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LXVIII.
I VÓTI
Che prega il vate, il libero
Vate che prega e vuole,
Adorno in veste candida,
Vòlto al nascente sole;
Mentre Glicera unanime,
Cui le Grazie educaro al mite amor,
Con pia cura a i domestici
8Numi il votivo altare ombra di fior?
Che a gli agi suoi rinnovino
Ben cento solchi i duri
Giovenchi? o ver che fervida
Vendemmia gli maturi
Dove tepe la ligure
Maremma e verna il suo paterno mar1
E dove gli avi improvvidi
16Né un avel di famiglia a lui lasciâr?
Altri il crociato orgoglio
Tra un aureo vulgo estolla,
E i vili ozi gli prosperi
La mal redata zolla.
A me sorrida un tenue
Lare e l’italo bacco empia il bicchier
Tra gli amici che liberi
24Assentano fremendo al carme auster.
Non io vorrò che facili
Pieghin le orecchie altiere
I grandi al carezzevole
Suon de le mie preghiere:
Non io libare a l’aureo
Pluto da la febea tazza vorrò,
E non le muse indocili
32Fra i lusingati prandi inebrierò.
Prego: de’ serti lirici
Se me la patria Serra
Degno produsse; e il fremito
Del mar tósco, e la terra
Dove in gran solitudine
L’ombra di Populonia e il nome sta,
Aspro garzone crebbero
40Me tra i fantasmi de l’antica età;
Prego: a la sacra Italia
Suoni il mio carme, e fiero
Surga ne l’ira, vindice
Del romuleo pensiero.
Che se ne’ campi memori
De la clade che ancora ulta non fu
Scenda a pugnar con impeto
48D’odio maturo l’itala virtú,
In me, non nato a molcere
Con serva man la lira,
Di tua grand’alma un’aura,
Possente Alceo, respira;
Allor che su la ferrea
Corda battendo con la man viril
Guatavi altero immobile
56De l’aste il flutto e il vasto impeto ostil.
Rapia la nota eolia
La giovenil coorte,
Che de le spose immemore
Ruinava a la morte.
E tu cantavi l’isole
De’ beati ove il forte Ercol migrò
E dove aspetta Teseo
64Chi la cara a la patria alma versò.2
Ma il fior del sangue ellenico
A te d’intorno ardenti
Co’ peàna premevano
I tiranni fuggenti;
Poi ne la danza pirrica
Scudo a scudo battendo e piè con piè
Incoronâr le patere
72Sopra la morte di Mirsilo re.3
O sacri tempi! o liberi
Vati correnti in guerra,
Poi tra le danze e i calici
Cantanti su la terra
Salvata! Oggi una pallida
Nube di tedio e terra e ciel coprí,
E il carme è voce inutile
80E il vate un’ombra de gli antichi dí.
Dunque posiam. Ma l’ozio
Muto non sia né vile;
Si trascorrendo liberi
Per la stagion servile
Mediteremo i cantici
De le memori glorie e del disir,
Come già i padri italici,
88Li sdegni e i ferri esercitando, udîr.
Salve, o mia patria! Ed arida
Stia questa lingua viva,
Se di te mai dimentico
Son dov’io pensi o scriva.
Tuo, santa patria, è l’impeto
Che sale a i carmi da l’acceso cor
E l’acre tedio e il fulgido
96Telo de l’ira e l’elegia d’amor.
Folle censore e stupido
Cantor di vecchie fole
Me chiami pure, o Italia,
La tua diversa prole:
Adulator di trepidi
Liberti e vili sofi io non sarò.
Che se nel reo servizio
104Precipitar co ’l vulgo anch’io dovrò.
Su ’l corpo mio Gliceria
Sparga le care chiome
E ne le insonni tenebre
Chiami il mio vuoto nome,
Immaturo compongami
Del fratel generoso entro l’avel
La madre, ed orbo vagoli
112Il padre infermo entro il deserto ostel.
- ↑ [p. 285 modifica]Come è detto da Persio vi: Mihi nunc ligus hora Intepet hibernatque meum mare. Persio era etrusco: ma il paese dalla Magra all’Arno fu detto piú d’una volta ligure, specialmente dai greci.
- ↑ [p. 285 modifica]È una rimembranza del glorioso scolio ateniese: Carissimo Armodio, no tu mai non moristi: ma nelle isole de’ beati dicono che tu sei, ov’è il piè-veloce Achille e dicono anche il tidide Diomede.
- ↑ [p. 285 modifica]Si accenna al frammento di Alceo serbatoci da Ateneo x: Or conviene inebriarsi e di forza bere, da poi che morto è Mirsilo.