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Metafisica
§ VI.
Quello che dica il genere umano, abbottonandosi l’ultimo bottone del vestito. Lutero. Briaco a cavallo. Il dottore Pereyra. Il gesuita Bouhours. I Tedeschi sono animali ragionevoli? Cartesio nemico delle bestie. Malebranche. Quarto di pecora nato su la punta di un naso. Immortalità dell’anima provata co’ calci. Un Vescovo di Brettagna vuole resuscitare un’Asino. Pascal, avverso alle bestie. Gli si rimbeccano gli argomenti. Gazze hanno più memoria dei Caraibi. Giovanesi, Malesi e Indiani di Chaymas senza memoria. Cervelli del Byron, del Cromwello, del Cuvier e del Dupuytren quanto pesassero. Bovi tutti dottori. Angolo facciale del Camper. Apollo di Belvedere confrontato coll’Asino. Quale la dote dell’anima quando si maritò col corpo. Dio certifica le bestie dotate d’intendimento. Il poeta Maggi era dominato dal pensiero di non pensar nulla. Tatto, qualità superiore nell’uomo, che nella bestia. Anassagora. Aristotele Plinio, il Machiavello e il Montaigne la pensano così. Pluralità di mondi. Uomo dirimpetto ad altre creature è meno di un cane. Se corra divario tra le anime delle Cimici e delle Piattole, e quelle degli sbirri commendatori, e dei soprastanti cavaglieri. Montaigne si confessa pari alle bestie. Chiamando taluno uomo, Asino, sovente si fu ingiuria al quadrupede. Leibnizio zelatore delle bestie stupendo. Libro de peccatis brutorum. Opinioni del Bonnet, e del generale Paoli in proposito. Quelle del Locke, del Condillac, del Buffon, del Voltaire, del Cuvier, e del Broussais diverse. Linneo dice la sua. Commendatore dell’ordine di Cristo sviscerato per le bestie. Sentenze da incidersi nell’oro. Monsieur Flurens ultimo a comparire. Scrittori del medio evo riconoscono le bestie per cugine. Gli antichi per sorelle. Plinio il vecchio da capo. Conclusione della materia.
Certo giorno l’uomo, abbottonandosi l’ultimo bottone del soprabito, tutto tronfio parlò. — A fin di conto animale ragionevole sono io, e lo sono solo io! — Chetati, matto! — lo ammonì quel brontolone di Lutero — sai tu, la tua ragione che cosa mi pare? lo vuoi sapere? E’ mi pare un briaco a cavallo. E gli era da sperarsi, che l’uomo avvilito da così sconcia batosta se ne sarebbe rimasto chiatto senza balía di pur levare la faccia, ma sì! ei le scuote come il Cane: ond’è che sempre, e più sempre incocciandosi a levarci la gloria dello intelletto, sorse finalmente un Capaneo Portoghese chiamato Giorgio Gomez de Pereyra, che ardì rinnovare a danno nostro la quistione proposta già dal reverendo padre gesuita Bouhours nel secolo diciassettesimmo sul conto dei Tedeschi; la quale fu questa: — Possono i Tedeschi reputarsi animali ragionevoli?
Come il padre Bouhours sciogliesse la quistione a me non preme sapere; però siccome a quei tempi i gesuiti tiravano su i tedeschi a palle rosse tu la puoi figurare; a me importa di venire in chiaro della mia, perchè se io non la sparo in questo punto, gli è fiato perso ragionare di altra cosa.
Il dottore Pereyra, perchè quel portoghese di che ho parlato più in su, fosse dottore, sputando tondo sentenziò: che noi altre bestie senza fame cibavamo, senza sete bevevamo; di gioia e di dolore urlavamo inconsapevoli del giubbilo e dell’affanno. Noi altre bestie gli avremmo domandato:
— Dottore! o come fate a saperlo! Ma gli uomini per prendere la scorciatoia gli crederono addirittura. Dopo lui quel nuovo pesce del Cartesio, poichè ebbe affermato il mondo composto di vortici, e di materia scannellata; e poichè dette ad intendere agli uomini, che lo crederono, venire essi al mondo con una provvista d’idee innate, come i Principi con la clemenza, munificenza, benevolenza, e tutte le altre belle cose innate, che i supplicanti mettono dentro i memoriali per tentare di smoverli; per ultimo ardì sostenere che il cervello dell’uomo lievitava perpetuo nel fermento di belli o brutti, di buoni o rei pensieri. All’improvviso, favellando di noi altre bestie si mostra avaro quanto già procedeva coi suoi liberale, anzi prodigo. Quasi debitore, che paga con gli sbirri in casa, malapena ci concede, che noi viviamo. Viva Dio! Bada, che per lo sforzo non gli si schianti il brachiere. Egli si degna permettere ancora, che noi sentiamo, ma che le opere nostre si fanno senza coscienza nè più nè meno come gli orologi, i quali per virtù degli ordigni interiori indicano le ore, ed ignorano affatto quello che armeggino. Nè punto meglio ci camminarono cortesi gli arcigni giansenisti, avvegnachè l’abate Malebranche mettendo mala giunta a cattiva derrata sostenesse, che le bestie nulla temono o cosa alcuna desiderano; e se mai succeda, che talvolta paiano operare con senno, non vengono già mosse dallo intelletto, bensì da quest’altra cagione: che Dio creatore avendole conformate per vivere evitano meccanicamente quanto è capace di offenderle o distruggerle. — Che volete ch’io vi dica! Potevamo aspettarci meglio da un uomo, che stette a un pelo di gittarsi via per la paura, che gli fosse cresciuto un quarto di pecora sopra la punta del naso1? Uditene un’altra più trista: certo giorno inviperito dal calore della disputa, questo prete traditore, per provare, che le bestie non hanno anima, dette un calcio alla sua povera Cagna la quale lo guardava trasecolando come tante e siffatte bestialità potessero capire dentro un cervello di uomo, e fellonescamente l’ammazzò. Ahi prete, prete, prete! cotesto atto disumano avrebbe potuto attestare, ed attestò che a prova di pedate tu ne disgradavi un Mulo, non già che Iddio creatore privasse noi di anima pensante. Però, il cielo mi guardi di maledire al clero a cagione di cotesto scellerato prete, dacchè il male, ch’egli mi fece, venisse a braccia quadre compensato dal tedesco Gennaro vescovo di Brettagna, il quale per chiarire come nelle bestie albergasse un’anima e per di più immortale, si tolse nientemeno l’impegno di resuscitare un Asino2. Co’ preti pareva la pace fatta, ma
«Come è lieve ingannar chi si assicura;»
all’improvviso eccoti scappare fuori un altro prete, giansenista, e matto3, chiamato Biagio Pascal, che non dandosi per vinto agli argomenti di quella cima di uomo del vescovo di Brettagna ribadisce il chiodo del Malebranche negandoci l’anima, e sbraciandoci l’istinto. Ricercando poi le ragioni di questo, la taccolava così: — Gli effetti del discorso della mente crescono sempre, ma lo istinto non fa avanzi. I bugni delle Api mille anni fa comparivano composti in forma di esagono, come oggi sono; e lo stesso si dica di tutto altro, che appartiene alle bestie. Natura le ammaestra, secondo necessità, e questa cessando, cessa la scienza; le bestie avendola ricevuta senza studio, non la conservano, ed ogni volta che occorra loro di adoperarla, l’usano come cosa nuova, conciossiachè Natura provvedendo a mantenerle dentro i cancelli di perfezione limitata somministri loro a miccino la scienza in dose sempre uguale, e quanto basta al bisogno, onde non deperiscano; che poi l’aumentino, e i confini posti trapassino, la Natura stessa non patisce. — Tale il ragionare del Pascal. Se mi fossi trovato a piatire con lui io gli avrei domandato: — Di’, Biagio, o come hai fatto a sapere, che il primo bugno costruito dalle prime Api, che su i primi fiori e le prime erbe volarono, fu uguale in tutto e per tutto ai bugni dei tempi tuoi? Hai tu potuto vedere gli uomini in vita selvatica, per poi raccontarci sul sodo s’ei fossero o più ricchi di partiti, o più copiosi di spedienti, o disposti ad apprendere meglio di noi? Intanto se cieco non fosti o sordo, potevi conoscere quotidianamente la tua dottrina smentita dal fatto, avvegnadio sarebbe negare il paiuolo in capo, se volessi contendere che delle osservazioni proprie e degl’insegnamenti altrui le bestie conservino memoria e facciano tesoro. In vero la memoria negli uomini da che la congetturate voi? Voi dite dal discorso; ma, che Dio vi aiuti, i vostri sordimuti durarono secoli e secoli prima di trovare la favella dei cenni, e non pertanto, giusta la opinione vostra, essi argomentavano, risovvenivano, spirito immortale possedevano.
I Caraibi non sapevano contare che fino a 5; le Gazze, per testimonianza del Gall, arrivano fino a 9; dunque le Gazze erano quattro volte più ragionevoli dei Caraibi, o i Caraibi cinque volte più bestie delle Gazze; rigirala come ti piace, che tanto la messa torna a mattutino4. I Giavanesi difettano di memoria, e lo stesso mancamento notarono, il Marsden nei Malesi di Sumatra, e l’Humboldt negl’Indiani di Chaymas; dunque in virtù dello egregio argomentare vostro tutta questa gente va scassata dal libro della razza umana.
Qualsivoglia sia il gancio a cui vi agguantate, ecco tra mano vi diventa diritto; come colui sente di avere torto marcio salta di palo in frasca, così voi, lasciato da banda il morale, tornate sul fisico e dite: egli è il volume del cervello, che distingue l’uomo dalla bestia. Il cervello del Byron poeta, messo su la stadera, dette il peso netto di tara di grammo 2238, quello del Cromwello politico 2231, del Cuvier naturalista 1829, del Dupuytren cerusico 1436. Ora chi tra le bestie può vantare sostanza cerebrale quanto l’uomo? Chi la può vantare? Se volume di cervello facesse intendimento, i Bovi tutti sarebbero dottori senza andare a Pisa. Odine un’altra, che in verità è nuova di zecca. Il Camper montato su i trespoli ci fa sapere come la misura giusta dello ingegno si ricavi dall’angolo facciale, che si disegna così: muovansi dalla costola del naso due linee, la prima orizzontale verso l’orecchio, e la seconda perpendicolare verso la fronte. Ciò fatto, calcola e vedrai che, quanto più sarà compressa la fronte, meno è razionale la bestia, che la possiede. Su questo fondamento il Verey divide la razza umana in due specie: in uno, di cui l’angolo della faccia varia dal grado 80 al 90, e nell’altra da 75 a 80. Se così è datevi per vinti5. Misurate in questa maniera il mio muso, e se non ci rinvenite l’angolo di 100 gradi appuntino uguale a quello che fu trovato nella faccia dell’Apollo di Belvedere, io mi obbligo fino d’ora per mano di notaro ad essere arso sulla piazza del Granduca come fra Geronimo Savonarola. Io vi ammonisco per vostro bene, date retta al Caporali, consentite ad essere pari con noi, se non volete che vi abbia a toccare di peggio: udite qual fu, a parere suo, la dota dell’anima quando ella venne a stringere le plebee nozze col corpo.
«Tutto l’arredo, che dal ciel recosse
Quando venne quest’anima a marito,
E a questo corpo in terra copulosse,
Un sacco di memoria un po’ sdrucito,
Mezz’arca di intelletto ed un forziere
Di volontà, di amore e di appetito»6.
Nè più, nè meno recarono dal paese dove crescono le anime degli Asini, le nostre anime a noi.
Guardatevi poi, o gente umana, da toccare il tasto del vederci stare piuttosto ostinati che fermi sopra certi particolari, e non crediate, che venga da manco di desiderio a perfezionarci, se in parecchie faccende noi:
«Non vogliamo in cento anni andare un’oncia».
Bensì vi umilii questo pensiero, che noi su molti punti abbiamo trovato il perfezionamento nostro, e voi no. O Biagio Pascal, e voi quanti altri siete suoi partigiani, tirate giù buffa e confessate, se parvi grazia di cielo, o fiore d’ingegno cotesto irrequieto agitarsi dell’uomo, che non gode mai pace e non la fa godere? Quel suo perpetuo affaticarsi dietro una larva, che tenta invano agguantare, non è la pena di Tantalo? Quel suo correre e ricorrere indefesso dentro un cerchio, per cui alla fine del salmo si trova trafelato colà donde prima aveva mosso, non è il supplizio delle Danaidi? Sisifo che ruzzola sempre su la vetta del colle un sasso il quale sempre adimerà, non vi par’egli che faccia nell’inferno il mestiero degli uomini nel mondo? Dov’è il libro della esperienza? Chi lo ha stampato? Chi lo ha letto? Bibbie, e Breviari eccone a macca, ma li caratteri, che stamperanno il libro della esperienza, non sono anche fusi nè si fonderanno però che la esperienza scriva in cielo col fumo, in mare con le schiume, sopra la terra con le fosse; e nel cuore dell’uomo non iscriva nulla, come quello ch’è troppo sottile, ed ella usando le penne di ferro lo sfonderebbe di certo. — La sapienza umana nacque a un parto con la lanterna del filosofo, che cascò nel pozzo; e la ragione governa i cervelli degli uomini, come la briglia il cavallo sboccato.
Contro i preti, salvo il vescovo di Brettagna, sta Dio (cosa, che nei tempi antichi accadeva di frequente, adesso è diversa) e ve ne chiarisco a prova. Avete sentito quello, che hanno scritto di noi i preti giansenisti? Ora sentite un po’ come parli il Signore. Dio dunque quando aperse la porta di Noè, smesso che fu di piovere, prima di tutto gli disse: — io ti prometto di non maledire più la terra a cagione degli uomini, perchè ormai ho visto, ch’è fiato perso: appena nati una ne fanno ed un’altra ne pensano, tanto hanno il birbo fitto nell’osso!7 — E subito appresso soggiunse: — Voi altri uomini potrete divorare tutto quanto vive e si agita; del sangue poi delle anime vostre io chiederò conto dalle mani delle bestie8. — Qui dunque girare nel manico non vale; gli è proprio Dio che parla, ed egli, io vo’ credere, delle bestie s’intendeva troppo più de’ preti giansenisti, ed anche dei gesuiti: non le aveva fatte con le sue benedette mani? Ora ditemi su come Domine Dio potrebbe domandare alle bestie ragione del sangue umano, se sapeva averle create prive di comprendonio? Gli è forse umano giudice Dio, per commettere di questa razza svarioni? Lasciamo Dio da banda; ma l’uomo, che si avvisasse di cacciare nel carcere penitenziario l’orologio perchè non marca l’ora, o condannare a pane ed acqua il girarrosto che non volge lo spiedo, nol fareste portare ritto come un cero nell’ospedale di San Bonifazio? In che differiamo noi altre bestie da voi? Per avventura non possediamo le medesime facoltà degli uomini? Del pari riceviamo la vita, del pari la partecipiamo altrui, comechè l’erba verde ci sia di letto, e i raggi della luna ci facciano da lenzuola, e del pari ci addormentiamo nella morte. Ecco qua; questo è cuore e questo è cervello in tutto uguali a quelli degli uomini. Dunque ci fu largito un cuore per non sentire e un cervello per non pensare? E pure non si trovò mai bestia, che sul conto suo affermasse quello, che di se confessava il poeta Maggi cantando:
«E mi legge in fronte il gran pensiero:
Di non pensare a nulla9.»
Nella bestia, e nell’uomo tu noterai i sensi uguali, sebbene con certo svario di perfezione: però la disuguaglianza non apparisce unicamente tra uomo e bestie, ma bene ancora nelle bestie fra loro; così la differenza, che corre fra l’uomo e l’Orangoutango suo cugino, noi troviamo minore tra l’Orangoutango e il Tapiro o il Tardigrado. Qualche organo della gola tornito un po’ meglio, qualche coppia di nervi fabbricati più sottili o arrendevoli, un briciolino meno di fegato, un tantinello più di milza, e forse chi sa? il tatto alquanto più delicato, dà all’uomo la palma sopra le bestie. Anzi per giudizio universale de’ savii egli è il tatto per lo appunto. Così la pensava Anassagora, secondo che ci lasciò scritto Plutarco10, il quale per la molta sufficienza e dottrina sue venne in odio agli Ateniesi che come empio lo perseguitarono. Il tatto squisitissimo fra gli altri sensi riconduce alla mente le immagini fuggevoli, presiede ai giudizi, ed opera in guisa, che confrontando le idee escano fuori, e dalle idee sgorghi la fonte dei discorsi. Questo dice anche Aristotile, e molto tempo dopo di lui Elvezio ripete11. Plinio, a parlar giusto, non lo afferma tanto alla recisa, pur tuttavia loda il tatto, come quello, che gli sembra fra i sensi per eccellenza supremo12. E Niccolò Macchiavello, che là dove riflette il lume del proprio ingegno fece chiaro, porta espressa opinione, che il tatto sia conceduto all’uomo più fino che agli altri animali, e meglio adattato a secondare le opere dello spirito:
«L’Aquila l’occhio, il Can l’orecchio e il naso
E il gusto ancor possiam miglior mostrare
Se il tatto a voi più proprio si è rimaso13.»
Gli organi della bocca e della gola umane avendosi tolto il carico di spacciare copia di cose, più che possono anfanano e qualche volta riescono, qualche volta no; all’opposto portando in sul mercato della lingua poche robe da vendere con un paio di ragli mi sbrigo. Michele di Montaigne mette nelle sue scritture lo inventario di quello, che per l’uomo la mano fa, e non è poco: — La mano (dichiara costui) ricerca, promette, chiama, licenzia, minaccia, prega, supplica, nega, ricusa, interroga, ammira, conta, confessa, si pente, teme vergogna, dubita, ammaestra, comanda, incita, anima, giura, attesta, accusa, condanna, assolve, ingiuria, disprezza, sfida, respinge, lusinga, applaude, umilia, suscita, benedice, irride, consacra, invoca, riconcilia, esulta, festeggia, si duole, compassiona, sconforta, dispera, meraviglia, grida, tace, ed altre più cose assai noi la vediamo operare14. Egregiamente, ma dacchè la mano tradisce o propina il veleno, e strozza e scanna, e scrive cambiali false e false storie e memorie storiche, o alma genitrice natura, io per me mi professo contento dello zoccolo che mi compartisti, e dove mai mi fosse a rifarsi il creato, e tu dovessi plasticarmi da capo, io vorrei pregarti di dotare sempre l’Asino di ugne sode, e di zoccoli tutti di un pezzo.
Ciò messo in sodo, ditemi in grazia, di che vi saprebbe l’Orangoutango, se per vedersi tagliato e scuffinato un po’ meno alla carlona del Tapiro montasse su i trespoli, e sè presumesse senziente, e sciente, e immortale, il Tapiro al contrario automa, ignorante, e fatto per disfarsi interamente? ora se pretensione cotale vi comparisce nell’Orangoutango presuntuosa, e matta; quello che paia a noi nell’uomo vi dirò un’altra volta. Un giorno cotesti temerarii avevano la fronte di sostenere, loro essere formati a similitudine di Dio: certo anche un Barbagianni avrebbe potuto vantarsi fratello degli Angioli, perchè aliava. Solo per la favella più o meno sfolgorante dello intelletto, l’uomo si rassomiglia a Dio. La terra foggiata in uomo o in pentola è sempre terra.
Arrogante! Questo grano di arena capace di ficcarsi fin dentro gli occhi a Dio, e farlo lacrimare di spasimo, oh non voleva a forza che il Creatore gli avesse fermato nel centro del petto una punta del compasso, e girato l’altro per disegnare la periferia di tutto l’universo! Adesso che giuochiamo a carte scoperte, tocchiamo con mano, come le lune, ed i pianeti tutti del sistema solare che chiamammo nostro, seguitassero e compissero, con i medesimi fini, movimenti uguali a quelli del mondo in cui vivemmo, e milioni di creature come noi senzienti e pensanti li popolassero. E che vaneggio io del nostro sistema solare? La stessa cosa non avvenne, e non avviene nel numero infinito degli altri pianeti, che o come il nostro si disfecero, o durano tuttavia fecondati dalla moltitudine mirabile di altri soli? E quali, e quante organizzazioni, e volontà, ed anime, e intelligenze non contempliamo noi fuori di misura superiori a quelle degli uomini! In paragone di enti siffatti, gratificati di attributi metafisici mirabili di così splendida natura, sentenziò gravemente un alemanno, specchio di sapienza quasi divina15, l’uomo potrebbe appena far mostra dello intelletto di un cane! In quale stima sarebbero venuti presso agli Angioli gli abitanti, diciamo a modo di esempio, di Giove, se avessero spregiato come fango gli abitatori della terra, perchè fra essi e loro intercede troppo maggiore divario, che fra questi e noi?
Io so bene, che gli uomini stizziti del sentirsi vinti, si agguantavano a certi arzigogoli da mezzorecchi, i quali io toccherò così alla leggiera, tanto per non parere, che fuggo la disputa. Il pensiero dell’uomo, essi dicevano, forma la essenza dell’anima umana. Bene; e che rileva cotesto? Vanità di vanità. Anche il pensiero dell’Asino forma la essenza dell’anima asinina: ecco tutto. Credi le anime della Cimice e della Piattola, diverse da quelle di uno sbirro commendatore, o di un cavaliere soprastante? Tu erri. Anima è spirito uguale di natura sempre. Se la imprigioni in corpo adiposo, e grave o lente, ovvero dentro un cranio schiacciato, ella ci si raggricchierà come il nero nel brigantino, che dalle coste di Africa lo trasporta in America, o come il bianco nel carcere penitenziario, che con legale e scientifica scelleraggine lo conduce nelle regioni della tisichezza e della follia; all’opposto fa di collocarla nel vasto cuore di Leonida (bene intesi, spartano) o nel cervello capace di Galileo, e tu vedrai come agiti quel cuore in armonia di forza, e quel cervello in armonia di scienza. Strumento fummo con più, con meno, con buone o con cattive corde; ma la sostanza vitale, lo spirito di amore e d’intelletto, sprillati dalla medesima scaturigine, formarono parte dell’anima, che anima l’universo, e come da lei si partirono, a lei ritornarono, dopo che scevri del corpo si rimescolarono, depurandosi, con tutto quanto fra i mondi e i cieli apparve leggiadramente divino; perocchè eglino tingessero co’ colori della madreperla le nuvole a sera, per le notti chete e serene rendessero il raggio della luna più blando, più arcano il mormorio delle fonti e lo stormire dei boschi, e più pietoso il grido, che la natura mandava dai sepolcri ai superstiti; gli ebbe ministri l’aurora nello spandere le rugiade benefiche; compagni il sole quando co’ suoi splendori giocondava e fecondava la terra.
Comechè l’uomo ogni giorno aumentasse le cause del mio abborrimento per lui, io lo compiansi finchè lo vidi o per istorto intelletto o per manco di arnesi adattati, andare lentoni alla scoperta delle bisogne mondiali, e traboccare nelle fosse. Non risi quando sosteneva colle mani e coi piedi, la terra piana galleggiante su l’abisso come un ponte da calafati, e i cieli duri e costruiti a un dipresso a modo della vôlta di un forno. Non gli cavai sangue dalla vena, non lo posi in dieta; nè anche acconsentii che lo legassero, allorchè per ignoranza oltracotato, immaginò che il Creatore acconciasse ai suoi servigi il sole, e questo per debito gli si dovesse presentare ogni giorno con la beretta in mano, e dirgli: — Padron lustrissimo, io sono ai suoi ordini; — tenne le stelle in conto di lampanini accesi dalla mano di spiriti festaioli per rinnovare agli occhi di sua Signoria lo spettacolo della luminara di Pisa. Quando poi scienza, presa di pietà per lui, gli aperse alquanto le palpebre, e gli fece vedere senza soccorso di arnesi 6000 stelle, e con arnesi di mediocre potenza fino a 200,000; quando Guglielmo Herschel gli mostrò intorno ai lembi della via lattea, che sola è palese agli occhi nostri, 18,000,000 di stelle, ed in processo gli fece sapere che di coteste vie lattee gliene avea scoperte 4,000 in acconto; sicchè, dire le stelle numerose quanto i grani di arena per l’ampiezza del deserto. e nella profondità dei mari, era come dire, nonnulla, o poco, e sempre minore del vero; quando finalmente gli fecero toccare con mano come la luce, la quale percorre 72,000 leghe a minuto secondo, emanata da talune di coteste stelle per arrivare a percuotergli le pupille nel 1856, aveva dovuto mettersi in cammino otto o nove mila secoli prima, che fosse creata la trappola dove egli, dopo avere vissuto un minuto, dormiva per sempre; quando, dico, tutte queste cose gli furono chiarite, ed egli balenato un momento tornò a perfidiare come prima, desiderai, che i gropponi di quanti vissero Asini nel mondo potessero girare con la formula della cambiale le bastonate ricevute, sopra le spalle di cotesta razza incaponita, presuntuosa, e con rispetto parlando, birbona; e pel bisogno non sarebbe stato abbastanza.
Però Dio mi guardi da tacere, che tra la razza umana venne fuori taluno filosofo, il quale anche prima, che inondasse tanto lume di scienza, si confessò alla libera, fattura pari a quella delle bestie. Il Montaigne16 ci acconsentì in buona fede pensiero, e amore, insomma tutte quelle cose, che si costumano per consumo della gente dabbene; anzi per cortesia si volle arrisicare fino ad anteporre noi altre bestie agli uomini nell’esercizio delle arti. E come se questo fosse poco, Leibnizio, rotto il barbazale, bandì nei Saggi sopra l’umano intelletto, che avendo confrontato certi uomini con talune bestie, gli era paruta insolenza gravissima sostenere, che i primi possedessero bontà di giudizio superiore a quella delle seconde; ond’è che forte su questa sentenza avendo una volta sentito dare dell’Asino a certo procuratore generale, stetti lì lì per accusare d’ingiurie l’autore del paragone callunnioso. E se me ne rimasi, non fu per volontà, bensì per amore di certi Asini prudenti i quali mi persuasero, che i giudici zelando l’onore del collegio mi avrebbero senza fallo dato torto, onde io mi strinsi nelle spalle, e per non fare scandalo lasciai correre il paragone.
Adesso per tornare a Leibnizio io vi ho da dire, com’egli arroga a questo, quasi articolo di fede, che la Bontà divina vorrà rimunerare le bestie nella seconda vita a stregua dei meriti loro, ed affinchè non paia questa sua opinione a certi fisicosi malsonante od eretica, egli cita un opera di certo solenne maestro in divinità messa fuori con le stampe nel secolo decimosettimo intitolata: De peccatis Brutorum, dove le Bestie si trovano accusate bene, e meglio d’ira, di lussuria, di gola, insomma dei sette peccati mortali, e dei veniali eziandio, non altrimenti, che se fossero uomini calzati e vestiti.
Carlo Bonnet, che di cuore e di mente fu una cappa d’oro, ci manifesta17 che se Dio, dopo avere creato spiriti pellegrini, e di ogni maniera nobili ingegni, li buttasse di punto in bianco fuori di finestra alla rinfusa, meriterebbe di venire interdetto dal pretore, e sottoposto come i prodighi al consiglio di famiglia. Secondo lui il concetto, che gli enti animati muoiono tutti, impoverisce l’universo; ed è vero; e fermamente crede, che ciascheduno di loro nascendo porti seco in tasca i semi di vita più compiuta e migliore di quella dell’uomo. Dopo morte (è sempre il Bonnet, che la discorre) tutte le specie monteranno uno scaglione della scala, la quale conduce dalle sostanze più grossive alle divine. Questa fantasia noi conosciamo adesso a metà essere stata vera, e non è poco, laddove si ponga mente che si parte da intelligenza umana, e spetti alla metafisica. Le creature infatti o risorte o piuttosto non cessata la vita ricomparvero a galla a mo’ di libri che rosi dalle tignuole, e sgualciti si rinnovellavano nelle seconde edizioni riviste dall’Autore, e rilegati in pelle con arabeschi e fermagli d’oro18: però non la troviamo del pari vera nella parte in cui affermò, la promozione avere ad essere universale e concessa meno in virtù di meriti singolari, che in ragione della specie. Di che vi saprebbe il capitano, il quale nel giorno, che tiene dietro alla battaglia, inalzasse al grado di colonnello tutti i maggiori, perchè maggiori, e i capitani al grado di maggiori, perchè capitani e così discorrendo? — Questa sarebbe peggio, che ingiustizia: ora tempo delle iniquità è passato, nè brutte cose in cielo si fanno, e neppure se ne faranno. — Ecco come stà la cuffia a Crezia: l’uomo non ci mette del suo a nascere uomo, e l’Asino nè anco a nascere Asino; siffatta contingenza non acquista così all’uno come all’altro merito, nè demerito. Se l’anima, che informò le membra umane, fece avanzi di virtù, ecco è promossa di un grado o più verso la fonte eterna di tutta perfezione; all’opposto, se ella si contaminò con opere ree, viene respinta giù in esistenza più squallida, affinchè quivi depurandosi si ammendi. E lo esempio lo chiarisce: vi dissi già, che udendo una volta confrontarmi a certo procuratore generale stetti per richiamarmene al giudice, ma che poi pro bono pacis, e per altri rispetti lasciai correre il paragone: adesso mira come per differire non si perda. Io già picchio alle porte di Gloriosa esistenza, ed ho fede, che per grazia altrui, e merito mio, mi verranno aperte, e colui adesso dove si trova nascosto! Tanto hanno riscontrato la sua anima nera, che per apparecchiarla a incandidire la tuffarono in una bigoncia d’inchiostro, e lì starà trentamila secoli almeno. Comechè il Pagliano morendo, instituisse in suffragio di quell’anima persa un legato pio di tutto lo sciroppo avanzatogli in bottega, verun computista, anche dei bravi, saprebbe fare il ragguaglio degli anni, che ella metterà a sbrattarsi e a sbruttarsi; e per ultimo qui corre fama, che sarà condannata per altrettanto tempo a rotolare in forma di scarafaggio la rea pallottola dei suoi sozzi pensieri.
Pasquale Paoli, personaggio di cui non la potenza, ma l’ardimento e il senno fecero grande la fama, trovandosi certa sera a cena, per quello ci racconta Giacomo Boswell19, espresse non poche congetture ed invenzioni rispetto alla natura ed intelligenza delle bestie: notò le umane cognizioni su tale proposito fino ai suoi giorni imperfette, presagì che indi a mille anni gli uomini avrebbero ottenuto di questo arcano conoscenza intera, come l’avevano allora delle altre cose, una volta ritenute disperate a sapersi. Però anche di presente parergli sicuro, che le bestie mercè la favella significavansi a vicenda le passioni e i pensieri. Fra gli scrittori oltre i rammentati, prossimi al tempo in cui vissi io, che si chiamarono Locke, Condillac, Buffon, Voltaire, Cuvier e Broussais, i quali o mercè il pensiero astratto, o con lo studio dei corpi organizzati s’industriarono di alzare le gonnelle alla Natura, che da donna di garbo se ne difendeva con gli sgraffi e co’ morsi, tu hai a figurarti che si scatenò come un remolino di opinioni contrarie.
Di Linneo svedese, cima di uomo, io tocco appena, comechè lasciasse scritto, la esperienza delle cose naturali condurlo ad affermare risolutamente non correre di sorta alcuna divario tra l’uomo e la Scimmia, e se gli opponessero la favella egli risponderebbe, non considerare il discorso niente affatto segno distintivo dell’uomo. Valgami per tutti il commendatore Giuseppe Giovacchino da Gama Machado, consigliere un dì di legazione a Parigi, gentiluomo di camera di S. M. fedelissima, commendatore dell’ordine di Cristo, membro dell’Accademia delle scienze di Lisbona, e di non so qual altro diavolío di Accademie del mondo vecchio e del mondo nuovo, il quale nel suo libro intitolato. — Teoria della Rassomiglianza. — tal porge solenne documento, che io stesso non avrei saputo immaginarlo nè scriverlo più onorevole:
«Però dir dopo lui non mi da il cuore
E lascio dire a tanto dicitore20»
Io mi sento, scrive il Commendatore, innamorato delle bestie; ho meditato lungamente le dottrine del Porta e del Gall, e sgombro lo intelletto da vanità come da errore bandisco a quanti lo vogliono sapere, che io non mi reputo nulla superiore alle bestie. Padrone guà! O chi lo para? E per soprassello tu nota, che questo confessa spontaneo, e senza corda un nobile portoghese gentiluomo di camera del re. Pongasi in sodo pertanto, che un commendatore dell’ordine di Cristo il quale fa per impresa tre piccozze di argento in campo azzurro, di certa scienza e libera volontà pattuisce lui esser bestia pari a tutte le altre bestie.
Questo insigne brutofilo lasciò per insegnamento degli uomini, i quali a cagione della matta loro superbia non gli badarono, alcune sentenze, che qui verranno registrate e non senza frutto di certo:
— Le guerre mosse a causa di religione vendicano le bestie del disprezzo degli uomini, e fanno ridere il diavolo. —
— Le bestie escono di mano alla Natura belle educate, gli uomini no; all’opposto questi hanno a travagliarsi moltissimo per sapere poco e male; ma siccome quanto più possono scansano le fatiche, quindi avviene, che la parte di loro rimane ciuca da disgradarne gli Asini. —
Gli è proprio assurdo attribuire il pensiero agli uomini, e negarlo alle bestie, quante volte troviamo quelli conformati al pari di queste. —
— Non si dolgano le bestie di andare prive di favella continua, anzi ne appicchino il volo al santo protettore, conciossiachè in questa maniera non sia loro saltato il ticchio in testa di dettare leggi d’istituire tirannidi, e di buttar via la propria libertà. —
— Se l’uomo conoscesse gl’incomodi di andare ritto su due piedi, non s’incontrerebbe persona dabbene la quale non camminasse con le mani e co’ piedi. — Gli Uccelli non cantano mai in falso, gli uomini favellano in falso, sempre, o per lo meno spessissimo.
— Se vuoi piegarti a studiare il corpo umano conoscerai facilmente cotesto cassapanco composto di ordigni le più volte guasti prima che messi in opera. —
— La rettitudine del giudizio non l’hai a cercare negli uomini, bensì nelle bestie; queste non isbagliano mai, e se pure sbagliano, egli è per colpa degli uomini. —
Ultimo a comparire fu Monsieur Flourens, (uno dei cervelli del mondo) che in certo libro intorno allo Istinto degli Animali disse, la memoria e la intelligenza predominare nella infanzia di tutte le bestie salvatiche le quali in cotesto primo periodo un po' di modo di educazione alla buona di Dio consentono, ma giunte all'età adulta l'istinto ripiglia il sopravvento, e la educazione va via come le steccaie schiantate dalla piena dell'Arno; sicchè giù per su egli levò un ragnatelo da un buco, e se avesse taciuto sarebbe stato tanto civanzo imperciocchè (notava quell'anima dabbene di Carlo Bini) se poco costa parlare, è forza convenire, che costa anche meno tacere.
Ho riportato le opinioni dei secoli decimottavo e decimonono, e le vedemmo non pure varie, ma contrarie fra loro. Gli scrittori dei tempi di mezzo, che sogliono chiamarsi medio—evo, o non pensarono a noi, o se ci pensarono, ci tennero per fratelli in vita ed in morte. Degli antichi filosofi non cascò in mente a nessuno di sostenere il panno della nostra esistenza tagliato a pezza diversa dalla loro; essi nemine, nemine discrepante, come scrivevano a Pisa nei dottorati diplomi, ci consentirono di quieto la immortalità; e se qualcheduno ce la negò, e basti dei parecchi ricordare Plinio il vecchio, questo avvenne perchè egli non la concedeva nè anche a se stesso, e l'anima e la seconda vita reputò cose di lusso inventate dalla fumosità dell’uomo per darsi importanza.
Conclusione. Fra la ignoranza che nella fiducia di avere trovato il vero si quieta, e di questo supposto vero compiacendosi, approda a se stessa e ad altrui, e la curiosità che cerca e non trova, o trovando nuocerebbe, qual sia da preferirsi tu sapientissimo giudica. In quanto a me parve così: che nelle scienze fisiche provando e riprovando, anche il cammino storto fa strada; mentre all’opposto nelle metafisiche quanto più ti avviluppi t’ingarbugli. Di vero se gli uomini ci avessero reputato con animo schietto loro fratelli; in ispirito certo minori tuttavolta sempre fratelli, noi avremmo sperimentato loro più miti ed eglino noi più sinceri; noi non gli avremmo mai mandati a gambe levate a rotolare per la polvere su le pubbliche strade, nè l’abate Malebranche avrebbe ammazzato la sua cagna con un calcio per provarla sfornita di anima immortale.
Note
- ↑ [p. 111 modifica]Remusant, des Races humaines.
- ↑ [p. 111 modifica]Idem.
- ↑ [p. 111 modifica]Vita di Biagio Pascal.
- ↑ [p. 111 modifica]Agrippa, de Vanitate scentiarum. c. 720.
- ↑ [p. 111 modifica]Vita di Malebranche.
- ↑ [p. 111 modifica]Caporali, Vita di Mecenate.
- ↑ [p. 111 modifica]Genesi, c. 8. n. 21.
- ↑ [p. 111 modifica]Genesi, c. 9. n. 35.
- ↑ [p. 111 modifica]Gio. Battista Maggi, Sonetti.
- ↑ [p. 111 modifica]PLUTARCO, dell'amor paterno.
- ↑ [p. 111 modifica]ARISTOTELE, st. degli Animali, l. 1. c. 151.
- ↑ [p. 111 modifica]Plin. Historia mundi, l. 10. c. 88.
- ↑ [p. 111 modifica]Macchiavello, Asino d'Oro.
- ↑ [p. 111 modifica]Montaigne, Essais, t. 2. n. 245.
- ↑ [p. 111 modifica]Humboldt, Cosmos.
- ↑ [p. 111 modifica]Montaigne, Essais.
- ↑ [p. 111 modifica]Bonnet, Palingénesie philosophique p. 1. c. 5. e 16.
- ↑ [p. 111 modifica]Epitaffio di B. Franklin.
Il corpo
di
Beniamino Franklin
stampatore
somigliante alla coperta di un libro vecchio
da cui siansi staccati i fogli
e la doratura e il titolo cancellati
qui giace
pastura dei vermi
contuttociò
l'opera non sarà perduta
avvegnachè com'egli credeva
ricomparirà
in nuova, e più bella edizione
riveduta e corretta
dall'Autore. - ↑ [p. 111 modifica]Boswell, Viaggio in Corsica, Londra 1769.
- ↑ [p. 111 modifica]Malmantile, c. 6. ott. 95.