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Vent'ora e un quarto Li stranuti
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1835

L'ANIMA DER CURZORETTO APOSTOLICO

(1.)

     Er guarda-paradiso, ggiorni addietro
Pregava Iddio pe uprì li catenacci
A Ssu’ Eccellenza er cavajjer Mengacci1
Che strijjò in vita sua più d’un polletro.2

     Dio s’allissciava intanto li mostacci,
E ppoi disse co un ghiggno tetro tetro:
“Voi ci date in cotèdine,3 sor Pietro,
E cci avete pijjati pe ccazzacci.

     Cqua nnun è er reggno de voi Santi Padri,
Dove la frusta, er pettine e lo stocco
Fanno sorte e ttrionfeno li ladri.

     E ssi4 vvoi nun zapete er vostr’uffizio,
Le vostre chiave le darò a Bbajocco5
E appellateve ar giorno der giudizzio.„6

15 gennaio 1835


Note

  1. Lorenzo Mencacci, famoso propagatore della scomunica di Pio VII contro Napoleone e compagni. Di uomo di stalla salì all’ordine equestre, e morì quasi milionario l’11 gennaio 1835. Come il Duca di Guisa, poteva egli chiamarsi il Balafré, portando a traverso la faccia una enorme cicatrice, guadagnata nelle gesta della sua giovinezza, quando nondum inter equites sed inter equos versabatur.
  2. Puledro.
  3. Ci sbalestrate.
  4. Se.
  5. Vedi annotazione al verso 13.
  6. Vedi annotazione al verso 14.

Annotazione al verso 13[modifica]

Giovanni Giganti, soprannominato Baiocco, celebre nano del cosiddetto Caffè Nuovo di Roma. Noi ne diamo qui appresso una illustrazione storica, governandoci in ciò come la buona memoria del Chiarissimo Francesco Cancellieri, il quale cominciava a parlarvi di ravanelli, e poi di ravanello in carota e di carota in melanzana, finiva coll’incendio di Troia. cominciava a parlarvi di ravanelli, e poi di ravanello in carota e di carota in melanzana, finiva coll’incendio di Troia.

alla onorata memoria
di giovanni giganti, detto baiocco

     Dal seme de’ giganti io nacqui nano,
E mi dier di Baiocco il soprannome.
Alto fui quattro palmi, appunto come
La mezza-canna al nostro uso romano.

     Non ebbe il torso mio nulla di strano,
Ma le gambe fur corte e fatte a crome:
Grosso il capo, il pel nero, ampie le chiome,**
Schiacciato il naso, e il piè bello e la mano.

     Fui del nuovo caffè guardia e decoro,
Di chiunque apparia pronto a’ servigi,
Buono, saggio, e, a dir vero, un giovin d’oro.

     Quanti venian da Londra e da Parigi
Mi davan doni, e dir solean fra loro:
“Questo baiocco val più d’un luigi.„***

* Sonetto attribuito all’avvocato-cavalier-conte-marchese-commendatore Luigi Biondi. [V. i sonetti: La Compaggnia ecc., 23 apr. 34, e La Rufinella, 22 genn. 35.]     ** Era più conforme a verità il dire: irte le chiome.     *** L’idea dell’equivoco fra le monete e i nomi non è nuova. Fra le molte citeremo un epigramma relativo al Re di Francia Luigi XVIII:

     L’Engleterre en son pays
A nourri un gros cochon,
Qu’on a estimé dix-huit louis
Et en vaut pas un napolén.


baiocco di onorata memoria

al suo benigno panegirista


     Deprofundis quaggiù, dove il Signore
Per mancati suffragi hammi ristretto,
Ti ringrazio, o vivente, del sonetto
Onde tu fosti e me fingesti autore.

     Il bello e ‘l buono che di me v’hai detto,
Vero confesso e me ne faccio onore:
Benché la verità saria maggiore
Fingendo il torso mio meno perfetto.**

     E là dove tu desti ultimo loco
A quel pensiero che ti nacque avanti,
Per far di sensi e di parole un gioco,

     Chiarir meglio era ch’io Giovàn Giganti,
Fra gli altri miei servigi, a poco a poco
Vi servii di zimbello a tutti quanti.

* Sonetto di uno stretto amico de nostri buoni Romaneschi.     ** Difatti, Baiocco aveva il dorso gibboso a dismisura.

Annotazione al verso 14[modifica]

[Questo sonetto fu infelicemente imitato; e poichè l’aborto correva per Roma come parto del Belli, egli, per mostrarne tutte le deformità, lo copiò e commentò; ed ecco qui copia e commento, che ho trovato di suo pugno tra le sue carte:

     Come morette quer Rodomontone
der cavajer Lorenzo, sverto sverto
der paradiso se n’annò ar portone
credenno aritrovàne er passo uperto.

     Ma san Pietro per nun èsse cojone,
ché quarche cosa aveva discuperto,
a Cristo domannò si sto campione
der su’ Vicario drento aveva imberto.

     Cristo, temenno che quer galeotto
puro lassù facesse quarche stocco,
dicette a lui: De che? Me ne strafotto!

     Si parli un’antra vota, t’aribocco.
Caccelo, ch’io si no te fo fà er botto,
e portinaro in cambio fo Baiocco.

“Sonetto falsamente attribuito a G.G. Belli. Belli crede che non avrebbe mai fatta una simile babbuassagine. Né è qui la vera lingua del popolo di Roma, né lo spirito che in queste dipinture si richiede. Il principal pensiero, rubato, vi si esprime in troppo goffa maniera. — Morette e dicette, voci arbitrarie dell’autore. — Der paradiso se n’annò, a Cristo domannò, drento aveva imberto, e portinaro in cambio fo, ecc., contengono trasposizioni tutte estranee alla favella popolare. - Aritrovàne non si può dire. L’aggiunzione della particella ne al fine degl’infiniti de verbi (che tutti debbono terminare in vocale accentuata, rimossa l’ultima sillaba del verbo) appena sarebbe tollerabile nella chiusa di un periodo, fissato dalla pausa del punto. — Il quinto verso è mal fabbricato. Quella specie di ritmo non procede sonante e non ha l’accento sulla quarta sillaba. — Discuperto e temenno dicansi voci che mai non si udiranno dalla bocca di un romanesco, il quale non conosce che scoprì e avé pavura. — Aveva imberto, per aveva ingresso, accoglienza, è frase di tutta invenzione del compositore. Oltrediché vi si desidera espressa l’idea del poter avere ingresso. — L’idea plagiaria espressa nello stocco non conviene al Mencacci, secondo il senso in cui lo stocco è qui preso.„ (Il senso, cioè, di truffa.) “Mencacci non fece stocchi: se si vuole, fece furti. — L’ultimo verso rinchiude la principal prova del plagio. — Cosa povera di ogni spirito e verità. Vedi il mio sonetto di protesta, qui unito:

“A’ MIEI AMICI.

     “Poiché talora attribuita al Belli
va circolando alcuna porcheria,
io vengo a protestar che non è mia,
ma forse è roba del signor Granelli.

     “Non ch’io m’abbia pel capo la pazzia
di vantare il più grande fra i cervelli:
neppur credo però, cari fratelli,
di patirne assoluta carestia.

     “Il ripudiar ciò che ha total difetto
di spirito, di gusto e proporzione
spero da voi che non mi sia disdetto.

     “Così, fra gli altri aborti di stagione,
io vi dichiaro apocrifo il sonetto
che porta in rima un tal Rodomontone.„]

ER FIJJO DE PAPÀ SSUO.1

(2.)

     Entrato in fossa er cavajjer Lorenzo
Detto pe’ ssoprannome er Curzoretto,
J’è ito appresso er cavajjer Vincenzo
Pe’ le su’ gran vertù ddetto er Bojetto.2

     Disgrazziato Bbojetto! Ricco immenzo,
Ner fior dell’anni, co’ ttanto de petto,3
Eccolo llì a ppijjà ll’urtimo incenzo
Che ddà er monno a cchi ppaga er cataletto.

     Mica annò ttrïonfante in sta vittura,
Come un giorno pareva in carrettella
Er padrone de Roma in pusitura.4

     Sittrànzi grolia munni:5 un funerale,
Quattro fischi,6 un pietron de sepportura,
E ll’eredi che ffanno carnovale.

18 febbraio 1835


Note

  1. Vedi il sonetto precedente. [Del presente esistono due copie di mano dell'autore, con lievi diversità nell'ortografia e nelle note. La nostra lezione ha quel che c'è parso il meglio dell'una copia e dell'altra.]
  2. Quattro giorni dopo la morte del padre, nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1835, morì costui, primogenito della illustre famiglia. Ebbe faccia e maniere di scherano.
  3. [Nel dir così, se ne accenna la misura, allargando le braccia.]
  4. In positura. Veramente egli vi si atteggiava con iscenica sovranità.
  5. Sic transit gloria mundi: avviso inutile che si dà ai nuovi Pontefici, bruciando innanzi ad essi la stoppa.
  6. Il popolo fischiò il cadavere del padre.
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