< L'Olimpia
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Atto II Atto IV

ATTO III.

SCENA I.

Mastica, Lampridio, Protodidascalo.

Mastica. Camina sicuramente, ché non è uomo che vedendoti con questo ferro al collo, col turbante in testa e con queste vesti, non ti giudichi or ora scampato di man di turchi, ritratto dal naturale.

Lampridio. Amor, favoriscimi a questo inganno, ché non si può far cosa buona senza l’aiuto tuo.

Mastica. Hai la catena ne’ piedi?

Lampridio. Vorrei che ti potessero rispondere le mie gambe che appena la ponno trassinare.

Mastica. Io vado: or vedrai la tua Olimpia desiderata.

Lampridio. O braccia mie aventurose, dunque voi cingerete il collo della terrena mia dea? o bocca mia, tu bascierai le guancie delicate e gli occhi del mio sole? O Amore, se ti piace ch’io ottenga cosí desiderata felicitá, donami tanta forza che la possa soffrire: ché dubito che vedendomi Olimpia in queste braccia, non mi muoia di contentezza.

Mastica. Lampridio, tieni le parole a mente. Subito che serai intrato in casa, comanda che si tiri il collo a quante galline ci sono e che mi siano dati dinari per comprar robbe.

Lampridio. Eccoti dinari, spendi ciò che tu vuoi, non me ne render conto.

Protodidascalo. È stato supervacuo admonircelo, egli lo fa indesinenter; non è oggi il primo giorno che cognovisti eum.

Mastica. Ricordati dimandar quello che ti ho detto, per mostrar che sei figlio a Teodosio.

Lampridio. Non me lo dir piú, ché lo so cosí bene che ricordandomelo piú, me lo faresti smenticare.

Mastica. Tu sei tutto mutato di colore.

Lampridio. Questa insperata speranza d’allegrezza m’ha tolto fuor di me stesso. Non so che m’abbi: cuor mio, sta’ fermo; tu par che non mi capi nel petto, tu dibatti cosí forte come se ne volessi saltar fuori.

Mastica. Con questo colore tu saresti piuttosto per sconsolarle che rallegrarle con la tua venuta.

Lampridio. Farò migliore viso se posso. Va’ tu presto e recami da vestire.

Mastica. Lo farò. Io entro prima, darò la buona nuova e le farò uscir fuora a riceverti. — O di casa, allegrezza allegrezza, mancia, buona nuova!

SCENA II.

Lampridio, Protodidascalo.

Lampridio. Protodidascalo, tu stai di mala voglia.

Protodidascalo. Taedet me et misereor del caso dove sei per incidere.

lampridio. Se tu avesti pietá di me, me lo mostraresti in altro.

Protodidascalo. Che magior granditudine di cosa si può autumare, che per un tantulo di oblectamento ti poni in pericolo che discoprendosi è per apportarti il maggior dedecore che mai s’ascolti?

Lampridio. Non si può scoprire se non lo scopriamo noi stessi, ché non ci è altro al mondo che lo sappi.

Protodidascalo. Lo sa Mastica, or l’ará detto a cento: non passare una ebdomada che lo saprá tutto Napoli. Ascolta Virgilio:

Fama, malum quo non aliud velocius ullum,
mobilitate viget viresque acquirit eundo.

Lampridio. Mastica, non lo dirá, perché li terremo la bocca otturata con migliacci e maccheroni che gl’ingozzeranno, né potrá parlar se ben volesse.

Protodidascalo. Un altro li dará da ingurgitar vino, manderá giú quelle polente mileacee suffrixe che tu dici e vomiterá con quella ingluvie quanto saprá di voi. Ma come diresti latinamente i maccheroni? Ascolta: è una certa radicula detta «macheronium», che anticamente si commendava ne’ panefici; però quelli pastilli farinacei si direbbono eleganter «macheronei».

Lampridio. E quando si scoprisse, non saremo uomini da fugir di Napoli, di Roma e tutto il mondo?

Protodidascalo. Il medesimo dicono i malefici e facinorosi, e senza avedersene si trovano il carnefice sugli umeri, alle tergora.

Lampridio. Se tutti avessimo il gastigo de’ peccati che facciamo, non si trovarebbono tante fune per far tanti capestri.

Protodidascalo. Forse a coloro favorisce la sorte. Ma ascolta questo duodecasticon che consta di anapesti, coriambi e proceleusmatici in favor della sorte:

O sors mala... .

Lampridio. Non, no di grazia, non è tempo adesso di queste baie. Non mi turbar la presente allegrezza con questi tuoi amari ricordi, ché l’animo determinato non ave orecchie.

Protodidascalo. Voi gioveni, eccitati dall’illice d’amore, d’ogni cosa volete scapricciarvi, e la voglia v’impiomba cosí l’orecchie che non vi fa animadvertere cosa alcuna. Questa frode che usi per fruir la clavigera del cuor tuo, non è altro che seminar il canape per tesserne un laccio con che il prelibato carnefice ti chiuda la vita. Sai quanto in Napoli s’osserva la giustizia, e tu sei forastiero.

Lampridio. Taci, vattene vattene; ecco Olimpia mia.

SCENA III.

Sennia vecchia, Olimpia, Lampridio.

Sennia. O Eugenio pianto e sospirato sí lungo tempo!

Lampridio. O Sennia madre, che l’odor del sangue mi ti fa conoscere per madre!

Sennia. Olimpia, abbraccia il tuo fratello: come stai cosí vergognosa?

Lampridio. O sorella, dolcissima anima mia!

Olimpia. O amato piú che fratello, non conosciuto ancora!

Sennia. Io tutta ringiovenisco e in avervi cosí subito acquistato, figliuol mio, panni che t’abbia or partorito. Mira, Olimpia, come nel fronte e negli occhi ti rassomiglia tutto.

Olimpia. Il resto dovea assomigliare a suo padre.

Sennia. Non pigliar a tristo augurio, figliuol mio, ch’io pianga, ché l’allegrezza ch’io sento di tua venuta, tanto piú cara quanto men la sperava, mi fa cader le lacrime dagli occhi.

Lampridio. O madre, io ancora non posso tenermi: sento il cuor liquefarsi di tenerezza. Raguagliami: è viva Beatrice mia zia di che molto si ricordava Teodosio mio padre?

Sennia. Vive e si sta maritata in Salerno molto ricca.

Lampridio. Eunèmone suo fratello come vive?

Sennia. Son dieci anni che si morio.

Lampridio. Duolmi di non poterlo veder vivo. Ditemi, mia sorella Olimpia è maritata?

Sennia. L’abbiamo giá per maritata e questa sera abbiamo destinata alle sue nozze: aremo doppia allegrezza.

Lampridio. Poiché non è maritata fin adesso, lasciate che ancor io ne abbi la parte della fatica: me ne informerò di costui, poi informerò bene mia sorella del tutto.

Olimpia. Mi contento che mio fratello facci di me ciò che gli piace.

Sennia. Prima che entriate in altro ragionamento, parmi venghiati a riposarvi, chP per la fatica grande ch’avete sopportata la notte e il giorno stimo che non possiate regervi in piedi.

Olimpia. Andiamo, fratel mio.

Sennia. (Quante carezze ti fa, Olimpia, il tuo fratello).

Olimpia. (Oh come è amorevole! deve essere usato in quelle parti della Turchia dove i fratelli e sorelle devono conversare con questa domestichezza).

Sennia. Vo innanzi, Eugenio figliuol mio.

Lampridio. Ecco il vostro schiavo in catene che ave esseguito quanto dalla sua divina padrona gli è stato imposto, acciò conosca l’ardentissimo desiderio c’ho di servirla e mostri il simolacro del cor suo qual stia avinto intorno di catene.

Olimpia. D’oggi innanzi cominciarò ad avervi in piú stima e gloriarmi di questa mia bellezza, poiché è piaciuta a persona tale che è posta in tanto pericolo per amor mio.

Lampridio. La contentezza che ho di mirarvi a mio modo e di servirvi, sería stato ben poco se l’avessi comprata con pericoli di mille vite.

Olimpia. In me non conosco tal merito, ma ringrazio di ciò il cortese animo vostro.

Lampridio. Ringraziatene pur colui che vi creò di tal pregio che sforza ognun che vi vede a servirvi e onorarvi.

Olimpia. Desidero non essere intesa da’ vicini o da quei di casa, e sopra tutto bramo vedervi sciolto da queste catene che temo non v’offendano, ché a questo collo delicato e a questi fianchi ci convengono le braccia di chi vi ama a par dell’anima e della sua vita.

Lampridio. L’offesa me la fate ben voi, anima mia, con dir che queste m’offendano: che mentre mi stringono appo voi mi fanno piú libero dell’istessa libertade; e che sia vero, ecco che da me stesso son venuto a farmevi prigione. Ma quelle che mi stringono nell’amor vostro, sempre ch’io pensassi disciorle m’allacciarebbono in duri ceppi e in amarissima prigione.

Olimpia. Ho tanta speranza ne’ meriti dell’amor mio che con mille catene piú dure di queste ci legheremo con nodi d’inseparabil compagnia, né basterá alcun accidente schiodarle se non la morte.

Lampridio. O Dio, non è questa Olimpia mia? non è questa la sua figura angelica? non la tengo abbracciata io o forse sogno come ho soluto sognarmi altre volte?

Olimpia. Sento gente venir di su. Caminate, fratello.

Lampridio. Andatemi innanzi, sorella.

Olimpia. Io vo, fratello carissimo.

Lampridio. Vi seguo, sorella. O dolcissima conversazione!

SCENA IV.

Mastica solo.

Mastica. Non dubitate, fratelli e sorelle: giá da ora cominciate a far entrare in suspetto Sennia dell’amor vostro. Lo stomaco di Lampridio è come la pignata che bolle: Olimpia standogli intorno gli stuzzica il fuoco; poco potrá tardare che non bolla e non mandi la schiuma fuori. Iddio voglia che perseveri d’andar bene e la cosa resti qui. Io, poiché l’arte del ruffiano m’è riuscita, non dubito morirmi piú di fame. Oh che mercanzia muta, oh che alchimia non conosciuta, dove con poche parole si fanno molti scudi! E poiché son consapevole de’ fatti d’Olimpia, la terrò sempre soggetta e la farò fare a voglia mia; e come Lampridio pone la botte a mano, ne faremo bere qualche voltarella da alcuno di tanti assassinati dall’amor suo. A che se ne accorgerá Lampridio? che quanto piú se ne beve piú ce ne resta: è forse la nostra botte della cantina che bevendo vien meno? E se ben si scopre, che potrá farmi Sennia? potrá altro che spogliarmi questi panni che m’ha fatto ella e cacciarmi fuora? Almeno se ho da mostrar le carni nude, le mostrerò grasse e liscie. Fratanto attenderò ad empirmi la pancia ben bene e massime questa sera che, per esser sposi novelli e la prima volta che mangiano insieme, staranno vergognosetti, appena assaggiaranno le vivande con la punta delle dita che le manderanno via. O Dio, potessi allargarmi questo ventre altro tanto per verso, spalancarmi questa bocca, accrescermi un altro filaro di denti, allongarmi questo collo, che se mai fui Mastica ci sarò questa sera, che non cessato di masticar mai finché non toccherò con le dita che son pieno fin alla gola. Lascierò le parole, ché non cenino senza me.

SCENA V.

Anasira sola.

Anasira. Troppo è misera la condizion delle donne, poiché ne bisogna tôr marito a voglia di parenti, col quale abbiamo a vivere fin alla morte. Sia benedetta l’anima di mia madre, che per aver tolto un marito per forza a voglia di suo padre, se ne tolse cinquanta a voglia sua, e a me ne fe’ provare prima dieci e poi mi diede l’elezion di tormi qual piú mi piacesse! Lo dico ad effetto, ché se mai mi son rallegrata del ben d’altri, or me ne son rallegrata piú che mai, che uscendo poco fa di casa d’una amica, intesi dir per la strada ch’erano gionti doi cristiani scampati di man di turchi: me ne rallegrai vedendo che le genti lo tengono per vero e Olimpia ottenghi il suo desiderio. Caminando piú avanti, trovai una calca di persone raccolte insieme: dimandai e mi fu risposto che stavano mirando certi che erano stati schiavi di turchi. Desiosa veder questo Lampridio, ché non mi scappi il manto, me lo piglio a due mani, e spingo innanzi finché vedo due persone, una di venti e l’altra di sessanta anni, vestite da turchi con le mani piene di calli e ne’ piedi si conosceva il segno del cerchio della catena: niuno di loro mi avea ciera d’innamorato, e mi meraviglio come vogli Lampridio comparir in quel modo innanzi la sua innamorata. Me ne andrò a riposare, ché ho tanto menato le gambe per compir presto il viaggio che par che abbia una fontana di sotto.

SCENA VI.

Trasilogo, Squadra.

Trasilogo. Che il capitan Trasilogo, sgombrator di campagne, destruttor di belovardi, ruina di muraglie e desolator de cittadi patirá che gli sia fatta cotanta ingiuria? ...

Squadra. Veramente lo merita questo gastigo.

Trasilogo. ...e che un romano abbia a tormi la sposa promessami? ...

Squadra. E il peggior è che Olimpia non vi può sentir nominare.

Trasilogo. ...Tagliarò Sennia per mezo; Olimpia la prenderò per lo collo e senza toccar terra la porterò prigione in casa mia; a Mastica ficcherò un spiedo per sotto che gli lo farò uscir per la bocca; a questo romano spezzarò su la schena dieci fasci di bastoni, né lo difenderan dalle mie mani cento muraglie o bastioni. ...

Squadra. Bene!

Trasilogo. ... Se non spianarò questa casa dal basso suolo, non vo’ portar piú spada a lato. Onde spero per tale essempio agli occhi di ciascheduno che non aran piú ardimento d’offendermi. ...

Squadra. Benissimo!

Trasilogo. ... Orsú, fatevi inanzi, soldati! olá, Pelabarba, Cacciadiavoli, Rompicollo, Spezzacatene. ...

Squadra. Tutti siam qui apparecchiati.

Trasilogo. ... ponetevi tutti in ordine, perché ne vo’ far la rassegna. Fermati tu, dove vai tu? Sta’ dritto tu! Che arme è questa? or non avevi altre arme in casa, che venir fuori con una scopa? che mi pari piuttosto un spazzacamino che soldato. ...

Squadra. Buon pensiero, padrone, per nettar il sangue e le cervelle, le braccia, le mani e l’altre membra, che si troncheranno per la scaramuccia.

Trasilogo. ... Tu perché con questo spiedo?

Squadra. Per infilzar Mastica, come avete detto, accioché non ingoi piú fegatelli.

Trasilogo. E Olimpia e Sennia insieme con lui.

Squadra. Non tanto male a’ poveretti: è troppo gran vendetta.

Trasilogo. Io per minor cosa di questa rovinai la Capestraria, l’Arcifanfana e la Cuticulindonia.

Squadra. Dove sono queste cittá, padrone?

Trasilogo. Nell’India del Mondo nuovo. Suona il tamburo, Squadra.

Squadra. Io non ho né naccheri né tamburi.

Trasilogo. Suona con la bocca mentre costoro caminano in ordinanza.

Squadra. Tup, tup, tup.

Trasilogo. O bestia incantata, non vedi che guasti l’ordine? Tu, porta queste mani a’ fianchi; tu, alza la testa, che mi pari un bufalo o barbagianni; tu, con questa fionda sta’ in questo luogo, e se alcuno cavasse la testa fuor dalla finestra o tetto, ferisci con essa e togli le difese; tu, Squadra, fermati innanzi la porta, che hai questo cuoio di dante.

Squadra. E questa spada di Petrarca.

Trasilogo. Con questa spada poniti in portafalcone.

Squadra. Io non so se non portagallina.

Trasilogo. Sai maneggiar questa spada a due mani?

Squadra. Meglio assai quella a duo piedi; però sería bene che mi locaste nella retroguarda.

Trasilogo. Quel loco è del capitano acciò possa soccorrere dove è il bisogno, e dietro questo cantone sosterrò l’impeto della battaglia.

Squadra. E voi, savio, vi ponete al sicuro.

Trasilogo. Questa non è paura ma avertenza di guerra per poter provedere in ogni luoco. Dammi tu questo scudo. Orsú, state in cervello, ch’io vo’ dare l’assalto. Alla prima botta col piede farò andar la porta per terra, con le smosse le mura e la casa.

Squadra. Tanta avete forza, padrone!

Trasilogo. Io farei scotendo cader la torre di Babilonia: farò piú io solo che gli arieti, le catapulte, bombarde e l’artiglierie.

Squadra. Sento genti, signor capitano. ... Non è nulla, non è nulla.

Trasilogo. Taci, codardo! che avilisci costoro. Su, mano all’armi, calate i ferri, ah capitan Trasilogo, innanzi innanzi!

Squadra. Oh come fate bene! dite: — Innanzi innanzi! — e vi fate indietro indietro!

Trasilogo. Sciagurato, fo come il castrone che si fa indietro per ferir con maggior impeto dinanzi. Ah capitano, innanzi innanzi!

Squadra. Padrone, sento piú di mille uomini che calano con arme. ... No no, è stata una gatta.

Trasilogo. Facciamo una bella ritirata, che non è men bella che un forte assalto. Fermatevi! ... con ordine, con ordine. O ciel traverso!

SCENA VII.

Lampridio, Mastica.

Lampridio. Dove mi cacci? ho il bene in casa e mi meni altrove; se ben mi meni fuori, l’anima resta in casa. Ben è misero colui a cui la troppa abondanza gli è di carestia. A questo modo sarebbe stato assai meglio non avermici fatto entrare.

Mastica. Ben si dice che le cose simulate poco tempo ponno durare; ché questa mattina per i tuoi poco onesti portamenti se ne sarebbono accorte le pietre, non che le persone che hanno cervello, di questo tuo amore.

Lampridio. A torto ti duoli di me che in tutti gli atti mi sono mostrato la modestia stessa.

Mastica. A te pare cosí. Perché sei cieco tu, pensi che tutti gli altri sian ciechi. Tu non stai appresso Olimpia un momento che non ti trasmuti di cento colori; non mai te le distacchi da lato. In tavola stavi sempre come stupido a contemplarla, non mangiavi se non delle cose che mangiava ella, non bevevi se non da quella parte dove ella poneva le sue labra, né ti nettavi la bocca se non col salvietto con che si aveva nettato la sua; poi facevi un menar di piedi sotto la tavola che l’hai fatto scappar la pianella dieci volte; e usavi certe zifoli che li intendevano i cani che rodevano l’osso sotto la tavola. Tu devi avertire che Sennia è vecchia prattica delle cose del mondo, e queste cose le devono esser passate piú volte per le mani: so che non passerá una settimana che se n’accorgeranno le fanti, la famiglia e tutta la casa.

Lampridio. Che sará dunque bisogno di fare?

Mastica. O che ella fusse cieca per non veder ciò che fai, o tu stropiato e mutolo per non toccarla e parlar tanto.

Lampridio. Come non si può volere quel che si vuole? pure se non si può come si vuole, faccisi come si può.

Mastica. Queste parole mi dánno ad intendere che il tuo amore será per scoprirsi tosto; però prima che ciò avenga será bene avisar Sennia che proveda a’ fatti suoi.

Lampridio. Eh Mastica, tu sei troppo crudele.

Mastica. A te è una pietá esser crudele. Togliti il tuo Lampridio, tornaci il nostro Eugenio e vattene a studiare a Salerno come prima.

Lampridio. Orsú, il mio caro Mastica, eccoti questi danari per comprar robbe per la cena, e t’impegno la mia fede esser storpiato e mutolo come dici e star proprio in casa come un santo.

Mastica. Cosí, me ne dái la fede...

Lampridio. Eccola.

Mastica. ... di non star in casa tutto il giorno? ...

Lampridio. Come vuoi.

Mastica. ... di non parlarle dentro l’orecchie? ...

Lampridio. Sí.

Mastica. ... di non mirarla dalla strada? ...

Lampridio. Bene.

Mastica. ... né mostrar atti onde stimar si possa che tu l’ami? E questo lo dico per tuo bene, accioché per troppo goder del bene nol perdi, over come mosca tanto ti tuffi nel latte che ti anneghi. Quanto piú dura a scoprirsi questo tuo amore tanto piú goderai. — Dove ti volgi? parli meco e non m’ascolti, tu miri alla fenestra sua, non sei ancor sazio di mirarla? Su su, partiamoci.

Lampridio. Or ora.

Mastica. Togliti i tuoi danari, che vo’ far quanto ho detto.

Lampridio. Lasciami salutarla; non la vedi per i buchi della gelosia?

Mastica. Come puoi tu veder tanto?

Lampridio. Che stella è in cielo che splenda a par degli occhi suoi?

Mastica. Oh che dura battaglia è contrastar col piacere!

Lampridio. Ti ubedisco.

Mastica. Vien Trasilogo e Squadra e parlano in secreto: qualche cosa hanno inteso di questo fatto. Starò se posso ascoltar qualche cosa.

SCENA VIII.

Trasilogo, Squadra, Mastica.

Trasilogo. Son risoluto i matrimoni non doverli trattar con arme ma con inganni come altri. Squadra, tu pur sei nato tra marioli e truffatori e hai fatto star piú tristi uomini che non son questi: perché manchi a te stesso? Hai dormito fin ora, risvegliati, piglia il tuo ingegno usato: squadra, pensa, fingi, machina qualche cosa.

Squadra. Questo qualche cosa non será intento. Io non so che squadrar, che pensar e che fingere, perché l’inganno che han fatto è tanto verisimile che par piú vero della veritá; e una verisimil bugia è piú creduta d’una semplice veritá.

Trasilogo. Non sconfidarti per questo, ché non è dritto che non abbi il suo riverscio. Chiama in consiglio le tue astuzie, fa’ la rassegna delle tue forfanterie. Di cosa nasce cosa, e da un pensiero ne nasce un altro migliore, che non è inganno che non si vinca con inganno.

Squadra. A me duole che quel romano col suo Mastica abbino tanto ben saputo tessere questa trama che gli sia riuscita meglio che desiavano, e voi siate scorto per buffalo; e la metá di questa vergogna è mia che non sappi in questo bisogno aiutarvi. Io son stato gran pezza fantasticando con alcuna trapola scomodar essi e accomodar voi; e non mi soviene cosa a proposito. Giá me ne va una per la fantasia che è la vera contracava del loro inganno, che col medesimo laccio che han preso altri, restino lor presi per la gola.

Trasilogo. Dimmi l’inganno che hai tu pensato e s’è difficile ad esseguire.

Squadra. Ogni cosa è difficile a chi fugge fatica, è bisogno porsi a pericolo chi vuole. Voi vorreste che Olimpia vi fusse portata in camera e vi fusse spogliata e posta in letto, e che un altro vi ponesse... ,

Mastica. (Un capestro alla gola e l’appiccasse!).

Squadra. ... quasi mel facesti dire.

Trasilogo. Lascia parlar a me dove bisogna.

Squadra. Bisogna por mano a fatti, non a parole, ché i fatti son maschi e le parole femine.

Trasilogo. Però lascia tante parole: comincia.

Squadra. Cominciarò.

Trasilogo. Se avessi cominciato non aresti tolto questa fatica a dirlo.

Squadra. Dammi l’orecchio.

Trasilogo. Eccoti l’uno e l’altro.

Squadra. Poiché questo romano si è finto Eugenio e sotto nome di fratello di Olimpia è intrato in casa di Sennia con dir che Teodosio sia morto dieci anni sono, ...

Trasilogo. Vorresti avisar Sennia di questa trama e scoprire i secreti d’Olimpia.

Squadra. I secreti d’Olimpia l’ará scoperti Lampridio.

Trasilogo. Tu burli.

Squadra. E voi non mi lasciate parlare.

Trasilogo. Pòi.

Squadra. ... a questo colpo useremo questo rimedio. Troveremo due persone disconosciute, l’una vecchia di sessanta anni e l’altra giovane di venti, conforme all’etá che potrebbe esser stimato Teodosio ed Eugenio; i quali informeremo del fatto benissimo: come a dir che sappino ben fingere di piangere, abbracciare e mostrar tutti quegli atti e passioni che sieno verisimili; in somma siano tali che, dicendoseli il principio, sappino da loro quanto s’abbi a fare. Poi li vestiremo da turchi e li faremo sbarcar in casa di Sennia con dire che sia suo figlio e marito. ...

Trasilogo. Questo a che effetto?

Squadra. ... Voi sapete che un che ha rubbato o fatto qualche mal’opra sta sempre in suspetto, e d’ogni cosa che si ragiona pensa che si dica di lui e pargli d’ora in ora vedersi il boia sopra le spalle. ...

Trasilogo. (Buon ladro deve esser costui! lo deve sapere per esperienza).

Squadra. ... Il romano che ha la coscienza lesa dell’inganno usato, in veder comparir questi, col suo Mastica pensaran subito che sieno i veri, né stimeranno che altri abbino saputo quanto loro o che abbino pensato a quello che essi pensaro prima; per non esser còlti in frode lascieranno l’impresa e fugiranno di Napoli per tèma di qualche malanno. ...

Mastica. (Che Dio ti dia!).

Trasilogo. Ben: che n’avverrá per questo?

Squadra. ... Prima impediremo che la cosa non passi piú inanzi di quello che è adesso; poi i nostri, estimati da Sennia verdadieri, potranno senza altro concedervi Olimpia per moglie; all’ultimo poco importa che si scopra l’inganno che ha sortito buon fine, ché será bisogno Sennia contentarsi di quello che, non contentandosi, non per questo non sará fatto. ...

Trasilogo. Questa mi pare una ingegnosa trama, né se ne potrebbe imaginar altra migliore; e piacemi sovra tutto che moiano con le loro armi, che sará doppio morire: cosí chi pensava guadagnare perderá e chi perdere guadagnará.

Mastica. (Cosí a ponto intravenerá a voi, che pensate guadagnare e perderete).

Squadra. ... E se non fusse per altro ti vendicherai di Mastica, quel furfante. ...

Mastica. (Menti per la gola!).

Trasilogo. Ben li farò conoscere chi son io! Ma chi seranno costoro che ti potranno servire a questo?

Squadra. ... Troveremo il Simia vecchio o il Trappola giovine o il Truffa: o che eglino ne serviranno o ne troveranno uomini al proposito.

Trasilogo. Andiamo a ritrovargli, ché è ben tentare ogni cosa prima che si venghi a por mano alla spada.

Squadra. Ecco Mastica.

SCENA IX.

Mastica, Trasilogo, Squadra.

Mastica. Ecco questo che mangia pan di ferro, insalate di chiodi, minestre di corazze, beve piombi e li caca acciaio.

Trasilogo. Mastica, Mastica!

Mastica. Padron mio, padron mio!

Trasilogo. Sai che ti dico? ...

Mastica. Non, se nol dite prima.

Trasilogo. ... il meglio che tu possi fare, ...

Mastica. Che cosa?

Trasilogo. ... che compri un capestro...

Mastica. A che effetto?

Trasilogo. ... e che t’appicchi, ...

Mastica. Se vuoi esser mio compagno lo farò, ché ambiduo ne abbiam ciera.

Trasilogo. ... ché non altrimenti potrai scappare!

Mastica. Che?

Trasilogo. Un canchero...

Mastica. Che Dio non mi dia!

Trasilogo. ... che ti possa venire, ...

Mastica. Per che cagione?

Trasilogo. ... acciò ti spolpe insino all’osse!

Mastica. Io non v’intendo.

Trasilogo. Un giorno ti taglierò il capo, ti straparò il naso dalla faccia, con un pugno poi ti farò spuntar i denti fuor della bocca; haimi tu inteso o vuoi che te lo dica piú chiaro?

Mastica. Io v’ho inteso benissimo. Ma un capo meno o piú non importa: lo lascierò in casa quando esco fuori per amor vostro. Ah ah, io so che volete scherzar meco.

Trasilogo. Pezzo d’asino!

Mastica. Voi mi lodate, ché sempre mi ho conosciuto asino intiero.

Trasilogo. Tanto è.

Mastica. Non è tanto, no: misurate bene che senza cagione volete rompere l’amicizia meco.

Trasilogo. Dio voglia che non ti rompa la schena insieme con acqua di legno come infranciosato.

Mastica. Io ti voglio esser servo o che ti piaccia o no: se ben m’uccideste, per l’affezion che vi porto non potrei stare di non venire a casa vostra e mangiarmi in tavola vostra un pasticcio caldo caldo.

Trasilogo. Un malanno arai tu caldo caldo!

Squadra. A te dice, Mastica.

Mastica. A tutti dui rispondo io, che ve lo cedo.

Trasilogo. Fa’ che non venghi piú a mangiar con me.

Mastica. Perché?

Trasilogo. Perché sei come la mosca: mangi con noi e poi ne cavi gli occhi.

Mastica. Non posso piú soffrire. Venghi il canchero a tanta superbia! Che mi puoi far tu giamai? Stimi da senno ch’io creda queste tue bravarie, o dubito che non mi mandi quei popoli arcinfanfari o uomini maritimi ad uccidermi? Assai fo stima di queste tue minacce!

Trasilogo. La farai dell’opre, e ben tosto te ne pagherò.

Mastica. Ho tempo, ché non sète cosí presto pagatore a chi dovete.

Trasilogo. Fa’ che la tavola mia ti paia foco.

Mastica. Pensi da vero che non possa vivere se non mangio in casa tua? Tu bevi ad un bicchiero cosí picciolo che bevendo par che pigli il siroppo. Due fette di prisciutto; due di formaggio tanto sottili che traspaiono come lanterne, che te ne potresti servir per occhiali; due oncie di carne tanto minutata sottile come se volessi dar a beccarla a losignuoli; pan duro di dieci giorni che ci bisogna la fame di tre settimane per divorarlo. E appena si comincia a mangiare che ti senti dare in capo il «buon pro ti faccia», «abbi pazienza», «fu all’improviso», «l’acconciaremo un’altra volta».

Squadra. Non dir questo, Mastica, ché in tavola sua mai ti mancaro né galline né polli.

Mastica. Sí, certi polli che appena aveano la pelle come se avessero avuti tutti i pensieri del mondo o fussero ettici o avessero avuto la quartana dieci anni; o qualche cornacchia vecchia che fattala bollir tutto un giorno non si potea masticare.

Trasilogo. Taci, ruffianello macro, morto di fame.

Mastica. Io morto di fame? se mi porrò mano in gola, vomiterò tanta robba che potrò dar a magnare a dieci di pari tuoi.

Trasilogo. Squadra, porta qua dieci some di bastoni, ché non posso sopportar piú. Poltron, non parlare se non quanto le tue spalle ponno sopportar bastonate.

Mastica. Non ti mette conto che m’uccidi.

Trasilogo. Perché?

Mastica. Perché morto che serò io, tu serai il piú gran poltron del mondo.

Squadra. Taci, Mastica. Vuoi tu ucciderti con lui?

Mastica. Non ci uccideremo, no: poltron con poltrone non si fa male, «corvo con corvo non si cava gli occhi».

Trasilogo. Partiamci, Squadra, ché non è ben che un par mio stia a contender con lui, né io uso armi con la canaglia: lascio che gli ospedali e i pidocchi faccino la vendetta per me.

Mastica. E io che la fame la facci per me e che ti strangoli la gola, poiché sempre in casa tua si fa dieta come gli ammalati. Si pensava questo asino che se non mangiava in casa sua che mi morissi di fame: vo’ che mi preghi. Será piú quello che butterò questa sera, che quanto egli ha mangiato un anno in casa sua. Avisarò Lampridio e Sennia di questo inganno che voglion fare, acciò quando verranno gli diamo la baia.

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