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INTRODUZIONE
§. I.
Occasione di Scrivere. Quello che rimanesse di me dopo la mia morte. Il Generale Chassé prigioniero di pace. Fornicazione dell’Errore con la Jattanza, e quello che ne venne. Il cervello del mondo domiciliato a Parigi. Il giudizio universale. L’ultimo dente. Mani nelle faccende forensi necessarissime. Tento rifarmi. Mi trovo corto a ossa. Ragionamento col Cappellano del camposanto dove fui sepolto. Difficoltà di ritrovare le proprie ossa. I vermini sussurrano. Prova testimoniale. Prezzo del Marchese Gualtiero orvietano. Il ladro che può arrestare gli sbirri è un galantuomo. Chi non sa difendere il suo è indegno di possedere. Proprietà e furto sono una cosa sola. Poeti ladri per eccellenza. Azione reivindicatoria. Beni della Chiesa, e prescrizione centenaria. Vita umana quanto caduca. Giove in soffitta. Cadaveri sono cose nullius. Italia morta del male del vile. I vermini vantano giusto titolo. Giudizio finale sarà civile, o criminale? Ragioni non messe in carta bollata, non si può dire che sieno ragioni. Coccodrillo del padre Kirker gesuita, e sua avventura. L’Avvocato fiscale ed il Pesce-cane. Mi addormento da capo.
Nella notte millesima sesta della mia quarta prigionia un sogno scese sopra il mio capezzale, ed il sogno fu questo:
Io me ne stava giacente giù tanto nelle viscere della terra, che mi pareva con le mie ossa toccare le roccie di granito, le quali formano l'ossatura del mondo.
E sopra le mie ossa la cenere delle generazioni disfatte dopo di me si ammonticchiava alta come le montagne dell'Immalaia di cui il Condor, l'uccello del volo poderoso, non può toccare la cima.
Di repente, ecco una voce mosse da lontano, la quale ora sì, ora no, secondo che il vento spirava, si faceva sentire, e le mie viscere a cagione di codesta voce si rimescolavano tutte e l'anima mia era conturbata da sbigottimento grandissimo.
Ho detto viscere così per dire, conciossiachè viscere io non avessi. — Quanto di me avanzava, vedete, era il teschio, e questo non mica intero, chè la mandibola inferiore se ne stava ben mezzo miglio lontana dal suo principale, e per di più sdentata.
Però dentro codesto teschio si teneva ristretta la mia intelligenza, e quivi durava ostinato l'assalto supremo della distrazione, troppo meglio che non facesse il generale Chassé nella cittadella di Anversa quando cadde in mano dell’oste francese prigioniero di pace!1.
Prigioniero di pace? prigioniero di pace si dice nel paese di Francia; ed oltre a questa nel paese di Francia se ne dicono delle altre, e non fanno una grinza per la ragione che segue:
L’Errore camminando avvinazzato incontrò in certo pantano dell’antica Lutezia la Jattanza e le fece violenza (altri raccontano, che gli compiacque volenterosa, e questo credo ancora io.) Da cotesto connubio nacquero gemelli il moderno Parigi, e l’Assurdo, i quali vennero al mondo per li piedi, come il patriarca Giacobbe agguantava il patriarca Esaù. Se però la Francia nascendo agguantasse pei piedi l’Assurdo, o se l’Assurdo la Francia, non chiariscono i libri. Questo pongasi in salvo, per intendere direttamente i Francesi, e le cose loro, che la Francia e l’Assurdo uscirono alla luce gemelli.
La voce di che ho detto gridava propriamente così: — sorgete morti, e venite al giudizio.
Gloria in excelsis Deo! Egli è venuto alla fine questo benedetto giorno del giudizio! Per andare a Roma ha preso da Ravenna! Egli era tempo, che la smettesse di farsi aspettare. Osanna nei cieli!
Ed ingegnandomi di palesare con qualche atto esterno la intima esultanza accadde, che il mio teschio desse dentro a un ciottolo, e battendo si ruppe l’unico dente rimastovi su ritto, il quale fu rinvenuto poi essere canino, e ruzzolò per un quarto di miglio circum circa verso la volta della mia mandibola inferiore.
In compenso del teschio scemo di denti, ecco m’invase inresistibile l’agonia di prorompere fuori del sepolcro, e correre al miracolo nuovo, e da un pezzo aspettato, di vedere pesare quelli che pesavano, giudicare quelli che giudicavano, e se i pesi coi quali pesavano, le misure con le quali misuravano, e le sentenze con le quali giudicavano fossero trovate giuste per la mano degli Angioli al cospetto di Dio.
Per la mano dogli Angioli al cospetto di Dio, imperciocchè gli uomini non abbiano mai o saputo o voluto dare, come ne corre l’obbligo, dodici oncie per libbra. Essi lo hanno detto sempre, e non han fatto mai.
Innanzi tratto meco stesso mi consigliai a radunare le ossa sparse intorno a me, ed ingegnarmi a ricomporre il mio scheletro, imperciocchè io andassi pensando: — e come mi presenterei io davanti ai tribunali senza piedi nè mani?
Senza piedi, pazienza! senza mani non si è anche visto! Necessarie pei litiganti, e gli accusati, necessarissime si sperimentano pei giudici. Senza queste i giudici non potrebbero fare assolutamente cose da giudici, come in grazia di esempio, — prendere la penna per sottoscrivere le sentenze.
Ma ahime! le falangi delle mie dita andavano disseminate in moltiplici frammenti, ed io non sapeva a qual santo votarmi, da che sempre meco ragionando io dicessi: — i Santi adesso tutti intesi nel giudizio finale non avranno tempo, nè voglia per ascoltare le supplicazioni dei morti.
E guardando fisso con immenso affetto le ossa disseminate conobbi con meraviglia come la intelligenza rimasta nel cranio prendesse a esercitare sopra quelle la virtù dell’ombra, o della calamita sulla paglia, o sul ferro. Così ricuperai le ossa delle mani: alquante delle vertebre del collo, e della spina dorsale, la mascella inferiore, non so quanti denti, e nove costole: quasi che tutte le ossa dei piedi.
Da principio io non istetti a badare tanto nè quanto, e chiappato tutto alla rinfusa mi affrettai a mettere in sesto ogni cosa col gazzurro dei fanciulli, che fabbricano i castelli con le carte da giuoco.
Ora tu pensa, lettore, quale e quanta fosse la mia paura allora quando io mi trovai con le ossa in fondo, e il mio scheletro condotto nè meno al terzo del primitivo suo essere. In cotesto stato mi passò per la mente quel verso, che dice Olimpia derelitta:
— Chi mi consiglia ahimè! chi mi consola? —
E dissi come lei, e poi di mio ci aggiunsi: — ora di’, presumeresti forse presentarti in arnese sì fatto davanti a un collegio di gente bennata? E come potresti arrivare fin laggiù senza tibie, senza rotole, senza femori e senza fianchi? Forse co’ piedi in mano? Ahi misero me! Pur troppo adesso io sono chiarito a prova, che il giudizio per me non ci ha da essere. E qui preso dal diavolo pei capelli incominciai a gridare: — dove sono elleno le ossa mie? Qual fu il mal cristiano che mi rubò le mie ossa?
E vuolsi lo sguardo interno, e contemplai migliardi di migliardi (una volta questa parola s’intendeva poco, adesso poi i ministri di Finanza dei varii stati europei, grazia a Dio, l’hanno resa comune) di morti, i quali tutti si travagliavano intorno alla mia medesima fatica. Che brullichio? Che serra serra! Il mio intelletto rotava a mo’ di vele di molino a vento.
Oh! io tengo miserabilissimo mestiero quello, che ti costringe assistere allo assetto quotidiano, che le bestie ragionevoli, o vogli uomo, o vogli donna, fanno del proprio corpo, ma, lettore, ti giuro per le note di questo sogno, che alla vista di tale terribile teletta2 della morte tutte le mie ossa suonarono come vetri stritolati.
Allo stridere delle ossa, al lamento che uscì dalle nude mascelle, un quarto di scheletro a me vicino, il quale dalle vertebre del collo inclinate verso l’omero, e dalle falangi delle dita incrocicchiate insieme argomentai avesse appartenuto a qualche uomo insigne per pietà, rispose con voce di requiem aeternam.
— Fratello, tu hai da sapere ch’io fui cappellano della cappella del camposanto dove ti seppellirono. Mentre io durava cosiffatto officio pensando quanto fosse vergogna per la razza umana comparire da meno nella vita forse, e certamente nella morte dirimpetto alla razza delle bestie, pensai incontrare merito presso gli uomini, e presso Dio, se mi venisse fatto di trarre le cose dei morti a benefizio dei vivi. Con questo disegno mi posi a disotterrare quante più potessi ossa di morti, e le vendei al prezzo di un franco al cantáro a certo mercante, che le portò a Marsiglia per affinarne lo zucchero.
— Domine, aiutatemi, esclamai io tutto lagrimoso, ed ora dove andrò io a ripescare le mie ossa?
— E bisognerebbe, fratel mio indovinare per lo appunto in quante mila tazze, caffè, cioccolata e the, e in quante migliaia bericucoli, confortini, ciambellette, confetti e zuccherini, insomma in quanti rinfreschi per battesimi, cresime, prime comunioni, prime messe, e nozze o vogli spirituali, o vogli temporali andò sperperata la tua spoglia mortale dopo la tua morte; chi furono quelli che bebbero, e gli altri che mangiarono: quanta parte di te rimanesse nella loro persona, e quanta nè andò in altre sostanze trasformata: nè basta: bisognerebbe eziandio sapere di queste, che cosa avvenisse, e come si trasmutassero fino al momento supremo in cui il Padre eterno parlò e disse: — ecco egli è gran tempo, che questa veglia del mondo dura, e mi pare ora, che l’abbia a finire — e imposto all’orchestra delle sfere, che si chetasse, mise nel sacco di Giobbe3 la luna, le stelle, e gli altri luminari, e così spente le candele, e licenziati i suonatori terminò la festa: per le quali considerazioni, tu pensa, fratello mio, quanto dura impresa ti recheresti sopra le spalle.
Le ossa delle braccia con tanta fatica raccozzate mi caddero giù tornando a sgominarsi sul pavimento, a quel modo, che fanno i paternostri e le avemarie, caso mai avvenga di sfilarsi un rosario. Quinci in breve però m’invase un divino furore, e volendo compire almeno tutta quella parte del corpo a cui aveva posto mano, esclamai:
— Rendetemi il mio cuore, e il mio cervello; per via di transazione datemi il necessario per rimontare tutta la parte superiore del corpo fino al torace; il fegato e la milza chi se gli ha presi li tenga, che assai mi dettero molestia nell’altro mondo, onde io mi passi del desiderio di ricuperagli in questo.
— La roba che pretendi, riprese il cappellano, non fu per niente necessaria nel mondo di là, immagina dunque se in questo! Io da cappellano di onore non mi accorsi mai, che per sedersi in tribunale a profferire sentenze facesse mestieri di cervello, molto meno di cuore: Ancora hai da sapere come generazioni innumerabili di vermini di cotesti tuoi visceri un fidecommisso perpetuo nelle famiglie proprie istituissero, e da parecchi secoli di padre in figlio pacificamente se lo tramandino. Vedi, qui ci si assiepa dintorno la discendenza di coloro, che ci hanno divorato. Tu, se te ne punga vaghezza, la puoi interrogare in proposito.
Credendo allora (e poi io mi accorsi che credeva male) potere ritorre il mio senza chiedere il permesso a persona, stesi le mani, e strette due manciate di vermi incominciai ad autoplasticarmi4 con quelli. Quantunque costoro facessero le viste di ribellarmisi: sotto le dita, non mi lasciai sbigottire per tanto, costringendoli a rifabbricarmi per forza, o per amore, il naso, l’occhio e l’orecchio sinistri. Quando poi stesi le mani per abbrancare di nuovo, proruppe una procella di voci minacciose, dicendo:
— Che soperchierie, che prepotenze sono quest’esse? Chi vi rende baldanzoso a farvi ragione di privata autorità? Quali jus vantate? Quale azione intentate? Quali documenti esibite? Quali testimoni producete?
E il cappellano con piglio dottorale ammonirci:
— Testimoni non valgono. —
— Oh come non valgono?
E il cappellano da capo:
— Mai no, o che avete perduto la memoria? Ai tempi nei quali vivemmo lassù nel mondo non si accettava la prova testimoniale per somma superiore alle lire settanta, quantunque fosse accolta senza contrasto là dove si trattava della reputazione della vita di un uomo! E ciò dimostra apertamente due cose; la prima, che la legge nel mondo di là apprezzava la fama e la vita degli uomini meno di settantuna lira (e questo accadeva nei paesi cristiani e civili, dove gli uomini apparivano tinti di bianco, imperciocchè nelle terre dei barbari idolatri colorati di nero il pregio dell’uomo da dugento scudi salisse fino ai quattrocento); la seconda, che su la probità dell’uomo, oltre alle lire settantuna, non ci si poteva contare... Supposti entrambi falsissimi, imperciocchè messo da parte il cuore, qual cervello di scrivano politico ai tempi nostri, di compilatore di storie, o vogli memorie storiche, fossero anche quelle del marchese Filippo Gualtiero da Orvieto, nel sottosopra l’uno per l’altro non si valutava settanta lire e dodici soldi?
— Ma io non mi vo’ ingarbugliare tra mezzo a tante procedure: ripiglio il mio. —
— E dàlli, con questo mio! esclamava il terribile cappellano. Ma sai tu che ci vuole proprio una faccia da batterci sopra i francesconi per sostenere tuo quello che da tanti anni ti sei lasciato portar via? Chi ruba è un galantuomo, se ha forza di arrestare gli sbirri e imprigionare i giudici: e questo ai tempi nostri si è visto. Diavolo! non valeva il pregio di vivere nel mondo, se poi dovevi morire ignorando questa santa croce delle azioni umane. Tu non dovevi andartene; oh! non lo sapevi, che i morti hanno sempre torto? Bada, che i vermini non ti facciano condannare nelle spese utili e mere volontarie come temerario litigante. Intanto rispetta la inibitoria, che ti hanno messo di continuare la fabbrica del tuo corpo, e ringrazia Dio, che i vermini, i quali al postutto sono creature di garbo, non ti costringano a demolire il naso, l’occhio e l’orecchio sinistri, fabbricati da te con aperta violenza pubblica. —
— Dunque può molto questa generazione di vermini adesso? —
— Dopo la nostra morte essi son tutto. —
— Che Dio mi aiuti! pur troppo conosco a prova, che santamente tu parli. Però io avrei creduto, che in questo mondo cessasse la usanza di chiamare storto il diritto; e qui almeno, il mio avesse a diventare ben mio. —
— No, anche qui, anzi qui più che altrove, di lieve si comprende come propietà o furto sieno una stessa cosa. E per chiarirtene ascolta: tu fosti composto di sostanza sottratta a coloro che ti hanno preceduto, e se tu avessi a soddisfare tutti i creditori del tuo corpo, sta pur certo, che non ti avanzerebbero quelle poche ossa, e cotesti naso, occhio ed orecchio sinistri, che si ponno dire propriamente usurpati. Vedi: le generazioni degli uomini hanno fatto come i poeti; l’uno ha preso dall’altro. Immagina un po’ Omero ritornato addietro nel mondo per esigere dai suoi debitori quello, che gli cavarono in presto di sotto, e lo negarono poi, e tu vedresti, che Virgilio rimarrebbe in camicia, il Tasso in mutande, e quel tuo stesso sì vantato Ariosto poco più che in farsetto. Dà retta a me: io ti consiglio pel tuo meglio di starti contento a quello, che ti è riuscito attrappare. Se tu consideri bene, dell’azione reivindicatoria non ti puoi giovare, imperciocchè, come vorresti riuscire a provare il dominio di te medesimo, io non saprei vedere. Dato eziandio, che tu in questo la sgarrassi, non correresti pericolo di sentirti opporre la prescrizione più che centenaria e la centenaria bastava a prescrivere anche i beni della chiesa, che i sacerdoti dichiaravano inalienabili.
— Inalienabili! Così è; agli uomini, creature di un giorno dentro una culla di un anno, non ci fu verso di far capire, che di cose eterne, perpetue e inalienabili non avevano nemmeno a parlare. A convincere cotesto intelletto loro, ch’era proprio un baleno tra il vagito e l’agonia, non bastava la vista quotidiana della morte, non le città capovolte, e non gl’imperi cancellati via dal mondo come una firma sotto la cambiale pagata, o un verso uscito dalla penna al poeta con dodici piedi. Invano Giove e gli altri Dii, temuti amati e tremati tanto secolo nel mondo, messi là nelle soffitte dei cieli quasi trabiccoli nel mese di luglio, gli ammonivano ad assistere al banchetto della vita nel modo, che pasquavano i giudei, in piedi, ingambati i calzari la zona cinta alla vita, ed il bastone nelle mani. I sacerdoti vollero starsi seduti sopra seggioloni a bracciuoli, e mangiar sempre, e soli. Consigli inani! Che valse salare i beni della Chiesa co’ sacri canoni? A che marinarli dentro l’aceto delle scomuniche? A che il pepe dei concistori, e la canfora dei brevi? Oh immanità! Oh delitto! un giorno, quando, e dove si aspettava meno, le marmeggie penetrarono anche in quelli, e miseramente se li divoravano. — Ma per tornare a bomba, pensa, che alla più trista, nè tu nè altri reputa il corpo tuo religioso molto meno santo. I vermini vantano giusto titolo, dacchè i cadaveri sieno cose nullius, e di ragione caschino in proprietà del primo occupante. Quando la morte pianta la sua bandiera di putrefazione sopra i nostri corpi, manda un presidio di vermi a prenderne possesso, in quella guisa appunto che fecero i barbari nelle nostre terre allorquando Italia si morì del male del vile. I vermini possiedono in buona fede imperciocchè natura, alma mater, disponga che ogni cosa nel suo regno si muova ond’è ragione, che quando gli uomini stanno fermi, i vermini, parlino, scrivano, rodano e imbrattino. Tu poi morresti una seconda volta di riso, se tu sapessi sotto quante forme tu abbi, non accorgendotene, vissuto. Però ritieni che i vermini nel divorarti, del pari che i figliuoli di Adamo, acconsentirono alle suggestioni della madre Natura, la quale, come universalmente si stima, è figliuola primogenita del Creatore. Del tempo utile non si discorre nè manco. Ed io che, quantunque cappellano mi fossi, appresi ragione civile nello studio di Pisa, meditando sovente sopra i novissimi, venni in questa sentenza, che l’ultimo giudizio, secondo la opinione mia, avesse a riuscire per sette ottavi civile, e per un ottavo, forse criminale. In concetto siffatto ordinai mediante codicillo che, per ogni contingenza, riponessero dentro la mia cassa parecchi fogli bollati, dacchè le ragioni, se non si dicono proprio in bollato, si può dire, che le non sono ragioni: e su tale proposito certo Avvocato fiscale, che da mill’anni a questa parte vedo restringersi in lunghi e dotti ragionamenti con un pesce-cane suo amico, consultato da me mi ebbe a dire, che aveva operato da pari mio. Tu lo vedessi questo Avvocato fiscale! non gli manca nè anche un dente, e certa volta essendo venuto a gara di morsi col coccodrillo del Padre Kirker5 fu giudicato, che i suoi laceravano più feroci, e soprattutto più maligni.
— Dunque è fatato, che per me non ci sarà giudizio: e stretto da inestimabile amarezza tornai a giacermi sul mio capezzale di pietra.
- ↑ [p. 23 modifica]La Francia ai tempi di Luigi Filippo, salutato il Napoleone della pace, ebbe bisogno di assediare Anversa: vi morirono attorno non so quanti mila cristiani come in tempo di guerra: vi si briccolavano palle perfino di mille libbre come in tempo di guerra: come in tempo di guerra ogni cosa incominciò, proseguiva, e terminava: ma i Francesi in quel quarto di ora erano inferociti per la pace, onde bisognò inventare un assedio di pace, un bombardamento di pace, e prigionieri di pace. Senza ridere i Ministri lo dissero alla tribuna, e senza ridere i Francesi lo ascoltarono. La Europa rideva, ma i Francesi non se ne curavano. Ormai essi Francesi hanno decretato, che la Francia è il capo del mondo, e il cervello è domiciliato a Parigi, e basta.
- ↑ [p. 23 modifica]Volendo ridurre in italiano la parola francese toilette (piccola tela) bisogna dire teletta, e così fece Parini nell'ultima edizione del Giorno.
- ↑ [p. 23 modifica].....qui praecipit soli et non ovitur: et stellas claudit quasi sub signaculo. Tob. c. 9. n. 7.]
- ↑ [p. 23 modifica]Vocabolo chirurgico, che significa rifare parte del nostro Corpo con la carne tagliata da qualche altro membro.
- ↑ [p. 24 modifica]Il R. Padre Kirker Gesuita nella Relazione dei suoi viaggi, racconta, come un dì giunto alla imboccatura del fiume Jordus si trovasse allo improvviso in mezzo a un Coccodrillo, e ad un Tigre; e veramente fu caso da imbrogliare anche un gesuita. Il Padre non sapeva a qual santo votarsi, quando il Tigre senza dubbio per ispirazione divina, spiccato un salto, andò a cascare in bocca al Coccodrillo, il quale inteso a divorare il Tigre non si curò del gesuita. Altri dicono, che il Coccodrillo lo fece a posta parendogli la carne del Tigre meno trista di quella del gesuita; e aveva torto perchè ambedue appartengano alla medesima specie; almeno così insegnano i naturalisti.