un sistema che proclamava l’abolizione d’ogni privilegio, l’eguaglianza di tutti in faccia alla legge, il prender parte tutti alle determinazioni politiche. Ma tutto ciò era un fatto critico, una distruzione, un’arma di guerra: nè valeva a stabilire un dogma in cui s’acquetassero la ragione e l’esperienza. Anzi l’esperienza chiarì che da quella interruzione generale nella politica nascevano necessariamente l’anarchia e avvicendate rivoluzioni: la ragione rimanea perplessa fra principj evidenti e le conseguenze disastrose che ne derivano allorchè la legge eterna della giustizia e i diritti inalienabili delle persone vengono abbandonati alla irrefrenata volontà della turba.

Costituzione in Francia non restava già più quando Buonaparte spazzò via quell’inetta consorteria; onde non provò difficoltà nel trarre a sè tutta la potenza che non gli era contrastata dalla nazione, alla quale proponeasi di dare tutti i beni di che essa mostravasi affamata. Sostituiti al Direttorio i tre consoli Siéyés, Roger Cucos e Buonaparte, questi vi si pone in mezzo, recasi in mano tutta l’autorità che la Francia era disposta a lasciar prendere, e in compenso le dà i beni di cui era ingorda. Lascia che Siéyés congegni una costituzione artificiosissimamente filosofica, con un’aristocrazia senza tradizioni, una democrazia senza elezioni, una monarchia senza eredità, dove l’ingerenza del popolo non era che apparente, e in realtà ogni cosa facea Buonaparte; tratta a sè tutta la vita politica, dà egli solo il movimento a quella macchina inattiva; e non volendo soltanto governare, ma ricostruire, chiude l’êra dell’anarchia mediante un regimo robusto e sistemato, qual bisognava per tutelare la libertà e propagarla; avvezzando all’unità del comando, restringendo i giornali, valendosi di tutte le capacità, qualunque ne fosse il colore, avendo per programma, — Non più Giacobini, non Terroristi, non Moderati, ma tutti solo Francesi». Egli, pensiero e volontà unica, poteva adoprar persone che aveano voluto e pensato tutt’altrimenti: gli onesti otteneano impieghi accanto ai grandi scellerati; i nobili antichissimi poteano sedersi coi villani rifatti: diceva: — Tengo maggior conto di un Brignole che di cento battellieri, genovesi»; e soggiungeva: — Escludere, i nobili dagli impieghi è una ingiustizia ributtante. Fareste quel che han fatto essi.... Diffidate di chiunque vuol concentrare l’amor della patria esclusivamente in quei della sua consorteria. Se costui ha l’aria di sostenere il popolo, e’ lo fa per esasperarlo e dividerlo. Denunzia continuamente. Egli solo è puro. I così fatti son prezzolati dai tiranni, di cui secondano sì bene le mire. Uno Stato, massime piccolo, dove si prende l’abitudine di condannare senza ascoltare, d’applaudire un discorso quanto più è furibondo; quando si chiama virtù l’esagerazione e il furore, delitto la moderazione: quello Stato è sull’orlo della ruina».

Molto si applicò a risanguar le finanze, ripristinare il credito, dissipare le cospirazioni dei realisti e dei preti; fece deportare molti demagoghi, e insieme riaprir le chiese, cessare la festa del regicidio e il giuramento d’odio ai re. S’installò nella reggia, e al suo segretario disse: — Or che siamo alle Tuileries bisogna sapercisi mantenere». Si pose intorno a guisa di corte la propria famiglia, per quanto l’antica nobiltà berteggiasse le sinistraggini di questi plebei rinciviliti e delle improvvisate principesse.

Il popolo non sottilizzò sull’illealità del fatto, il popolo che è sempre per chi riesce; gli ambiziosi, che aveano secondato Buonaparte sperando nella sua riconoscenza, si trovarono delusi; i liberali s’accorsero d’aver un padrone. I partiti che a vicenda s’erano disputato il dominio, trovarono in lui una contraddizione ai loro principj, ma una soddisfazione ai loro interessi; i rivoluzionarj potevano godersi i frutti carpiti; i realisti cessavano di paventare per la propria testa; la nazione avea riposo e sperava gloria. Quella libertà di cui erano così appassionati, ormai non la curavano più, dacchè non ne aveano sperimentato che i vincoli, i pericoli, gli eccessi. Non si tornava però all’obbedienza di prima, derivata dall’onore e da una riverenza quasi religiosa verso il sovrano, e che, anche nella massima dipendenza, conservava la nobiltà del sentimento. Ai prischi re non potea pensarsi, dacchè vi s’era frapposto tanto sangue e sì prezioso. Sapeva già di meraviglioso un Governo che non ghigliottinava, non proscriveva. Intanto la società si restaurava; tornavasi a vivere e goder della vita, riaprivansi i teatri, i circoli, le chiese; si rideva, si discuteva, si pregava, si amorazzava.

Buonaparte però sapeva che al trono non si arriva che per la via de’ campi, e gliela apersero le mosse di una nuova coalizione dei re assoluti. A combatter questa e rialzare la bandiera francese, in Italia sventolante solo a Genova, Buonaparte muove; con ardita marcia passa il San Bernardo (maggio 1800), mentre altri suoi generali sboccano da quante valli s’aprono nella catena alpina fino a Bellinzona; entra in Milano (2 giugno), e nella pianura di Marengo, fra la Scrivia e la Bormida, sconfigge gli Austriaci (14 giugno). I quali, sebbene non disfatti, son presi da tale sbigottimento, che cedono le fortezze, salvo Mantova: e la pace di Lunéville (9 febbrajo 1801) conferma alla Francia il Belgio, all’Austria il Veneto, riconoscendo le repubbliche Batava, Elvetica, Cisalpina, Ligure13.

Con ciò ripristinavasi il diritto pubblico antico, che la rivoluzione aveva sovverso e rinnegato, e Buonaparte, lodato per aver abbandonato il posto sommo della repubblica onde mettersi a capo dell’esercito, fu lodato ancora come genio dell’ordine e del buonsenso, quando, appena ebbe vinto, tornò in Francia a ravvivar lo spirito repubblicano, premiare, ristabilire la sicurezza e l’istruzione pubblica, consolidare l’amministrazione.

Un tentativo di ucciderlo mediante una macchina infernale (24 dicembre 1800) ne cresce la popolarità, e gli dà ragione di deportar i repubblicani, e di camminare più franco alla dittatura; abolisce il tribunato, ultimo rifugio della resistenza; ispira il Consiglio di Stato, nel quale si discute il Codice dove consolidaronsi i frutti della rivoluzione, e che ne renderà immortale il nome, più che le sue vittorie.

Ma se il disaccordo fra i lumi, la giustizia, la società, aveano prodotto la rivoluzione, bisognava rintegrarne l’armonia, non già spezzando ogni legame col passato, come si fa col sacrificare tutti i diritti ad un fine politico, bensì profittando de’ precedenti, e dei robusti mezzi che l’eccezionalità de’ tempi offriva. Il Codice doveva fondarsi sui nuovi dogmi di libertà, eguaglianza, fraternità; acconcio alla proclamata filantropia, all’ampliamento dell’industria e del commercio, dovea riassumere chiaro e preciso i costosi acquisti della rivoluzione, emancipare il Governo dalle restrizioni feudali ed ecclesiastiche. Nelle memorabili discussioni che precedettero, Buonaparte, che sapea ben poco di scienza giuridica, spesso correggeva col buon senso i deliramenti della riazione o gli scrupoli della pedanteria; secondava le passioni democratiche nel diritto civile purchè non turbassero la direzione dello Stato, e così arrivossi a tre punti fondamentali: secolarizzare l’ordine politico e civile; pareggiare tutti i cittadini in faccia alla legge, e tutti i figliuoli nella famiglia; svincolare la proprietà col diritto di usarne e disporne senz’altri limiti che quelli dalla legge imposti per pubblico vantaggio.

Assai si è parlato de’ meriti e demeriti di questo Codice, fatto all’uscire da una rivoluzione i cui eccessi aveano sbigottito l’umanità, in tempo che erasi abolita ogni religione, e sotto l’ispirazione d’un grande, che mirava a trar vantaggio dalla compressione delle libertà, sicchè lasciava fila con cui tessere nuovi legami, che poi strinse nelle leggi e ne’ codici successivi.

Quest’unità di legislazione, applicata ai varj popoli man mano ch’erano vinti o aggregati, riuscì comoda ai Governi più che grata ai popoli, de’ quali sconcertava le abitudini, e qualche volta conculcava gl’interessi e i sentimenti. Il progresso non v’era spinto, non iniziato un avvenire glorioso, non impedito l’assolutismo, tanto che poterono adottarla anche Stati dispotici. Meschino v’è il concetto della famiglia, lasciando l’uomo nell’isolamento; disgrazia l’aver figliuoli; la proprietà non è un assioma morale, ma l’equivalente d’un godimento; interdetta ogni opeva collettiva e perpetua. Ma disposizioni benigne e ragionevoli, sebben non generose, sanzionavano quanto di meglio aveano proposto Pothier e Domat, e quanto veniva reso possibile dall’abolizione del feudalismo; di facile pratica, di limpido senso, il Codice porgeva quella regolarità, che allora era il sospiro di tutti, e che dovea necessariamente precedere ad ogni progresso.


VIII.


Ma solo la Chiesa, purificata nella persecuzione, poteva proporre idee e forme di ordine stabile e riconosciuto. Mentre nel secolo antecedente i principi eransi adombrati del clero come troppo favorevole al popolo, dappoi il clero fu presentato qual sostegno dell’assolutismo; e la rivoluzione, ben più dispotica dei re, arruffò le cose religiose, e volle comandare alle coscienze. L’Assemblea Nazionale decretò che ciascun dipartimento di Francia formasse una diocesi, e ne assegnò il capoluogo; le distribuì sotto dieci metropoliti, cassando gli altri; proibì di riconoscere l’autorità d’un vescovo o metropolita sedente in paese straniero; soppresse i capitoli, le collegiate, le abbazie, i priorati, le cappellanie, i benefizj, eccetto i vescovadi e le parrocchie; l’elezione dei vescovi e dei parroci affidata a un corpo elettorale, abolendo i patronati laicali; ogni nuovo vescovo non s’indirizzerà al papa per ottenere la conferma, solo scrivendogli come a capo visibile della Chiesa universale; ma la conferma chiederà al suo metropolita o al vescovo anziano della provincia. Il vescovo è pastore immediato della parrocchia episcopale, con un determinato numero di vicarj che l’amministrino, e formino il consiglio suo permanente, senza dei quali non potrà esercitare verun atto giurisdizionale pel governo della diocesi. Al vescovo e al suo consiglio spetta la nomina de’ superiori del seminario, che sono membri necessarj d’esso consiglio. Il primo o secondo vicario della chiesa cattedrale sostiene le veci del vescovo in sede vacante, sì per le funzioni curiali, sì per gli atti di giurisdizione.

È questa la famosa Costituzione Civile, che il Thiers dice «opera dei deputati più pii, più sinceri dell’Assemblea, senza di cui i filosofisti avrebbero trattato il cattolicismo come le altre religioni». Così l’avessero trattato! ma in fatto era un’attuazione del giansenismo, e fu dai Giansenisti proposta e accettata come un mezzo di salvar almeno qualcosa; mentre la libertà qui pure avrebbe prevenuto gli immensi mali derivati dalla mostruosità di trasformare i preti cattolici in semplici filosofi, che continuassero a dir messa senza credere nè al vangelo, nè alla Chiesa, nè alla divinità di Cristo; conservare il culto sol come pastura del popolo e salvaguardia della sua moralità; commettere cioè una grande ipocrisia, quasi fossesi conservato il fondo. Costringendo i preti a giurare d’essere fedeli alla nazione, alla legge, al re, a questa Costituzione, l’Assemblea obbligava gli onesti a separarsi dalla rivoluzione, gettava la scissura nelle coscienze e negli atti, e rese necessarie le migliaja di supplizj, che fanno ancora esacrata la memoria di quei tempi.

Molti preti resistettero alla Costituzione Civile, come non aveano fatto i vescovi inglesi o tedeschi nel Cinquecento, come non sarebbesi mai aspettato da quegli abati eleganti: lottavano e morivano per non lasciarsi rapir la fede: e, se la religione era scomparsa dalle città, dove non più chiese o vescovati o monasteri o preti, viveva o rinasceva nelle anime14. Già nel 1797 moltissimi Comuni reclamavano la loro chiesa, la lor canonica, le loro campane, i segni esteriori del culto, ed è famoso il rapporto che, nella tornata del 29 pratile anno V, fece Camillo Jordan, appoggiandosi all’articolo della Costituzione che «nessuno poteva esser impedito dal professare il culto che scegliesse, conformandosi alle leggi»15. Era troppo presto per parlare di pace e giustizia, ond’egli fu oppresso di beffe e d’insulti, ma appena il Direttorio sospese le persecuzioni, 40,000 Comuni ripristinarono il culto.

Quinet, nel suo libro sulle Rivoluzioni, disapprovando tutti i temperamenti della civiltà e i precetti dell’umanità, invoca contro i dissidenti, cioè i Cattolici, la distruzione e l’eccidio; deride coloro che presumono annichilare il cristianesimo senza ferocia; mentre bisogna abbatter le chiese, trucidare i sacerdoti, sostituire a quel culto un altro, un altro dogma all’invecchiato: solo con ciò potersi assicurare il trionfo.

Ebbene, i manigoldi della rivoluzione aveano fatto quel che il retore propone; i sacerdoti che ricusavano appostatare, caddero trucidati o andavano profughi; al Cristo umanato erasi surrogata la dea Ragione; alle feste della redenzione e della santità quelle della libertà, della prudenza, della fecondità; al matrimonio il sacramento dell’adulterio: si tolser di mezzo tutte le istituzioni, da cui l’idea di Dio è mantenuta viva ed efficace nella coscienza degli uomini, e la nuova fede fu propagata con centinaja di ghigliottine e con un esercito, che era tutta la nazione armata. I voti dei liberi pensatori erano adunque stati coronati, eppure la religione del Figliuol del fabbro resistette, rivisse.

Se ne ricordino essi, per fare assai peggio quando l’Europa metterà in man loro le sorti sue e della loro gran nemica.

In un discorso recitato anni fa all’Unione Evangelica di Berlino, un illustre protestante tedesco diceva: — La rivoluzione ha un’immensurabile profondità: nè può colmarsi con una carta costituzionale, la quale è anch’essa un fatto rivoluzionario. Nè tampoco si chiude colla forza. Una sola potenza può terminare l’êra sanguinosa: il cristianesimo. Esso è l’estremo opposto alla rivoluzione: perocchè fonda tutta la vita umana nell’ordine divino».

In questa medesima persuasione doveva essere Buonaparte fin da quei giorni; e il buon senso, che lo rendeva superiore ai tanti avvocati e generali rivoluzionarj di allora e di poi, gli avea fatto comprendere che non la libertà, ma solo l’autorità può conservare e ricostruire; e l’autorità richiede, non già l’eguaglianza di tutti, ma la prevalenza de’ migliori.

A differenza dei fiacchi impetuosi che non sanno se non distruggere, egli, forte, conosceva le cose che hanno vitalità; onde non avea voluto conculcare il papa: in Italia assistette ai Te Deum; valeasi dei curati e dei vescovi; e quando si trovò primo console, con Pio VII papa entrò in trattative per ripristinare il culto, e più che ai pochi devoti di Voltaire, soddisfare al grosso del popolo che sentiva bisogno del Redentore per nobilitare la natura, benedir le cune e i feretri, giudicare le iniquità dei forti; soddisfare agli stessi pensatori che meditavano su tante ruine accumulatesi, senza che si sapesse al cristianesimo sostituir altra legge generale dell’uomo e del mondo.

Pertanto, con faticosissime cure, si conchiuse col pontefice il Concordato, il quale ristabiliva la religione cattolica in Francia, e riconosceva i diritti della santa sede (1801), per quanto mutilati e ristretti; e la pasqua del 1802 i cannoni salutarono di nuovo una festa cristiana.

Non era un decreto del Buonaparte che risvegliasse le coscienze individuali, che rimettesse dall’incredulità alla preghiera. Ma che rider non ne fecero i Volteriani!16 Il generale Delmas disse a Buonaparte: — Fu una graziosa cappuccinata. Sol vi mancava un milione d’uomini, morti per distruggere quel che voi ricostruite». Ma Luciano Buonaparte nel presentare il Concordato al Corpo Legislativo esclamò: — Se si fosse anticipato di dieci anni, avrebbe risparmiato torrenti di sangue».

In fatti, tutto ciò che sussistette a lungo, fu naturale, vero, utile a qualche cosa: ma ciò che rinasce è necessario. La risurrezione è indizio di divinità.


IX.


Scioltasi intanto la coalizione del Nord, assassinato Paolo di Russia, anche l’Inghilterra ad Amiens fe pace (1802, 9 febbrajo) colla Francia, che così mostravasi riconciliata col mondo civile. Sebbene perduta per sollevazione la colonia di San Domingo, Buonaparte vendesse anche la Luigiana, pure la Francia trovavasi in fulgida posizione; acquistato per confine il Reno, incorporatosi il Belgio, fatto suo porto Anversa, sua divisione militare il Piemonte, sua creatura il regno d’Etruria, suo satellite la Repubblica Italiana, suo connivente il regno di Napoli. Era difficile che le potenze rivali tollerassero tanti incrementi, nè che la Francia se n’accontentasse. Buonaparte poi sentiva il bisogno di nuova guerra per levarsi sublime; e ben presto la rompe coll’Inghilterra. Per vincerla avrebbe dovuto aver tutto il continente per sè: invece se lo rese tutto nemico, ed essa divenne protettrice dell’indipendenza. Allestisce una flottiglia a Boulogne per tentare uno sbarco nell’isola. Che se la ragion sua gli persuadeva che con barche non si pigliano vascelli d’alto bordo, voleva anche adesso stordire collo straordinario, e intanto esercitare le truppe, radunatevi dai più lontani paesi, e che, affratellatesi nella comunanza dei pericoli, degli stenti, delle manovre, gli vennero poi a gran bisogno nel Vallese, in Olanda, al Varo, sull’Adige.

Perocchè già non si aspirava più a trasformare il mondo in virtù d’una idea, bensì a dominarlo e sovvertirlo mediante la forza.

Una cospirazione di realisti punita con supplizj, poi il processo di Moreau, l’assassinio nascosto di Pichegru e il palese del duca d’Enghien, disingannano quelli che credeano Buonaparte dovesse essere il Monk dei Borboni, intanto che i suoi emissarj sparnazzavano quanto fosse preziosa la sua vita, quanto il tempestato vascello della repubblica avesse bisogno d’uno stabile piloto. Per averlo, da prima egli fu acclamato console a vita; poi, ripescando tra le reminiscenze di Augusto e di Carlomagno, si propose la dignità e il titolo di Napoleone I imperatore de’ Francesi (18 maggio 1804). Per avvezzare all’obbedienza la generazione più indisciplinata, occorreano tutte le forme più variate e fin repugnanti: ed esso volle il suffragio popolare colla ciarlataneria de’ registri17, poi la consacrazione religiosa, facendo venir Pio VII a coronarlo a Parigi (2 dicembre 1804): dove giurava l’eguaglianza civile, la tolleranza di tutti i culti, il concorso di tutta la nazione a far le leggi, l’ammissione di tutti alle dignità e agli impieghi. Gli Italiani, nei comizj radunati a Lione, chiamandolo presidente della Repubblica Italiana col nome, allora primanente unito, di Napoleone Buonaparte, aveano additata ai popoli e a lui la via al trono: allora lo chiesero re d’Italia, e come tale si sacrò in Milano (1805, 16 maggio), ove ponendosi da sè stesso la corona ferrea, disse: — Dio me l’ha data, guai a chi la tocca».

Consacrazione più effettiva ai nuovi titoli bisognava fossero le vittorie, per quanto la Francia lo avesse sublimato per la promessa della pace. Mosso contro la Russia e l’Austria, gira alle spalle di Mack, lo chiude in Ulma (8 settembre 1805), e fa prigionieri 33,000 Austriaci senza tirar colpo; poi ad Austerlitz (2 dicembre) riporta una vittoria decisiva, cui segue la pace di Presburgo (26 dicembre), per cui all’Austria toglieva il Tirolo, e il Veneto e 140 milioni; ma fedele al suo sistema d’indebolire i territori senza annichilare il nemico, lasciava l’Austria ancor tanto robusta, da molestarlo sempre, e infine perderlo.

Scompone allora il millennario Impero Germanico, sostituendovi una Confederazione Renana, di cui si dichiara protettore; colloca i proprj fratelli sui troni di Napoli e di Westfalia; rompe la Prussia a Jena (14 ottobre 1806). La Russia, alla cui testa allora stava un grand’uomo, Alessandro I, non avea preso parte alla pace: e Napoleone, voltosi ad abbatterla, ridesta le speranze immortali de’ Polacchi, sconfigge i Russi a Friedland (14 giugno 1807), e chiede un abboccamento a Tilsit coll’imperatore Alessandro, dove conchiudono una pace (9 luglio), nella quale i due ambiziosi spartivansi il mondo.


X.


Qui è l’apogeo di Napoleone; egli solo empie la scena, testè occupata da un’intera generazione, e qui volentieri deporrebbero la penna i suoi panegiristi. Perocchè, se stupende furono le sue prime vittorie, cessano di esserlo dacchè avea sottomano tanti mezzi, tanto fascino, nè più valutava quante migliaja d’uomini sacrificasse. Se prima combatteva in nome della libertà e dei diritti dell’uomo, or si muove per sola ambizione personale; più non parla di popoli; non intende più ragione, non moderatezza.

Volete vedere a che fossero sotto Napoleone la vita morale della Francia e dell’Europa, i diritti degli uomini e di Dio? non guardate i bullettini, il Memoriale, i panegiristi, nè tampoco gli storici, ma la sua corrispondenza, i decreti, le leggi; non osservatelo sui campi, ma nel gabinetto; non colle leggende ma coi fatti. E apparrà ch’egli volea toglier alla Francia le libertà politiche; all’Europa la libertà di governo e di nazione; alla Chiesa la libertà delle anime. Alla banda immonda de’ rivoluzionarj surroga l’esercito, che può tutto, ma che ha un padrone: e le nazioni tratta come reggimenti, ai quali intima Avanti! o Fermate! calca la mano di ferro su Amsterdam come su Parigi, su Amburgo come su Roma: tutto distruggendo per tutto spianare. Chiamava i Francesi la gran nazione, e gli adoperava come stromento per abbatter le grandi idee, in guerre ingiuste, conquiste odiose, spogliazioni inique, erezione di nuovi troni sui rottami dei vecchi, insolenza rapace di vincitori, opposizione al movimento liberale, a quanti volevano la pace e la nazionalità.

Tutti gli ordigni costituzionali, di cui pur avea conservato almeno le apparenze, erangli balocchi, che spezzava non appena divenissero meno obbedienti. Ha veduto il governo di Luigi XVI perire per debolezza, ed egli vuol la forza: ha veduto i teorici piantar sistemi inetti, ed esacra gli ideologi. La costituzione dell’anno VIII avea posto «Un solo deve agire, molti deliberare»; ed egli agiva e deliberava da solo, secondo la teorica giacobina, con indifferenza sulla scelta dei mezzi, e sprezzo dei diritti acquisiti. Mentre egli poteva regolar la libertà perchè forte18, riduce l’impero ad una macchina, la più gigantesca di governo e di guerra, che sia stata fatta muovere mai da una volontà unica. Divenendo imperatore, si era fatto giudice e padre nella propria causa, talchè non potea più soffrire nè contraddizioni, nè dignità di carattere, nè indipendenza d’opinioni. Attorno a lui non doveano dunque trovarsi che personalità sfumate; nè costanza ed energia s’accoppiano coll’abbassamento di carattere. L’imperatore essendo tutto, facea tutto; l’autorità di lui irresistibile esercitavasi dai prefetti, che irresistibilmente governavano i dipartimenti a guisa di piccoli imperatori; restando coperto d’un’infinità di funzionarj quel terreno che la rivoluzione avea livellato, svellendone tutto quanto potesse mettere ostacolo al pieno arbitrio nel clero, nella nobiltà, nelle fraterie, nelle costituzioni. Potere egoista e solitario, Napoleone per dieci anni s’ispirò alla sola sua passione, nè prese consiglio che da sè stesso. Fattosi autore unico delle sorti di Francia e d’Italia, il merito de’ cittadini riassumeva nella cieca devozione alla sua persona; nè ai sudditi lasciava alcun diritto di chiedergli conto de’ suoi falli. Il bilancio, che è il freno alle imprese temerarie, non gli dava noja; sapea di tempo in tempo spogliare coloro che aveva lasciati impinguare coll’aggiotaggio e le forniture, come Vespasiano paragonandoli alle spugne, che, quando fossero gonfiate, egli strizzava: i paesi vinti colpiva di contribuzioni, delle quali non rendeva conto. Teneva un tesoro suo particolare, su cui il Corpo Legislativo non avea che vedere, e dove al 31 dicembre 1810 erano entrati successivamente 754,257,174 franchi: nel gennajo 1813 vi si trovavano 135 milioni effettivi; mentre nel tesoro pubblico la Ristorazione avverò un ammanco di 700 milioni.

La confisca era scritta in più di venti articoli del Codice penale, e i giudici non diventavano irremovibili che dopo cinque anni di tirocinio. Oltre violare impudentemente il secreto delle lettere, vigilavansi a vicenda una polizia militare, una del prefetto di polizia, una della gendarmeria, una del gabinetto imperiale. Libero agli avvocati di dir tutto nelle difese, ma il ministro di giustizia poteva con una parola sospenderli o cassarli. Il Consiglio di Stalo chiamavasi assemblea di muti, e i suoi membri erano portati sulla lista d’attività solo di tre in tre mesi. Avendo l’imperatore cassato il verdetto d’un giurì, il relatore proferì che l’imperatore era la legge vivente, mentre il Codice non era che la legge scritta.

Spazzate via tutte le istituzioni moderatrici, neppur all’opinione pubblica lasciò i suoi organi. La stampa erasi sbrigliata al tempo della repubblica, fin a divenire non solo complice, ma eccitatrice degli assassinj. Dappoi vi s’era introdotta qualche regola, ma di mera polizia, come quando si impediscono monellerie per le strade. Napoleone non volle ucciderla, ma farsene una serva, come di tutto: giacchè allora essa era temuta, non caduta ancora nello sprezzo odierno. Pochi giornali lasciò sussistere, e non li sottomise alla censura, bensì agli avvertimenti, non solo se avversi, ma se non plaudenti. Ciò faceva temere e procedere cauti, ancor più che non l’avrebbe preteso il Governo: ed è meraviglia il vedere nella Corrispondenza di Napoleone quanta cura egli si prendea di ciò che dicessero i giornali, oltre mandarvi articoli stesi da lui stesso, o ad ispirazione sua. — Voglio sapere (scriveva il 26 dicembre 1803 al gran giudice) se i fratelli Bertin, costantemente pagati dagl’Inglesi, han l’impresa del Mercurio e dei Debats. Dite loro che è l’ultima volta che fo loro conoscere il mio malcontento, e che, se seguitano di questo passo a sgomentar la nazione e farsi eco degli intrighi inglesi, non conosceranno il mio scontento che per la soppressione del loro giornale»19.

Ciò duranti ancora le forme repubblicane; di poi, neppur possibile fu disobbedire, e in tutta Francia non s’udi che l’eco della sua voce; come la gloria, così la parola apparteneva ad un uomo solo. Quando Augusto Di Stael lo supplicava pel richiamo di sua madre, promettendo ch’essa non s’impaccerebbe più di politica, — Sì (proruppe l’imperatore), non più di politica! Non è forse un impacciarsene quel parlar di morale, di letteratura, d’ogni altra cosa al mondo?»20.

Di conoscere la pubblica opinione non gli restò altro mezzo che la Polizia, la quale dalle spie raccogliesse quel che sussuravasi. Pessimo organo; eppure se ne valsero alcuni storici, e perfino Thiers, per caratterizzare personaggi, specialmente ecclesiastici. Con verità Fiévée scriveva: — L’opinione è ciò che non si dice».

Quanto un libro o un giornale, era in arbitrio del sovrano la libertà d’un cittadino, fosse il duca d’Enghien, o la baronessa Di Stael, o il cardinale Pacca e gli altri che non vollero ratificare il suo secondo matrimonio, o fosse il papa stesso; le prigioni di Stato popolavansi con ben altra assolutezza che non la Bastiglia d’un tempo; chiudendovi molti, impaurendo tutti. Colla coscrizione Napoleone si rese arbitro delle vite, senza misura, senza regole, senza esenzioni, senza pietà, e dal 1805 al 1813 più di due milioni di Francesi furono arrolati, immolando un’intera generazione per conquiste senza motivo e senza limite, facendo cessare ogni altra attività di industrie o d’ingegno. A ciò era la libertà politica, mentre del dispotismo mancava il carattere principale, l’essere stazionario.


XI.


Colla Chiesa Napoleone divenne tanto tirannico allorchè osò resistergli, quanto erasi mostrato rispettoso allorchè la sperava strumento. Suo intento fu sempre di dominarla, e, come disse a Sant’Elena, «rispettar le cose spirituali, padroneggiandole senza toccarle; ma acconciarle ai suoi fini politici, mediante l’influenza delle cose temporali». Ma per l’inseparabilità loro, anche delle spirituali si mescolò. Quel diritto avuto pel Concordato di nominar i vescovi, che un tempo la Chiesa avea potuto consentire a principi religiosi, diveniva terribile spediente in mano al rappresentante della rivoluzione francese, ad un libero pensatore. Col papa e coi prelati dapprincipio parlò rispettoso; conoscendo l’importanza di restaurare l’autorità, ripristinò la gerarchia, e nelle cerimonie i cardinali passavano avanti ai marescialli, i vescovi ai generali, ma purchè obbedissero a’ suoi decreti, assecondassero le sue mire: il che per verità era men diffìcile, atteso il fascino della grandezza di lui e l’imperiosità che non supponeva mai possibile un’opposizione. La nomina de’ primi sessanta vescovi fu prudente e diretta a conciliare i partiti, ma insieme a prepararseli favorevoli per quando domanderebbe il già meditato diadema. Dappoi fu viepiù interessata, sebbene non mai scandalosa, cernendoli egli fra le persone scontente della rivoluzione, devote a lui, alle istituzioni imperiali, alle libertà gallicane, e di famiglie aristocratiche, avendo potuto dire: — Non c’è che le persone di vecchia razza che sappiano ben servire». Al vicerè Eugenio scriveva: — Fatemi conoscere chi sostituir nelle sedi vacanti. Bisogna nominar de’ preti che mi siano molto affezionati, non cercar vecchi cardinali, che all’occasione non mi seconderebbero» (17 febbrajo 1806).

E al fratello Giuseppe re di Napoli: — Non mi piace il proemio della soppressione dei conventi. In fatto di religione il linguaggio deve improntarsi allo spirito della religione, e non a quello della filosofia. Qui sta la grand’arte di chi governa. Il preambolo doveva essere in istile da frate. Gli uomini sopportano meglio il male quando non vi si unisca l’insulto. Del resto sapete s’io amo i frati, giacchè li distruggo da per tutto» (14 aprile 1807).

E alla granduchessa Elisa: — Non esigete giuramento dai preti. Non riesce che a far nascere delle difficoltà. Tirate dritto, e sopprimete i conventi» (17 maggio 1806). E poco dopo: — Il breve del papa importa un’acca finchè resta in man vostra. Non perdete un momento per incamerar tutti i beni de’ conventi. Non badate ad alcun dogma. Pigliate i beni de’ frati, e lasciate correr il resto» (24 maggio).

Metteva mano anche a cose prettamente religiose, come la festa del 15 agosto, per la quale trovò fuori un san Napoleone, fin allora ignoto al calendario francese, e che doveva eclissare la memoria dell’Assunta, e dar nuova occasione ai vescovi di far elogi all’imperatore: e pur troppo vi strabbondarono in frasi, le quali oggimai non sono lecite che a giornalisti.

E frequenti nasceano altre occasioni di Te Deum, accompagnati da pastorali dove i vescovi esaltavano il presente ordine, e, ispirati dal ministero, lanciavano qualche motto contro gli scismatici russi, gli eretici inglesi, le persecuzioni usate ai Cattolici in Irlanda: non doveano mai mancar le lodi al restaurator della Chiesa, e toccava rimproveri chi se ne mostrasse parco. Introdusse di far leggere nelle chiese i bullettini dell’esercito, ma poi gli parve che con ciò si desse ai preti un’ingerenza nelle cose politiche, qual egli non voleva. Per ciò escludevansi i preti da gradi, se non avessero la laurea dell’Università (30 luglio 1806), la quale potrebbe ricusarsi «a chi fosse conosciuto per idee oltramontane, pericolose all’autorità». Se anche semplici curati mostrassero segno d’indipendenza, faceali chiudere prima in conventi, poi in prigioni; e quelle di Vincennes, di Santa Margherita, di Fenestrelle, d’Ivrea furono piene di sacerdoti, non processati, non condannati, che o vi morirono, o furono liberati alla caduta di lui, senza sapere il perchè fossero stati detenuti.

Fin dal principio lagnavasi altamente delle sofisticaggini di Pio VII, e dal cardinale Fesch suo zio21 gli faceva rimostrare che con ciò produceva la ruina della religione: minacciava che la Francia fosse per divenir protestante; e al nunzio Caprara rimproverando qualche opposizione, diceva: — Non è più il tempo che i preti faceano miracoli. Richiamate quel tempo, ed io vi cedo tutto. Nelle contingenze presenti, a me dovete lasciar fare ogni cosa, prestandomi appoggio fin dove la religione lo consente. Le differenze nostre han fatto nascere fra gl’increduli e gli atei l’idea di gettarsi nel protestantismo, che, dicono, non cagiona discussioni, e i cui capi fanno ogni opera per trarre il mondo in questa via».

Fin dai primi tempi, ma viepiù in appresso, falsificava o alterava i documenti emanati dalla santa sede nel riprodurli sul Moniteur o nel tradurli, nè esitava di darvi interpretazioni e spiegazioni fallaci.

A Portalis, ministro de’ culti, il quale avea messo il molto suo ingegno a tutto servizio di lui, scriveva di abolir tutti i giornali religiosi, e ridurli a una sola Gazzetta dei Curati: eppure si sbigottiva quando contenesse alcuna cosa avversa alle libertà gallicane.

Volle anche farsi definitore dogmatico nel famoso Catechismo. Già negli articoli organici soggiunti al Concordato, aveva imposto vi sarebbe, come una sola liturgia, così un solo catechismo per tutte le chiese di Francia; e Roma, che ama l’unità, non disgradì questa determinazione. Napoleone incaricò di stenderlo un teologo italiano, addetto alla legazione del cardinale Caprara: ma avendolo fatto male, l’abate Emery suggeriva di prender il catechismo di Bossuet, prelato pel quale Napoleone mostrava somma venerazione non per altro se non perchè pareagli ligio a Luigi XIV. Ma il catechismo di Bossuet diceva: — Il quarto comandamento impone di rispettar tutti i superiori, pastori, re, magistrati e altri», nè di più avea preteso l’imperioso Luigi XIV. Qui bisognò far un intero capitolo sopra l’obbedienza dovuta ai principi, poi scendere in particolare a Napoleone e alla sua dinastia22.

Il cardinale Caprara, allora legato pontifizio, non sapeva più contraddir nulla all’imperatore: e sebbene, alla prima notizia che ne mandò a Roma, il cardinale Consalvi avesse apertamente disapprovato il Catechismo, e detto che non si poteva imporlo a tutti i vescovi, e tanto meno conveniva all’autorità secolare arrogarsi una facoltà, da Gesù Cristo confidata solo alla Chiesa e al suo vicario, il Caprara dissimulò tale disapprovazione, e il Catechismo uscì come approvato dal nunzio nell’agosto 1806. Alcuni vescovi trovavano esorbitante la parte che l’imperatore si assumeva nelle cose ecclesiastiche, e i timori di quei che si chiamavano esagerati non tardarono ad avverarsi.

Come più tardi in nome della geografia si pretese spodestare il più antico dei principi d’Italia, così Napoleone il pretese in nome dell’utilità della Francia: volle che Pio VII dichiarasse guerra alla Gran Bretagna, e quegli ricusò perchè il papa non dee muover guerra a nessuno: volle chiudesse i suoi porti a quella potenza, ed egli ricusò perchè ruinerebbe i proprj sudditi.


XII.


— In che modo riusciste a dominar gli uomini?» fu chiesto a un tiranno antico, che rispose: — Col farli stupire senza riposo». Anche Napoleone, diroccata ogni istituzione rappresentativa ed ogni tradizione, credette necessario l’avventarsi in guerre senza fine, asserendo che «un Governo nuovo bisogna che abbagli e stupisca; dev’esser il primo di tutti, o soccombere».

Ad ogni vittoria fa seguire un colpo contro le conquiste liberali della rivoluzione; in onta di queste, crea maggioraschi e feudi pe’ suoi marescialli ne’ paesi che conquista, e massime in Italia; intacca l’indipendenza de’ popoli unendo la Toscana, Parma, Piacenza, il Piemonte all’Impero francese, nominando suo fratello Luigi re della repubblica d’Olanda, re di Napoli il fratello Giuseppe. Le grandi riforme economiche della Costituente sono rinegate: quella stabili la libertà del lavoro, egli lo organizza ripristinando le maestranze, le compagnie di avvocati, di sensali, di fornaj, la privativa del tabacco, le imposte indirette e il dazio consumo, l’elezione regia de’ magistrati. Vuol gareggiare coll’Inghilterra sul mare, e poichè la rotta di Trafalgar lo convince che è invano, pensa il più grandioso errore, qual fu di bloccare il continente, cioè impedire che questo riceva merci inglesi. Si privi tutta l’Europa di tanti comodi, di tanti piaceri e bisogni, affinchè la perfida Albione cessi i guadagni che trae dalle colonie. Così rovinava le speculazioni; stabiliva un gigantesco spionaggio, e confische, e violazione di lettere e di magazzini, e la necessità di un despotismo quale al tempo del Terrore; e si facea nemici tutti, anche i proprj sudditi, impediti di vestir cotone, bevere caffè, gustar zucchero e droghe. S’imponeva inoltre la necessità di sempre nuove guerre per obbligare tutti i popoli d’Europa a respinger le navi e le merci inglesi.

Allora la politica di Napoleone ebbe un programma, l’inceppamento; quella dell’Inghilterra, la libertà di commercio. Ormai tutti i nemici di Napoleone sapeano dove troverebbero appoggio e concorso; e faceano sorgere contro di lui il fantasma pel quale egli era ingrandito: la libertà dei popoli.

Costretto a divenir tiranno, nessun’ombra o possibilità di resistenza tollera fra’ suoi: ha scontentato i suoi generali: ha scontentata la famiglia quando, repudiata Giuseppina che aveva sposata al momento dell’incoronazione, impalmò Maria Luigia, fìglia dell’imperatore d’Austria, quasi sentisse il bisogno d’allearsi alle antiche dinastie, egli figlio rinegato del popolo e della rivoluzione.

Avendo, con opere di volpe più che di leone, spodestato i Borboni di Spagna per surrogarvi suo fratello Giuseppe (1808), quella nazione, insofferente del giogo straniero, si rivoltò, cominciando l’indomabile guerra di bande, che, fiancheggiata dall’Inghilterra, costò infiniti sagrifizj a Napoleone, e mostrò alle genti che era possibile resistergli. Dal 2 maggio 1808 al 10 aprile 1814, sei campagne rinnovò egli in Ispagna, con fierezza d’odio personale, senza fede di paci, nè armistizj, nè quartieri d’inverno, e contano vi perissero 100,000 uomini l’anno. A questo erasi condannato il vincitor di Marengo.

Pretese che anche il papa secondasse le sue viste ambiziose; dichiarasse guerra a’ suoi nemici; mettesse le benedizioni e le scomuniche a suo servizio; nominasse i vescovi a suo talento; cassasse il matrimonio suo con Giuseppina, e riconoscesse quello con Maria Luigia. E poichè il papa vi oppose quella potentissima voce della giustizia, che sgomentò sempre i violenti. Non è lecito, Napoleone decretò che gli Stati Pontificj, donati dal suo predecessore Carlomagno, erano aggregati all’Impero francese; fece condurre il papa prigioniero a Savona poi a Fontainebleau; e i cardinali imprigionare o relegare.

Allora comincia quella lotta, dinanzi a cui i prepotenti si fiaccarono sempre. Il papa non vuol più istituire i vescovi; protesta prima, infine scomunica il violento; un sinodo, raccolto da Napoleone a Parigi, non osa mettersi in contraddizione col suo capo; i fedeli ricevono dai vescovi lezioni di coraggio23, e Napoleone si duole di tener i corpi soltanto de’ sudditi, e — Alessandro ha potuto dirsi figlio di Giove, ed esser creduto; io trovo un prete più potente di me, perchè egli regna sugli spiriti, io soltanto sulla materia». Dicono che, quando Napoleone, dopo falliti tutti i rigori, usava tutte le carezze e le seduzioni onde persuadere Pio VII a cedere alle sue volontà, esponendogli il gran bene che ne verrebbe alla religione, quegli l’ascoltasse persuaso ch’era tutta astuzia, e a mezza voce esclamasse — Commediante.

Se si consideri come Napoleone avesse avuto il tempo di alienar da sè la Chiesa che aveva rialzata, ma non il tempo di diroccarla; che battendola la consolidò; che la liberò colla sua caduta, ammirasi la Provvidenza che, traverso a vicende così meravigliose, a volontà così risolute, ha voluto chiarire come la Chiesa non deve nè fidarsi al favore, nè scoraggiarsi all’ostilità di qualsiasi potente. Chi più potente di Napoleone?


XIII.


Sui campi egli era sempre l’incomparabile guerriero. Rinnovate le ostilità, insorto il Tirolo, minacciato il regno d’Italia (aprile 1809), Napoleone si presenta fra i monti germanici, presto occupa Vienna; a Essling (22 maggio) è ad un punto d’esser battuto, ma rifattosene, a Wagram vince dopo orrido macello (5, 6, 7 luglio) e una nuova pace (14 dicembre) mortifica, non disfà l’Austria.

Come gli strategici aveano studiato i piani di Alessandro o di Cesare, così i moderni si fissano su quelli di Napoleone, ma non seppero ancora prefinire in che ne stesse l’originalità, e forse la grand’arte consisteva nell’adattar le mosse alla situazione. Mentre assediava Mantova, il nemico crede coglierlo alle spalle, ed esso inchioda le artiglierie, scioglie il blocco, e concentra sue forze sulla strada del nemico. Ad Arcole si avventura in un argine fra acquitrini, e così elide la superiorità numerica del nemico. A Rivoli osserva che la fanteria austriaca signoreggia le alture, mentre la cavalleria e l’artiglieria accampano al piano, ed egli si caccia di mezzo, e li sbaraglia separati. A Marengo e ad Ulma prende gli avversarj alle spalle; ad Austerliz li sfonda; in somma non si ostina in un sistema, ma varia di spedienti, purchè vinca. Concentrando tutto in sè, utilizza le qualità speciali di ciascun generale senza suddividere il comando, e dispone di questi non meno che dei soldati, dei quali non calcolò mai nè il numero ucciso, nè i patimenti. La tattica lasciò al punto ch’era sotto Federico II, solo dilatandone l’applicazione; l’ordine in colonna preferì; il battaglione quadrato, con cui avea dovuto difendersi in Egitto e per cui vinse a Marengo, venne di regola anche nell’offesa; contro la cavalleria si adottò il fuoco di fila successivo; le truppe vennero abituate a scavare, spianare, munire; e massime il campo di Boulogne, così inutile del resto, fu un grande esercizio, dove i generali s’impratichirono delle grandiose evoluzioni sotto gli occhi dell’imperatore.

L’efficacia principale derivava dalla portentosa attività di lui, che tutto vedeva, prevedeva, disponeva, incoraggiava, riconosceva il terreno, non badando a spese per avere spie e mappe; prima del fatto lasciava ingaggiare piccole avvisaglie, dall’alto osservando gli effetti; durante tutta la battaglia non istaccava gli occhi dalla mischia, dirigendo ogni sforzo all’acquisto del punto cardinale; ottenuto questo, aveva assicurato la vittoria. Ma sempre teneva in riserva corpi freschi da mandar a inseguire il nemico per compierne la rotta. — La sorte d’una battaglia (diceva) è il risultato di un istante, di un pensiero; si va all’attacco con varie combinazioni; si combatte un certo tempo; il momento decisivo si presenta; una scintilla morale decide, e la più piccola riserva compisce».

Nessuno mai aveva operato su campo così vasto, che talvolta era mezza Europa. Dal fondo della Catalogna e dalle rive della Vistola e del Po i reggimenti si moveano al suo cenno; tutto era preveduto lungo la loro traccia; e al giorno prefisso doveano, senza che sel sapessero, arrivare sul punto destinato, affine di trovarsi in numero più grosso del nemico, che non v’era preparato. Se vincere è l’esser persuaso d’aver vinto, egli mostrava quest’ostinazione, e sapeva trasfonderla negli altri; d’ogni piccolo vantaggio si giovava per riportarne di maggiori: ne’ suoi generali e ne’ soldati istillava emulazione, sopratutto la confidenza d’esser superiori ad ogni altra truppa, nè v’è movente più efficace che la fede24. Parte della sua tattica erano anche i rumoreggianti bullettini e le splendide ricompense, date sul campo stesso. Solo l’avvenire trovollo in torto nello sprezzare affatto le fortezze, e male gliene colse allorchè fu ridotto a difendersi.

Vaglia il vero, egli si vide giovato dalla natura de’ suoi nemici, o legati alle deliberazioni de’ gabinetti, o servili a strategia antiquata; mentre a lui, despoto, la rivoluzione avea preparato indomabili eserciti, de’ quali disponeva senza render conto, come senza avere riguardi o rimorsi.


XIV.


Provveduto di tali mezzi, non credette più necessario usar rispetti nè alla sua nazione, nè alle altre. Mentre Luigi XVI e i primi autori della rivoluzione vollero respinta l’idea delle conquiste e delle annessioni per conservare le frontiere naturali, sì ben munite dalla natura e dalle fortificazioni di Vauban, il Direttorio pensò uscirne, e per la funesta idea della propaganda democratica, non volle veder nei vicini, fossero monarchia o principato, vescovado o repubblica, che un annesso necessario alla repubblica una e indivisibile. La neutralità secolare e protettrice della Svizzera fu violata, abbattutane la costituzione, come si fece colle repubbliche batava, cisalpina ligure, poi con tutta Europa durante l’epopea imperiale. — Mia missione (diceva Napoleone) non è solo governar la Francia, ma sottoporle il mondo; altrimenti il mondo la schiaccerebbe». Con tale persuasione, sovverte e confonde popoli e abitudini; manda Italiani a scannare Spagnuoli, Vandeani a trucidar Calabresi, Spagnuoli ad assediar Danzica, Polacchi a soggiogare San Domingo; innesta e fonde popoli nuovi e vecchi, lingue, costumi, simpatie, in una pretesa unità, sotto ferree leggi; d’una repubblica forma un regno; annichila i piccoli Stati, che furono sempre barriera al dispotismo; distrugge tutte le repubbliche, Genova, Venezia, Lucca: la Svizzera riduce unitaria, dopo diminuita od occupata; alle città Anseatiche toglie l’indipendenza; spegne i principati ecclesiastici della Germania, gli altri sottrae all’Impero germanico; asside suoi parenti sui troni donde sbalzò le vecchie dinastie, poi questi nuovi re vuol che siano suoi satelliti.

— Importa alla sicurezza de’ nostri Stati che le piazze forti dell’Olanda siano in mano di persone, sulla cui devozione non resti dubbio»; e in conseguenza fa dell’Olanda un regno per suo fratello. Passa il Reno protestando che non è per ingrandimento, ma per difesa; che Cassel, Kiehl, Wesel, Flessinga.... son necessarj complementi delle fortificazioni di Strasburgo, Magonza, Anversa; che quel paese era ancora Francia, perocchè è l’alluvione del Reno. Alfine non dissimula, e — Nuovo ordine di cose stringe l’universo; nuove garanzie essendomi divenute necessarie, l’annessione all’Impero delle bocche della Schelda, della Mosa, del Reno, del Weser, dall’Elba mi parve la prima e più importante misura, comandata dalla necessità; e che appoggia al Baltico la destra delle frontiere del mio Impero». Da Bajona scriveva all’arcicancelliere Cambaceres l’11 maggio 1808: — Troverete qui unito un senatoconsulto per riunire Parma, Piacenza e la Toscana alla Francia. Lo presenterete al consiglio privato, e quando sarà deliberato, lo porterete al senato. Gli oratori diranno che Parma e Piacenza sono annesse all’impero perchè formano compimento del territorio di Genova: che l’annessione della Toscana è necessaria per aumentare le nostre coste, e in conseguenza il numero dei nostri marinaj, e anche per rendere centrale il golfo della Spezia, dove ho ordinato uno stabilimento militare come quel di Tolone; che dunque tali disposizioni provvengono dalla necessità in cui ci riducono i nostri nemici di metterci in grado di ristabilire la libertà dei mari».

Com’è senza pari nella guerra, così crede essere nella politica, mentre, digiuno di quella diplomazia che fonda l’avvenire sulla cognizione del passato, conquista, ma non conserva; scompiglia, rimescola, e riesce a farsi nemici, non solo tutti i re, ma tutti i popoli. Nè l’abbattere i re è difficile in tempo di rivoluzione e con genti che si dilettano allo spettacolo delle regie cadute; ma dietro di essi trovò i popoli.

Pretende a tutta Europa imporre quell’accentramento, a cui la Francia non arrivò che traverso un mar di sangue. Come Carlo V, volle associare alle sorti d’un solo nome venti popoli diversi, fra i quali l’unità non può costituirsi se non con un accentramento amministrativo e ufficiale, dove si logorano tutte le più vive e originali affinità di ciascuna di queste nazioni, legate contro voglia al carro comune.

Nell’esiglio vantò che il suo concetto era ristabilire le nazionalità. Al contrario, le minacciò tutte. Ebbe in mano l’Italia e la Polonia. In quella distrasse le dinastie come le repubbliche, e la sua grandezza vera, il papato; di Roma e Torino fe dipartimenti dell’impero; le terre venete spartì in feudi, al modo dei re barbari. I Polacchi profusero il sangue in tutte le sue guerre, eppure egli non osò proclamarne la resurrezione.

Lo spirito nazionale, che vive di tradizioni e di libertà, s’era ridotto in Francia nell’esercito, non più composto di alcuni cittadini, ma di tutti, come al tempo dei Barbari; talchè Napoleone potè menarne alle due estremità dell’Europa uno immenso e inesaurabile, indurito come i soldati mercenarj, focoso come i volontarj. Con questi stromenti e col genio suo compiva i prodigi che lo fan chiamare eroe, cioè conculcava le nazionalità, trattando popoli e territorj come oggetti di traffico; preponderando perchè più forte, e perchè le nazioni da lui calpestate non osavano resistergli, come tutta Francia non aveva osato resistere a un branco di terroristi.

Però i grandi generali perivano; i veterani della repubblica erano morti o invecchiati e Napoleone dovette supplirvi con immensa artiglieria; 1400 cannoni vi voleano pe’ suoi 300,000 combattenti, sicchè guai al caso d’un disastro, ove le altre armi non basterebbero a difender quel materiale. Quelle centinaja di bocche da fuoco, alle quali diede portentosa mobilità, divoravano quella che inumanamente egli chiamava carne da cannoni.

I suoi parenti stessi che creava re, volea servi. Il 28 agosto 1810 la moglie scriveva a re Giuseppe: — Ho profittato del momento per parlar all’imperatore della tua penosa situazione. Dopo un colloquio di quasi due ore, nulla ottenni che possa acquietarti. Ho adoperato tutti i ragionamenti che seppi per cavarne qualcosa che potesse porgerti speranza d’un avvenire più felice. L’imperatore non avendomene dato lusinga, gli chiesi come un favore di lasciarti viver in quel luogo di Francia che gli piacesse, mi rispose che eri re, e re dovevi morire.... Insomma non c’è da sperare».

Luigi, abdicato al regno d’Olanda, e ricoverato a Roma dopo la caduta di Napoleone, dirigeva alla Francia un’ode ove diceva:

               Je ne vis l’Italie antique,
                    Berceau de mes nobles aieux,
                    Que sous l’aigle patriotique
                    De nos Français victorieux.
                    Alors que pour une couronne
                    Je dus échanger mon pays,
                    En pleurant je reçus le trone,
                    Je le crus trop cher à ce prix.
               Flatteurs, zoïles ou faussaires,
                    Triomphez, auteurs valeureux;
                    Couverts des armes étrangères
                    Outragez un nom malheureux....
                    Je gémissais sous la puissance
                    Qu’on vous vit long temps égarer.
                    Ah! quand le deuil couvre la France
                    Mon seul triomphe est de pleurer.

Ne seguì un’immensa incredulità nel popolo. Thiers racconta che il Moniteur era talmente caduto di credito, che l’imperatore non vi faceva neppur più inserire i bullettini della campagna di Russia, supplendovi con lettere scritte da officiali. E il De Pradt, nel libro I quattro Concordati, narra che i prelati vennero al Concilio di Parigi pieni d’impeto e d’ardore; ma quando videro lo scoraggiamento e l’incredulità dei Parigini, divennero di ghiaccio25.

Disgustati tutti, gli si rendono inevitabili la durezza e il combatter sempre. Chi legge il carteggio di Napoleone, rabbrividisce agli ordini sanguinarj che dava. Fu vituperata l’uccisione del duca d’Enghien, invano ahi deprecata dalla moglie e dai generali, se non in nome dell’umanità, in nome del proprio interesse. Asseriscono a Giaffa chiedesse al medico d’avvelenare i prigionieri malati, acciocchè non cadessero in man de’ Turchi. Appena occupata Milano, essendosi fatto qualche movimento a Binasco e Pavia, brucia quello, abbandona al saccheggio questa, coglie e fucila quanti può, ma vuole non siano plebei, bensì persone di qualità: e fin nella calma di Sant’Elena racconta quel fatto senza una parola di disapprovazione; anzi asserisce aver sospeso l’eccidio perchè contava solo 1500 soldati: l’avrebbe lasciato compire se n’avesse avuto 20,000. Scoppiata altra lieve sommossa per gravose imposte nel Comune di Crespino nel Polesine, volle gli si consegnassero i principali rei da fucilare, e pose il paese a discrezione di un brigadiere di gendarmeria. Ordinava che il vescovo d’Udine fosse fucilato per dar un esempio. Mandava a Giuseppe che, per reprimere i briganti nel regno di Napoli, si fucilasse, si impiccasse, si bruciasse senza remissione. — Ho inteso (scrivevagli), avete promesso non imporre tasse di guerra, e proibito ai soldati di esigere la tavola dai loro ospiti. Piccolezze! non colle moine si guadagnano i popoli. Decretate una contribuzione di trenta milioni. A Vienna, dove non c’era un soldo, io ne posi una di cento milioni, e fu trovata ragionevole. Avrei gusto che la canaglia di Napoli si ammutinasse: in ogni conquista un’insurrezione è necessaria.... Non sento abbiate fatto saltar le cervella a un solo lazzarone... Ho udito con piacere la fucilazione del marchese di Rodio.... Mi fa gusto il sapere che fu incendiato un villaggio insorto, m’immagino l’avrete lasciato saccheggiare dai soldati.... Giustizia e forza sono la bontà dei re, che non bisogna confondere colla bontà di uomini privati. Aspetto d’udire quanti beni avete confiscati in Calabria, quanti insorgenti giustiziato. Niente perdono. Fate passar per l’armi almeno seicento insorgenti, bruciar le case dei trenta primarj d’ogni villaggio, e distribuite i loro averi all’esercito. Mettete a sacco due o tre delle borgate che si condussero peggio; servirà d’esempio, e restituirà ai soldati l’allegria e la voglia d’operare»26. Il Codice penale, decretato nei giorni suoi più pomposi, è feroce come un regolamento di Polizia fatto per reprimere i ladri, i malcontenti, i preti; prodigandovi morte, marchio, confisca, con prigioni di Stato che detengono senza processo; con bandi e relegazioni; con commissioni speciali, oltre le esecuzioni compendiose dei consigli di guerra.


XV.


Ma la forza vera è la forza morale; e se egli era stato onnipotente allorchè combatteva a nome della libertà, ora contro di lui elevavansi la libertà e l’indipendenza. Inghilterra proclamava la libertà del commercio; Germania la libertà dei popoli; Spagna l’indipendenza; Russia la nazionalità; gli stessi re da lui creati, sentendosi meri fantocci in sua mano, pretendeano fare da sè, e badare al meglio dell’acquistato paese: e poichè egli esigeva che tutto si sacrificasse alla gloria di lui e della Francia, o rinunziavano come Luigi, o cospiravano come Murat, o doveano, come Giuseppe in Ispagna, menar guerra incessante co’ proprj sudditi.

Oltraggiate le coscienze, sparnazzate le vite, conculcate le franchigie, straziate le nazionalità, ridotto a vergognosa bassezza il sentimento popolare, dalle ruine di cui sparse il mondo vede risuscitare l’idolo che egli avea sepolto; i Carbonari in Italia, il Tugenbund in Germania, le Cortes in Ispagna; letterati e preti dapertutto allestiscono la guerra, a cui i re non s’arrischiano; la Germania risponde al grido patriotico della Spagna, e società segrete, e bande e comitati di studenti, e scritture e poesie incalorano la guerra popolare, dacchè erasi riconosciuta insufficiente la guerra regia. Napoleone, spinto dalle sue ambizioni, si guasta anche col solo re che rispettava e temeva, e ad Alessandro di Russia muove la guerra più grandiosa e più disastrosa che le storie moderne raccontassero. Cinquecentomila uomini d’ogni paese, Italiani, Sassoni, Austriaci, Spagnuoli, Bavaresi, Portoghesi, Svizzeri, Badesi, sono spinti traverso alla fremente Germania (1812), e spaventosamente si avanzano fin oltre il Niemen. I Russi, incitati a lotta di religione e di nazionalità, obbediscono all’imperator loro, continuamente ritirandosi e devastando, sicchè Napoleone non trova che il deserto, la desolazione, e qualche banda di Cosacchi che gli bezzicano i fianchi. Bestemmiando questi Barbari, che non vogliono lasciarsi vincere ed osano voler la patria indipendente, entra in Mosca (14 settembre); ma fra pochi giorni ecco sollevarsi dapertutto le fiamme, accese da un patriotismo selvaggio; e quel gigantesco esercito, lasciandola in cenere, è costretto mettersi in ritirata, carico di prede, ma famabondo e sopraggiunto da un’orrida vernata.

Napoleone, avvezzo a vincer sempre, andar sempre innanzi, nulla avea disposto per la ritirata, che riuscì desolante, a segno che trecencinquantamila uomini vi perirono, e i cavalli e l’artiglieria; ma il famoso bullettino che, dopo continue assicurazioni di vittoria, annunziava quell’immenso disastro, ne incolpava la debole tempra e il non bastante coraggio dei soldati, e finiva assicurando che — la salute di Sua Maestà non fu mai migliore».

Napoleone si sottrasse all’orrido spettacolo correndo a Parigi, dov’era necessario per mantenere l’obbedienza, scassinata non appena vacillò la fortuna, e per imporre nuovi sacrifizj. Li domanda senza voler nulla concedere alla libertà; ma tanto era forte l’introdotta organizzazione, che gli ottiene, e ben presto ha allestito un nuovo esercito, col quale fa una famosa campagna contro tutte le genti riscosse, che la intitolarono guerra dei popoli. Già i re più non isperavano pace da Napoleone, nè fidavano alla sua parola: i gemiti dell’oltraggiata Luigia regina di Prussia, i canti dei lirici tedeschi, le gazzette di Vienna e di Berlino, i proclami di Genze, di Görres, di Stein, di Bragation, di Jovellanos, gl’intrighi di Demouriez, di Moreau, di Pozzodiborgo, fin di Talleyrand e di Fouché, accordavansi a ruina di Napoleone; il suo suocero si allea coi popoli; il suo antico maresciallo Bernadotte divenuto principe di Svezia, gli si inimica; l’odio comune cancella i dissensi fra i venti Stati d’Europa, che, sentendo la potenza dell’unione, mettono insieme 800,000 uomini, animati d’entusiasmo contro un esercito che l’ha perduto, contro generali che si accorgono di aver torto in faccia alla civiltà e al buon senso. Napoleone riesce a porre ancora in piedi trecensessantamila combattenti, ma tutta Europa tovavasi armata contro l’esercito della sola Francia, e la battaglia di Lipsia (16-18 ottobre) segna la fine delle glorie di Napoleone. Allora egli si affretta di restituire al papa la libertà, al re di Spagna la corona, al corpo legislativo la parola: offre pace, ma gli è negata, e gli stranieri invadono la Francia. Essa indifferente aveva udito i disastri del suo padrone: non sentendosi più associata agli atti del governo di Napoleone, nè solidale della sorte di lui: la Polizia, unica voce che a lui giungesse, per bocca di Savary e di Fouché facevagli noto che la Francia vincitrice conosceasi sagrificata al suo sistema, quanto la vinta Europa; che l’affezione era svanita, e l’odio sopiva l’ammirazione; nell’esercito erano periti i veterani della repubblica; coscritti improvvisati e di immatura età mancavano di vigore nel corpo come di confidenza nell’animo: e quanto al popolo, allorchè alcuno gli suggeriva di sollevarlo per difesa della patria come ai tempi della rivoluzione, Napoleone rispondeva: — Chimere, desunte dai ricordi della Spagna e della Convenzione! Sollevar la nazione in un paese dove la rivoluzione ha distrutto i nobili e i preti, ed io stesso ho distrutto la rivoluzione!»

Eppure la Francia era grande ancora; e l’Austria, offerta la mano da mediatrice prima di armarla da nemica, faceva accettare dagli Alleati un assetto dell’Europa, ancor alla Francia più favorevole che non l’avesse ella desiderato. Ma per Napoleone le vittorie non men che le sconfìtte erano motivi di continuar la guerra; credea che il cedere un solo brano rovinerebbe tutto. Sconfìtto dalle nazioni a Lipsia, vedesi ancora offerto un regno che avesse per confini le Alpi e il Reno: ed egli non accetta; e gli stranieri irrompono, e Napoleone può ben vincerli ancora, ma non più cacciarli dalla Francia.

Egli renne sempre poco conto delle fortezze, che pure aveano per oltre un secolo campato la Francia dalle invasioni: estesi i confini di là da quelle, le lasciò incomplete e sguarnite; non fortificò Parigi, come tutti gli avevano consigliato; guastò la tutelare neutralità della Svizzera, sicchè i nemici da tre parti irrompevano; e l’espugnazione di qualche bicocca da lui spregiata, come Soissons o Laon, bastò per elidere i prodigi del suo genio militare27: la presa di Parigi, come Vauban aveva predetto, metteva la Francia all’arbitrio dei vincitori, che la riducevano ai confini monarchici del 1792.

Or dove sono i tanti acquisti fatti dalla Rivoluzione? dove quella magnifica Francia? dove quell’esercito, provato alle vittorie e alle sconfitte, che essa aveva affidato a Napoleone affinchè assicurasse la pace? Tutto egli ha consumato, e quarantatrè vascelli, ottantadue fregate, ventisei corvette, cinquanta brik, valutati duemila milioni, e due milioni di coscritti, e indietreggiò di settecento leghe. Tutto questo s’affaccia alle memorie, e il pensiero represso, il commercio estinto, la libertà conculcata, la Francia consegnatagli nel colmo della prosperità, ed ora calpesta dai cavalli baskiri e cosacchi.

Eppure Napoleone non si crede vinto finchè la bandiera tricolore sventola a Genova, Mantova, Alessandria, Venezia; passerà l’Alpi con cencinquantamila uomini, e rinnoverà il duello sui campi che gli diedero la prima gloria. Ma colla prosperità cessò la cieca obbedienza de’ generali e de’ parenti. Il senato a Parigi pronunzia decaduto lui e la sua famiglia: gli Alleati dichiarano non tratteranno più con Napoleone, al quale, proclamato unico ostacolo alla pace, si domanda che rinunzii.

Tentato d’uccidersi e non riuscito, egli manda la moglie e il figlio a suo suocero onde sollecitare, non riguardi per la Francia, ma migliori condizioni per essi. Ed egli abdica ai troni d’Italia e di Francia, e riserva per sè la sovranità dell’isola d’Elba, alla quale va fuggiasco, tra le imprecazioni de’ Francesi. Nel momento d’imbarcarsi disse a taluno che il compassionava: — Non è la mia caduta che m’affligge; ma l’aver inteso gridare su’ miei passi, Viva gli Alleati»28.


XVI.


E in fatto da per tutto si era stanchi di tanti sacrifizj d’oro, di sangue, di pace, fatti non più per difendere la nazione, ma per la gloria o i capricci di un solo. Laonde li Alleati nella Francia non men che nel Belgio e nell’Italia furono accolti festivamente, non come stranieri, ma come liberatori: senato, corpo legislativo, consiglio municipale e tutti i corpi dello Stato votarono decaduto Napoleone, e il Governo provvisorio dichiarava che i magnanimi Alleati venivano a riconciliare coll’Europa un popolo prode e infelice. Tremenda verità! dimenticavasi la patria per la libertà. I popoli s’erano inebbriati della vittoria, come i Pagani: esultarono all’umiliazione dei vicini, e al vederli perdere la libertà erano rimasti indifferenti quanto al perder la propria: il barbaglio della gloria aveva offuscato le ragioni del giusto e dell’ingiusto. Sono febbri che a volta invadono le generazioni; ma viene di natural conseguenza che, adorando la forza, si manchi d’ogni rispetto per chi soccombe ad una maggiore. Essendosi a Napoleone lasciato il pieno arbitrio delle sorti interne ed esterne della patria, non sopravviveva che debolezza al momento de’ disastri: non un braccio, non una voce levossi a difesa dell’uomo, che per quindici anni era stato inneggiato, obbedito, adorato; que’ marescialli che non avevano saputo frenarlo quando trascendeva, non seppero rispettarlo quando cadde; l’abitudine della servitù preparava stupende apostasie.

Eppure talmente gli uomini si lasciano abbagliare dalla gloria militare, che non solo subito dopo, ma per lungo tempo doveano farsi un idolo di colui, che più la rappresentò nel nostro secolo. Presto i Francesi s’impennarono all’obbrobrio che il loro paese fosse stato calpesto da eserciti stranieri, e che da questi, o almeno con questi venisse ripristinata l’antica dinastia. Coi Borboni tornavano (solita scabbia d’ogni nuovo Governo) i migrati, avidi di riazione, d’onorificenze, di vendetta. La Carta, data da Luigi XVIII come concessione non come patto, assicurava la libertà, ma da questa erano così disavvezzi gli animi, che non sapeasi gustarla; e parea spregevole nel suo arredo borghese, senza pompa di vittorie, senza sfoggio di divise militari nè violenza di atti. L’esercito, abituato a correre da una ad altra delle capitali d’Europa, non sapeva rassegnarsi a rientrare nella vita casalinga, e rimpiangeva le occasioni d’uccidere e farsi uccidere.

I susurri che accompagnano ogni nuovo governo, e gli intrighi di parenti e amici, danno a Napoleone l’audacia di tentar un’invasione; e dall’Elba con mille soldati sbarca a Cannes in Provenza (1 marzo 1815). Le truppe mandate a cacciarnelo, mettonsi con esso: nessuno osa tirare quel primo colpo, al quale ne avrebbero risposto molte migliaja; e l’aquila imperiale, come egli disse, volando di campanile in campanile, senza il minimo ostacolo s’annida di nuovo alle Tuilerie (20 marzo). Son colpi ai quali sempre riesce un avventuriero che affascini le fantasie colla temerità, e solletichi i bassi istinti col sovvertire l’ordine stabilito e umiliare l’autorità, qualunque ella sia. Coloro che poc’anzi l’aveano esecrato, or tornano ad incensarlo; marescialli e ministri che gli aveano volte le spalle, s’affrettano ad offrirgli la spada e l’ingegno: egli, avvistosi d’essere perito la prima volta per aver compresso le idee liberali, or si prefigge di secondarle; parla di costituzione, di elezioni popolari, discussioni pubbliche, ministri responsali, libertà di stampa; ma ne parla a controgenio, ben sentendo che il poter suo non può assodarsi se non sia sconfinato; quelli che, allo sbarcare, avea chiamati cittadini, chiama Francesi appena s’avanza, e ben tosto sudditi; la convocazione del campo di maggio e delle deputazioni dei dipartimenti gli fa sonare parole, che altre volte avrebbe punite come alto tradimento, sicchè maledice questi avvocati; coll’atto addizionale restaura la monarchia imperiale con tutti i suoi abusi, e si persuade non poter che sul campo ricuperare il diritto di volere quel che gli piace.

Ma come spingere la Francia a nuovi sagrifizj? In quella teatrale apparizione trovava dissipato il fascino: ne’ suoi più fidi nato il bisogno dell’indipendenza, e per gli arbitrj un odio che mai non gli si era mostrato; invano accarezza la rivoluzione e le moltitudini. — Non si potrebbe incettare un po di flogistico nel sangue del popolo francese divenuto apatico e sonnacchioso?» domandava a Hauterive, che gli rispondeva: — Sire, i vostri venti anni di battaglie costarono più che le accannite guerre di venti secoli; ognuno è impaziente di veder un termine a tanto patire». Napoleone è costretto esclamare: — Non sarei mai uscito dall’isola d’Elba se avessi previsto a qual punto sarei costretto accondiscendere ai democratici per mantenermi».

In realtà non avea ridesto l’Impero che per seppellirlo definitivamente; i nemici ingrossavano; le potenze, nulla badando che, come signore indipendente dell’isola d’Elba, egli avea diritto d’intimar guerra; che, come spodestato, poteva ritentar l’acquisto del perduto, non videro in lui che il turbatore della pace europea, e dichiarandolo nemico universale, e, come ai tempi barbari, bandendo due milioni sulla testa di esso, muovongli contro, e a Waterloo il vincono irreparabilmente (18 giugno). Napoleone, fuggiasco traverso a morti e morenti, esclamando, — Non posso più rimettermi: ho disgustato i popoli», arriva a Parigi; vorrebbe rinnovar la resistenza, ma i rappresentanti gli dicon no; onde egli abdica a favore di suo figlio; si conduce a Rochefort, e non trovando legni americani, monta s’un inglese (2 agosto). Disse: — Vengo come Temistocle assidermi al focolare del popolo britannico»; ma non può il vinto dettar patti al vincitore: e le potenze lo dichiarano prigioniero di guerra, e convengono sia trasportato a Sant’Elena, isola perduta in mezzo all’immenso Atlantico, sotto la guardia degl’Inglesi.


XVII.


Colà più non destava che compassione, e come, tramontato il sole, più non se ne ricorda la vampa, ma soltanto i benefici influssi, così la Francia dimenticava gl’immensi sacrifizj che le costò l’ambizione di lui, e peggio la improvvida tornata: e che, mentre al venir suo ella disseminava per tutto il mondo idee di libertà, d’allora in poi il fantasma di Napoleone si frapporrebbe sempre all’acquisto di essa, come il più splendido rappresentante del despotismo armato.

Solevano gli eroi d’un tempo mettere un intervallo fra i tumulti della vita e il riposo della tomba; e fin ai giorni in cui periva il mondo antico, Carlo V, a cui in molti punti è comparabile Napoleone, volle famigliarizzarsi colla morte sottoponendosi ai lugubri apparati delle proprie esequie. Napoleone no: nella sventura gli mancò, come nella prosperità, la grandezza morale, il rispetto della legge morale, la dignità vereconda e la magnanima rassegnazione. Allora come prima apparve che l’anima sua non era elevata quanto il suo genio: fra tanto coraggio militare non avea mostrato mai coraggio civile; nè mai gli balenò nella coscienza l’idea di dover rendere conto a qualcuno e di qualche cosa.

Avvezzo al comando incondizionato, all’adulazione dei re, quanto non dovette soffrire sotto la rigida custodia di Hudson Lowe, infamato al di là del vero, ma inesorabile custode di colui che riguardava come una jena, che fuggendo metterebbe a strage l’umanità. Napoleone, non che abbonire i suoi carcerieri come Pellico, trovava insulto ogni vigilanza, e fremeva, bestemmiava; sfogo necessario quando più non potea farne contro i grandi che l’attorniassero. Sperò del suo esiglio profittare per la sua gloria, e a Las Cases, a Montholon, ad altri dettò spesso, più spesso raccontò le campagne sue e i suoi divisamenti, sempre ingloriando sè, svilendo i nemici, e sopratutto gl’Inglesi. Le sue Memorie non sono una giustificazione, neppur sempre una spiegazione; posa ancora davanti un pubblico che prevede; donde l’abituale declamazione, e tante chimere egli che pur tanto aveva operato. Ciò che duole, è il trovarvi così scarso l’alito della libertà, nè quasi mai l’umanità fargli dare un sospiro sopra due milioni di giovani che mandò al macello, sopra le nazionalità oltraggiate, sopra la riazione eccitata contro quanto erasi conquistato di dignità e di libertà.

Morendo col crocifìsso sul petto (5 maggio 1821) diceva: — Annunziate che le mie intenzioni furono sempre pure; volevo il bene, frenando la prepotenza, smascherando l’impostura, colpendo l’iniquità; difficili erano i tempi; avevo grandi nemici; mio malgrado fui costretto ad esser severo, non mai però ingiusto e crudele; non potei lentar l’arco; laonde i popoli rimasero privi delle istituzioni liberali che io lor destinava, perchè i miei nemici n’avrebbero tratto profitto».

Anche qui si drappeggia avanti alla posterità quale vorrebbe ch’essa lo accettasse. Ed essa rimane ancora irresoluta fra l’apoteosi e l’anatema.


XVIII.


Fatti così grandiosi, un eroe così superiore, eppure nessun canto in sua lode, nessuna epopea degli atti suoi che divenisse popolare, che sopravvivesse alla sua caduta: solo un ode affatto critica, che dubita perfino se fu vera gloria la sua, e che sperde ogni ria parola dalle stanche sue ceneri, sol perchè moriva col crocifisso accanto.

Ma sebbene al soffio delle rivoluzioni non v’abbia popolarità che non rimanga sfiorata, Napoleone resterà sempre l’uomo più studiato delle età moderne, la personalità più grande che sia apparsa in questo secolo. Una biblioteca intera formerebbero le opere che si scrissero per lodarlo o biasimarlo, per ispiegarne il gran valore sui campi, la gran mente ne’ consigli, l’assolutezza al governo, il fascino ne’ discorsi, l’imporsi ai re delle armi come a quelli del pensiero, in modo di trascinar nell’orbita sua come satelliti quanti aveano nome per forza o per intelletto, per arti o per scienza, per politica o per valore.

Trasvolarne le epiche imprese per esaminare piuttosto l’uomo, dovrebbe esser officio delle biografie. Ma in generale si studia in Napoleone il monarca e il capitano, anzichè l’uomo, nè il suo carattere, il suo spirito, i movimenti della sua condotta, le sue viste finali, la fisionomia vera di sotto alla maschera di cui si coverse nelle bizze opportune, nelle officiali promesse e fin nelle estreme confessioni: non si bada con quali modi riducesse la Francia a servire al suo egoismo per tanti anni. Eppure le rivoluzioni del cuore umano son più utili a meditare che non le rivoluzioni degl’imperi; un’idea perduta nella nostra intelligenza, un sentimento indebolito nel nostro cuore meritano maggiore studio che una battaglia.

Più che ne’ panegirici degli evangelisti di Sant’Elena e ne’ postumi adulatori, vuolsi conoscere quest’eroe dal suo carteggio, dove espandeasi francamente, e che Napoleone III non esitò offrire agli avversarj di Napoleone I29. Ivi rimane ancora sommo capitano, stupendo organizzatore, negoziator abilissimo, mirabile nel saper cattivarsi gli spiriti, portentoso nell’attività30 che applica alla disposizione d’un esercito di 300,000 uomini, o alla confezione delle scarpe e del pane, e al restauro d’un appartamento del palazzo reale di Milano o di Monza. Non annichilava, anzi eccitava le forze individuali, l’operosità, le capacità locali. Ma generosità di cuore, elevazione d’idee, disinteresse personale, amore e rispetto per gli uomini non vi troveresti; fin quando nell’esiglio narra sè stesso, gli manca sempre la grandezza di carattere, che si nutrisce d’abnegazione e di generosità; e diceva che onest’uomo e sciocco sono sinonimi. Prodigioso teatrante, s’appassiona per la sua parte; moventi d’ogni sua impresa sono un indomito bisogno di operare, di comandare, di sormontar gli altri; mai non si fa scrupoli sullo scopo e sui mezzi; il calcolo prevale sempre alle simpatie. Neppure mostra alcuno dei vasti concetti dei grandi conquistatori: perocchè il blocco continentale, al quale, in fondo, si riduce la sola politica esterna dell’Impero, non può mettersi a parallelo coll’umiliazione della casa d’Austria, col protettorato delle piccole sovranità, cogli altri scopi della precedente politica internazionale.

Mistura di qualità disparatissime, leone e volpe, Napoleone organizza e scompiglia; diceva: — Io dipendo dagli eventi: non ho volontà; l’attendo dalla loro riuscita: sempre fui governato dalle circostanze». Vuol l’autorità e la abbatte ne’ suoi rappresentanti; dice al suo ministro a Roma di trattare il papa come se avesse centomila baionette, poi a Versailles riceve questo in abito da caccia e fra una muda di cani per non dovere piegargli il ginocchio: gli fa fare accoglienze suntuose durante tutto il viaggio, poi entra nella carrozza da uno sportello mentre il papa entra dall’opposto, onde non cedergli il passo e la dritta. Sollecito della salute dei militari in quartiere, li fa morire a centine di migliaja sotto i geli o l’arsura o i cannoni; umilia i vecchi regnanti, e ne invoca la parentela. Aveva senno bastante per conoscere l’importanza della religione nell’ordine sociale, ma troppo poca fede e morale per riconoscere e ammettere i diritti della coscienza convinta; ristabilì il culto per convenienze, ma non voleva accettare le conseguenze della fede; irritavasi qualora il cammino gli fosse abbarrato dall’indipendenza delle anime; vantavasi di non andar a confessarsi; e diceva: — Io credo a Dio, ma non alle religioni».

La rivoluzione aveva tolto a distruggere tutto il passato; Napoleone si propose di ricostruirlo, creando perfino la cosa che più popolarmente era detestata, una nobiltà feudale. La rivoluzione proclamava la fraternità universale, ed egli resuscitò le funeste guerre di conquista del Cinquecento. Se la rivoluzione erasi fatta contro il paganizzamento per cui lo Stato restringevasi in un uomo che credeasi Dio; se erasi fatta per introdurre la ragione ne’ governi, la giustizia e la libertà nella umana convivenza, egli tornò all’onnipotenza dell’uomo, che tutto usa ed abusa pel suo piacere o per la sua gloria. Del quale smisurato potere non si meraviglierà chi abbia veduto nella rivoluzione un pugno di violenti e scellerati imporre a milioni di paurosi o di meravigliati.

Da un gorgo di sangue e di tirannide, che mostrò quanto divario corra fra libertà di popolo e potere di popolo, Napoleone avea raccolto il naufrago principio della superiorità dei migliori, combattuta da tutta la rivoluzione in nome di una fantastica eguaglianza. Ristabilì i giudizj, dopo che la Convenzione aveva soppresso l’istruttoria, l’interrogatorio, i testimonj, i difensori: ebbe talvolta il coraggio di procedere poc’a poco. — Io chiusi la voragine dell’anarchia, tolsi la confusione, le macchie della rivoluzione lavai negli onorati principj: eccitai l’emulazione, compensai il merito, allargai i confini della gloria. Di che accusarmi? Delle intenzioni? ma queste mi giustificano. Del despotismo? ma il solo mio coraggio poteva affrontare un’ebra e sfrenata nazione. Oppressi la libertà? ma la licenza già ne invadeva il posto. Troppo amai la guerra? ma vi fui sempre provocato. Aspirai al dominio universale? ma feci pace tosto che i vinti nemici la vollero31. Bestemmieranno l’ambizione mia? ma fu la più nobile e virtuosa; quella di consacrar l’impero della ragione, gl’interi diritti dell’uomo. Pianga l’Europa che questa ambizione non sia stata soddisfatta».

Così egli: ma sarà questa la sentenza dei posteri? Come mai passa ancora per l’incarnazione, pel rappresentante della rivoluzione egli che di libertà conosceva una sola, come certi liberali d’oggi, quella di poter fare tutto ciò che gli piacesse o gli convenisse; conceder miglioramenti e riforme, ma revocabili e nell’interesse del concedente?

Già Bossuet avea detto che, ogni qualvolta si trovi il mezzo di abbagliare le moltitudini col lenocinio della libertà, esse vengono dietro ciecamente, purchè odano quel nome. E l’arte de’ corifei della rivoluzione fu appunto il gridare libertà, e con questa abbatterono religione, monarchia, aristocrazia, repubblica, famiglia, proprietà, superiorità morali ed intellettuali. Il panegirista di Napoleone ha sì poco senno, da voler farne «il tipo, lo stendardo, il principio delle idee liberali». E di fatto egli parla sempre di libertà, e che la voleva dare, ma soggiunge: — Primo dovere d’un principe è fare quel che vuole il popolo, ma la volontà del popolo e i bisogni suoi devono trovarsi non nella bocca di esso, ma nel cuore del principe». In realtà amò la gloria, perchè la gloria era lui; la libertà era impersonale, e perciò non la intendeva. A questo nome, alle pagine che la proclamavano, deliziavansi i nostri padri; inebriavansi di speranze, vagheggiando l’aurora d’una società nuova, d’un’êra di felicità senza limiti. Oggi possiamo ancora restarne invaghiti, ma non dissimularci le fiere disillusioni che vi tennero dietro; le colpe che germinarono da ciascuna di quelle libertà, agognate, ottenute, rejette, ricuperate, rinnegate a vicenda in una serie di rivoluzioni, ognuna delle quali contraddiceva alla precedente; e dove infine prevaleva sempre il diritto del più forte, come conseguenza necessaria della libertà di tutti poter tutto, del rinnegare l’autorità come conservatrice e riedificatrice. In conseguenza la politica non abbracciò l’interesse sociale intero; fu uno degli esercizj dell’attività umana, ma o indifferente, o fin contraria al bene degli individui.

È vero che egli non usurpò il regno a nessuno: lo tolse agli strazj della rivoluzione. Venuto su in tempi ove la demagogia debaccava, pare gli abusi di essa lo disgustassero a segno, che più non badò al popolo, scambiato colla ciurmaglia; non computò se non i modi di reprimerlo, quasi una fiera o irragionevole o sanguinaria, e che non ha spettacolo più giocondo che quel della caduta de’ suoi domatori. Colossale egoista, senza legge nè fede, sprezzator di Dio e degli uomini, fabbricò la sua gloria col sangue, le lacrime, l’oro e le franchigie de’ popoli; le forze morali subordinò all’amministrazione, non seppe moderare la propria potenza: ecclissarsi davanti ad altri quando convenisse; rialzare il coraggio civile, cercar la propria forza nella forza d’animo de’ cittadini, e così preparare l’emancipazione politica. Nè mai ricordò quel che Comines già predicava, la vera sapienza politica consistere nel governar moderatamente con una grande autorità32.

Così sconobbe e tradì la libertà, della quale doveva essere il rappresentante e il propagatore; ma nello strozzarla soccombette. Certo se ne’ giorni suoi splendidi avesse voluto quello a cui parve rassegnarsi dopo tornato dall’isola d’Elba, risparmiava alla Francia due invasioni e a sè le sconfitte di Lipsia e Waterloo. Ma al suo ritorno trovava una nazione esausta da’ sagrifizj, le volontà fiaccate dal suo despotismo, a segno che non poteano rinvigorirle le tarde promesse di libertà. Aveva avuto complice tutto il paese, giacchè la sua grandezza fu tanto popolare; e la subordinazione fino al parosismo gli diede un orgoglio fino al parosismo. Cessata la complicità, egli non poteva che cadere.

Qual problema la differenza fra le due parti così distinte dell’impero di Napoleone; i trionfi rapidi e le più rapide perdite, e come il sommo che, diciotto mesi prima, trionfava con un esercito a Lisbona e con uno a Mosca, non bastasse a difendere Parigi; come, dopo esser seduto nelle capitali di tutti i re, vedesse repente due volte invasa la sua, e lasciasse il regno scaduto dalla grandezza e dalla forza affidatagli dalla rivoluzione! Sì grandi fatti non si spiegano nè colla cieca ammirazione, nè col vilipendio; sol l’ignorante ricorre al caso, al gelo, ai tradimenti; nè bastano i bullettini dettati nella ebrezza del trionfo, o le confidenze artificiate nella sciagura; non servono lo sfrontate menzogne del Moniteur d’allora, nè le imprecazioni popolari dell’Andaluso e del Renano. Scendiamo nell’intimo delle nazioni, obbligate a immolare leggi, abitudini, principj al capriccio di chi voleva imporvi leggi francesi e re suoi parenti; calcoliamo la possa dell’Inghilterra, costituita sopra la libertà e sopra quell’oculata gelosia, quegli interni movimenti che Napoleone scambiava per sommosse, e che sperava d’or in ora fossero per diroccare la nazione che invece ravvivavano; riconosciamo che i sentimenti han forza almeno quanto le bajonette; che alle palle danno più lunga portata le simpatie de’ popoli; e che i reggimenti pigliano vigore dalle istituzioni e dalla civiltà.

È difficile impor la morale come unico giudice degli uomini storici. Talvolta ciò che non parve conforme alla morale individuale, ne racchiude una più elevata, per cui l’istinto popolare discerne il conquistatore dall’assassino, benchè facesse versare tanto più sangue e lacrime. La politica ha un interesse non individuale ma generale, mira ad un’opera durevole, anzichè passeggiera, laonde sotto un certo aspetto è sempre morale, atteso che le opere durevoli e gli interessi generali portano sempre un carattere più elevato, ed almeno in parte scompajono davanti all’utilità complessiva. Quindi il titolo di grande vien dalla storia, a torto o a ragione, applicato ad alcuni, senza badare se l’azione loro fu felice o infausta: se liberale o tirannica, morale o immorale; senza partito, non giudica le intenzioni ma ammira la forza di volontà, d’intelligenza, d’individualità, misurata dalla riuscita. Quel titolo rimase a Carlomagno, ad Alessandro il Macedone, a Federico II, a Gregorio Magno. Napoleone fu detto il grande sinchè visse: oggi dicesi Napoleone I. Ma perchè non si chiamerebbe grande Wellington suo vincitore, che ha saputo, a dispetto del suo Governo, intendere l’importanza e i modi di combinar le forze morali colle materiali, il popolo col soldato?

Pure in Napoleone, come in tutti i grandi, come in tutti i movimenti sociali, s’atteggia il progresso. La rivoluzione s’avventa contro il passato; questo resiste naturalmente, e procura strascinare indietro, il che dicesi riazione; un’opposizione si frammette e riconcilia i due impulsi, talchè di fatto si va innanzi. Così Napoleone dapprima secondò la demolizione rivoluzionaria: dappoi vi riagì, non solo frenando l’incondito moto, ma ripristinando le idee monarchiche, l’equilibrio, la distribuzione de’ popoli per matrimonj e parentele; la conquista come ne’ peggiori tempi.

Maledicendolo di questi oltraggi alla libertà e alla dignità de’ popoli, la rivoluzione ripiglia vigore, lo abbatte: bisognava cadesse questo gigante che ne avea ingranato le ruote, acciocchè il carro di essa ripigliasse il corso. Dopo quel terribile e grandioso momento di cui si detestano i delitti e si rimpiangono le speranze, all’avvenire bisognava dare in pegno il passato, cioè la legittimità. I Borboni, esigliati da tutti gli esigli, erano allora riconosciuti come la sola ragionevole soluzione del gran problema, tanto più dopo l’insano tentativo dei Cento giorni.

La Ristorazione, come disse il Broglie, rialzò il culto del passato, che è la pietà filiale delle nazioni; parve alleare l’autorità senza dispotismo colla libertà senza anarchia; e promise quel che la Francia invocava, pace e libertà.

Pace e libertà! sospiro eterno, e sempre inesaudito.

Appena i Borboni parvero far prevalere la storia e la nobiltà, il sentimento nazionale traviato sospese di maledire Napoleone, ed essi furono sbalzati per dare predominio a quel medio ceto che avea fatto la prima rivoluzione, e che parve il vero custode delle libertà33; finchè una nuova rivoluzione pose in trono il popolo, aspettando che un’altra vi ponga la plebe. Dal patibolo d’un re non germogliò la vera libertà, bensì una quantità di dinastie plebee, più dispotiche perchè appoggiantisi sul popolo; al quale tutto è lecito. Furono distrutti gli antichi regimi, non ancora consolidato un sistema nuovo. Il suffragio universale, che, per finire il regno giuridico e solenne del delitto, aveva ratificato il consolato a vita, poi l’impero di Napoleone, consacrò il reduce Luigi XVIII, come avrebbe consacrato i Cento giorni e la rivoluzione di luglio, se interrogato; come consacrò la repubblica del 48 e l’impero del 51, come consacrerà ogni regime che si presenti in tempo di disordine.

Intanto la Francia diffuse lo spirito nuovo fra popoli che non ebbero bisogno di cancellare sanguinosamente tutto il loro passato. Ma i grandi spedienti ch’essa trae dall’accentramento, gli abusi a cui si spinse colla rivoluzione o colla conquista, sbigottirono i vicini, donde il bisogno di far armi e denaro34, di fortificare i governi e i re, i quali han troppo veduto con quanta facilità i popoli si lascino sedurre e tiranneggiare. La rivoluzione ha distrutto ogni disuguaglianza, fuor quella del denaro: trasformò tutti i servigi in amministrazioni, impicciolì gl’individui e le società particolari per far giganteggiare lo Stato: ingrandì le capitali: tutto il resto è nulla. Gli uomini positivi intimano: — L’esito è il segno infallibile del bene: i più forti hanno ragione».

Una nazione è forte o debole a misura che il sono i suoi vicini. Se questi rompono l’equilibrio aumentando di estensione o di eserciti, ognuno è costretto a far altrettanto per non vedersi minacciata l’indipendenza. Tanto era avvenuto per lo sterminato ingrandirsi dell’impero francese: gli altri Stati d’Europa dovettero anch’essi conculcare il bene de’ proprj popoli per esigerne immensi tributi di denaro e di sangue; gittossi allora nella politica quel che formerà la barbarie del tempo nostro, il giganteggiare d’alcuni Stati e la soppressione dei piccoli che mantenevano l’equilibrio. Infine gli stessi maggiori Stati si collegarono fra loro, da prima per abbattere il colosso, dappoi per mantenere un ordine di cose ch’essi stabilivano a tutto proprio vantaggio: in luogo dell’antica bilancia, cioè il reciproco rispetto, restò la reciproca paura: base dell’odierno disastroso sistema della pace armata e delle incertezze del diritto, non interpretato che dall’interesse personale dei regnanti in prima, poscia de’ popoli, non meno avidi nè ambiziosi dei re, nè men facilmente immemori d’una giustizia, superiore alle aspirazioni del momento e ad un ipocrite omaggio alla loro sovranità, o alla geografia, o ad un fantasma di patriotismo.

Così anche adesso, dopo tante dolorose esperienze, dopo costituite in dominio le mediocrità, sempre si scivola nelle idee bonapartiste; quand’anche si riprovano come sentimento, si praticano come sistema; si ribramano in nome della libertà, mentre si detestano in nome della pace; si vuol da quelle il concitamento, mentre la ragione domanderebbe la calma; si aspira con esse alla gloria e alla forza, invece di sviluppar l’onesto, il giusto, i doveri del cittadino, far che della società s’insignorisca lo spirito, invece della forza, e le acquisti giustizia e libertà; alle tendenze unitarie, guerresche, dispotiche si surroghino le pacifiche, liberali, federali. I nostri padri rispettavano le barriere del trono e dell’altare: oggi non voglionsi rispettare che la ragione, la verità, la giustizia. Per noi l’uomo grande è quello che avvierà a tal predominio; e «La riuscita de’ grand’uomini dipende dall’altezza de’ loro sentimenti più che dalle speculazioni dell’astuzia e dell’egoismo».

Questa frase scriveva il successore di Napoleone35, col quale è difficile non voler metterlo a parallelo. Napoleone III ebbe la fortuna, che l’altro si augurava, di non esser il primo della dinastia, ma ciò lo obbligava ad atti e a passi che repugnavano al suo carattere ed a’ suoi tempi. Non si è Napoleone per niente. Talenti artistici, letterarj, democratici ebb’egli, come l’altro gli aveva amministrativi e guerreschi; una cortesia inalterabile e calma, lontana dalle grossolanità naturali e dalle collere simulate dell’altro. Diversa n’era stata l’educazione, diverse le parentele, giacchè questi trovava i suoi consanguinei presso ai troni di Monaco, di Stokolma, di Olanda, di Wirtemberga, di Pietroburgo; onde era principe più che rivoluzionario, nè altri poteva appropriargli il titolo di parvenu che ironicamente egli s’attribuì. Pochi, anche fuor della sua fortuna, hanno studiato tanto i bisogni del popolo, veduto l’avanzarsi del quarto stato, e procurato non impedirlo ma regolarlo. Napoleone imperatore ripudiò la moglie cittadina per volersene una imperiale; questi la cercò fra le cittadine. Nessun altri ha fatto più ampia l’apologia delle idee napoleoniche, ma sentivasi a quelle condannato nel governo interno assoluto come nella politica esterna sommovitrice e fin nella cosa cui più repugnava, guerre costose come quelle dello zio36. Se non che il nostro procedeva lento, riguardoso, attento a velare e addolcire i colpi politici, frapporvi lunghi intervalli di pace, blandire i vinti. Ma creatura della democrazia, chiarì quanto valgano i governi che non sanno elevarsi sopra le esigenze della popolarità. Sbarazzatosi coi modi stessi dello zio dagli impacci costituzionali, governò la Francia più a lungo di qualunque altro dopo la rivoluzione, e le procurò una prosperità materiale, di cui doveano offrire portentosa prova le immense sventure sopraggiunte. Dicono che demoralizzò la Francia. Altrettanto erasi già detto di Luigi Filippo; e forse è più giusto proferire che, trovato il paese stupendamente corrotto dall’egoismo e dalla avidità delle ricchezze e de’ godimenti, se ne giovò.

La Francia, che suol dire alla tempesta «Dammi la calma», non tollerò a lungo questo pilota; e già invecchiato, lo costrinse ad operare, e non più col proprio senno soltanto. Esitante e dubitoso della propria abilità, dopo che avea cagionato la tragedia del Messico, lasciato rinserrar la Francia da un lato dall’Italia, dall’altro dalla Germania, unite e poderose, lasciò a’ suoi nemici il tempo di prepararsi, mentre egli ingannato credeva esser pronto.

La sua caduta fu meno tragica che quella dello zio; più fatali e più lunghe ne saranno le conseguenze.



  1. Questa è la data vera. Ma poichè la Corsica passò dai Genovesi alla Francia nel 1769, Napoleone, che non voleva parere straniero, fece posticipare la data di sua nascita al 15 agosto 1769.
  2. Qualcosa di simile si divisò nella rivoluzione di Parigi del 1830. M. Guizot, nel II volume pag. 26 delle sue Memorie, dice: — La monarchia di luglio, che noi fondar dovevamo, non era più monarchia elettiva che repubblica; non sceglievamo un re: trattavamo con un principe che trovavamo accanto al trono, e che solo, col salirvi, potea garantire il nostro diritto pubblico, e salvarci dalla rivoluzione. L’appello al suffragio popolare avrebbe dato alla monarchia riformata il carattere appunto che noi tenevamo ad allontanarne: avrebbe messo l’elezione al posto della necessità e del contratto».
  3. Summa I. 2q. 105, art. 1.
  4. Summa I. 2q, 90, art. 3.
  5. Summa II. 2q, 42, art. 2.
  6. Observations du sieur Bergasse sur l’écrit du sieur Beaumarchais ayant pour titre, Court mémoire en atiendant l’autre, dans la cause du sieur Kornmann. È dell’11 agosto 1788. Vedasi la mia biografia di Mirabeau in parallelo con Washington.
  7. Al fine del III volume della Correspondance de Napoléon I, publiée par ordre de l’empereur Napoléon III, è il catalogo dei capi d’arte di Roma, spiditi in Francia da Buonaparte e da Berthier. Dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano portaron via 13 volumi manoscritti di Leonardo da Vinci, con disegni e scritture, dei quali un solo fu reso nel 1816, gli altri stanno in parte alla biblioteca nell’Istituto di Francia, in parte a Londra, in parte non si sa dove. Inoltre avevano levato il Giuseppe Ebreo su papiro d’Egitto del V secolo: il Virgilio postillato da Petrarca: la cronaca dei papi di Martin Polacco: un Dante su pergamena del XV secolo, alcune cose di Galileo, i cartoni di Raffaello, e furono restituiti; ma andarono allora perdute altre rarità e anticaglie. Inoltre i Giacobini levarono dalle Grazie la Coronazione di spine, opera delle più insigni di Tiziano, e il lodatissimo San Paolo di Gaudenzio; da San Celso il San Sebastiano di Giulio Cesare Procaccini; dalla Vittoria l’Assunta, e da San Giovanni alle Case Rotte le Anime del Purgatorio di Salvator Rosa. Questo solo fu restituito nel 1816 e posto nella pinacoteca a Brera. Questa per desiderio del vicerè nel 1812 cedette al museo di Parigi la Predicazione di Santo Stefano del Carpani, una Sacra famiglia di Marco d’Oggiono, una Beata Vergine e varj Santi del Boltraffio, un Sant’Antonio e San Bonaventura e un San Bernardino del Moretto; e n’ebbe in cambio un Vandick, un Sacrifizio d’Abramo di Jordaens, l’Istituzione dell’Eucaristia di Rubens, un ritratto femminile di Rembrandt. Essa pinacoteca fu fondata allora con molti quadri tolti a conventi e chiese della Romagna e dell’Umbria, tra cui lo Sposalizio di Raffaello e un quadro quasi unico di Giovanni Santi padre di questo. Dalla biblioteca di Brera furono levati 133 capi, fra cui 108 edizioni anteriori al 1476; nel restituirli, 9 mancarono, di cui la Biblia Pauperum stampata con tavolette di legno prima delle edizioni di Magonza; un Cantico de’ Cantici pure in tavole a caratteri gotici, un Ars memorandi e un Historia Antichristi del modo istesso.
  8. L’ultimo lavoro ch’io conosco in proposito è W. Rustow, Die ersten Feldzüge Napoleon Bonapartes in Italien und Teulschland. Zurigo, 1867, con 15 mappe.
  9. Il 10 dicembre 1796, Buonaparte scriveva a Giuseppe suo fratello: «La pace con Parma è fatta. Torna al più presto. Metti sesto ai nostri affari domestici, principalmente alla nostra casa (in Corsica), che per tutte le evenienze desidero sia capace e degna di essere abitata. Bisogna rimetterla nello stato di prima, attaccandovi l’appartamento d’Ignazio». Correspondance du roi Joseph.
  10. Mémoires du comte Miot de Melito, t. I, p. 163.
  11. Considerations sur la révolution francaise. Parte III e IV.
  12. Miot de Melito, Mémoires, II, 170.
  13. M. Lanfrey, che giudica con insolita severità Napoleone, trova che la campagna d’Italia, come strategia pura, fu concepita stupendamente, ma eseguita da rampicollo; inoltre compromise interessi d’ordine più elevato, giacchè Moreau, che avea combinato l’accordo di tutte le operazioni della guerra d’allora, avrebbe, potuto entrare in Vienna e dettarvi una pace assai più vantaggiosa, se il primo console non l’avesse obbligato a stare immobile per lasciar campo alle sue operazioni in Italia.
  14. È notevole la persistenza del sentimento religioso anche ne’ peggiori giorni. Adolfo Schmidt, professore a Jena, pubblicò (Lipsia, 1867) Quadri della rivoluzione francese, desunti affatto da stampe contemporanee, e al 30 maggio 1793, fra il supplizio di Luigi XVI e quel di Maria Antonietta, trova che i Giacobini fecero vacanza le tre feste di pentecoste; e le mercatine esposero tappeti per la processione del Corpus Domini; e quando passò il sacramento, quasi tutte s’inginocchiarono e così gli uomini: e si spararono più di cento fucilate.
    L’intolleranza dei dominanti d’Italia oggi nol permetterebbe.
  15. «In ciò (diceva) la volontà pubblica è unanime, costante, manifesta. Udite le voci che s’alzano d’ogni parte: fatele risonare voi che officialmente visitaste testè la Francia. Che cosa avete veduto in seno delle famiglie? che cosa nelle assemblea primarie ed elettorali? quai raccomandazioni mesceansi alle festive acclamazioni? Dapertutto i vostri concittadini reclamano il libero esercizio de’ loro culti; dapertutto questi uomini semplici e buoni che coprono le nostre campagne, e le fecondano con utili fatiche, tendono le mani supplichevoli verso i padri del popolo, implorando sia loro permesso di seguir in pace la religione del loro cuore, di sceglierne a loro grado i ministri, e di riposar in seno alle loro più dolci abitudini dai mali che han sofferto».
    Altrove diceva: — Il bisogno delle idee religiose è sentito vie più dai popoli in rivoluzione. Allora agli infelici fa mestieri di speranze: esse ne fanno splendere i raggi nell’asilo del dolore, esse rischiarano fin la notte del sepolcro, esse davanti all’uom mortale e finito aprono immensi e magnifici prospetti. Legislatori, che cosa sono gli altri vostri benefizj a fronte di questo gran bene? Voi compiangete il povero, la religione lo consola: voi reclamate i suoi diritti, essa gliene assicura il godimento. Spesso noi abbiam parlato del nostro amore pel popolo, del nostro rispetto per le sue volontà: se questo non fu un vano ciarlare, rispettiamo innanzi tutto istituzioni così care alla moltitudine. Di qualunque nome l’alta nostra filosofia piacciasi notarli, qualunque siano i godimenti più squisiti a cui noi pensiamo ch’essa ci ammetta, colà il popolo fermò i suoi desiderj, colà le sue affezioni, e basta; e tutti i nostri sistemi devono abbassarsi davanti alla sovrana sua volontà».
    Si sa come le canzoni popolari e i libelli lo corbellassero dell’aver parlato con enfasi delle campane e del quanto siano care al popolo. Turpezze della dotta aristocrazia, rinnovate ai dì nostri nel nostro paese.
  16. Uno degli oppositori al ristabilimento della religione era Volney, il famoso autore delle Ruine, che morì senatore. Egli proponeva che invece di dogmi e culto positivi, si adottassero certe dottrine vaghe e astratte, ma il primo console saltò su: — Il popolo ha bisogno d’una credenza; e quando dico il popolo, credo non dir abbastanza. Io stesso (soggiungeva vigorosamente tendendo il braccio verso il sole levante) a questo spettacolo mi sento commosso, strascinato, convinto».
  17. I voti pel consolato decennale furono 3,911,007 contro 1562
    pel consolato a vita » 3,568,185 » 9074
    per l’impero » 3,321,675 » 2579

    Camillo Jordan, di cui un arguto critico diceva non potersi trovare una fisionomia più attraente, un’anima più bella (Sainte Beuve, Revue des Deux Mondes, 1868 mars), stampò allora un opuscolo, ove si giustifica d’aver dato il suo voto pel consolalo a vita. — Anch’io, uomo indipendente, ho seguito la turba, ma determinato da motivi più alti che non codesti votanti, spinti a caso dall’adulazione o dall’esempio.... E posso dire che il mio voto è quel de’ cittadini più veri, di tutti quei che i lumi e le virtù fan degni d’esser guida agli altri.... Liberati e dalle servili abitudini dell’antico ordine e dalle esagerazioni passionate del nuovo: chiamati dal Governo a deliberar su grandi interessi: riconosciuti da esso savj quanto basta per ben determinarli come avrebb’egli consultato la volontà nazionale se non fosse manifestato il pubblico pensiero? Che gl’importano le liste de’ suffragi vulgari, sempre anticipatamente assicurati al potere, sempre sprovvisti d’ogni riserva generosa, e che nulla aggiungeranno ai veri suoi diritti? Ciò che gl’importa è di raccoglier voti indipendenti, di sapere quel che intendono in questo gran momento; sotto qual condizione sottoscrivono tutti quelli che hanno un’opinione, una coscienza, e la cui voce sembra la naturale interprete della verità e della giustizia.
    «E gli fu risposto che senza dubbio entrò nel voto una profonda riconoscenza per l’uomo che ci governa.... Si: questo cittadino ben meritò del suo paese. Fu chiamato al potere in giorni di discordia, e degnamente compì la sua missione: con man ferma rattenne le fazioni dentro, vinse i nemici di fuori, dettò la pace, cominciò la giustizia, consolò la sventura.... È naturale questo movimento d’un popolo generoso, che ama prolungare l’autorità che lo salvò, e cerca pel maggiore de’ servigi la maggiore delle ricompense.... Ma oltre ciò, oltre i riflessi politici, ci mosse la ferma confidenza che Buonaparte, ascoltando l’ispirazione della sua anima e la voce de’ buoni cittadini, porrà egli stesso all’autorità sua un limite, non profitterà di questo prolungamento della magistratura che per compiere e realizzare istituzioni dirette a formar un potere veramente nazionale, che secondo il suo, lo temperi, lo supplisca, ne assicuri la legittima trasmissione».

  18. Le gouvernement de Napoléon, plus que tout autre pouvait supporter la liberté, par cette unique raison que la liberté eût affermi son trône, tandis qu’elle renverse les trônes qui n’ont pas de bases solides. Idées napoléoniennes par le prince Louis N. Bonapart.
  19. A Fouchè ministro della Polizia, da Stupinigi, 28 aprile 1805, scrive:
    «La riforma de’ giornali avverrà ben tosto, giacchè è una bestialità aver de’ giornali che hanno solo gli sconci della libertà della stampa, senza averne i vantaggi. Dite ai redattori che non si tratta oggi d’essere più o men cattivo, ma di esser buoni affatto. Ripetendolo ai varj giornali, e dicendo che han ancora due o tre mesi da far le loro prove, toccherà loro a profittare di questi avvisi».
    Allo stesso, da Milano, 20 maggio 1805.
    «È mia intenzione che il Giornale dei Dibattimenti d’or innanzi non compaja, se il giorno prima non fu sottomesso alla censura. Nominate un censore, persona sicura, affezionata e di tatto, a cui i proprietarj del giornale daranno dodicimila franchi d’assegno. A questa sola condizione permetterò che questo giornale continui.... Fate conoscer ciò ai giornali, avvertiteli che, se spacciano notizie assurde e con cattive intenzioni, io farò altrettanto coi loro fogli».
    Poi il 1.° luglio.
    «Vorrei che i redattori de’ giornali conservatori fossero persone ben affette e provedute di buon senso, per non metter notizie contrarie alla nazione. Bisognerebbe che lo spirito di questi giornali fosse diretto nel senso di bersagliare l’Inghilterra nelle sue mode, ne’ suoi casi, nella sua letteratura, nella sua costituzione».
    Il 12 giugno 1805 al Beauharnais vicerè d’Italia:
    «La censura annichila i giornali. Bisogna dichiarare che il Governo non può rispondere delle sciocchezze ch’essi possono dire, ma che i giornalisti ne risponderanno personalmente. Non mi dissimulo che questo provvedimento ha qualche sconcio, ma anche nel vago della libertà della stampa c’è qualcosa di cui bisogna trar profìtto. E benchè intenzion mia non sia di lasciar ai giornali la libertà che vi lascia la costituzione inglese, non voglio però sia regolamentata, come si fa a Vienna o a Venezia. Bisogna che possano mettere qualche articolo vago contro di questa o di quella Potenza, e che agli ambasciadori si possa rispondere: — Presentate una querela; vi si darà corso davanti ai Tribunali e si farà renderne conto».
    Allo stesso da Parigi, 7 febbrajo 1808.
    «Portalis mi fe conoscere l’esistenza di varj giornali ecclesiastici, e gl’inconvenienti che possano risultare dallo spirito con cui sono redatti, e massime dalla diversità di opinioni in materia religiosa. In conseguenza, intendo che tutti i giornali ecclesiastici cessino, e siano uniti in un solo, che assumerà tutti gli abbonati. Questo giornale, dovendo servire specialmente all’istruzione degli ecclesiastici, s’intitolerà Giornale de’ Curati. I redattori ne saran nominati dal cardinale arcivescovo di Parigi».
    Il 12 dicembre 1806 al ministro dell’interno:
    «Les journaux actuels ne critiquent pas dans l’intention de dégôuter la médiocrité, de guider l’inexpérience, d’encourager le mérite naissant. Tout ce qu’ils publient est fait pour décourager, pour détruire.... Il faudrait un bon journal, dont la critique fut éclairée, bien intentionnée, impartiale, et depouillée de cette brutalité injurieuse qui caractérise les discussions des journaux existans, et qui est contraire aux véritables moeurs de la nation»
  20. Napoleone da Mosca, l’11 ottobre 1812, a Montalivet ministro dell’interno che gli sottometteva una decisione della censura per proibire un’opera storica che intaccava un membro della famiglia reale d’Inghilterra, rispondeva: — Non approvo l’andar che prende la censura. Mia intenzione è che si lasci piena libertà alla stampa, che non vi mettano impacci, che basti impedire gli scritti osceni, o che tendono a seminar zizania nell’interno. Che poi un’opera sia scritta bene o male, spiritosa o sciocca, con idee savie o pazze, utili o indifferenti, non bisogna badarvi».
    Strano contrasto colle prescrizioni antecedenti, e colle minute persecuzioni usate alla baronessa Di Stael, e raccontate da lei ne’ suoi Dieci anni d’esiglio. In una lettera del 1.° novembre 1810 a Camillo Jordan, questa scriveva: — Come? il mio libro (l’Allemagne) è censurato dal Portalis, tutt’altro che corrivo, eppur lo si sequestra. Tutti i censori della polizia sono convocati, e opinano che nulla deva impedirne la pubblicazione, e vien mandato alla gualchiera!... Il duca di Rovigo disse a mio figlio: — E che? avremo fatto la guerra quindici anni, perchè una donna così celebre faccia un libro sulla Germania senza parlar di noi».
  21. La madre di Letizia Ramolino sposò in seconde nozze un Fesch, capitano d’un reggimento svizzero, che la repubblica di Genova manteneva in Corsica; e da lui ebbe, ai 3 gennajo 1763, questo figlio che era dunque fratello uterino della madre di Napoleone, e che fu arcivescovo di Lione, gran lemosiniere dell’impero, conte, senatore, eppure al Concilio del 1810 osò contraddire al dispotico nipote, onde cadde in disgrazia e si ritirò nella sua diocesi di Lione. Dopo il 1814 si stabilì a Roma ove morì nel 1839.
  22. Nella VII lezione di quel catechismo si legge:
    D. Quali sono i doveri dei Cristiani verso i principi che li governano, e in particolare i nostri verso Napoleone I, imperatore e re?
    R. I Cristiani devono ai principi, e a noi in particolare dobbiamo a Napoleone, nostro imperatore e re, l’onore, il rispetto, l’obbedienza, la fedeltà, il servizio militare, i tributi per la conservazione dell’impero e del suo trono. Inoltre gli dobbiamo fervide preghiere per la salute sua, e la prosperità spirituale e temporale dello Stato.
    D. Perchè siamo tenuti a questi doveri verso il nostro imperatore e re?
    R. Primo, perchè Dio, che creò gl’imperi e li distribuisce a volontà, colmando l’imperatore di doni in pace e in guerra, lo stabilì nostro Sovrano, lo rese ministro della sua potenza, e sua immagine in terra. Onorare e servire il nostro imperatore e re è dunque onorare e servire Dio stesso. Secondo, perchè il nostro signor Gesù Cristo colla dottrina e coll’esempio ci insegnò quel che dobbiamo al nostro Sovrano; nacque obbedendo all’editto di Cesare Augusto; pagò l’imposta; e come ordinò di render a Dio quello che è di Dio, così ordinò di rendere a Cesare quel che è di Cesare.
    D. Non vi sono doveri particolari che ci attacchino più fortemente a Napoleone I nostro imperatore?
    R. I doveri che ci legano all’imperatore, ci legheranno anche ai successori suoi legittimi, nell’ordine stabilito dalla costituzione dell’Impero.
  23. E una lezione ne cavava Cesare Balbo, allora impiegato nella cancelleria francese a Roma. — Gli esempj di quel coraggio civile, unico allora in Italia; quel resistere, quel protestare, e non riconoscere e non ceder mai di quel papa, quei cardinali, quei prelati, quei preti allora così disprezzati, mi rivelarono la vigoria di quell’istituzione, cadente in apparenza; furono il seme di quelle opinioni papaline, le quali mi furono sempre rimproverate, e nelle quali mi confermai tanto più, quanto più le studiai. A tutti poi, all’Italia e al mondo, quel fatto momentaneo può servire d’insegnamento ben altrimenti importante. Napoleone, al sommo della sua immane potenza, non riuscì a distruggere la piccola, la vilipesa potenza temporale del papa se non per cinque anni. E quegli anni furono quelli della sua debolezza, dei suoi errori, della sua decadenza, della sua perdizione».
    Tornata 28 febbrajo 1848 del parlamento subalpino. La più ampia esposizione di questi fatti si trova in Haussonville, L’Eglise romaine et le prémier Empire. Parigi, 1868.
  24. Chiesto dalla Montholon quali siano le migliori truppe d’Europa, — Quelle che vincono le battaglie, signora, ma le truppe son giornaliere e capricciose come voi altre donne». Un’altra volta diceva: — Raccomando a mio figlio di non dimenticare che nacque principe francese, e di non prestarsi giammai a divenir una stromento in mano dei tiranni che opprimono l’Europa. Non nuoccia mai alla Francia; adotti la mia massima; tutto per la Francia».
  25. Nel senatoconsulto per la deposizione di Napoleone è detto: — Considerando che la libertà della stampa, stabilita dalle nostre costituzioni come diritto della nazione, fu sempre sottomessa alla censura della Polizia; che il Governo fece servire la stampa a diffondere, in Francia e fuori, fatti falsi, idee favorevoli al despotismo, e oltraggi contro i Governi stranieri...»
  26. Corresp. du roi Joseph, tom. XI, pagine 121, 127, 230, 412, 417, 418, ecc.
  27. Quando già gli Alleati erano a cento chilometri da Parigi, il 12 gennajo 1814 fu presentato all’imperatore il disegno di fortificare Parigi: esso il ricusò, ordinando solo di compire la cinta daziaria. Sei giorni prima che gli Alleati arrivassero, comandò di tracciar opere esterne, preparando tutto per quando l’imperatore l’ordinasse. Nei cento giorni si fecer opere di terra al nord; e bastarono questi deboli schermi perchè 80 mila uomini aspettassero di piè fermo i vincitori di Waterloo, che poteano ancora pentirsi. In quei cento giorni, Napoleone, ravveduto, pensò alle fortezze, e incaricò Carnot di restaurarle, tardi comprendendo ch’è necessario unire la guerra di manovra colla difensiva.
  28. Il grido popolare era, Vivent nos amis les ennemis. Un gran liberale, Carlo Comte, scrive: — Quando gli Alleati entrarono in Parigi, io non provai che la felicità d’esser liberato da un governo che non potea sopportarsi più se non da automi o da anime venali e corrotte». De l’impossibilité d’établir un gouvernement constitutionnel sous un chef militaire, et particulièremenl sous Napolèon. Parigi, 1815.
    «Buonaparte soccombette non perchè vinto, ma perchè la Francia non ne voleva più. Gran lezione, che reca morte tutto ciò che ferisce la dignità dell’uomo».

    «Il ritorno de’ Borboni produsse in Francia un entusiasmo universale: furono accolti con una inesprimibile effusione di cuore: gli antichi repubblicani divisero sinceramente i trasporti della gioja comune; Napoleone gli aveva particolarmente oppressi tanto, tutte le classi della società aveano sofferto tanto, che nessuno trovavasi il quale non fosse in tripudio».

    Carnet.

    Villemain e La Martine esaltano il czar, Viel Castel dichiara che mai non si vide alcuno possedere una popolarità più pura, più universale, più splendida di quella d’Alessandro di Russia.

  29. Thiers non ebbe questo grande soccorso, del quale si vantaggiarono d’Haussonville, Raudot, e principalmente Lanfrey.
  30. Han notato che il polso di Napoleone batteva appena quaranta volte al minuto. Come accordare questa lentezza di circolazione colla divorante attività di lui, con quella potenza di riflessione che lo rendeva sempre padrone di sè stesso, era quella fredda fermezza che mostrò ne’ momenti più gravi? Che l’uomo non sia soltanto ammoniaca e fosfato di calce?
    L’Assemblea nazionale dal luglio 1789 all’ottobre del 91 pubblicò 15,479 leggi. Quelle di Napoleone son comprese in 35 volumi di 60,000 pagine.
  31. Sulla famosa colonna di Parigi era scritto: imperatori o. m.... quam hominum nequitia pacem illi denegavit coelum benigne concedat sempiternam.
  32. Il Melzi gli suggeriva, anzichè la violenza, il sistema des serres chaudes: e Napoleone stesso diceva: — Il mondo non si riforma a colpi di mazza».
  33. Guizot dice: — La politica che noi sostenevamo e praticavamo appoggiavasi all’influenza preponderante delle classi medie, che ai nostri occhi erano i migliori organi, i migliori custodj dei principi del 1789, dell’ordine sociale come del governa costituzionale, della libertà come dell’ordine, delle libertà civili come delle poliliche, del progresso come della stabilità». Memorie, VIII, pag. 522.
  34. Il debito che l’Impero lasciava alla Restaurazione saliva a 2505 milioni: computando 400 milioni per mantenere l’occupazione militare per tre anni.
  35. Vie de Jule César.
  36. Vogliono che le guerre della rivoluzione e del primo impero costassero tre milioni di vite. Per quelle del secondo impero le statistiche danno:
         Spese di denaro      d’uomini
    Guerra di Crimea 8,500,000,000 80,000
    » d’Italia 1,500,000,000 60,000
    » di Cina, Cocincina e Messico 1,000,000,000 65,000

    La guerra del 70-71 impone alla Francia 9500 milioni, e costò da 80 a 100,000 uomini.

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