< L'Olimpia
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Atto IV

ATTO V.

SCENA I.

Lalio, Sennia.

Lalio. O tristo me, perché mi battete?

Sennia. Per farti proprio tristo come dici.

Lalio. O Dio, che volete che dica?

Sennia. Non t’ho lasciato con Eugenio e Olimpia nella camera?

Lalio. Sí, ma poi me ne uscii fuora.

Sennia. Perché ne uscisti?

Lalio. Perché viddi... .

Sennia. Che vedesti?

Lalio. Nulla.

Sennia. Prima dici che vedesti e poi dici nulla. Non posso cavarti di bocca una parola di questo fatto. Perché mi parli cosí mozzo? parla col tuo malanno!

Lalio. O Dio, che se lo dico, Olimpia ha giurato di volermi ammazzare.

Sennia. E se non lo dici, ti ammazzarò or ora. Quello d’Olimpia ha da venire, ma il mio sará adesso, al presente.

Lalio. Io non lo dico, avertete. Quando voi mi diceste che stessi in camera, io me ne uscii per vergogna.

Sennia. Di che cosa?

Lalio. Di quel che viddi.

Sennia. Dimmi, che vedesti? Oh quanto mi fa penar questo ghiottarello! presto, che ti possi fiaccare il collo!

Lalio. Avertete ch’io non dico che il fratello e la sorella stavano abbracciati insieme; né mai Olimpia diceva: — Fratel mio! — che il fratello con un bacio non le togliesse di bocca le labbra, la lingua e la parola insieme. Poi dissero che si volevano far fratelli e sorelle carnali.

Sennia. E come facevano?

Lalio. Che so io? Si serrorno a chiave entro la camera.

Sennia. Quando apersero poi, che facevano?

Lalio. Nulla: l’avevano fatto giá.

Sennia. Menti per la gola! se la porta stava serrata a chiave, come vedevi che si facessero?

Lalio. Dava qualche occhiatina per le fissure e per lo buco della chiave. Quando apersero, stava Olimpia avampata di foco in faccia e s’accomodava i capelli; e mi domandò di voi e, io dicendole che non l’avea vista se non io, giurò che, se diceva alcuna cosa di questo fatto, m’ucciderebbe: e però non ho voluto dir niente, avertete.

Sennia. Taci, vattene su e non cicalar a persona del mondo ve’, se non che ti trarrò la lingua insin dalla gola, sai.

SCENA II.

Squadra, Sennia.

Squadra. A tempo vi veggio, Sennia.

Sennia. M’indovino la nuova.

Squadra. Voi dovete saper che voglia.

Sennia. Che si mariti mia figlia questa sera col capitano.

Squadra. Tutto il contrario: a rinunziarla e sciorsi dalla promessa.

Sennia. Come questo?

Squadra. Me ne dimandate ancora? non si sa per tutto Napoli che un romano sotto nome d’esser vostro figlio s’ha goduta vostra figlia?

Sennia. Come sai questo tu?

Squadra. L’ho visto or ora menar prigione da’ birri; e di questa trama Mastica ne è stato il mezzano.

Sennia. Ah traditore!

Squadra. Avete il torto ingiuriarmi.

Sennia. Non parlava con te.

Squadra. Trasilogo ha preso Cornelia, di che era stato stimulato da’ parenti; e or si fanno le nozze con contento d’ambedue le parti. Ho fretta, ti lascio in pace.

Sennia. Anzi in tormento e angoscia. O vita mia, serbata in sino a tanto che avessi visto cosa di che fussi forzata a dolermi mentre io viva! O vecchiezza viva mia, perché non mi manchi? or conosco che col lungo vivere si sopportano molte adversitadi. Oh con quanto pericolo si guardano le cose che piacciono a molti! Un giovane insolente sotto nome di figliuolo onorato mi rubba l’onor mio e di mia figliuola, nelle cui nozze era tutta la speranza della mia contentezza. Ecco la cosa risaputasi per tutto Napoli: si divolgherá per tutto il mondo. Bisognerá fugirmene di qui e vivere disconosciuta dovunque vada, per non aver piú fronte di comparir fra le persone onorate. O onor mio acquistato e serbato con tanta fatica per sí lungo tempo, come t’ho perduto in un ponto! quando piú spero di ricovrarti?

SCENA III.

Mastica, Sennia.

Mastica. Padrona, la cena è in ordine e vi potrete sentare quando volete.

Sennia. Fa’ che non manchi nulla, ché verrò poi.

Mastica. Non bisogna tardar piú perché le vivande stanno a disaggio, si guastano.

Sennia. Non mi dar fastidio.

Mastica. Come volete si serva: alla francese o alla italiana?

Sennia. (Emmi venuta questa bestia dinanzi per non farmi dolere quanto vorrei).

Mastica. Volete condisca la carne col petrosemolo, col coriandolo o col petrotimo.

Sennia. (Dio mandi malanno a te e alle tue minestre!). Vien qua, uomo da bene.

Mastica. Non chiami me?

Sennia. Non ci sei dunque?

Mastica. Questo nome non convenne mai né a me né ad alcuno di miei antecessori.

Sennia. Vien qua dunque, ribaldo piú d’ogni ribaldo.

Mastica. (Questa vecchia sta con gli occhi rossi come avesse pisto cipolle: non so che se l’aggira per lo capo. Certo ará scoverto qualche cosa di Lampridio e n’ha rabbia e dispetto. Oh che tutta la casa fusse a questo modo e che a me solo toccasse una volta empirmi la pancia a mio modo!).

Sennia. Vien qua presto! che borbotti?

Mastica. Avertete, padrona, ch’io non ho colpa nessuna nelle cose di vostra figlia, avertete.

Sennia. L’escusarsi senza bisogno è un manifesto accusarsi. Dimmi un poco: ti par cosa convenevole che tu, nato e allevato in casa mia e sempre ben trattato, m’abbi tradito nel modo che hai tu fatto?

Mastica. Io traditore? questo non si troverá mai.

Sennia. Portarmi un prosontuoso dinanzi, con dir che sia mio figlio per farlo adultero di mia figlia!

Mastica. Oh! che io perda l’appetito per dieci giorni e il gusto del vino se so nulla di ciò che dite.

Sennia. Lo nieghi ancora?

Mastica. L’arciniego ancora. Ti giuro per questo stomaco e questa gola come non so nulla di quanto dite.

Sennia. Dunque non sei stato tu?

Mastica. Voi proprio il dite.

Sennia. Cosí cotesto stomaco ti sia aperto e a cotesta gola ti sia posto un capestro dal boia, che non mangi né bevi piú mai, come tu sei stato cagion d’ogni cosa!

Mastica. Se trovarete tal cosa, voglio esser squartato e attaccato per li piedi alle dispense come presciutto, e i miei quarti come carne salata.

Sennia. Ma io non vo’ darti altro castigo se non che in questa casa, che tu hai sí poco onorata, non habbi piú mai da mettervi il piede.

Mastica. Voi burlate! io me n’entro.

Sennia. Ti lascierò fuor io, e non far piú pensiero d’entrarvi.

Mastica. Lasciatemi cenar prima, ché me n’uscirò domani.

Sennia. Ti lascierò fuor io.

SCENA IV.

Mastica solo.

Mastica. Oimè, l’uscio è serrato a chiave. Sia maladetta la mia sciocchezza a farmene cavar fuora senza mangiar prima! O padrona, o padrona! Oimè, perché non cavarmi gli occhi, perché non tagliarmi il naso e l’orecchie e non cacciarmi digiuno fuori? Il carriar delle legna, il soffiar del foco mi hanno talmente diseccato il polmone che è fatto piú arido d’una pomice. Questa è stata la mia speranza in esser tutto oggi cuoco e facchino? Quando credeva che la pancia avesse a gonfiarsi duo palmi fuora, sento il ventre che mi tocca la schena; par che sia una donna figliata di fresco, una vessica sgonfiata. Oimè, che le budella mi ballano in corpo! Dove andrò a cenare, ché l’ora è tarda e ho fatto questione con tutti? O vitelle, o porchette, o lasagni, o sguazzetti, o saporetti che odoravate cosí suavemente; o liquore, o vino che tornavi l’anima dentro i corpi morti, dove sète andati? Sono venuti i lupi e s’hanno ingoiato la cena che son stato tutto oggi ad apprestare. Mi sento l’anima venire a’ denti: ben sará se questa sera non m’impicco con le mie mani!

SCENA V.

Protodidascalo, Filastorgo.

Protodidascalo. Se le cose optimamente disposite sogliono conseguir reprobi eventi, quando quidem, ché la fortuna vuol esser participante delle umane azioni; quanto piú pessimo evento aranno quelle che si fanno properanter e destitute di consilio? Ecco l’esempio. Teodosio dal capitan de’ satelliti riputato fatuo, riconosciuta la sua giustizia, è stato liberato; e Lampridio, irretito dalle illecebre amorose, inopinatamente è collapso un’altra volta in mano della giustizia e in discrimine della vita senza un modiolo di speranza, se il divino suffragio per sua perenne grazia, per farlo evadere da questi travagli, non avesse condotto in questa cittá Filastorgo suo padre. Vae mihi, che lo veggio venir tutto queribondo in vista! Orsú, per riconciliarlo col figlio mi bisogna funger l’ufficio di buon retore, in che io ho versato molti lustri. Mi servirò del genere deliberativo per commoverlo e vi mescolerò un poco del demonstrativo. Deh, perché non ho ora il mellifluo eloquio di Demostene o del moltiscio Cicerone? Ho giá l’invenzione: ecco la disposizione. L’elocuzione l’ho sicurissima. Cominciarò l’essordio e captarò benevolenza. — Filastorgo here, patronorum patrone, incolumes sis, hospes sis: la tua radiante celsitudine bene veniat!...

Filastorgo. Quanto sarei stato ben meglio in casa mia!

Protodidascalo. ... Lampridio, il vostro figliuolo, iterum atque iterum se gli commenda.

Filastorgo. Che figlio? io non ho figlio veruno: suo padre è morto venti anni sono in Turchia.

Protodidascalo. Lampridio inquam, quel vostro unigenito.

Filastorgo. Io non conosco Lampridio alcuno; quel che tu dici si chiama Eugenio né vidde me né Roma pur mai.

Protodidascalo. Vi bisogna reminiscere che gli sète padre.

Filastorgo. Egli ha un’altra madre a dispetto del padre e della vera madre sua.

Protodidascalo. Vi fu — preterito, — vi sará — futuro, — vi è — presente: tria tempora — sempre morigerante e obtemperante.

Filastorgo. Chiami tu ubidienza il finger di non conoscermi? Da chi spero io essere onorato se il mio figlio mi schernisce? Giá m’ha fatto chiaro quanto sia vana la speranza d’aver collocato in esso la quiete della mia vecchiezza, in dimostrarmesi cosí iniquo e discortese. ...

Protodidascalo. Bona verba, quaeso.

Filastorgo. ... Che? se tu avessi visto gli atti e le parole, aresti giurato o che egli non fusse egli o che io fussi un altro.

Protodidascalo. Udienza per due verbicoli.

Filastorgo. Hai tu forse animo d’iscusarlo?

Protodidascalo. (Dopo l’essordio alla narrazione). Io non vo’ inficiare che il temerario áuso non sia grave, né se gli potrebbe coacervar pena che non ne meritasse il doppio; ma di questo s’incolpa l’arcigero che gli aveva sauciato il petto, dilaniato il core e fatto devio l’ufficio della mente. Il famoso Marone: «Omnia vincit Amor».

Filastorgo. Che ha dunque fatto?

Protodidascalo. (Qui non va exagerazione ma escusazione). Un paulolo di errore solamente: mutatosi il nome di un figlio esule di una matrona, è entrato in sua casa per fruir la sua figlia pulcrissima di cui l’animo subbolliva d’amore.

Filastorgo. Ahi mentitor perfido! ahi temerario esecutor di tanta nefanditade che fa ingiuria al padre, alla patria e a se stesso! Ma tu, pedante, piú d’ogni altro da poco e ignorante, questi sono gli ammaestramenti che tu gli hai dato? Di che mi devo fidar io, se avendoti tolto dalla zappa e dalla vilissima pedanteria t’ho fatto padron della casa e di mio figliuolo, e or me ne rendi cosí iniquo guiderdone?

Protodidascalo. Here, non detestare la famigerata mia arte. Non sète conscio che Dionisio re, expulso dal suo regno, non volse evadere filosofo indagando i secreti della vasta e profonda natura; ma spargendo il fecondo seme della viride virtude ne’ teneri meati intellectuali e nelle interne viscere di putti, divenne ludimagistro? Ma se al tuo figlio con blandi colloqui, pieni di mille apoftegmi e auree sentenze, l’ammoniva che tutto era frustratorio, che gli ultronei piaceri s’amplexano e fan parvipendere ogni animadversione, mi insultava e minitava; che potea far io decrepito e micròpsico, che appena la fluctuante anima hos regit artus? bisognava succumbere. Però perpendi il mio animo insonte e la bona qualitas mentis.

Filastorgo. Io vo’ che impari esser figlio da chi veramente sa esser padre, vo’ che sia essempio a tutti i figli del mondo, vo’ piú tosto esser detto severo destruttor di figliuoli che padre che abbi consentito alle sue sceleraggini.

Protodidascalo. (Qui va la commiserazione). Quando l’ira obtemperará alla ragione, poenitebit te del commesso facinore, ché non conviene ad un padre tanta truculenzia, ché per ogni fallo sufficit che al figlio se gl’imponga picciola pena. Ché se voi non condonate al vostro figlio, a chi condonarete voi? E dovete tanto piú volentier farlo quanto che, irretito da questo suo novizio amore, è cespitato e pentito del temerario incepto. E se... .

Filastorgo. Dimmi un poco.

Protodidascalo. Non interrompete la veemenzia dell’orare. — ... E se non fusse per suo merito, fatelo per amor di sua madre, la qual moritura rememoratevi con quanti gemiti vi rogò, genuflexa e provoluta ne’ vostri piedi, che l’amor sviscerato che portavate a lei si fusse coacervato con l’amor che comunemente portavate a questo unigenito.

Filastorgo. Menami dove è, che vo’ vederlo.

Protodidascalo. (La commiserazione è riuscita bene supra existimationem: bisogna exagerarla). V’è intercetto poter vederlo, perché sta chiuso in un carcere orcico.

Filastorgo. Che «carcere orcico»?

Protodidascalo. In poter della giustizia che sopra questo fatto ci viene pede plumbeo; e credo...

Filastorgo. Che cosa?

Protodidascalo. ...che sará...

Filastorgo. Appresso.

Protodidascalo. ... per esser il caso grave et exemplare; ...

Filastorgo. Parla presto!

Protodidascalo. ...perché dicono i legislatori che la giustizia deve inrigorirsi ne’ casi exemplari. Et Iustinianus in titulo De usurpata iurisdictione, nella legge Malum exemplum, nel titulo De suppositione, paragrafo Si supponatur, dove la glossa enucleando quel passo dice: ...

Filastorgo. Che será di questo mio figlio?

Protodidascalo. Lasciatemi dir due parole.

Filastorgo. Lascia tu in nome di Dio queste tue filastroche!

Protodidascalo. ...giustiziato con miserando et plorabile exito.

Filastorgo. Mio figlio giustificato?

Protodidascalo. Dico «giustiziato» non «giustificato». Nam «iustus est qui ius non deflectit», però «giustiziato, gastigato dalla giustizia»; ma «iustificus est qui iustitiam facit», e «giustificato», «chi ha fatto la giustizia».

Filastorgo. Con queste tue pedanterie mi fai salire tanta rabbia che, se non importasse la vita di mio figliuolo, mi faresti uscir da’ gangheri. Che importano a me queste tue disutili chiacchiare?

Protodidascalo. Che importano eh? Non si devono parvipendere i vocabuli patri e vernaculi; e Quintiliano celeberrimo scrittore dice: «Perscrutandas esse a fideli praeceptore origines nominum».

Filastorgo. (O Dio, quanto mi fa penar questa bestiaccia!). Narrami la ragione.

Protodidascalo. Dicovi che tunc temporis è venuto il vero Teodosio, marito di quella matrona, con Eugenio suo figliuolo; sono stati expulsi di casa, ed essi pensiculando l’inganno machinato son iti a Sua Eccellenzia e fatto obtrudere in carcere il tuo figliuolo.

Filastorgo. Oimè Lampridio, oimè figliuolo mio caro, quanto piú desiava vederti meno ti potrò vedere; a tempo ch’io pensava goder teco questo poco di vita che mi avanza, violenta morte me ti trarrá da queste mani. O Laudomia moglie cara, quanto felice fu la tua morte passata per non trovarti a questo dolor presente! A cui ricorrerò io per favore? chi mi aiuterá in questa terra ove non conosco nessuno? almeno avessi portato dinari assai che mi aiutassero in questo bisogno.

Protodidascalo. Ove è il rimedio l’egritudine si deve piú patienter sufferre.

Filastorgo. Che rimedio potrá ritrovarsi a questo?

Protodidascalo. Convenir questo Teodosio, alloquere a questa Sennia madre della giovane e trattar coniugio con sua figlia, non potendo il fatto altamente rimediarsi; ché forse vi rimetteranno la querela.

Filastorgo. Che genti son queste? son forse pari miei?

Protodidascalo. Son de’ primati e degli optimati di questa cittá: anzi vi fia difficillimo ottenerlo. Ma eccoli: questi sono.

Filastorgo. Questi mascalzoni son forse pari miei?

Protodidascalo. Non v’ho detto che iam dudum erano venuti di Turchia e Lampridio gli avea espulsi di casa e non han potuto cambiarsi le vesti?

SCENA VI.

Teodosio, Eugenio, Filastorgo, Protodidascalo.

Teodosio. Giá l’han preso prigione e non gli è giovato il far credere al capitano ch’io fossi matto.

Eugenio. Ecco, patirá la pena del suo fallire.

Filastorgo. Ecco colui ch’è per rifarvi ogni danno.

Teodosio. Chi sei tu per rifar cosí gran danno?

Filastorgo. Padre di colui che avete prigione.

Teodosio. Sète certo padre d’un giovane di buona speranza!

Filastorgo. Voi sapete che i peccati per amore non meritano tanta riprensione, e massime quelli che commettono i giovani ne’ primi amori. Però correggasi l’errore il meglio che si può. Dalle infirmitá nascono i rimedi, da’ malefici le leggi e da’ disordini i migliori ordini.

Teodosio. Come si correggerá tanta pazzia e temeritá d’un giovane?

Filastorgo. Col senno e con la prudenza di vecchi.

Protodidascalo. Optime quidem, congrua risposta.

Teodosio. Indegno d’un uom da bene.

Filastorgo. Convenevole ad un amante.

Teodosio. Ará tolto l’onor alla vergine.

Filastorgo. Se le restituirá.

Teodosio. Come se le potrá restituire?

Filastorgo. Prendendola per moglie: cosí l’ará tolto a se stesso.

Teodosio. Ará fatto danno alla casa.

Filastorgo. Será rifatto ogni danno, ché per la Dio mercè abbiamo come possiamo farlo.

Teodosio. O uomo temerario e insolente!

Filastorgo. Anzi amorevole, ché l’amore sviscerato che portava a vostra figlia l’avea cieco del tutto.

Teodosio. Non è amore dove si cerca tôr l’onore.

Filastorgo. Non fu questo il suo primo pensiero.

Teodosio. Chi siete voi?

Filastorgo. Gentiluomo romano e desioso servirvi, e di ricchezze ancor non mediocri, che son tutte di questo mio unico figliuolo, e non indegno del vostro parentado; al qual potrete conceder senza dote la vostra figliuola per moglie.

Teodosio. A lui sarebbe torto usarsegli benignitá, e sería bene che ne piangesse la pena per aver fatto cosa indegna di voi, di me e di gentiluomo. Ma la pietá, che mi vien di voi e della mia figliuola, e massimamente unica, me vi fa concedere quanto desiderate.

Filastorgo. E da voi solo ricevo in dono la vita di mio figliuolo, il quale per lo fallo non n’era degno.

Protodidascalo. Non si perda piú tempo, accorrasi prima che si intruda in carcere e il fatto si palesi il meno che si può.

Filastorgo. Andiamo andiamo, per amor di Dio!

Teodosio. Non si fa altro. Voi mi scalzate le scarpe.

Filastorgo. Perdonatemi, ché «ad un che desia, ogni prestezza è tarda».

SCENA VII.

Mastica, Sennia.

Mastica. Mi ha giovato lo star qui intorno, perché ho inteso che costoro sono d’accordo e la cosa è riuscita a miglior fine che non pensava. Dunque io serò il primo che porterò la nuova a Sennia e per mancia ritornerò all’ufficio della cucina. — O Sennia padrona, o padrona!

Sennia. Chi mi chiama?

Mastica. Chi desia vedervi contenta.

Sennia. Faccilo Iddio, ché n’ho bisogno.

Mastica. Sète voi tanto infelice?

Sennia. Che buona nuova mi rapporti?

Mastica. La dirò se posso far tanta triegua con la fame che mi lasci dire.

Sennia. Dillami su.

Mastica. Ma avertete che bisogna star un anno in banchetto per ristorarmi della paura presa per avermi cacciato di casa senza cagione e senza mangiare.

Sennia. Eh! dilla su.

Mastica. Olimpia è maritata...

Sennia. È maritata la mia figliuola?

Mastica. ...con un gentiluomo...

Sennia. Chi gentiluomo?

Mastica. ...che s’era finto vostro figliuolo.

Sennia. La mia figliuola è maritata?

Mastica. Né tanto v’imaginavate aver perduto onore quanto n’avete al doppio racquistato.

Sennia. Ed è questa la veritá?

Mastica. Qual vi ho detto.

Sennia. La mia figliuola è maritata?

Mastica. Quante volte volete sentirlo? Ed è venuto suo padre di Roma e si è incontrato col vostro vero marito venuto di Turchia, e son stati d’accordo insieme.

Sennia. Io son cosí afflitta che non posso credere a sí lieta novella.

Mastica. Statene sicurissima.

Sennia. Non mi far rallegrare invano, ché poi con doppio afifanno mi faresti dolere.

Mastica. Sapete, padrona, che per una grandissima nuova si fa sempre grazia a’ prigioni e agli appiccati. Però per questa allegrezza faccisi grazia a quei presciutti che sono stati tanto tempo appiccati senza ragione; e per esser piú persone di nuovo aggionte, bisogna comprar piú robbe per lo banchetto e tener corte bandita.

Sennia. O Dio, ringraziato sii tu! non deve mai l’uomo sconfidarsi della tua grazia, ché sai meglio rimediare che noi sappiamo dimandare.

Mastica. Eccoli che vengono; calate giú, padrona, a riceverli.

SCENA VIII.

Lampridio, Filastorgo, Teodosio.

Lampridio. O padre, mi vergogno domandarvi perdono dell’offesa fattavi.

Filastorgo. Fa’ che per l’avenire si ricompensi in essermi ubidiente, che giá hai conosciuto se t’amo.

Lampridio. Non arei potuto vederne piú chiaro segno, e per rendervi le debite grazie di tanta affezione mi mancano le parole: però vi priego che col vostro savio discorso consideriate quel tanto obligo che vi debbo e per natura e per debito, e facci Iddio che io viva tanto che possa dimostrarlovi.

Filastorgo. Fa’ che ami la tua Olimpia, poiché ne hai tanto patito e fatto patire ad altri.

Lampridio. È soverchio ricordarmelo, padre.

Filastorgo. Teodosio, io ve lo do per genero e per servo.

Teodosio. Lo ricevo per genero e per figliuolo.

Lampridio. Andiamcene a casa e diamo questa allegrezza a Sennia e non la facciamo piú penare.

Teodosio. Giá la vedo comparire dinanzi la porta.

SCENA IX.

Lampridio, Sennia, Filastorgo, Teodosio, Eugenio, Mastica.

Lampridio. Perdonami, o carissima madre, poiché sotto questo venerabil nome di madre io t’ho ingannata; né io arei ardire comparirti dinanzi se la suprema bontá di Dio non avesse dato meglio esito alla mia audacia che io avessi saputo desiderare.

Sennia. Grande fu la tua sfacciataggine e molto l’ardire né cosí facilmente degno di perdono: tôr per follia di gioventú l’onor ad una casa in un ponto, che s’ha acquistato con tanta diligenza e con tanti anni.

Lampridio. Madre mia dolce, vi giuro ch’una delle cose che m’accesero fieramente dell’amor di tua figlia, fu la onestá e la bontá che conobbi in lei; e se mento, facci Iddio ch’io sia privo di lei, ché non so se maggior disgrazia potrei ricevere in questa vita. L’amava e serviva con pensiero che, fattone consapevole mio padre, sperava per sua bontá licenza di potermi sposar con lei, e poi con legitimi e ordinari modi farvela chieder per moglie. Ma sapendo che con tanta fretta la volevate maritar con questo capitano, per interromper questo matrimonio mi fu forza d’usar inganno. Avendo proposto morir mille volte prima che viver senza lei, la disperazione mi accecò gli occhi e l’amore mi fe’ far quello che ho fatto.

Sennia. Se l’amor bastasse ad escusar gli errori, ognuno si scusarebbe con amore. Ma io, poiché vostro padre, mio marito e figlio t’han perdonato, con non esser men pietosa di loro, t’accetto per genero e mio carissimo figliuolo.

Lampridio. Dammi licenza, madre, che possa andar a veder Olimpia mia e confortarla, che per questi casi successi dubito che s’affliga.

Sennia. Eccoti le chiavi, ché l’aveva carcerata in una camera, e quivi pensava o attossicarla o che fusse suo perpetuo carcere e monistero.

Lampridio. O Dio, e io era cagione di tanto male! quanto conosco che ti son debitore! Ecco mio padre, il qual non men che io t’ama e riverisce.

Sennia. Giá lo conosco a tempo che tu fingevi nol conoscere.

Filastorgo. Signora mia, se non volevate che mio figlio avesse usata tanta impertinenza, non dovevate far figlia tanto bella né di tanto onore e di tanto merito, ché bastarebbono queste cose a far divenir folle altro cervello che d’un giovine.

Sennia. Desiderarei certo che mia figlia fusse degna d’esser serva vostra e moglie di vostro figliuolo: poiché egli vi scacciò, io vi ricolgo in questa casa e ve ne fo padrone come lui. Entrate.

Filastorgo. Ringrazio la vostra soverchia cortesia.

Teodosio. Consorte carissima, poiché sei giá fatta chiara ch’io sia Teodosio tuo marito che un tempo amasti con tanta fede e amore, se per l’altrui inganni mi scacciasti da te, dammi ora licenza che ti possa ricevere in queste braccia.

Sennia. O Dio santo e benedetto, chi è piú contenta di me in questa vita? Poiché mi concedi il mio marito doppo sí lungo tempo, che amai tanto e amerò mentre viva, temo di non svenirmi di contentezza.

Teodosio. Ecco Eugenio tuo figliolo a cui desti il latte e partoristi, e amavi un tempo.

Sennia. Succedi, figlio, in quel luoco che altri si aveva usurpato, e perciò ne fosti scacciato. Non pigliarlo, figlio, ad ingiuria ma a soverchia affezion che portava al nome tuo: quella m’appannò gli occhi e quella sola mi fe’ ricevere altri in tuo nome.

Eugenio. Bastami solo, madre, che m’ami e che dopo tanti travagli mora nella patria e fra’ miei parenti.

Mastica. Spettatori, or che Olimpia coglie il frutto della sua fermezza e amore e che son finite le lacrime e i sospiri, e io ho tolto la cena di bocca da’ lupi che giá avevano aperta la gola e stavano per inghiottirsela, andremo a godere. E perché io non desidero compagnia al mangiare, andatevene alle vostre case; e se pur volete rallegrarvi del lieto fine e delle altre contentezze di costoro, prima che vi partiate fatene qualche segno di allegrezza.




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