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LX.

DANTE


Forti sembianze di novella vita
Circondâr la tua cuna,
O re del canto che piú alto mira
Gentil virago ardita,
5Quale non vider mai le argive sponde
Né le latine, e d’amor balda e d’ira,
A te venía la bella
Toscana libertade; e il pargoletto
Già magnanimo petto
10Ti confortava de la sua mammella
Tutta accesa ne’ raggi di sua sfera,
Mite insieme ed austera,
Venne la fede; e per un popoloso
Di visïoni e d’ombre oscuro lito
15La porta ti mostrò de l’infinito.
Gemebondo e pensoso, e pur di rose
Ad altr’aura fiorite il crin splendente,
Con te si stette amore

Lunga stagione; e sí soavi cose
20Ti parlò con le labbra vereconde,
E sí dolce ti entrò le vie del core,
Che niuno al par di te sentio d’amore.

Ma spesso ancor dal meditar solingo,
O giovinetto schivo,
25Te scuotevan clamor fiero e tumulto
E furor di fratelli
Duellanti ad uccidersi. Stridenti
Per le vicine mura
Civili fiamme udisti; e donne udisti
30Ferire a grida il ciel, che l’are e i letti
E i fuochi almi e le cune,
E tutto ciò che bello
Fe’ a gli occhi loro il maritale ostello,
Tutto scorgeano in ampio ardore involto,
35E ruinare in armi esso marito
Da gli amplessi erompendo, e i giovinetti
Armi gridar, sdegno anelando e stragi.
E tu vedesti un furïar di spade
Cercanti a morte i petti,
40E nel guerrier che cade
Minacciar viva la bestemmia e l’ira,
E in gran sangue confuse
Bionde teste e canute, e a libertade
Spettacolo di umane ostie esecrate
45Dar le furie, e crollar truce la morte
Le immani torri e le ferrate porte.

Crebbe tra i feri obietti
L’italo ardito spirto;
E, al lungo odio civil pregando fine,
50D’amor sí pure imagini e sí nove
Vide e ritrasse a l’ombra
D’un mirto giovinetto
Che le inchina adorando ogni intelletto.
Lui dal soave inganno
55Destò voce di pianto
Sonando amara su ’l materno fiume.
Ahi, dal turbine infranto
Giacque il bel mirto, e con aperte piume
La colomba d’amore ahi se n’è gita
60Impetrando al suo volo aura piú pura.
Ei per entro l’oscura
Caligine de’ secoli ondeggiante
Rifuggí tra le antiche ombre famose,
Ch’ebbe sé in odio e le presenti cose,
65Ed uscí, nel crepuscolo, gigante.
Ed ombra apparve ei stesso; ombra crucciosa,
Che ad una ad una interroga le tombe
Nel deserto, e le abbraccia ad una ad una;
Fin che dinanzi a lui tra le ruine
70Barbariche e la polve
Fumò il vigor de le virtú latine,
E tutto quel che una ruina involve
Ferí l’aura silente
Di un grido alto e possente.
75Ne l’alta visïone

Divin surse il poeta; e disdegnando
La triste Italia e per mancar d’obietto
Pargoleggiante il gran vigor natio,
Te salutò in desio,
80Alma Italia novella,
Una d’armi di leggi e di favella.1
A riportar nel vero
Imagine cotanta, egli la vita
Che per lo mar de l’essere si volve
85Cercò; d’entro la polve
E dal suon del passato il bene e il male
Trasse, vate fatale: e la sua voce
Come voce di Dio da’ sette colli
Tuonò su ’l mondo, e tutti a sé d’intorno
90I secoli evocò. Giudice e donno
In lor suo sguardo mise;
Ammirò e pianse, disdegnò e sorrise:
Poi li schierava ne l’eterno canto,
Piacendo pure a sé di poter tanto.

95Ma questa umile aiuola
Ove si piange e s’odia,
E questo eterno inganno, e questa vana
Ombra c’ha nome vita ed è sì bassa,
T’era in dispetto. Poi che il sacro verso
100A tutto l’universo
Descrisse fondo, e il buon sofo gentile
Te mise dentro a le secrete cose,
Veder volesti come l’angel vede

Colà dove non è di nebbia velo,
105Amar volesti come s’ama in cielo.
Su per le vie d’amore
Quest’umil creatura
Risospingendo innanzi al creatore,
Quetar volesti in quell’eterno vero
110Che il grande amor ti dette e il gran pensiero.
Cesse Virgilio a tanto;
E tu deserto e solo
Spirito uman, per entro il gran desío
Sommerso vaneggiavi, e dubitando
115Tu disperavi: quando
Su l’angeliche penne
Al tuo dolor sovvenne
Quella ch’è amore e visïone e luce
Tra l’intelletto e ’l vero:
120Nomarla a me lingua mortal non lice;
Tu la dicesti, amando, Beatrice.
Cosí di sfera in sfera,
Tutto era melodia quello che udivi,
Tutto quel che vedevi era una luce,
125E tutti quanti erano amore i sensi,
E lo spirto ed il verso un’armonia
Simile a quella che là su s’indía.

Deh, qual parveti allora
Quest’umil patria, e qual de le partite
130Città la lite (ahi come quella eterna
Che sempre trista fa la valle inferna!),

Quando novellamente
Di ciel disceso ne portavi il canto
Supremo, e tutto avevi il nume in fronte,
135Come l’antico che scendea dal monte?
Innanzi a te, splendente
Pur anche nel fulgor del regno santo,
Balenò di vermiglia
Luce il campo feral di Montaperto,
140E pe ’l tristo deserto
De le crete maligne
Un fioco suon correa
Come sospir di battaglier morenti;
Cui lontan rispondea
145Con un rumor di molto pianto umano
Di Campaldino il maledetto piano.
E tu dal mar toscano,
Rea Meloria, sorgesti;
E la gloria dicesti
150De le nefande stragi, e da la nostra
Rabbia infamati i sassi ermi al Tirreno,
E ’l grande equoreo seno
Incestato di sangue, e tristo il bello
Ligure lito di pisani esigli,
155E nati solo al fratricidio i figli.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



  1. [p. 284 modifica]Questo stava bene dirlo nel 1854; ma che Dante pensasse all’unità d’Italia, oggi, studiati un [p. 285 modifica]po’ meglio i tempi l’uomo e il poema, non lo direi piú né pure in un ditirambo. Le son novelle che oramai bisogna lasciarle a quei che sudano a lusingare il veltro.

Note

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