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L'arte di comporre i libri
Pietro Giannone La casetta

L’ARTE DI COMPORRE I LIBRI

(Dal libro degli schizzi di Washington Irving)1


Se quella sentenza di Sinesio sarà vera: «È più grave ingiuria il rubare le fatiche de’ morti, che non le loro vesti;» che cosa interverrà di molti scrittori?

Burton, Anatom. della Melanconia.




S
pesso io mi sono maravigliato della prodigiosa fecondità della stampa, e del come avvenga che alcune teste, le quali sebbene da natura paiono improntate di sterilità, pure diventano capaci di ponderose opere. Intanto, secondo che l’uomo viaggia sul sentiero della vita, gli obbietti di maraviglia gli si diminuiscono giornalmente, ed ei sempre va discoprendo qualche natural cagione a ciò che gli era una volta grande argomento di stupore. E così è intervenuto a me, pellegrinando per questa grossa metropoli (Londra), di essermi cioè ingannato intorno a uno spettacolo, che poi mi ha spiegato qualcuno de’ molti misteri sull’arte di comporre i libri, e che infine fe’ cessare ogni mia ammirazione.

Io andava un giorno di state a zonzo per gli ampi saloni del Museo Britannico, con quella tal noncuranza, onde si suole passeggiare per un museo in una calda giornata, ora curvandomi a guardare sopra le vetrine de’ metalli, ora studiando i geroglifici in una mummia egiziana, ora tentando interpretare le pitture allegoriche della sublime soffitta. E mentrechè io stava così vagando attorno alla spensierata, la mia attenzione fu tratta ad una lontana porta in fondo ad un appartamento. Essa era chiusa, ma di quando in quando si apriva, e qualche bizzarro individuo, per lo più vestito di nero, ne usciva fuori correndo attraverso le camere, senza darsi • pensiero alcuno delle cose che lo circondavano. Ci era una cert’aria di mistero, ciò che punse la mia curiosità, e venni nel proponimento di tentare quel passo, e di esplorare quelle incognite regioni. La porta facilmente cedè alla spinta della mano con quella prontezza, con la quale le porte degli antichi castelli incantati si spalancavano agli avventurosi cavalieri erranti. Io mi trovai in una spaziosa camera piena attorno di grandi scaffali con vecchi libri. Sotto la cornice di questi scaffali era disposto per ordine un gran numero di ritratti di antichi autori. Intorno alla stanza erano allogate lunghe tavole con sedie per leggere e scrivere, ove sedevano alcune pallide e cadaveriche persone, intese a svolgere polverosi volumi, ed a sfogliare e cercare diligentemente muffati manoscritti, e a fare abbondanti note di ciò che contenevano. La più tranquilla quiete era in quel misterioso appartamento, salvochè voi potevate sentire lo scorrer della penna sopra i fogli di carta, e qualche volta un profondo e cupo sospiro di que’ sapienti nel cangiar postura, e nel volgersi ad un’altra pagina del vecchio volume in foglio.

A quando a quando uno di questi personaggi scriveva alcuna cosa su di un pezzettino di carta, sonava un campanello, ed appariva un servo, il quale prendendo la carta con profondo silenzio, usciva prestamente dalla stanza, ed in un baleno ritornava carico di grossi volumi, sopra cui gli altri avrebber voluto metter denti ed ugna con ingorda fame. Io non ebbi più dubbio di essermi incontrato in una turba seriamente occupata nello studio di occulte scienze. La scena mi richiamò a mente un’antica novella araba di un filosofo, il quale era chiuso in una libreria incantata, nel seno di una montagna, e che si apriva solamente una volta all’anno, e dove egli rese gli spiriti del luogo ubbidienti a’ suoi comandi, e pronti sempre a recargli libri d’ogni scienza oscura e tenebrosa; cosicchè alla fine dell’anno, quando la magica porta girava sugli striduli arpioni, egli ne usciva dotto in tutte le recondite discipline, e tale da superare le teste delle moltitudini e contrastare alle potenze della natura.

La mia curiosità essendosi ora più forte svegliata, parlai all’orecchio di uno de’ servi, allor che questi era in sul lasciare la stanza, e lo pregai d’una interpretazione della strana e nuova scena, che mi vedevo dinanzi. — Poche parole bastarono all’uopo. Io seppi che que’ misteriosi personaggi erano principalmente autori intenti all’opera di manifatturare2 libri: io mi trovavo in fatto nel gabinetto di lettura della grande libreria inglese, immensa raccolta di volumi di tutte le età e lingue, parecchie delle quali erano dimentiche, e molte raramente comprese. A queste recondite fonti di antica letteratura ricorrono molti degli scrittori moderni e vi attingono largamente la sapienza classica, ovvero quella pura ed incontaminata inglese; cosicchè i loro pensieri crescono e s’invigoriscono di quegli studi.

Conoscendo ora il segreto, mi posi in disparte in un cantuccio, e con ogni attenzione guardavo all’andamento di questa manifattura di libri. Mi fermai su di un tale dalla piccola persona, uomo di sdegnoso piglio, e che a niun’altra cosa poneva mente, se non a’ soli volumi rosi da’ vermi e stampati in lettore nere. Attendeva egli, certo, a comporre qualche opera di grave erudizione, utile ad esser comprata da chiunque desiderasse riputazione di letterato; sedeva sopra il più alto palchetto della biblioteca, appoggiato sulla tavola, ma nulla leggeva. Mi avvidi che spesso egli tirava fuori dalla tasca un frusto di biscotto, che rosicchiava: se questo fosse il suo pranzo, o se egli si sforzasse così di cacciar via quello smungimento di stomaco prodotto dai molto meditare sulle polverose opere, meglio di me lo potrebbero dire quegli studenti che più soffrono.

Ci era un gentiluomo bassetto, e tutto gaio, vestito con abito di color chiaro, con una tal quale aria di gioviale, chiacchierino, e che aveva tutta la sembianza di un autore, in buona amicizia col libraio. Dopo di averlo ben bene squadrato, [lo riconobbi per un diligente raffazzonatore di opere miscellanee, che esercitava egregiamente il suo mestiere. Io era ansioso di sapere come questi manifatturasse le sue mercanzie. Egli faceva più strepito, e mostravasi infaccendato più di ogni altro, leggendo alla sfuggita vari libri, e dimenandosi stranamente sopra i fogli de’ manoscritti, prendendo un brano dall’uno, un brano dall’altro, e dove un verso e dove un precetto, qui un poco e là un altro poco. Ciò che si conteneva in quel suo libro, pareva così eterogeneo, come quello de’ calderoni delle maghe di Macbeth.

Vi eran dentro dita umane e piedi di ranocchi, e dardi di aspidi, e sangue di scimie per formare il paludoso mischiume. — Dopo ciò, pensai io, non potrebb’egli essere che questa ladra indole fosse data agli autori per un fine al tutto saggio? e non potrebb’essere questa la via, onde la provvidenza di età in età preservi dalla irreparabile rovina di tutte cose i primi semi della sapienza e delle cognizioni umane? Noi veggiamo che la natura ha saggiamente, quantunque con un cotale capriccio, provveduto per il trasporto de’ semi da clima a clima ne’ ventrigli di certi uccelli, cosicchè quegli animali che in sè stessi valgon poco più di un carcame, e che apparentemente corrono sfrenati a predare e giardini e campi, sono in fatto i messi della natura per diffondere e perpetuare i suoi benefizi. In simil guisa le bellezze e gli egregi pensieri degli antichi e poco noti autori sono presi da queste turbe di scrittori ladri, e fecondate di nuovo per rifiorire poi, e portar frutti in lontane e future età. Alcune delle costoro opere vanno anche soggette ad una specie di metempsicosi, e sbuccian fuori sotto nuove forme. Quello che da principio era una grave storia, rivive con le sembianze di un romanzo; una vecchia leggenda si trasforma in un moderno dramma, e un severo trattato di filosofia dà materia a un’intera e lunga serie di briosi saggi. Così avviene sotto il limpido cielo della nostra selvosa America, dove noi bruciando una foresta di alti pini, subito una generazione novella di basse quercie cresce in luogo di quelli; e noi non veggiamo mai un tronco abbattuto perire sul suolo, innanzi che una gran quantità di funghi non vi nasca attorno.

Cessiamo adunque dal lamentare il precipitoso oblio, nel quale cadono gli antichi scrittori; poiché eglino sono sottoposti alla gran legge di natura, la quale ordina che tutte quante le forme sottolunari della materia dovranno avere un limite nella loro durata, ma vuole del pari che i loro elementi non si distruggano mai. Generazioni e generazioni, si nella vita animale che nella vegetale, passano; ma il principio di vita è mandato alla posterità, e le specie continuano a fiorire. Così parimente autori generano autori, ed avendo data origine a numerosa prole, e venuti a tranquilla e beata vecchiezza, riposano co’ loro padri, cioè a dire con quelli che, scrivendo, li precedettero, e da cui essi hanno rubato.

Mentre io era assorto in queste bizzarre fantasticherie, appoggiai la testa a un mucchio di grossi e venerandi libri. Sia che vogliasi attribuire alle esalazioni sonnifere, che venivano da que’ volumi, o alla profonda quiete della stanza, o alla spossatezza per il molto girare attorno, o ad un cattivo abito di sonnecchiare fuor di tempo e luogo, e da cui sono fortemente tormentato, accadde ch’io mi lasciassi prendere ad un leggiero sonno. Intanto la mia immaginazione continuava l’opera sua, e la medesima scena invero rimaneva innanzi agli occhi della mia mente, cangiata solo in qualche particolarità.

Io sognava che la camera fosse tuttora ornata di ritratti degli antichi autori, ma che il numero ne fosse cresciuto. Le lunghe tavole erano scomparse, e in luogo di sapienti maghi io vedeva una turba cenciosa, stracciata e simile a quella che va girando li dappresso alla gran bottega di abiti vecchi nella strada Monmouth. Ogni volta che essi sedevansi sopra i libri, per una di quelle incoerenze comuni ai sogni, mi sembrava che il libro si cangiasse in una veste di foggia forastiera, o antica, con ’cui essi cercavano di abbigliarsi. Io avvertii che niuno pretendeva d’indossare una forma propria di vestito, ma strappando una manica da uno, un cappello da un altro, da un terzo una falda, e così adornandosi a brandelli, lasciava venir fuori qualcuno de’ propri cenci.

Vi era un tale di alta persona, ben nutrito, di colore roseo, che io vedeva coll’occhialino tutto inteso a guardare su parecchi muffati scrittori di polemica. Ei si arrabbattava a gittarsi addosso un largo mantello di uno degli antichi padri; ed avendo rubato la grigia barba di un altro si sforzava di comparire un gran saggio, ma l’aria festevole del suo portamento gli toglieva ogni apparenza di saggezza. Un gentiluomo dalla corta vista era tutt’occupato a ricamare un sottilissimo abito con Ali di oro, tratti da certi antichi abiti di corte sotto il regno della regina Elisabetta. Un altro erasi riccamente ornato di un manoscritto bello per miniature, e portava sul petto una rosa colta nell’Eliso, e, copertasi la testa del cappello di sir Filippo Sidney, si pavoneggiava con aria squisita di volgare eleganza. Un terzo, di debole complessione, boriosamente si reggeva sulle spoglie di parecchi oscuri filosofi, sicché egli aveva aspetto veramente grave, ma era miseramente stracciato di dietro, e mi accorsi che la sua veste era rattoppata con minuzzoli di una pergamena di latino scrittore.

Vi erano, egli è vero, alcuni gentiluomini ben vestiti, decorati di pietre preziose, le quali brillando sopra i loro abiti, non ne oscuravano punto Io splendore. Sembrava parimenti che alcuni contemplassero i costumi degli antichi scrittori per informarsi de’ loro principi, e per prenderne Paria e lo spirito; ma mi grava il dire che parecchi pur ci aveva, pronti a coprirsi da capo a piedi di quel rappezzamento dianzi menzionato. Nè posso ommettere di ricordare un genio in brache di panno grossolano, con cappello arcadico, e che aveva una forte inclinazione per le pastorellerie, i cui campestri divagamenti però vennero confinati entro i classici ritiri di Primrose Hill, o ne’ romitaggi di Regents Park. Erasi egli inghirlandato di corone è fettucce, tolte da’ vecchi poeti buccolici, e, piegando il capo da un lato, mi si fece innanzi con aria stupida, cicalando versi intorno gli erbosi campi.

Ma il personaggio che trasse a sè tutta la mia attenzione, fu un magistrale e vecchio gentiluomo, dalla testa assai larga e quadrata, ma calva. Questi entrò ansante nella camera, e sbuffando prese la via verso la turba con piglio di superba fidanza, e, posta la mano su d’un pesante volume greco in quarto, se lo tolse sopra il capo, e maestosamente uscì fuori con una sterminata parrucca da’ lunghi ricci!

Nel meglio di questa letteraria mascherata, un grido improvviso risonò da ogni banda: «Ladri! ladri!!!» Io guardai; ed ecco i ritratti sospesi intorno alle mura divenire animati. Quei vecchi scrittori cominciarono a cacciar fuori dalle tele prima le teste, poi le spalle, e, squadrando attentamente la turba vestita a vari colori, discesero poscia con occhi furibondi per far richiamo della proprietà lor rubata.

La scena del darsi a gambe e del tafferuglio, che ne successe, vince ogni descrizione. Gli sventurati colpevoli cercavano indarno a svignarsela col loro bottino. Dall’un canto si poteva vedere una mezza dozzina di vecchi, i quali spogliavano un moderno professore; all’altro si menavano le mani sullo stuolo de’ più recenti scrittori drammatici — Beaumont e Fletcher quinci e quindi spietatamente disertavano attorno il campo, come Castore e Polluce, e l’ardito Johnson faceva maggiori valenterie, che non facessero i volontarî nell’esercito di Fiandra. E siccome il piccolo e gaio compilatore di miscellanee, poco innanzi rammentato, erasi rimpannucciato di variopinte vesti a mo’ di Arlecchino; così nel luogo ove egli trovavasi, avvenne tanta e si fiera batosta, quanta forse non ne successe attorno al corpo dello spento Patroclo. Forte mi doleva il vedere alcuni uomini, cui io era uso tenere in gran conto e reverenza, affaticarsi a fuggire con pochi cenci addosso per nascondere la loro nudità. Il mio occhio erasi appunto incontrato in quel magistrale e canuto gentiluomo dalla gran parrucca arricciata, il quale, preso da indicibile spavento, se la dava a gambe inseguito da una mezza ventina di autori, che, a quanto ne avevano in gola, gli gridavano dietro: Al ladro! Costoro erano chiusi della persona in abiti bene attillati fin sopra le anche, con parrucche accuratamente pettinate, e ad ogni strappata che davano, un qualche gherone del vestimento era portato via a quello sciagurato, finché in pochi momenti dalla sua altiera vanità si ritrasse tutto ansante, malconcio e ferito, uscendo dalla gran sala con pochi cenci e stracci, che gli svolazzavano dietro alle spalle.

Nella catastrofe di questo dotto Tebano ci fu alcuna cosa di si ridicolo, che io diedi in uno scroscio di grassa risata, con la quale finì ogn’illusione. Il tumulto, il tafferuglio erano in sul cessare. La camera tornava alla consueta forma. Gli antichi autori riprendevano le loro sembianze dipinte, e tornavano colla severa maestà de’ volti a star sospesi su per le pareti della sala. In breve, io mi trovai affatto desto nel mio luogo, in compagnia di tutta l’assemblea di que’ rosicchiatori di libri, che mi guatavano con istupore. Nulla di quel sogno fu reale, salvochè lo scroscio del riso; per l'innanzi neanco uno zitto erasi mai fatto udire in quel santuario della sapienza, ove gli orecchi non patiscono rumore alcuno.

Il bibliotecario in quel punto mi si presentò, domandandomi s’io avessi il polizzino d’entrata. Sulle prime io non lo intendeva, ma tosto mi avvidi esser quella biblioteca una specie di privativa letteraria, soggetta alle medesime leggi della caccia, e dove niuno poteva entrare a far suo bottino, senza special licenza e permissione. In una parola, mi convinsi di esser io là dentro un furtivo ed errante cacciatore, e fui lieto di uscirne incontanente per non avere addosso tutt’i vecchi volumi di quegli autori.

Washington Irving.
(Trad. di G. Cherubini.)



  1. Concedo volentieri ospitalità in questa raccolta a uno fra’ più curiosi schizzi dell’Irving, il noto e simpatico scrittore americano; schizzo che, garbatamente tradotto, mi venne favorito dal caro e dotto amico, prof. G. Cherubini. — Washington Irving era nativo di Nuova York e morì nel 1859. Dimorò alcun tempo in Ispagna in qualità di ambasciatore degli Stati Uniti, ed è uno dei più grandi e fecondi scrittori, di cui si possa vantare l’America moderna.
    «Questo brano o schizzo è un capolavoro del genere; — il quale con un’immaginazione colorita alla Poe profondamente descrive una delle più grandi e, diciamolo pure, più vecchie piaghe della letteratura. L’autore ha posto il suo quadro nel Museo Britannico; ma di simili se ne potrebbero fare in tutte le Biblioteche. La letteratura di mestiere è numerosa dovunque, e i mestieranti sono pur notissimi fra noi, anco quelli che acquistarono per riconosciuto ingegno gran nome. Io conobbi chi si vantava potere di per sè solo provedere annualmente di lavoro un’intiera tipografia! E vi ha chi compone libri facendo intieramente trascriverne dei vecchi, solo apponendo in margine le variazioni richieste dal progresso scientifico e dal tempo; e chi, mutatone il semplice titolo, con una prefazione pur che sia presume di ammannire cibo novello agli intelletti bisognosi. L’argomento sarebbe degno tanto di storia quanto di romanzo, e meglio di dramma, e potrebbe offrire variatissimi punti di prospettiva curiosi ed edificanti.
    A’ giovani può tornare utile riflettere su così fatto ladroneccio, il più vile e funesto di tutti, essendo per lo più un sacrilegio ai defunti, un inganno a’ vivi e uno sfacciatissimo esempio di turpe e ignorante presunzione. Ed ei vi possono apprendere, che soltanto al vero, originale e onesto ingegno sono riservati i frutti di una fama giusta, duratura e riconoscente.

    B. E. Maineri.

  2. Questa voce, sebbene non italiana, pure io qui l’uso per significare meglio il concetto dell’autore.


Note

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