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Al novel tempo e gaio del pascore, 1
che fa le verdi foglie e’ fior’ venire;
quando li augelli fan versi d’amore,
e l’aria fresca comincia a schiarire;
le pratora son piene di verdore,
e li verzier’ cominciano ad aulire;
quando son dilettose le fiumane,
e son chiare surgenti le fontane,
e la gente comincia a risbaldire;
che per lo gran dolzor del tempo gaio 2
sotto le ombre danzan le garzette;
nei bei mesi d’aprile e di maio
la gente fa di fior’ le ghirlandette;
donzelli e cavalier’ d’alto paraio
cantan d’amor novelle canzonette;
cominciano a gioire li amadori,
e fanno dolzi danze i sonatori,
e son aulenti rose e violette;
ed io, stando presso a una fiumana, 3
in un verziere, all’ombra d’un bel pino,
(d’acqua viva aveavi una fontana,
intorneata di fior gelsomino)
sentía l’aire soave a tramontana,
udia cantar li augelli in lor latino;
allor sentío venir dal fin Amore
un raggio che passò dentro dal core,
come la luce ch’appare al matino.
Discese nel meo cor sí come manna 4
Amor, soave come in fior rugiada;
che m’è piú dolce assai che mel di canna:
d’esso non parto mai dovunque vada,
e vo’ li sempre mai gridar usanna:
Amor eccelso, ben fa chi te lauda!
Assavora’ lo quando innamorai:
neente sanza lui fue né fie mai,
né sanza lui non vo’ che mi’ cor gauda.
E’ non si può d’amor proprio parlare, 5
a chi non prova i suoi dolzi savori;
e senza prova non sen può stimare,
piú che lo cieco nato dei colori;
e non puote nessuno mai amare,1
se no li fa di grazia servidori;
ché lo primo pensier che nel cor sona,
non vi saria, s’Amor prima nol dona:
prima fa i cuor’ gentil’ che vi dimori.
Amor per sua dibonaritate, 6
per farmi bene la grazia compiuta,
non isdegnando mia vil qualitate,
di sé mi diè sensibile paruta.
Ben m’ha la donna mia ’n sua podestate,
al primo isguardo ch’e’ l’ebbi veduta;
allor le sue bellezze ’maginai,
di sí mirabel cosa dubitai,
ch’avea figura angelica vestuta.
Guardai le sue fattezze dilicate, 7
che ne la fronte par la stella diana,
tant’è d’oltremirabile bieltate,
e ne l’aspetto sí dolze ed umana,
bianch’e vermiglia, di maggior clartate
che color di cristallo o fior di grana;
la boca picciolella ed aulirosa,
la gola fresca e bianca piú che rosa,
la parladura sua soave e piana.
Le blonde treccie e’ begli occhi amorosi, 8
che stanno in sí salutevole loco,
quando li volge son sí dilettosi,
che ’l cor mi strugge come cera foco;
quando spande li sguardi gaudiosi,
par che ’l mondo s’allegri e faccia gioco:
ché non è cuor uman d’amor sí tardo,
ch’al su’ bel salutevole sguardo
non innamori, anzi parta di loco.
Specchio è di mirabole clartate, 9
forma di bei sembianti e di piagenza;
a lo sprendor di sua ricca bontate
ciascuna donna e donzella s’aggenza;
bella, savia e cortese in veritate,
sovrana d’adornezze e di valenza;
piagente e dilettosa donna mia,
giá mai nessuna cosa il cor disia,
altro ch’aver di lei sua benvoglienza.
Ma sí mi fa dottar lo suo valore, 10
considerando mia travil bassezza,
s’io fossi servo d’un suo servidore,
non sarei degno di tant’allegrezza.
Quella ch’a tutto ’l mondo dá splendore,
e pasce l’alma mia di gran dolcezza,
a cui degnasse dar sol un sembiante
passerebbe di gioia ogn’altr’amante,
ch’avria sovramirabile allegrezza.
Levasi a lo matin la donna mia, 11
ch’è vie piú chiara che l’alba del giorno,
e vestesi di seta catuia,
la qual fu lavorata in gran soggiorno
a la nobele guisa di Suria,
che donne lavorarlo molto adorno;
il su’ colore è fior di fina grana
ed è ornato a la guisa indiana:
tinsesi per un mastro in Romania.
Ed ha una mantadura oltremarina, 12
piena di molte pietre preziose:
d’overa fu di terra alessandrina,
e con figure assai maravigliose,
e foderato di bianch’ermellina,
ornato d’auro a rilevate rose;
quand’ella appar con quella mantadura,
allegra l’aire e spande la verdura
e fa le genti star piú gaudiose.
Sí come lo rubino e lo cristallo, 13
cosí nel viso assisi ha li colori;
e come l’auro passa ogne metallo,
e lo raggio del sol tutti splendori;
e come giovanezza ogn’altro stallo,
e come rosa passa igli altri fiori;
cosí passa mia donna ogne bieltate,
adorn’e gaia e d’onesta bontate,
al saggio de li buon’ conoscidori.
Di tanta claritate è ’l su’ colore, 14
che procede del su’ clero visaggio,
che non è luce ne sia miradore,
piú che gli occhi del bambo al chiaro raggio.
Piantolla in fra lo secol fin Amore,
per far maravigliar ciascun uom saggio;
ché qual avesse ogne filosofia
propiamente laudar lei non poría,
tant’è d’altero e nobile paraggio.
La sua sovramirabole bieltate 15
fa tutto ’l mondo piú lucente e chiaro;
savi’e cortese e di novella etate,
sí bella mai non fu al tempo di Daro;
al mondo non ha par di nobeltate,
con ricche veste e con corona d’aro,
che v’ha sessanta pietre preziose,
sí come il re Evàx le compuose,
quando li dei del tempio li ’nsegnaro.
La prima pietra si è lo Diamante, 16
che ne le parti d’India è trovata;
ed è vertudiosa in oro stante,
forte e ’n color di ferro è figurata;
e nasce in Etiopia la grante,
nell’isola di Cipri è giá trovata;
e criasi di nobili metalli,
d’una generazione di cristalli:
per lo sangue dell’irco vien dolcata.
Agatés è seconda in iscrittura, 17
è nera, a vene bianche vergolate,
e par ch’uom ne le piú veggia figura;
in un fiume in Cicilia son trovate,
e sonne d’altre di quel nome ancora,
vermiglie a vene grigie mescolate;
nell’isola di Creti nascon quelle,
e ’n India si trovan molto belle,
c’hanno figure in lor forme variate.
La terza pietra si ha nome Allettorio, 18
che dentro al capo del pollo si trova,
ed a portarla in bocca ha meritorio,
ed a color di cristallo s’approva;
ed ha vertute in far l’uom locutorio,
conserva l’amistá vecchia e la nova;
la sete spegne e ’ncende la lussura,
se femina la porta uom ne ’nnamora:
per la mia donna amorosa s’approva.
Diaspide quart’è al mio parimento, 19
ed è lucente, di verde colore,
vertudiosa legata in argento;
chi parturisce, menoma ’l dolore,
e chi la porta a suo difendimento,
fantasme scaccia e strugge febri ancore;
ed a portarla quand’è consecrata,
fa la persona potente e innorata,
piacente a pervenire a grand’onore.
La quinta gemma Záffiro s’appella, 20
ed è d’uno colore celestrino;
gemma dell’altre gemme, cara e bella,
conserva la vertú che non vien meno;
umile e dibonaire mantien quella,
ed è in nigromanzia su’ valor fino;
presenta di madonna la su’ altezza,
ché splende oltr’a li ciel’ la sua chiarezza
del viso suo splendiente e sereno.
La sesta pietra ha nome Calcedonio, 21
ch’è di color tra giacinto e berillo;
per sua vertude fugge lo demonio,
di sé lo parte e mettelo in assillo;
ed a vincer li piati è molto idonio
secondo ch’ai piú savi udit’ho diRlo;
non è di color bianco propiamente,
sonne di tre colori al mio parvente:
non fue nessun giá mai miglior di quello.
E la settima pietra è lo Smeraldo, 22
che ne la fronte dinanzi è assiso;
verd’ha ’l colore, e tiene allegro e baldo
e fa piú splendiente il su’ bel viso;
que’ che si truova tra’ griffoni è ’l saldo,
ed ha molte vertú ch’i’ non diviso;
e coll’olio si lavan sue verdezze,
ed ha vertute in crescer le ricchezze:
sí d’umiltá quella che m’ha ’n gio’ miso.
Onix è la nona margherita, 23
che in Arabia e in India si cria;
per la vertú che ’n lei è stabilita,
l’imagini e li sogni caccia via.
Sardonio è la decima in udita,
perchè ’n tra’ Sardi fu trovata pria:
la gemma è bella e di rosso colore;
la sua propia virtú non pon l’autore:
a l’onix contasta lá ove sia.
Grisolito com’auro risplendiente, 24
espande fiamme di color di fuoco;
e ’n Teopia nasce propiamente,
ed è alquanto verde quasi poco;
a lo mare l’assomiglia la gente,
per su’ color che sembra di quel loco;
la notte le paure scaccia e strugge,
e lo Nemico per sua vertú fugge;
ed è assisa in undecimo loco.
Berillo v’è di palido colore, 25
e s’egli è sanza cantora, sí è chiaro;
ma quel c’ha color d’olio ha piú valore,
e in India si trova ed è piú caro;
per sua vertude fa crescer l’amore,
di nove qualitá si ne trovaro;
puossi a la donna mia assimigliare,
ch’ogni lontan d’amor farebbe amare:
duodecima l’appella il lapidaro.
Havin un’altra, che Topazio ha nome, 26
ed è la sua vertude molto casta,
e dove nasce dicerovi, come
vertudios’è assai, chi non la guasta;
ha color d’auro a splendiente lume;
la sua vertude affredda chi la tasta;
ed in Arabia nasce e lá si cria.
Somiglia d’onestá la ddonna mia,
ch’a lo calor superfruo contasta.
Havi una pietra c’ha nom Grisopasso, 27
color di porro, e son d’oro gottati;
di dir le sue vertute i’ mi ne passo;
son a color di polpor simigliati.
Quella di cui laudar mai non m’allasso,
co li brondi cavelli inanellati,
lo tien ne la corona per bellezza,
poi che di sue vertú non ci ha contezza:
istá fra gli altri colori intagliati.
Dei Giacinti ve n’ha di due colori, 28
due ’n qualitá, vinetici e citrini;
e li granati son rossi e migliori,
in corrott’aire boni a’ cittadini;
li vinetici hanno altri valori,
e chi li porta in bocca, son fredddini;
lo lor propio colore è come cera,
e mutasi per l’aire scura e clera:
secondo l’aire son turbi e sereni.
Èvi Amatisto a cinque qualitadi, 29
di rosa e di viola e polporino;
la sua vertude è bona all’ebrietadi,
somiglia goccia d’acqua mista ’n vino;
gemm’è di gran bellezza e bontadi
somigliasi a la fior de lo giardino,
ché ne lo viso assisi ha li colori,
di guisa varî come in fra li fiori,
quando li spande il sole a lo matino.
Due qualitadi v’ha de l’Elidonio, 30
che tal è gemma nera e tal rossella;
a contrastare alli empî è molt’idonio,
e criasi nel ventre a rondinella;
assai vertuti ha in esso ch’io non ponio,
ma gemma è dilicata e cara e bella;
cosí fa la mia donna alli orgogliosi,
che li fa dolzi e piani ed amorosi,
cotanto angelicamente favella.
Èv’Jagatesse che nasce in Elizia, 31
e tal ne la Brettagnia lontana;2
la brettagnina è di maggior carizia,
nera lucente dilicata e piana;
virginitate par sia sua dilizia,
né al domonio non sta prossimana,
ed ha vertude a molte infermitadi;
ciò ch’ovra in acqua fa in olio in contradi,
serpenti scaccia e la ’ncantagion vana.
Èvi Magnetes: nasce in regione, 32
che sí si chiama de’ Traconitidi;
e tragge il ferro e in India è sua nazione;
di color di ferruggine la vidi.
Conforto e grazia dona e guerigione,
è valorosa in disputar, se ’l credi;
polverizzata sana tutte arsure,
contr’a ritropisia molt’ha valore:
al lapidar conven ch’om se ne fidi.
Corallo v’è, che nasce ne lo mare, 333
ed è di color verde infin a tanto;
quand’egli è fuor dell’acqua il muta l’aire,
diventa rosso ed ha vertute alquanto;
fa le tempeste e folgori cessare,
in fruttar piante è vertudioso manto;
in fra le gemme sta ne la corona,
e sua propia vertute have ciascuna;
pien’è di color’varî d’ogne canto.
Havi una cara gemma Labandina, 34
ed è in Asia il suo nascimento.
Cornelio v’è, ch’è gemma molto fina,
poi sí sia buia sí ha gran valimento,4
ed ha grande vertute in medicina;
lo sangue stagna sanz’altr’argomento.
Contr’ai tiranni è buona a spegner l’ira:
cosí mia donna, quand’altri la mira,
non ha cuor sí crudel no stea contento.
Havi una gemma a nome Carboncello, 35
che nasce in Libia in una regione;
sovr’ogni rossa pietra è chiar e bello,
e getta radi a guisa di carbone;
in lingua greca Antrace ha nome quello,
la notte splende per ogni stagione;
e sono ’n lui dodici qualitadi,
pass’ogne gemma ardente e gitta radî,
adorna sta in anella ed in corone.
Èvi Ligorio, pietra preziosa, 36
che nasce d’un’orina d’animale;
a lo stomaco è molto graziosa,
e ’n tutte enteriora a sanar vale.
Ethitesse è piú meravigliosa,
e dentr’a sé sí n’hae un’altrettale;
i ladici l’appellan pietra pregna,
l’aguglia la reca ond’ella regna;
è di color rossetto e molto vale.
Èvi Silenitèn, verde ’n colore, 37
e quella gemma in Persia è trovata;
vertudiosa in dar grazi’ e valore,
cresce e dicresce ad ogne lunata.
Gagatromeo v’è, buon da signore,
contr’ai nemici in battagli’ è provata;
Ercul con lei vinceo molte battaglie,
ove tagliava scudi ed elmi e maglie,
perdeva quando no l’avea portata.
Cerauno v’è, che nasce in Germandía, 38
cristallin’ e mischiata di rossori;
ed in Ispagna n’ha d’altra balía,
in Lusitania ha di foco colori;
e ven da ciel quand’è la tempestía,
per folgore che nasce de’ vapori;
in piatora e ’n battaglie omo assicura,
sonni soavi e lievi ha ove dimora;
fa i luoghi da le folgori sicuri.
Elitropia v’è, cara margherita, 39
che in Cipri ed in Africa si cria;
che fa l’uom sano ed allungali vita,
e strugge lo veleno e caccia via;
costrigne ’l sangue ed è molto chiarita;
come smiraldo su’ color verdia,
avegna che gottato di sanguigno;
nell’acqua istando, il so par lividigno;
cela chi l’ha com’ l’erba eliotropía.
Geracchitesse v’è, di color nero, 40
ed ha vertute in ciò ch’uom domandasse;
e chi la porta ’n bocca sa il pensero,
ciò che di lui ciascun altro pensasse;
a cui domanda, li dá voluntero,5
e parli assai fallar, chi li ’l negasse;
e non conta l’autore ove dimora,
(forse nol sape il senn’umano ancora)
e ’nsegnal sí provar, chi dubitasse.
Epistitesse v’è, ch’audit’ho dire 41
che nell’isola nasce di Corinto;
che fa ristar lo vasel di bollire,
e dona all’acqlua grande affreddamento;
le nebbie e le tempeste fa fuggire,
al sol fa radij con risplendimento;
rimuove uccelli e fiere maliziose,
discordie strugge e le sorte dubbiose;
di color rosso v’è con lucimento.
Emacchitesse, ch’è ’n greco sanguigno, 42
nasce in Arabia e ’n Africh’ e ’n Tiopia;
il su’ color v’è rosso e ferruggigno,
ed al mal della pietra ha vertú propia;
chi ’l be’, in discorso sangue fa ritegno;
al morso del serpente ha vertú doppia;
e chi ’l dilegua co la melagrana,
le piaghe e le ferite ugnendo sana:
ne la corona sta co l’Elitropia.
In Arcaddia nasce, s’i’ non erro, 43
una di quelle pietre: Abesto ha nome;
i mastri dicon c’hae color di ferro,
chi l’accende, sempre rende lume,
Peanités, il cui color vi serro,
è buona a ’ngravidar, se la costume;
ed in Matteio la region si trova;
lo lapidaro non ne pon piú prova;
Madonna sappie in ciò che vale e come.
Èvi una gemma, Sada, che si truova 44
in Caldeia, ed ha color prassino;
e truovasi per molta guisa nova:
in alto mare a fondo è ’l su’ dimino;
convien che nave sia che la rimova,
quando di sovr’a lei fa suo cammino;
e nel passar che face sovr’ad ella,
appicciasi a lo fondo allora quella,
sí va lo core a chi m’have in dimino.
Ed havin una che ha nome Medo, 45
ed è di color nero tuttavia;
secondo che l’autor pone ed i ’l credo,
ne la regione nasce di Media;
chi la disolve, sua vertú procedo:
ugnendo, bona è ad ogne malatia,
dissolta in latte, di maschio fantino;
dissolta in acqua, faria veder meno,
né bona operazion mai non faría.
Ed èvi Galattía, ch’i’ abb’udito 46
ch’è simigliante a granel di gragnuola;
ed è piú dura che lo profferito,
e no la scalda fuoco e no la cola.
E l’altra ha nome Exacontalito,
ch’è di sessanta color quella sola;
e nasce in Libia quella veramente,
per suo’ varî colori è molto gente,
ed è di qualitá molto picciola.
In indica testudine si trova 47
quella gemma c’ha nome Chelonite;
e chi l’ha ’n bocca quando è luna nuova,
saprebbe indovinar cose scolpite;
e ne la quintadecima si prova,
e son di notte sue vertú complite;
il su’ colore è vario e porporino,
né per vertú di fuoco non vien meno:
a luna nuova sue vertú son gite.
E Prassio sí v’è, ’n verde colore, 48
ed ha due qualitadi sanza fallo:
l’una ha tre vene bianche, pon l’autore,
l’altra sanguigne gocciole ’n su’ stallo;
èvin un’altra, che cria ’l freddore
d’acqua che ghiaccia, poi divien cristallo;
somiglia la bianchezza del su’ viso,
ch’accende amor nel cor, chi ’l guarda fiso,
che vien giocondo poi per lungo stallo.
Galatida si trova entro in un fiume, 49
che Nilo sí l’appella la scrittura;
né non risprende, né dá chiaro lume,
color di cener sembra sua figura;
le sue vertudi dicerovi come:
val quanto tutte l’altre in lor natura;
moltiplica lo latte, alleggia ’l parto;
di sua vertú laudar piú me ne parto:
chi tienla ’n bocca la mente peggiora.
Oritesse vi è, nera e ritonda, 50
e tal v’è verde a bianco macolato;
la ner’è di vertú molto gioconda,
sana morsure coll’olio rosato;
la verde ogne fortuna rea affonda,
un’altra n’è ch’a ferro è somigliato;
e non poría nessuna ’ngravidare,
e gravida faría ben disertare,
chi la portasse a lo collo appiccato.
Èvi una gemma c’ha nome Liparia, 51
e nasce in Finichia la regione;
le fiere vanno lá dove riparia,
e puolle prender l’uom quella stagione.
E Onigrosso v’è, ch’è lagrimaria,
e non si puo cognoscer la cagione.
Èvin un’altra ch’ha nom Isiriarco,
che fa sprendor come del ciel fa l’arco:
di color cristallino è sua fazzone.
Quel Siriarco a sei forme riluce, 52
ne la parete il sol mostra variato;
ross’è ’l color, d’Arabia si conduce.
Andromada sí v’è ’n forma quadrato,
color d’argento, non molto riluce,
come Diamante s’è forte provato;
e trovasi a la rena del mar Rosso;
umilia l’uom quand’è d’ira commosso,
e fallo star soave e temperato.
Ottalio v’è, ch’i’ aggio audito dire 53
che rallegr’e rischiara la veduta,
e fa chi gli è d’intorno indebilire:
lo lapidaro prova n’ha renduta.
Ed èvi Unio, ch’è candid’a vedere,
in Brettagni’ e ’n mar d’Indi’ è nascuta.
E Panteronno v’è di piú colori:
i neri e’ rossi e’ verdi son migliori;
per ornar vestimenta è car’ tenuta.
Somigia Panteronno a la pantera, 54
però ch’è di color’molto stranero.
Ed Abiscito v’è d’altra mainera,
ed ha vene rossette e color nero;
e chi la scalda al foco, è di matera,
che sette giorni lo calor v’è intero.
Calcofinòs v’è nero ed è valoce,
a chi la porta, dar soave boce:
li cantador’la terrian voluntero.
Melochitès v’è, gemma molto cara, 55
e contrasta li spiriti maligni;
come smiraldo è verde, bella e chiara:
in Arabia si truova in luoghi degni.
Gecolito non v’è con bella cara,
ma sua vertú fa miraboli segni:
come nocciol d’auliva è sua parenza;
ed al mal de la pietra dá guarenza,
chi la tritasse e ber no la disdegni.
Pirritesse, che ha ’l nome dal fuoco, 56
(ch’è tanto quanto fuoco pirre a dire),
è una gemma che cuoce non poco;
però si vuol con ratento tenere.
Diacodosse v’è posta in su’ loco:
costringe e fa i demon’ parlare e dire;
somiglia lo berillo quasi scorto,
perde le sue vertú se tocca uom morto;
è cara gemma a chi la sa tenere.
Dionisia v’è, nera, e par gottata 57
di gocciole di rossetto colore,
e, se la fosse con acqua bagnata,
l’ebrietadi scaccia e rende odore;
gemma di nobile vertude ornata,
istá ne la corona del valore.
Grisoletto v’è, gemma che s’accende
e tragge a color d’oro, sí risprende;
cosí fa in cor gentile il fin Amore.
Grisopazio sta ’n quella corona, 58
ed è gemma che nasce in Etiopia;
fra l’altre gemme di cui si ragiona,
è graziosa appo la donna mia;
la notte luce e lo giorno sta bruna,
palida di colore è tuttavia.
Sessanta son le gemme con vertude,
sí com’Evax re scrive e conchiude,
e tutte l’ha madonna in sua balía.
Savete voi ov’ella fa dimora 59
la donna mia? In parte d’oriente.
Muove da lei la clartá de l’aurora,
ch’allegra ’l giorno, tant’è splendiente;
e giammai Pulicreto intagliadura
non feci’ al mondo sí propriamente;
ché l’assestò e fece Amor divino,
che non v’è poco né troppo né meno
al saggio di qual è piú conoscente.
In una ricca e nobile fortezza, 60
istá la fior d’ogni bieltá sovrana,
in un palazzo ch’è di gran bellezza;
fu lavorato a la guis’indiana.
Lo mastro fu di maggior sottigliezza
che mai facesse la natura umana;
molto è bello, nobil e giocondo,
e fu storato a lo mezzo del mondo,
intorneato di ricca fiumana.
L’alto palazzo è di marmo listato, 61
di bella guisa e molto ben istante;
le porte son de l’ibano affinato,
che nol consuma fuoco, al mi’ sembiante.
Conterovi com’è’ fu deficato:
la porta sta diritt’al sol levante;
proáulo è ’l secondo, ch’uomo appella
verone, ed è d’un’overa assai bella,
ch’a la gran sala fu posto davante.
Lo terzo loco è lo salutatorio, 62
e quel luoch’è la grande camminata,
di gran larghezza, ov’è ’l gran parlatorio:
la grada è di cipresso inciamberlata,
e lo sagreto luoco è ’l concestorio;
ogni finestra ha ’ntagli e vetriata;
e son di profferito i colonnelli,
e d’alabasto molto ricchi e belli:
antica storia v’è dentro ’ntagliata.
La volta del palazzo è d’un’assisa, 63
ed è d’un serenissimo colore;
lavorata di molto bella guisa,
che non si poría dir lo gran valore.
Tricorio ’n loco quarto si divisa,
ov’arde l’aloè che rende audore.
In quinto loco è da verno la zambra,
ove fuoco si fa pur di fin’ambra:
carbonchioli vi rendonoo sprendore.
Lo sesto loco si è zeta ’stivale, 64
ch’è fatta quasi a guisa di giardino,
che per lo grande caldo molto vale:
ha le finestre a lo vento marino,
e l’ornamento piú tesoro vale,
che ciò che tenne in vita il Saladino.
Quivi sono li letti de l’avorio,
paliti pien’ di gemme in copertorio,
dipint’a rose e fiori ad oro fino.
Nel settimo si è la sagrestia, 65
lá dove stanno li arnesi e ’l tesoro:
corone e robe v’ha d’ogni balía,
cinture, gemme, anella e vasi d’oro.
Una cappella v’ha che si ufficía,
molte relique sante, altar e coro;
le lampane vi son di chiar cristallo,
e balsimo vi s’arde in sagro stallo.
Ed havi ricco e nobel dormentoro.
Èvi ’l loco, tricino che s’appella, 66
fra noi cenacol, molto spazioso;
le tavole son poste in colonnella,
son d’amatisto assai meraviglioso,
e di dionisia, cara pietra e bella,
che rende il loco molto odiferoso;
e la vertú di quella margarita,
del cui valor la tavol’è stanblita,
contra l’ebrietadi è grazioso.
Tovaglie e guardanappe v’ha bianchissime, 67
che cuopron quelle tavole sovente,
che non si vider mai cosí bellissime;
coltella v’ha con corna di serpente,
che son contr’al velen maraviglissime,
che sudan, se v’appare, immantenente;
vasella d’oro e non d’altro metallo,
orciuoli e mescirobe di cristallo:
paon, fagiani e grui mangia la gente.
L’ottavo loco è termasse chiamato, 68
secondo lo latin de li romani;
e per volgare sí è stufa appellato,
e in molti luochi i bagni suriani:
di pire e chelonite è lo smaltato,
gemme che rendon calor’ molto sani;
havi alabasti ed acque lavorate,
fummi di gomme odifere triate,
con nuov’odori divisati e strani.
Gienasium v’è, che è lo nono loco, 69
fra noi è scuola, ov’od’uom sapienza;
quiv’è lo studio assai grande e non poco,
ove s’apprende sovrana prudenza.
Celindrium cell’è, non presso al foco,
ch’è lo decimo grado ’n sua essenza;
quivi si son le veggie del zappino,
dov’ha vernaccia e greco e alzurro vino,
riviera e schiavi di grande valenza.
Ipodromio si è lo loco undecimo, 70
lá dove vegnon l’acque per condotti;
la cucina si sta in luoco duodecimo,
ov’arde cera a li mangiar’ far cotti;
e non si conta in piú gradi ch’i’ esimo.
Torniam al loco ove son li disdotti,
lá dove son l’intagli e le pinture,
èvi la rota che dá l’aventure,
che tai fa regi e tai pover’arlotti.
Nel mezzo de la volta è ’l Deo d’Amore, 71
che tiene ne la destra mano un dardo,
ed avvisa qualunque ha gentil core,
e fierelo, che mai non ha riguardo;
ed havi donne di grande valore,
che ’nnamorâr del suo piacente sguardo:
quiv’è chi per amor portò mai pena,
quiv’è Parigi co la bell’Alena,
e chi mai ’nnamorò, per tempo o tardo.
La bella Polissena v’è piagente, 72
quand’Accillesse la prese ad amare;
e la regina Didon v’è piangente,
quand’Eneasse si partío per mare:
che d’una spada si fedío nel ventre,
quando le vele li vide collare;
e la bell’Isaotta e ’l buon Tristano,
sí come li sorprese est’Amor vano,
che molti regni ha giá fatti disfare.
Èvi la bella Ginevra regina, 73
ed evv’apresso messer Lancialotto;
èvi Bersenda e Mideia e Lavina,
Pantassaleia regina, del tutto,
sí com’Amor le tenne in sua catena,
e come combattero, a motto a motto;
e le pulcelle che menâr con loro,6
che vennero ’n aiuto al buon Ettoro,
quando fu Troia e ’l paese distrutto.
Èv’Alessandro e Rosenna d’Amore, 774
messer Erecco ed Enidia davante;
ed èvi Tarsia e ’l prence Antinogore,
ed Appollonio, la lira sonante;
e Archistrate regina di valore,
cui sorprese esto Amore al gaio sembiante;
èvi Bersenda e ’l buon Diomedesse,
èvi Penelopé ed Ulizesse,
ed Eneasse e Lavina davante.
E non fallío chi fu lo ’ntagliadore 75
e la bella Analida e ’l buon Ivano;
èvi intagliato Fiore e Blanzifiore,
e la bell’Isaotta Blanzesmano,
si com’ella morío per fin amore,
cotanto amò Lancialotto sovrano;
èvi la nobile donna del Lago,
quella di Maloalto col cuor vago,
e Palamides cavalier pagano.
Èvi lo re Daví e Bersabee, 76
quella per cui fece uccidere Uria;
e ’l bel Narciso a la fontana v’èe,
com’egli innamorò di sua ombría;
e la foresta d’Armante, dov’èe
Merlino ’nchiuso per gran maestria;
evi la tomba per incantamento,
come medesmo insegnò lo spermento,
a quella che l’avea ’n sua segnoria.
Dall’altra parte ha ’ntagli di fin auro, 77
che sono a fin moisè lavorati:
quiv’è la storia di Giulio Cesáro,
co le milizie e’ cavalier’ pregiati,
sí come ’l mondo tutto soverchiaro,
ricevendo trebuti smisurati:
sonvi i porti e’ navili e le battaglie,
le sconfitte e l’asprezze e le schermaglie,
che fecero i Roman’ molto onorati.
Ed è in tra quelle nobili pinture 78
sí come Cesare acquistò i Belguesi,
e i Celte e i Potevin’, con lor nature:
tutte e tre genti s’appellan Franzesi,
Marn’e Saonne vi sono ’n figure,
ed Eule, che dividon li paesi;
quando Cesare andò per acquistarla,
iera consolo allor Marco Messalla
e Marco Piso, eletti di que’ mesi.
E tutto v’è come Marco Turnusso 79
disconfisse li Normandi in battaglia;
ed èvi il buon Marcusso Antoniusso,
con gente ch’uom non sa qual piú si vaglia;
e Cesar quand’uccise Artigiusso,
che non fu de’ musardi sanza faglia;
èvi intagliato il buon Drappel Brennone,
che tagliò a Cesar dell’elm’un brandello,
in un assalto di bella schermaglia.
E sonvi i nomi de li Sanatori, 80
che fuoro scritti in tavol’ d’auro fino;
e i consoli che fuoron poi signori,
dopo l’esilio del buon re Tarquino.
E poi si stabilîr tre dittadori,
che sovr’al consolato ebber domino;
sonvi trebuni, edile e quisitori,
pretor’, patrici, vescovi e censori,
e gli uficial’ ch’avean Roma ’n domino.
E ciriarche con centurioni 81
vi sono in quelle pinture formati;
e sonvi i nomi de’ decurioni,
ch’ieran signor, di diece nominati;
censor’facean ragion de’ patrimoni,
trebuni a la republica chiamati;
difendean Roma i due de’ dittatori,
e l’altr’andava in battaglia di fuori,
a racquistare i regni rubellati.
Èvi Cesare stando dittadore, 82
il decim’anno in Francia dimorato;
Pompeio fece una legge in tal tinore,
fu letta e pronunciata in pien mercato:
che non potess’uom per procuratore
null’uficio ricever dal Sanato.
Pompeo avea per moglie allora Giulia,
figlia di Cesar: recolsi ad ingiulia,
onde fu l’odio poi incominciato.
E sonvi le battaglie cittadine, 83
le quai s’incominciâr per quella legge;
le struzioni, le guerre e le rovine,
che ne nacquer, ch’ancor si conta e legge;
e sonvi le Sebille Tebertine,
che profetâr com’el mondo si regge;
èvi Lucan ch’este guerre vedeo,
e ciò che disse e come le scriveo,
come pastor vegghiante sovr’al gregge.
Èvi Cesar, ch’avea tutto occidente 84
sommis’a la romana suggezione;
quand’udí la novella immantenente,
sí diespensò ogni sua legione;8
La legge li era assai contradicente;
pensò d’essere in Roma a la stagione,
quand’ella dispensava i nuov’onori:
poi ch’ieran cassi i suoi procuratori,
non potean per lui far domandagione.
Èvi com’e’ da’ Sanator’ gravato 85
si tenne, e scrisse loro in cotal guisa;
e mandò due trebun’ ’nanz’ il Sanato,
chiese ’l trionfo sanz’altra contesa;
dipinto v’è come fue refusato,
e la guerra che fue per quello impresa:
giunse in Ravenna e non fece dimoro,
fece tagliar dall’una parte il muro,
sí che l’uscita no li fue contesa.
E di lá mosse ogni sua legione, 86
quando la notte fu scura venuta;
e non restò, sí venne al Rubicone,
un fiume ch’iera di grande parute;
èvi la legge, ch’a quella stagione
iera dal mondo dottata e temuta:
chi contra Roma armato lá passasse
nemico de’ Roman’ sí s’appellasse,
e nulla scusa n’iera ricevuta.
Cesare stando a la riva pensoso, 87
dipinto v’è come vid’apparire
una forma d’aspetto assai dottoso:
femina scapigliata iera ’n parere,
e diceva con gran pianto pietoso:
«Figliuoli, ove volete voi venire?
recate voi incontr’a me mie ’nsegne?
per pace metter sarebber piú degne:
pensate ben che ne puot’avenire».
Cesare, ch’iera pien di grande ’ngegno, 88
si propensò ched’imagine fosse,
che presentasse Roma in cotal segno,
ad alta voce sue parole mosse
e disse: «Roma, incontr’a te non vegno,
ma torno, ch’io son tuo piú ch’anche fosse;
e tu dovresti accogliermi pensando
c’ho sottomiso il mondo al tu’ comando:
sí mi dei onorare ounqu’io fosse».
Èvi com’e’ si volse a’ cavalieri, 89
e disse lor: «Signor’, se noi volemo,
noi potem ritornar per li sentieri;
se noi passiam, parrá che noi faremo».
Allor vid’apparire un businieri,
l’altra forma sparío che dett’avemo;
questi sonava forte una trombetta,
poi sonò un corno a grande fretta,
poi passò l’acqua e n’andò al lato stremo.
Quando Cesar lo vide, immantenente 90
fedí ’l cavallo ai fianchi de li sproni,
e passò Rubicon piú vistamente,
che s’egli avesse cuor per tre leoni;
e disse a’ suoi: «Passate arditamente».
Allor passâr tutte sue legioni;
poi disse: «Omai non voglio amor nè pace;
la guerra di Pompeio molto mi piace;
Fortuna fie con noi a le stagioni».
A Rimine giugnendo i cavalieri, 91
dipinto v’è, che fue di notte scura;
trombette e corni sonavan sí fieri,
che i Riminesi tremâr di paura;
Curio trebuno parlò primieri,
e disse: «Io son per te di Roma fuora;
nostra franchigia è ne la tua speranza:
cavalca, Cesar, sanza dimoranza,
i tuoi nemici non avranno dura».
Cesare, intalentato di battaglia, 92
parlamentò e disse ai suoi: «Lontani,
per me soffert’avete gran travaglia,
e conquistar molti paesi strani;
or siam noi altressí gran scomunaglia,
com’Anibaldo re fu co’ Romani;
signor’, prendiam vistamente la guerra:
la soverana vertú che non erra,
si tien con noi, e li dèi soverani».
Quando Cesare ebbe sí parlato, 93
il popul cominciò tutto a fremire,
per la pietá del buon romano stato,
ché i templi e le magion convien perire;
e i piú arditi avean cuor ammollato;
ma Cesar li sormonta in grand’ardire,
poi che l’amavan tutti oltre misura:
Leliusso si trasse avanti allora,
ch’al primo fronte solea tuttor gire.
Dipinto v’è ch’avea un dardo in mano 94
quel forte cavalier sí vigorito,
e tuttor dava il colpo primerano,
quando lo stormo fosse stabilito;
e disse in grande grido soverano:
«Cesare, grande duca, pro’ e ardito,
perchè dimore tu e tarde tanto?
dimostra il tu’ poder, chè n’hai cotanto,
sí che da’ Sanator non sie schernito.
Quanto l’anima fie ne le mie vene, 95
e mio braccio potrá dardo portare,
io non refuserò guerra nè pene;
per te farò crudel cose saggiare;
ciò che comanderai fie fatto bene,
com’i’ ho fatto in Sichia ed oltremare;
per te dispoglierò templi e magioni,
a Roma terrò logge e padiglioni,
io farò quanto vorra’ addomandare».
Quando Cesar li vide intalentati, 96
che li sembrava cosa destinata,
mandò per tutti i cavalier’ pregiati,
di su’ conquisto per ogni contrata:
Franceschi e Potevin’ vi fuor’ menati,
e d’Alamanni vi fu gran masnata,
fuorvi Fiamminghi e Lombardi e Toscani,
Limozi e Sasognesi e que’ dei Rani,
che san fondare e lanciar per usata.
Dipinti sonvi que’ ch’a Cesar fuoro, 97
que’ cavalier di Staine per natura;
e que’ di Belvigin venner con loro,
e gli Arvernazzi vi venner ancora,
Belcari e Guascognesi e di Bigoro.
Cesar promise soldo oltremisura;
la sua speranza fue sol ne’ Franzesi,
que’ ch’ieran di prodezza accorti e ’ntesi
perché ’n battaglia facean lunga dura.
Mosse la ’nsegna ad aguglia promente, 98
e i cavalieri entrâr per la pianura,
ardendo e dibruciando ville e gente,
templi e magion mettevano ad arsura.
Come in Roma si seppe, immantenente
i buon’ Romani uscîr fuor de le mura:
e per paura sí n’uscío Pompeo,
che giammai Roma piú non rivedeo,
Catone e Brutto ed altri a dismisura.
E tutto v’è come parlò Lucano 99
propiamente di lor partimento;
color che tutto ’l mondo non temiano,
a grandi assedi con molt’ardimento
sicuri ne le lor tende dormiano,
in Roma dimorare ebber pavento?
Sed e’ temero in sí forte fortezza,
dove credean giá mai trovar salvezza?
Fidârsi nel lontan dipartimento.
Sonvi dipinti i perigliosi segni, 100
che n’appariero in aire e sopra terra:
brandon’ di fuoco, grandi come legni,
volâr per l’aire a significar guerra;
una stella apparío, ch’appar per regni
che deon perire ed istrugger per ferra;
e quella stella si chiama cometta,
che raggi come crini ardenti getta:
saette spesse cadean sopra terra.
Un segno ch’è nel ciel, Carro s’appella, 101
mosse di Francia e cadde in Lombardia;
e del bolgan sí sonò gran novella:
gittava fiamme tai che ’l mond’ardea;
la Luna ne scurò e ’l Sol con ella,
e l’aira stava chiara e risplendea,
e tonava con folgori e tempesta;
e ’l fuoco d’una dea c’ha nome Vesta
si divise, che ’n su l’altare ardia.
I divini n’avean di ciò parlato 102
di lungo tempo, dimestichi e strani:
«Quando quel fuoco sará dimezzato,
finiranno le feste de’ Romani».
Il mar divenne rosso assai turbato,
e i Carriddi abbaiavan come cani;
l’imagini del tempio lagrimaro,
le bestie alpestre in Roma il dí veniaro,
le fiere v’apparian di luoghi strani.
Molte cose diverse oltre natura 103
v’avvenner, tutte di rea dimostranza:
la terra si crollò oltremisura,
femine parturir fiere ’n sembianza;
gemevan l’ossa de le sepoltura,
ed una forma di rea steficanza
volò stridendo intorno a la cittade,
sí che’ coltivator’ de le contrade
lasciar li campi e fuggir per dottanza.
E quella forma avea un pin ardente 104
in collo, che ’l gittò dentr’a le mura.
Come i Roman’ mandaro immantenente
per la Toscana, sanz’altra dimora,
per nogromanti e sorciste, che mente
ponessero a scampar di lor sciagura;
vennev’Airone il grande incantatore:
dipinto v’è com’ebbe il magno onore,
perché sapea ne’ tuon far congettura.
E ’mantenente che fu dismontato 105
col discepolo suo, quel buon sorciste,
di tre animali un fuoco ebb’ordinato:
le genti stavan tutte in pianto e triste;
Minerve la deessa del sagrato
trasser fuori, ma senza festa o viste;
con processione attorneâr la terra,
Airon mise la cenere sotterra,
poi fe’ scongiurazion non cred’oneste.
Uno scudo, ch’al tempo di Pompile 106
portavano i Romani a processione,
cadde del ciel, che no l’aveano a vile,
ch’aveano in esso gran divozione;
Airone tornò al tempio molt’umle,
e fecesi ammenare un gran torone,
e lavogli la fronte con buon vino,
e poi pres’un coltello il gran devino,
e miseglile su dal gargazzone.
Dipinto v’è come sparar lo fece, 107
e vide nel polmon due mastre vene:
e l’una per Pompeo puos’ ’n sua vece,
e l’altra, disse, a Cesar s’appertene;
ma quella di Pompeo morta si fece,
quella di Cesar forte battea bene;
allor parlò e cominciò a dire:
«Non ha mistier di dir ch’uom può vedere;
i’ veggio Roma venir in gran pene».
Ed èvi Figulusso il nogromante, 108
che mastro grande fu d’astorlogia:
tutte le dolci stelle a reo sembiante,
in ciel guardando, apparir le vedea;
altro che Marsi no gli era davante,
ch’assai battaglia e guerra impromettea;
ed Orione, ch’è stella da guerra,
avea raggi di color di ferra;
onde la gente molto sbigottia.
Ed una cosa v’è pinta e formata, 109
che sbigottí i Romani: una matrona,
ch’andava in aria scinta e scapigliata,
e chiamava Tessaglia e Macedonia;
gridando somigliava forsennata:
la gente la temea piú che le tuona;
contava i luoghi ove fuôr le battaglie,
infino in oriente, e ’l piú Tessaglie:
pianger facea la gente e ria e buona.
Le donne sonvi ch’andâr forsennate 110
per li templi di Roma dolorando,
con lor vil drappi, scinte e scapigliate,
di luogo in luogo i lor petti picchiando;
le genti stavan tutte isgomentate,
givan li strani populi chiamando:
«Vegna sopra di noi chi vuol venire,
ch’assai peggio c’è viver che morire»;
tuttor lor duca andavan bestemmiando.
Standosi li Romani in gran dottanza, 111
v’è tutto com’andò Brutto a Catone:
«Il mondo guarda tutto in tua leanza,
di qual tu prenderai d’esta questione;
Cesar vorrebbe ben tua nimistanza,
che fossi con Pompeo, per tal cagione
che, se vincesse, onor maggio li monta,
e, se perdesse, li fora men onta
esser vinto dai buoni, ed a ragione».
Ed èvi come disse: «I’ loderei, 112
poi che ciascun di questi duc’ha ’l torto,
che, qual che battagliasse, i’ mi starei
infin a tanto che l’un fosse morto;
e poi coll’altro guerra impiglierei,
che rea vittoria non pigliasse porto;
ché non guerreggian per pro comunale,
ma ciascun per tener maggior suo stale;
i’ vegno a te per prenderne conforto».
Ciò che parlò Catone e disse a Brutto, 113
tutto dipinto v’è come convene:
«Fortuna mena e traie ’l mondo tutto,
e i savi portan de’ matti le pene;
de le straniere genti fie ’l corrotto;
que’ comperranno la colpa e le mene;
il mondo ne fie tutto scomunato,
ed i’ vorrei il capo aver tagliato,
per la salvezza del comune bene.
Per lo mezzo saranno a la battaglia 114
barbari per voler Roma difendere,
ed io sedrò, per fuggir mia travaglia?
Che scusa avrò da chi vorrá riprendere?
Dirò io allor: la mia spada non taglia?
O ch’ambo le mie man’ non possa stendere?
Sí come ’l padre non si può partire
da la bieltá del figliuol ch’è ’n perire,
ma penasi di sua morte contendere,
i’ mi terrò da la parte Pompeo, 115
però ch’egli ha la ’nsegna del comune,
e credo de’ due duca e’ sia ’l men reo,
ed è eletto duca per ragione».
Cosí Catone a Brutto rispondeo;
tutta la notte stettero in tenzone;
e Brutto si ne tenne al su’ consiglio,
e parvegli pigliar dal peggio ’l meglio,
tutto ch’avesse in prima altra ’ntenzione.
Pompeio e gli altri Roman dipartiti 116
fecer a Capova loro agunanza;
Cesare e’ suoi, molto fieri e arditi,
n’andâr ver’ Roma con grande burbanza;
Ternusso e Silla e Vario eran fuggiti,
e Scipion fuggío per la dottanza,
ch’avea la torre di Lucera in guardia;
Cesare di fornirsi non si tarda,
ma ’l buon Dominzio mostrò sua possanza.
Dominzio v’è, che Radicofan tenne, 117
e fe’ tagliar lo ponte, ed attendero;
Cesar con molti ingegni ad esso venne,
e spessamente e forte il combattero;
Currio con Dominzio assai s’avvenne,
e presersi a le braccia e si teniero;
a spade e a dardi combatteron forte,
e molto si fedier quasi ch’a morte;
ma Cesare co’ suoi sopraveniero.
Quiv’è dipinta la defension bella, 118
che Dominzio facea quella stagione:
che dava a tutti battaglia novella;
a cui colpia la testa, a cui ’l bredone;
lanciava dardi, e stava a le coltella
a front’a fronte, com’ foss’un leone;
e i suoi compagni per grande viltade,
sol per aver di Cesar l’amistade,
preser Dominzio e diérlo in tradigione.
Fecer patto con lui di lor salvezza, 119
e diederli Dominzio a mano a mano,
e poi li dieder la nobil fortezza;
tutto dipinto v’e, no in color vano,
Cesare ch’a Dominzio offra certezza
e perdonanza, ma sua spera è ’n vano.
Cesar disse: «Io perdono il tu’ fallire».9
Dominzio disse: «Io voglio anzi morire,
ch’i’ viva in tua merzé presso o lontano».
Cesare ’l fece dislegare e disse: 120
«Tu non mi dei guerreggiar, per usanza;
io ti licenzio, ovunque t’abbelisse;
incontr’a me mett’ogni tua possanza».
Di ciò parlò Lucano e versi scrisse,
che di ben far li porgea perdonanza;
cotal perdon non amava Domincie,
poi li fu ’ncontro in terre ed in provincie,
per finir lo perdon fa dimostranza.
Pompeo pensando di darli soccorso, 121
che non sapeva ancor del tradimento,
per disentir de la sua gent’il corso,
dipinto v’è, come fe’ parlamento;
sua gente aveva ’l cuor tanto discorso,
che per parole nul mostrò ardimento;
partisi allora e a Brandizio gio;
quasi a forza ’l Sanato il vi seguio,
figliuoli e moglie fuôr su’ seguimento.
E Pretegiusso ed Aufraniusso 122
no li potean dar soccorso, di Spagna;
Pompeo mandò un suo figliuol, Sestusso,
fino ’n Celicie, per aver compagna:
«Tutti i populi muovi e re Turnusso,
muovi Tigrane, e Egitto non rimanga,
tutto ’l mondo richiedi a mia difesa;
e’ Sanator sian teco in questa ’mpresa,
ciascun vegna a Pirrusso alta montagna».
Pompeo credea vernare e prender posa, 123
aspettando ’l soccorso, v’è dipinto;
Cesare c’ha i pensier’ pur a gran cosa,
tien ver’ Brandizio e non com’uomo infinto;
e giunse con sua gente velenosa,
credendo intorno intorno averlo cinto;
e co’ monti credea riempier lo porto,
ma ’l mar sil traghiottía, ed e’ fu accorto,
e fece far nell’alpi il guernimento.
E faceva tagliar diversi legni, 124
e ’ncontanente li mettea nel porto,
e su metteavi bettifredi e ’ngegni;
Pompeio prese consiglio e fu sí accorto,
fece armar navi e, a piene vele e segni,
urtâr la chiusa per lo gran conforto;
e rupperla e spezzarla ed arser tutta,
ed uscir fuor del porto in poca d’otta
sí cheti che nessun si ne fu accorto.
Dipinti sonvi l’Iddii soverani, 125
che Pompeio chiama e non volser udire;
due sue navi arrenâr, fuoro a le mani.
Or quivi si vedea ’l bello schermire;
costadi e busti parean pesci strani,
vedendoli per mare a galla gire;
Vergenteusso d’una iera signore
ch’iera pro’, ed ossuto, e duratore,
e Marziusso dell’altr’iera sire.
Vergenteús aveva un governale 126
ad ambo man, quiv’è dipinto tutto;
fedío Bidulfo, un alamanno, tale
di sovra all’elmo, mai non fece un motto;
un conostabol trasi avante, il quale
ne la gamba ’l fedío un grande botto;
Vergenteusso il fedí su la fronte,
sí forte che ciancellò tutto ’l ponte;
poi ’l fe’ col piè nell’acqua ire ’n cimbotto.
Il ponte stava a la nave appoggïato, 127
e stavanvi su buoni assalitori;
i colpi che si davan d’ogni lato,
d’Orlando ciance usaro i cantadori;
il mare iera vermiglio e ’nsanguinato,
budella e braccia e gambe e busti e cuori
vi s’attuffavan da ciascuna parte;
Marziusso e Luciús insegnâr l’arte,
con danno de’ non savî schermitori.
Vergenteusso, che mai non si volse, 128
stava ’n sul ponte com’ foss’un petrone;
colpiendo, il governal li si frastorse,
allor cadde sul ponte a ginocchione;
un cavalier di Cesare si n’accorse,
gittogli un crocco per gran tradigione;
ma nol poteano ismover piú ch’un monte.
Allor trasser per forza e lui e ’l ponte;
sua gente si gittò in disperagione.
Dipinto v’è lo sforzo soperchiante, 129
che prese le duo navi in tal fortuna;
èvi Pompeo che va per mar pensante,
ch’altro che Roma non guata veruna;
andandosi cosí sonneferante,
e Giulia li apparío con veste bruna,
e diceali sè lassa: «Io son cacciata
di luogo in luogo, io veggio apparecchiata
la fiamma di ninferno a cui s’aguna.
La guerra è tra ’l mi’ padre e ’l mi’ segnore; 130
(avviso gl’iera che dicesse quella);
fortuna tenne teco a grand’onore,
mentr’io fui teco: or m’oblie per Cornilla;
ma i’ non ti lascerò posare un’ore».
La nave andava inver’ Grecia con ella;
e i suoi compagni Pompeo disvegliaro,
la visione in favola tornaro,
avvegna per Pompeo fu falsa e fella.
Cesare mandò Currio per vivanda 131
in Cicilia con armati leoni;
e partío di Brandizio, e fe’ comanda
ai suoi ch’a Roma andâr molto benigni;
e tutto v’è dipinto, come manda
la gente sua con pacefichi segni;
quando fuor presso a Roma, e que’ le disse:
«Roma, chi crede ch’io ver’ te fallisse?
Dove son iti i tuoi duca non degni?».
Eran rimasi in Roma Sanatori; 132
apparecchiarsi di non contradirlo;
e due trebun v’avea, che guardatori
eran per lo tesoro a guarentirlo:
parlò Metello e disse: «Bei segnori,
io sol mi metterò in difender quello».
E disse a Cesar: «Neente ’l puo’ fare,
se lo comun tesor credi spogliare:
anzi m’ucciderai, che posse averlo».
E Cesare parlò molto ’nfiammato, 133
altamente chiamò Metello, e disse:
«Dunqua se’ solo a la difension dato?
Molto faresti ched’io t’offendesse!
di sí gran lode non sarai onorato:
te per salvezza di Roma uccidesse;
bene affrante sarían tutte le leggi,
ché perirebber, se tu sol non reggi
il comune tesoro», e piú li disse.
Aprir le porte e ’l fisco dispogliaro 134
e tutto l’oro partir tra la gente;
le porte del metallo assai sonaro,
a difension non fue nul sí valente:
li antichi con gran suon quell’ordinaro,
perché non fosse frodato neente,
che quel romor s’udía per le contrade:
quando s’apría sentíal sí la cittade,
frodar non si poteva sottilmente.
Quiv’erano amassati i gran trebuti, 135
che dava ’l mondo tutto a Roma allora.
Sestusso èvi, e i paesi sommovuti,
sí come mosser sanza far dimora:
que’ da Tebe e d’Attene fuôr venuti,
d’Arcadde ed i Schiavoni e’ Greci ancora,
di Ninive, di Cipri e di Colché,
di Gerico, di Suri e di Tiopé,
di Troia e di Damasco fuôrvi allora.
Sonvi ben que’ di Trache, ov’è Centorso, 136
che fuôr que’ che sellaro pria cavallo;
que’ di Finice vennervi al soccorso,
che ’l saver de la lettera trovallo;
di Suri e d’Antiocce fuôrvi a scorso,
e ’l gran navilio v’è ch’allor menarlo:
a Troia la grande non n’ebbe neente
a la comparigion di quella gente;
a Monte Pirro fuíor sanza ’ntervallo.
Di tutto ’l mondo sommosse Sextusso 137
la gente, ove Pompeio conosciut’era:
tutti venisser a Monte Pirrusso,
colá ove Pompeio con sua gente era;
neente fue ciò ch’assembiò Cirrusso,
il re di Persia, in Etiopè ov’era,
che non poteo annoverar sua gente:
Sextusso ismosse infino in oriente,
sí che di gente non rivenne scusso.
Di tutti fu Pompeio duca e signore, 138
che v’ebbe schiere di re coronati;
e Cesar si partío di Roma fuore,
poi ch’ebbe i gran’ tesori dispogliati.
Dipinto v’è, come a Marsiglia allore
que’ mandâr vecchi a lui i piú assennati;
e portâr rami d’ulivo in lor mano,
ch’offender al Sanato e’ non voleáno;
a ciascun duca volean far onore.
E come disser parole pietose 139
per la salvezza del comune bene,
e Cesar con parole assai crucciose
parlò a’ suoi, sí che lo ’nteser bene:
«Fortuna par che ci pruovi a gran’cose;
sanza battaglia star m’è grandi pene;10
come ’l fuoco non può star sanza legna,
cosí mi sembra e par ch’a me addivegna:
di battaglia mia groria nasce e vene».
Isfidò Cesar la nobel cittade: 140
chiuser le porte, entrâr su per le mura;
una foresta aveavi in veritade,
che molto saggi n’avevan paura;
grande spavento e grande orribiltade
n’udía la gente da dottare allora:
imagini v’avea con nuovi segni,
idoli de’ pagan pareano i legni,
la gente non v’ardía di far dimora.
Cesare ’ncominciò ’nprim’a tagliare, 141
poi disse a’ suoi: «Tagliate arditamente!».
I Marsiliesi il venner a sguardare,
credendo che morisse immantenente;
poi lasciò Brutto per lor guerreggiare,
ei n’andò verso Spagna, egli e sua gente;
e giunse ed assediò ’l buon Preteiusso,
de la parte Pompeio e Aufraniusso;
se sottomise loro e la lor gente.
Brutto rimase e con molta franchezza, 142
combatteo i Marsiliesi e vinse ancora;
per terra non poteo far lor gravezza,
per mar diè lor battaglia e grieve e dura;
vinse la terra con molta prodezza,
fece abbattere alquante de le mura;
il pianto e’ guai iera per la cittade,
Brutto prese da lor la fedaltade,
i morti fuoro assai oltre misura.
Cesare intanto divenne crucciato, 143
e venne in cruccio co’ suoi cavalieri;
con grand’ardir parlò, intalentato
di volerli lasciar ben volentieri:
«Fortuna mena ’l prode a grande stato;
l’arme mettete giú, vil’ poltronieri:
vostr’arme troveranno conduttore;
non siete degni d’aver grand’onore».
Invilîr tutti qual’eran piú fieri.
Èvi dipinto come, rappagati, 144
ne mandò l’oste ver’ Brandizio, e loro;
e n’andò ’n Roma, ed ebbe raunati
li ufici tutti, e si propuose loro;
co’ re i Roman’ non son ben avanzati,
un nome solo addomandò da loro;
e disse: «Io esser vo’ comandatore»
che tant’è a dire quanto imperadore.
I Roman lo stanziâr sanza dimoro.
Cesare, fatto imperador novello, 145
tornò verso Brandizio immantenente;
il vento fu e ’l tempo assai con ello,
e ’l mar passivo per gir tostamente;
giro a Monte Pirrusso, ov’era quello
Pompeo che disamava mortalmente,11
Antonio tardò piú la sua venuta,
onde Cesar si piagne e turba e muta,
e turbossi ver’ c lui villanamente.
Una notte n’andò sol, sanza lume, 146
a la riva del mare a un nocchiere;
tutto dipinto v’è Cesare, come
crollò il frascato, e ’l nocchier dormía bene;
in su’ giunchi giacea, ed avea nome
Amicals, assai pover d’ogni bene;
Cesar li disse: «Tosto entriamo in mare;
menami vêr Brandizio; i’ vogli’andare
per quell’Antonio che mi tiene ’n pene».
Il nocchier disse a Cesare: «Signore, 147
i’ vidi il sole ch’avea debol’ raggi,
la luna inviluppata di buiore,
e ’l tempo non dimostra buoni oraggi;
mettersi in mar sarebbe gran follore,
il mar batte a le rocce ed a’ rivaggi».
Cesar li disse: «Sanz’altra dimora,
abbandónati a mia fortuna un’ora;
l’Iddii non ci potrebber trar dannagggi»
Gittrsâi in mare e vocâr vistamente; 148
un vento si levò novello e forte,
che ’l legno percoteo sí aspramente,
Che Cesar presso si vide a la morte;
L’Iddii chiamò assai pietosamente,
con sue parole assai savie ed accorte;
la vela ruppe per troppa pienezza,
da nulla parte vedean lor salvezza,
lor pene raddoppiar vedeano scorte.
Stando ’n cotal fortuna i navicanti, 149
un vento si levò per lor salvezza;
trovarsi a riva poco adimoranti,
la gente non sapea di lui certezza;
co le fiaccole ’n man givan erranti,
chiamando Cesar con gran dubitezza;
tanto cercâr che l’ebber ritrovato.
Antonio l’altro giorno fue tornato.
Murâr lo poggio intorno e la fortezza.
Ed èvi Sciva a la fratta del muro, 150
come ritenne i nemici per forza;
sonvi gli assalti co l’asprezze loro,
e ’l fuoco acceso che mai non si amorza;
le battaglie e le giostre a color d’oro,
di fine intaglio tal che non si scorza;
èvi Pompeio come mandò Cornilla
nell’isola Lesbuno, e cui con ella;
com’ella si partio, piagnendo, a forza.
Èvi Femonoè, quella sibilla 151
che rdicea li risponsi d’Appollo;
che de le diece sibille fu quella,
e Vergilio ’l su’ dir versificollo;
di Cristo disse la prima novella,
e del die del giudicio, e profetollo.
Appiusso la mandò tra le domonia,
dissegli che morrebbe in Macedonia,
de la battaglia, ciò che domandollo.
Èvi Ericonne ch’iera incantatrice, 152
che giacea ne’ sepolcri scapigliata;
come Sestusso gran prieghi le fece;
per la guerra che ’l padre avea ’mpigliata;
quella parea de’ domonî una vece,
molto si rallegrò de l’ambasciata;
e tolse un corpo morto di presente,
e chiamò que’ d’abisso strettamente;
tardandol fe’ di lor gran minacciata.
E cinsesi uno scoglio di serpente, 153
e fece fumi e sue congiurazioni;
e l’anima rivenne immantenente
nel corpo, per la tema de’ domoni;
disse Ericonne: «Parla arditamente,
de la battaglia di’ le condizioni».
Quell’anima parlò molt’affannata,
disse: «In inferno ha grande apparecchiata,
e son divise tutte legioni.
Tutto lo Inferno è ’n guerra scomunato; 154
e son divisi tutti li domonî;
catun de’ duca ha parte dal su’ lato,
e qual si tien co’ rei e chi co’ buoni;
ed è giá ’l grande fuoco apparecchiato,
per que’ che vi morranno», e disse i nomi.
«Né Cesar né Pompeo non vi morranno,
in altre parti i lor dí finiranno;
licenzami e dov’era mi riponi».
Com’ella il licenziò v’è tutto quanto, 155
e fece un fuoco d’erbe e ’ncantamenti;
l’anima ritornò in inferno al pianto,
ad abitar tra le pene e’ tormenti;
Sestusso chiese commiato in quel tanto
da poi che seppe i suoi proponimenti;
tornossi a’ cavalier’ tutto smarrito,
tant’orribili cose ave’ udito,
che molto raddoppiâr suo’ pensamenti.
Cesare, stando a l’assedio a Durazzo, 156
forte castello su monte Pirrusso,
sedea sovr’un destrier di grande razzo,
fedía tra’ cavalier’ di Torquatusso;
ma Torquatusso non stava ’n sollazzo,
ché di prodezza giá non era scusso;
cors’a fedir Ridolfo di Bigore;
Cesare vide ’l colpo e trass’allore
con lui Antonio e ’l buon Bassiliusso.
Pompeo dipinto co’ suoi cavalieri 157
èvi, come vi trasse in grande fiotta;
e disse ai suoi: «Or non siate lanieri;
entrate in mezzo tra loro e la rotta»
ch’iera nel muro. Ed un gran polverieri
v’ebbe, onde Cesar ebbe grande dotta:
i suoi, che non vedeano ove fuggire,
cadeano in man de’ nemici a morire,
e fuorne morti assai in piccol’ d’otta.
Ed èvi come ’l buono Scipione 158
chiamò culverto e fedío Leliusso;
lui e ’l cavallo abbatteo in un montone,
poi volses’a fedire Mauriliusso;
e fessel presso che ’nfin al mentone;
il grido er’intonante, e i guai, e ’l busso;
trenta giovani avea in sua compagnia,
infin a Cesar pinse ed uccidea;
la ’nsegna rilevò Antoniusso.
E fu in quell’assalto il buon Catone, 159
che s’affrntò con Ccsare promente;
per lo fianco li mise un gran troncone,
Bassile li ’l ne trasse immantenente;
allora Cesar comandò ad Antone
che facesse ritrar tutta sua gente;
allor fu grande e spessa la baratta;
Pompeo fece sonar la sua ritratta,
per pietá de’ nemici propiamente.
E disse a’ suoi: «Lasciâli andar, signori, 160
che son di Roma nostri cittadini».
E poi si consigliò co’ Sanatori,
e pensâr di tener altri cammini;
tornar voleano a Roma i gran pretori,
Pompeo non volle, onde fur poi mischini;
volse le ’nsegne con tutta la gente,
e tenne e cavalcò verso oriente,
e lasciò i luoghi sicuri e vicini.
Pompeo n’andò in Grecia ov’è Tessaglie, 161
fra cinque monti, Ossa ed Alimpiusso;
Otrix è ’l terzo, ed è alto san’ faglie;
vers’occidente v’è ’l quarto, Pindusso;
a la pianura è Tebes e Farsaglie,
e fune il primo navicante Argusso;
e Pelliòn v’è la quinta montagna;
quiv’ha pianure e boschi, assai campagna;
Pompeo vi fu e ’l suo figliuol Sestusso.
Quindi son nati molti buon’ sorciste; 162
e quivi si sellò prima cavallo;
e fonditor’ d’argento ed aguriste,
e chi ’n pria munetò o fondeo metallo;
e ’l gran Fitonno, che parlar n’udiste,
serpente, e Appollo l’uccise san’ fallo;
e chi prima fe’ soldo e appellò livra.
Tutta la gente fu pront’e dilivra,
e quivi s’affrontâr sanza ’ntervallo.
I re, i conti, i cavalier’ dipinti 163
vi son, come s’andâro acompagnando;
e piú che i vincitor’ diceano i vinti:
«Perchè tarde, Pompeo? che va’ pensando?
Credi che sian l’Iddei per noi infinti?
Fortuna fie con noi; non ir dottando.»
Quell’era un tradimento di fortuna,
che tali li disser, non fuôr vivi a nona;
ciascuna andava sua morte avacciando.
Pompeo feci’ una schiera di sua gente, 164
quasi a guisa d’un ferro di molino;
Dominzio ha ’l capo destro imprimamente;
il sinistro diè a Lentulo in dimino.
I re, i baroni, che v’ieran d’oriente,
fuôr nel miluogo, ed ogn’altro latino,
de’ Libe, ed Africani, e que’ di Spagna,
Ciciliani, Organi in lor compagna,
e Numidieni infin oltre al confino.
Quiv’ammonio Pompeo sua nobel gente, 165
e confortogli di buon’arditezza;
discendendo del poggio era lucente
la gente sua di mirabol chiarezza;
chè ’l sol fedia sovr’agli elmi lucente,
li scudi rilucean di gran bellezza;
Cesar li vide del poggio discendere,
parlò a’ suoi: «Omai non è da attendere,
fortuna mena a noi nostr’allegrezza».
Parlamentando disse a’ suoi: «Signori, 166
lasciate andar que’ Barbarini e Sardi,
e date pur a’ buon combattitori;
negli altri non spuntate i vostri dardi.
Voi siete stati miei conquistatori,
e non s’acquista onor per li musardi;
egli hanno ’nteso in gran dilicatezze,
non potranno durare in nostre asprezze,
che siam moventi piú che leopardi».
Deh! quanto fu fortuna sovrastante 167
ad affrontar sl perigliosa guerra!
che ’l cielo e l’aire ne mostrâr sembiante,
e duri segni n’appariro ’n terra;
l’un mirava l’altro in quello ’stante,
il figlio il padre, avendo in man le ferra;
né l’un né l’altro incominciar volieno;
incominciò Crastino cesarieno,
e uccise Eurache, se ’l pintor non erra.
E come il maladisse il buon Lucano, 168
colui che ’ncominciò, v’è tutto quanto.
Dopo quel colpo, la vallea e ’l piano
e ’l mondo tutto parea grid’e pianto;
l’aire e la terra e il mondo a mano a mano
parea fondesse in quell’or d’ogni canto;
i dardi spessi piú che nulla pioggia
l’aire coprîr, saiette d’ogni foggia;
da ogne parte i cavalier’ moriáno.
Non tenner ordine i cesarieni, 169
misersi a l’asta ’n feltra in tra’ nemici;
quegli uccidean Barbari e Numidieni,
si come fosser di Roma patrici:
abbandonavan tutti selle e freni;
deh! chi mai vide sí crudei giudici?
que’ furo snelli nel prim’assalire,
i buon roman’ si miser al soffrire,
ch’aveano ancora ’l cuor quasi d’amici.
Quegli eran sí moventi e visti e pronti, 170
ch’al prim’assalto i nemici fuôr franti;
mischiarsi infin a que’ principi e conti,
vedei que’ dardi spessi usar volanti;
non si vedea de le cime de’ monti,
sí le boccole e gli elmi ieran fummanti;
ciotti di piombo e pietre a manganelli,
aste e tronconi e saiette e quadrelli
mischiavano tra l’oste strid’e pianti.
Ai buon’ Roman’ rimase tutto ’l fascio; 171
Cesare abandonò tutt’altra gente;
poi, di saiette voto ogni turcascio,
le spade vi s’usaron mortalmente;
quando Cesare diede agli altri il lascio,
la quarta legion mosse potente;
e di combatter lasciossi la forma,
che’ mastri avean lor data, e guisa e norma;
mischiârsi co’ nemici orribelmente.
Quiv’è Tessaglie, ch’è satolla e piena 172
del sangue degli Ermini e Surieni;
Cesare e i suoi li uccidiano in gran pena,
molto sangue spargea de’ cittadini;
fortuna s’iera a Pompeo volta ’n pena,
tra ’l sangue e le budelle de’ meschini;
quivi moriano amici ed istranieri,
votando selle e squartando destrieri,
di neuna pietá non v’avea mena.
La giovanezza di Roma e i pretori, 173
a guardia di Dominzio e Scipione,
a la schiera n’andâr dei Sanatori;
Pompeo quiv’era e con lui ’l buon Catone,
quiv’eran gli usi e buon’ combattitori,
che del fuggir mai non facean ragione;
la nobile e la gran cittadinanza,
ardita e sanza nulla dubitanza,
dipinta v’è, ch’avean cuor di leone.
Qui v’è dipinta la bella prodezza, 174
che fece Lentulusso, e in che guisa;
quando ’ncontrò Bassil, di grand’asprezza
come spronò ver’ lui a la distesa;
que’ dava a Cesar molto gran baldezza,
la spada i mise al cuor sanza difesa;
e Cesare giurò di vendicarlo,
e sovr’al corpo ristette, a sguardarlo,
e uccise il re de la gente Erminesa.
Agatesse avea nome il nobel sire, 175
abbattél morto sanza nulla lena;
ed Angarino il vide sí morire,
ch’iera su’ nievo: gran duol ne dimena.
Videsi innanzi un nobel cavaliere:
que’ comperò il dolore in mortal pena;
l’assalto fu crudele ed aspro e forte,
Anton fedío Garin quasi ch’a morte;
quiv’era ’l bel riscuotere e schermire.
Dominzio volse verso Antonio allora, 176
cesarieni il caval gli ebber morto;
que’ facea a la spada sí gran dura,
chi l’attendeva era giunt’a mal porto;
e franse e ruppe ogni su’ armadura,
e pres’un elmo con un braccio morto,
ed abbattea cavalieri e cavagli;
quegli uccideva sergent’e vassagli,
ed era solo sanz’altro conforto.
Cesare ’l vide in sul partire, allora, 177
che l’anima facea da lui, e disse:
«Piú non farai co’ cavalier dimora»
queste parole v’è Lucan che scrisse;
«Pompeo non amerai omai un’ora»
Dominzio aperse gli occhi e non disdisse:
«Io amo me’ morire in mia franchezza,
che vivere o regnar per tua salvezza».
E piú diss’anzi che si dipartisse.
Tre soldanieri Antonio hann’abbattuto, 178
assai penârsi di metterl’a morte;
Cesare con Pompeio s’era avenuto,
urtârsi co’ distrier ciascun sí forte,
ambi morîr, ma l’un sopravivuto,
onde Cesar ne prese gran conforto;
poi furono a la spada i due baroni,
tagliandosi li scudi a gran’ brandoni,
finchè ’l soccorso venne, ed èvi scorto.
Or quiv’è ben dipinto il prod’assalto, 179
che fe’ Bassile il duca e Lentulusso;
che s’andaro a fedir di gran trasalto,
morto saría qual fosse d’arme scusso;
l’asbergo poco valse in quel colp’alto,
sí ’l ferío con gross’asta Bassilusso;
que’ fedí lui col brando per grand’onta,
Sí che fuor del costado uscío la punta,
il brando si bagnò nel grande flusso.
E come s’affrontaro i cavalieri, 180
per vendicar Dominzio, assai promente;
Sextusso ed Igneusso isnelli e fieri,
ciascun parea un leon propiamente
a battere e versar per li sentieri,
iscudi e braccia tagliando sovente;
e Tulio e Scipione e Massilusso,
tutti piagneano il buon Dominziusso,
Catone e qualunqu’era il piú valente.
Dall’altra parte èv’Antonio, che taglia 181
ciò che dinanzi a la spada si truova;
druscendo asberghi d’ogni forte maglia,
quel franco battaglier da vincer pruova
quattro re coronati a gran travaglia
uccise, innanzi da lor si rimuova:
e l’un fu Camolusso, e ’l re di Molse,
Tarsino e Gambarino; e poi si volse:
il sangue vi correa com’una piova.
Or quivi son dipinte le contezze 182
di quegli usati e buon’ combattitori;
di quegli aspri Roman’ le valentezze,
ch’ierano ’n grand’ufici e Sanatori;
e que’ ch’ierano usati a grand’asprezze,
ch’ierano stati con Cesar di fuori.
Undici re gentil di gran lignaggio
v’abbatteo Cesare per suo baronaggio,
che di gran regni eran tutti segnori.
Tudaleo vince e ’l buon re Pharamino, 183
e Goldienne e ’l re Baradienne,
Rocar e re Nenien di gran dimino,
e Dogorante, che lá a morir venne;
e ’l buon re Grazian vi fu, meschino,
che da la parte Pompeio prese e tenne;
e tutti fuôr tra d’Asia e mezzogiorno,
che ’n lor reami mai non fen ritorno;
per la salvezza di Roma ebber pene.
In quello stormo soldati e gentili, 184
mischiatamente, sanz’altro paraggio;
la forza e l’arme sovrastava a’ vili,
neun onor valea alto lignaggio.
Brutto, che uccise Cesar co li stili,
sí cambiò arme per prender vantaggio;
Cesare andò a fedir quasi ch’a morte
ma li Dii nol lasciar compier le sorte,
che Brutto l’avría morto in gran barnaggio.
Èvi Pompeio che guarda e vede i suoi 185
sí metter a la morte e malmenare;
disse: «Oi sovrana vertú, tu che puoi,
uccidi me per quest’altri campare;
uccidi me e’ miei figliuoli, e poi
iscampa ’l mondo tutto, che ’l puo’ fare».
Poi intorniò sue insegne, e fece vista
partirsi, e andonne ver’ sua moglier trista,
in Metellina un’isola di mare.
Per tre ragion v’è scritto che partío: 186
l’una che non perisser tutti quanti;
l’altra per non mostrar su’ fine rio
a Cesar, che gli stava ognor davanti;
e per pietá che di Cornilla avío,
piagnea Fortuna con sospiri e pianti;
molti Roman’ rimaser combattendo
per dimostrar lor franchigia, sappiendo
che Pompeo s’iera partito davanti.
E dopo lui rimase il buon Catone, 187
che fece oltramiraboli prodezze;
per mostrar ben lo ver de la quistione,
che sol si combattea per dirittezze.
La notte fece la divisione,
lasciaro il campo pien di gran’ ricchezze;
entrâr ne le lor tende gli avversari,
la notte fuoro in sí gran’ ’maginari,
sempre menar le braccia in lor fierezze.
Cesar v’è, ch’arder li corpi non volle, 188
né lasciò dare a’ morti sepoltura;
il ciel li pur coperse ov’e’ non volle,
onde Lucan ne disse versi allora;
portávanne i brandon’ per monti e colle
i corbi e le cornacchie e’ lupi ancora;
la terra e ’l mare e la schium’era rossa.
i monti si n’empier di vembri e d’ossa,
le fiere si pascean d’ogni bruttura.
Cornilla v’è dipinta propiamente, 189
come piagnea la notte il su’ signore;
credealo avere in sue braccia sovente,
poi si svegliava e moría di dolore;
come ’n proda del letto era piangente,
lasciando l’altro, per segno d’amore;
il dí salia su la rocca a vedere
se ’nsegne o legni vedesse venire,
e ’l cuor le battea forte de timore.
Pompeio giugnendo a la riva, giú corse, 190
e la gente le fece compagnia;
quand’ella ’l vide al certo e fuor del forse,
in tra le braccia il prese e tramortía;
con pietose parole assai l’accolse,
sí che la gente piagnea che l’udía;
tutti con lei maladicean Fortuna.
Que’, ch’a nulla speranza s’abbandona,
si mise in mar per trovar altra via.
Tutto dipinto v’è, come dicea: 191
«Menatem’ove Fortuna vi mena,
ma verso Roma non prendete via,
né ’nver’Tessaglia ov’è tutta mia pena».
Sestusso v’iera in quella compagnia,
e Lentulusso, che gran duol dimena;
ed eravi Metello e Scipione,
e Diotarsi re e Cicerone,
ch’ieran fuggiti ed essuti a la mena.
Èvi dipinto Pompeio, che dicea 192
ch’ai Turchi per soccorso s’inviasse;
e Lentulusso che gli rispondea:
«E’ non intenderebber chi parlasse».
Se i messaggi piagnesser, li parea
ch’a loro e a tutto ’l mondo onta tornasse:
«A che gente ’l vo’ tu mandar dicendo?
ai Turchi tristi, che vincon fuggendo?
fallo faria chi te ne consigliasse».
Partío di Salemmine allor Pompeo, 193
ed andò verso quel monte di Casso,
in Libe ov’era quel re Tolommeio;
tutto dipinto v’è a passo a passo;
e ’l mal consiglio disleale e reio,
che fece dir ch’iera dubbioso ’l passo,
e mandogli una barca molto gente,
dicendo che venisse allegramente;
dentro v’intrò quel meschin, tristo e lasso.
Ed èv’Acchilla in quella dipintura, 194
un servo che ’l fedio prima nel ventre
e Seziusso che sanza dimora
la testa li tagliò immantenente;
Cornilla e’ suoi levâr lo pianto allora,
e misersi a la fuga incontanente;
i traditor’ gittâr lo busto in mare;
Codrusso poi si ne mise a cercare,
per darli sepoltura propiamente.
E raccolse pezzuoi di navi rotte, 195
ed arse ’l corpo e la cener adusse;
Caton ch’avea assai navi condotte,
raccolti tutti, chi scampato fosse,
partísi di Corcis in poche d’otte,
al castel di Foconte li condusse.
Que’ di Foconte nol lasciâr passare;
quivi fu la battaglia in terr’e mare,
de le pericolose ch’anche fosse.
Vinser la terra, poi trovâr Cornilla 196
ne la sentina de la nave in pianto;
da lor espiâr di Pompeo la novella,
tutti disceser de le navi in tanto;
e tolser care gioie, perle ed anella,
e miserle nei fuochi ed oro alquanto;
in grieve pianto fecerne anovale,
come s’usava a la guisa reale;
la polvere serbâr, come d’un santo.
Poi arringò Caton di savia guisa; 197
disse: «Di Roma è morto un cittadino».
Tutto dipinto v’è di bella assisa,
l’alte parole che disse ’l divino,
e come fue ’n tra lor grande contesa,
per certi giovan’ cui il cuor venne meno;
Caton li confortò oltre misura,
sí che tornaro indietro tutti allora,
ed ov’e’ volle fe’ girar lor freno.
In Libia, nel porto di Lettesse, 198
qui arrivò Catone e suo navilio;
tutto dipinto v’è a moisesse
il tempio e Giove e ’l bel fiume del Nilo,
le meraviglie che vi son sí spesse,
e ’l bel navilio e l’arme e ’l loro stilo;
li ’strolagi quiv’eran d’ogni parte,
ad isquadrar li tempi e prender l’arte,
e se ’n quell’anno fosse o caro o vilo.
A spada ’gnuda entrò Catone a Giove, 199
a quello deo ch’edeficò Bacusso;
molti volean saper di cose nuove,
molto pregonne Caton Labbienusso;
e di lor fine come ’l corso muove.
Vider lo luogo ove morí Aviusso,
e le diversitá de’ gran serpenti;
come Caton biasmò lor pensamenti;
e ’l serpente ch’uccise Publiusso.
Tesmondite e Amorais assai vi sono, 200
Otrix e Parisals e Scitalisse;
e la fontana ond’attinse Catono:
legò l’elmo a la lancia e bevve e disse:
«Acqua non tien giammai velen alcuno»
secondo che Salusto intese e scrisse.
Allor diè lor di begli ammunimenti:
«Bevete sanz’offendere a’ serpenti,
ché l’acqu’è dolce, chi mistier n’avesse».
E sonvi i Rossillesse, che faceano, 201
guidando loro in forti incantamenti,
sí che’ serpenti avanti lor fuggiano;
de’ trafitti feceano altr’argomenti:
co le labbra ’l velen fuor ne traeano;
e cosí li guidavan tra’ serpenti;
le lor mogli provavano e’ lor figli:
tra serpenti giacean sicur com’egli,
e no li tenían certi unqua altromenti.
Cesare v’è che non può riposare, 202
che seguita Pompeo e li scampati;
andò ’n Costantinopole per mare,
vide Troia la vecchia, e i nominati
Ettoro, Accille, ove ’l sepolcro appare,
lá dove i Greci fuôr tutt’attendati;
quivi li fu allora presentata
la testa di Pompeo e l’ambasciata;
re Tolommeo li mandò amaestrati.
Ed èvi come pianse infintamente, 203
sol per coprirne la tropp’allegrezza;
e non pianse a Tessaglie, ov’aspramente
vide morir cotanta gentilezza;
piagnendo e’, la masnada era ridente:
chi vide a duca mai far tal falsezza?
e poi n’andò al castel di Paluse,
ov’eran le due serocchie rinchiuse:
Cleopatra regina di bellezza.
Come la trasse di pregion, v’è tutto, 204
le sue bellezze e ’l bello adornamento;
come assalito fue v’è pinto a motto,
nel gran palazzo, con molt’armamento.
Quel palazz’era inciamberlato e sdotto
con molte gemme di gran valimento;
lo smalto iera d’onix e calcedonî,
imagini v’avea d’assai ragioni,
d’argento e d’auro di gran lucimento.
Cleopatra sedea verso lo sguardo 205
di Cesare, ch’a lei stava davanti;
ben parea donna di grande riguardo,
a Cesare fedía ’l cuor co’ sembianti;
d’amor sovente li lanciava un dardo;
i cavei sori crespi e ’nanellanti
di pietre preziose del Mar Rosso;
con rilevate rose un vestir rosso,
con cerchio d’oro a la gola davanti.
Il qual multiplicava il gran bellore, 206
e la bianchezza di sua bella gola;
Cesare che n’avea ferito ’l cuore,
non poteva parlar né dir parola.
Cint’era un cuoio di serpente in quell’ore,
di gran bieltá sovr’ogn’altr’iera sola:
la mantadura e ’l fermaglio davanti,
con que’ cari rubin’ maraviglianti,
ch’una cittá valea pur l’una sola.
La fronte avea lucente ed ampia e piana, 207
e’ sovraccigli sottili e ben volti;
dell’altre donne belle è la sovrana,
colli occhi vaghi e co’ cape’ risolti:
neente vide, chi laudò Morgana.
I suoi labbri grossetti e bene accolti,
naso affilato e bocca picciolella,
e i denti minutelli e bianchi in ella,
e i gai sembianti c’ha nel viso effolti.
Con quelle spalle piane e sí ben fatte, 208
con quel petto grossetto e sovrastante,
e l’anche avea grossette e isnelle e adatte,
le man’ sottili e i nodi d’un sembiante;
le gambe sue grossette e ben ritratte,
e ’l piè su’ corto e dritto e ben calzante;
quiv’eran li semenzi e’ gran’ pimenti,
li arnesi cari e’ begli adornamenti,
in vasi d’oro a fini pietre ornante.
Quivi avea fini nardi fioritissimi, 209
di cennami forniti e ’mbalsimati;
ed eranvi mangiar’ dilicatissimi;
in gran sollazzo fuoro a cena entrati;
de le novelle del Nilo assai dissevi
Alcoreùs, li ne fece insegnati;
al matin li assalio servo Fortino;
Cesare non avea l’arme ’n dimino,
gridò suoi cavalier’ disceverati.
Cleopatra s’armò con gran franchezza 210
e faceva mirabole difensa;
Cesare, che vedea sua gran prodezza,
altro mai che di lei non cura o pensa;
il palag’iera di sí gran fortezza,
che non potean per forza avere offensa;
Antonio giunse in sull’alto matino,
quivi prese e tagliò ’l capo a Fortino,
poi fecer falso accordo e rea propensa.
Cesare vinta la guerra d’Egitto, 211
ed annegato Tolommeio allora,
Gaumedesse v’è dipinto e scritto,
come tolse per moglie l’altra suora,
e Cesare assalío senza respitto;
sí che per mar si mise a nuoto ancora,
e ’n bocca avea il palio a sè ispogliato,
e ’n man avea un car libro sagrato,
e notò tanto che fu ’n terra dura
Ed agunò sua gente ch’iera sparta, 212
e prese Gaumedesse e fél morire;
èvi dipinto com’anzi si parta,
che tutto Egitto a lei fece ubbidire;
e de le fedaltá fece trar carta:
Cleopatra regnò con grand’ardire;
al re Giuba n’andò a perseguirlo,
Catone e’ suoi vi fuôr per contradirlo,
e ’l re Giuba vi fu morto, ’l gran sire.
Èvi dipinta la cittá d’Amonda, 213
che Cesare assediò per piano e coste;
la bella Rancellina assai gioconda,
Sestusso ed Igneusso iera su’oste;
quella cittá che s’appella Gironda.
Igneusso assalía sovente l’oste,
e Rancellina, che molto l’amava,
quand’e’ n’uscía, la fronte li baciava:
Fortuna avea tutt’este cose poste.
Un giorno andò Igneusso al padiglione, 214
credendov’entro Cesare trovare;
Cesare, ch’iera giá ’n disperagione,
fece le corde per senno tagliare;
e cosí ’l colse e uccise in tradigione,
com’una starna che non può volare;
mai non fu giovan di tant’arditezza:
Rancellina sí ’l vide, e de l’altezza
del muro si gittò per disperare.
In Roma ritornò con gran burbanza, 215
e fece prima Igneùs soppellire;
cinque trionfi fece in rimembranza
farsi a’ Roman’, di cui si tenea sire;
Brutto l’uccise con gran sottiglianza,
in pien consiglio, e non poteo fuggire;
il primo colpo li diè d’uno stile;
segnor del mondo, e fue morto sí vile:
Fortuna fu, piú nol volle seguire.
Dall’altra parte del luogo giocondo, 216
èvi ’ntagliato Alexandro signore;
come si mosse ad acquistar lo mondo,
al tempo del re Dario, a grand’onore;
tutto come cercò del mare il fondo,
in un’olla di vetro a chiar colore;
e come in aria portârlo i griffoni,
e come vide tutte regioni:
di buoni ’ntagli e di fini figure.
Ed èvi come Olimpiade sua madre 217
da lo re Nettanebo fuo ’ngannata;
èvi com’Alexandr’uccise ’l padre,
credendo l’arte venisse fallata:
e come Dario e sue genti leggiadre
volean trebuto secondo l’usata;
com’Alexandro il difese, v’è scritto,
e come fue non grande, piccioletto:
dent’ha di cane, e di leon crinata.
Ed èvi tutto quanto a passo a passo, 218
come di Cappadocia un gran signore
a Filippo mandò Bucifalasso,
distrier di grande forza e gran valore,
legato con catene, a picciol passo:
Neun giá mai v’iera montato ancore;
stava legato e ’ncatenato forte,
mangiava chi dovea ricever morte;
Alexandro ne fu cavalcatore.
Sonvi d’intaglio i cavalier’ ch’avea, 219
di Macedonia e Cappadociesi;
e come vinse tutta l’Ermenía,
e ’n ’Talia venne per istran paesi:
i consoli, in che Roma si reggea,
donârli assai corone e molt’arnesi,
e li donâr nove milia talenti;
e gli African da lui rimaser vinti;
poi venne in Siria e vinse i Siriesi.
E come fece Alexandria la donia, 220
l’isola di Cicilia sottomise;
e come vinse Tiria e Macedonia,
e Giudea, che sanz’arme conquise;
però ch’a Giado prence venne in sonia,
come ’ncontro gli uscio con ricco arnese,
co’ stola d’oro e sovr’a capo un palio,
che ’n fra i Giuderi s’appella cidario:
vestísi a bisso allor tutto ’l paese.
E nel cidario avea una piastra d’oro, 221
che tetragramatonne v’iera scritto.
I Giuderi ch’aveano Iddio con loro,
ché facean tutto ciò ch’avea lor detto;
Alessandro nul mal non fece loro,
pontificat’adorò con diletto,
francògli liberi d’ogni trebuto;12
sette anni ha lor franchigia conceduto:
e come ’l re di Tebe fu sconfitto.
Ed èvi come i barbar’ sottomise, 222
e que’ d’Attena e li Lacedonesi,
ed Ermenia e l’african paese,
e tutt’i regni che li fuôr contesi;
e ’nfino a Babillonia si distese,
e come vinse poi li Persiesi;
mangiò con Dario, ché nol conosciéno;
come tre coppe d’or si mise in seno,
dicendo che s’usava in suoi paiesi.
E come si fuggio ratt’e non piano, 223
perché ’l re Dario no lo conoscesse,
con un’accesa facellina in mano;
poi combatteo con lui e lo sconfisse
e sottomise ciascun persiano,
e lo re Porro convenne perdesse;
e come tolse per moglie Rosenna
la figlia del re Dario persienna,
anzi ch’Irtania o Sichia vincesse.
Que’ di Sichia non soppelliano i morti, 224
avanti come bestie li mangiavano;
er’una gente d’oriente, forti,
però li trasse del loco ove stavano;
miseli ’n Aquilon tra monti scorti,
Prointorio e Batteo si chiamavano;
e come fecevi porte di rame,
come d’anfichitòn fece le lame,
che né fuoco né acqua no le smagano
Èvi come sconfisse igli Albanoni, 225
e come tutti a lui ubbidir fuoro;
Altalistri regina d’Amazzoni,
quel che s’appella il regno feminoro;
e i Genofiste sanz’abitazioni,
sí come quando disputò con loro;
e gli alberi che di sotterra usciero,
poi ritornavano lá donde veniero,
quando lo sol si partiva da loro.
E tutto v’è come le Lammie belle, 226
che stavano in caverne a le foreste;
ed èvi come fece prender quelle,
e com’erano ignude, sanza veste;
e come seguitò corso di stelle,
ed adorava l’idole terrestre;
èvi come passò ’l fiume Gyòn,
ed Ufratès e Tigrís e Phisòn,
e lo tempio Appollino e le deesse.
Ed èvi come fece assai scritture 227
a’ Bragami, ed a lui ’l maestro loro;
e la diversitá di lor nature,
ch’è gente che non pregia argento od oro;
e, sanza case o veste o sepolture,
hanno lor vita, sanz’altro lavoro,
de’ frutti che la terra per sé rende,
e beon d’acqua, e nul compera o vende:
dilettansi nel ciel sanz’altro adoro.
Ed èvi ancora una bella figura, 228
un animal ch’uom apella Finice;
Alexandro la vide ove dimora,
con cresta la ’ntagliò que’ che la fece;
come paon le fauce ha bianche ancora,
risplende vie piú ch’oro in su’ vernice;
ha molte penne di color di rose,
che spandon un rossor quasi focose:
di dietr’ha penne polporine e grige.
Ed èvi come reina Candace 229
li presentò si ricco donamento,
d’una ricca corona d’or verace,
ed elifanti li mandò dugento;
mandòvi un dipintor che ’l contraface,
pantere ottanta di gran valimento;
e mille pelli fuôr di leopardi,
e mille di leon’ di gran’ riguardi;
e come ’l prese per su’ scaltrimento.
Ed èvi il ricco letto de l’avorio, 230
co’ paliti di seta e d’auro ornanti;
nel mondo mai non fu cotal lavoro,
tutta via ’l traggon trenta leofanti;
insembre stando sanz’altri con loro,
Candace, ed Alessandro l’è davanti;
allora li mostrò la sua figura,
e come il re Alessandro ebbe paura,
ché si celava a lei, ch’avea i sembianti.
Ed èvi come Candalo il rimena, 231
e fagli infino all’oste compagnia;
ed èvi come Candace regina,
donolli un dono che molto valia,
un clamide d’overa molto fina,
con stelle ad oro, a seta di Soria;
una corona d’oro lavorata,
con pietre preziose molt’ornata:
e come in Oceán se n’ando via.
Èvi come n’andò in paesi strani, 232
e come combatteo co’ Ciclopé,
ch’ieran diversi giganti indiani;
con genti aveano un occhio e tal un pè’;
e combatteo con fiere molte e cani,
fu nel loco ove nasce lo pepé;
cercò di Babillonia lo diserto,
ch’iera di fiere pessime coverto:
Africa vinse e tutta Etiopé.
Or quivi sono i propî intagli ed atti 233
di tutta la sua vita quanta fue;
in Persia e ’n Macedonia scrisse i fatti,
in istatue d’oro che fuôr due;
e sí come Antipatro fece i patti
d’avelenarlo per le ’nvidie sue;
come Giobàs li temperò il veleno,
onde ’l re Alessandro venne meno,
e ’n Babilonia soppellito fue.
Ed èvi come, in man del su’ maestro, 234
dispese il mondo tutto a’ suoi baroni;
segnor di tutto l’abitur terrestro,
come lo spese, dicerovi i nomi:
pro’ Tolommeus, che li stava al destro,
prenze d’Egitto con tutte regioni
d’Africa e d’Arabia veramente,
e sottomise a lui tutt’oriente.
Aristotil facea le spensagioni.
Pitonno v’è, a moisé ’ntagliato, 235
sí come prenze di Siria maggiore,
sí come ’l re Alessandro ha dispensato,
e de la minor Siria rettore;
a Pitaliton Cicilia ha donato,
Itale fece d’Ilira signore,
Attrapatusso fece di Medía,
e Scino fece di Susannavía,
Antinogo di Frigia minore;
Sanizionno prenze in Cappadocia, 236
e Leonato prenze di di Frigía;
Lissimacusso, Tracia e Persozia,
diedegli il porto e la marinería;
a Iobasse diè India e non Iscozia,
Pennolopès Filippo ebbe in balía;
Cassander fu signore con Iobasse,
che in India ciascun segnoreggiasse:
sonvi li scritti d’ogne segnoría.
Èvi come donoie ad Oradesse, 237
che fosse prenze di Parpamenosso,
e ’nfino a Cantasissi monte avesse,
fosse prence d’Arcosso e Sicedrosso.
Per conto par cinquant’anni vivesse:
di Macedonia in diciotto fu mosso,
otto posò e sette combatteo,
e’ cinque di dicembre si morío;
tre gubiti fu lungo, alquanto grosso.
E sonvi tutte dodici cittadi, 238
che ’l marzo avanti che morisse fece
Alessandro, e son di gran’ bontadi:
Prosineasse la prima si dice,
Iepiperàn v’è per secondi gradi,
e Iepibufalàn in terzia spece,
la quarta s’appellò Ioresticí,
e la quinta Arromatoricí,
la sesta Isacchia si sopradice.
La settima di Tigri sopr’al fiume, 239
ottava Babilonia s’appella,
la nona Cipredàsoas ha nome,
la decima Iporsanias è quella,
undecima Alessandria propia, come
è nobile cittade adorn’e bella;
duodecima Alessandria d’Egitto;
èvi ’ntagliata la form’e lo scritto,
ed Aristotil che portò la sella.
Dall’altra parte v’è tutto ’ntagliato, 240
a propi ’ntagli ed a fini colori,
si come ’l mondo fue tutt’assembiato
per guerra a Troia tra dentr’e di fuori;13
e tutto com’ fu l’odio incominciato,
tra Lamedone e Giasonno signori,
onde morîr re, duca e cont’assai,
barone e cavalieri in guerr’e guai;
Ettor e Gaumennòn ne fuòr rettori.
De èvi tutto come ’l buon Giassone, 241
di Grecia, figlio di Pennolopesse,
come mandato fue per lo tosone,
al vello d’oro, e con lui Erculesse;
Appelleusso rege in tradigione
il vi mandò, che fu padr’Accillesse;
e Medonne sua moglie il fece fare;
con grande compagnia si mise in mare
Argusso credo le navi facesse.
E tutto v’è com’arrivaro a Troia, 242
andando loro all’isola Colcone;
e come fatto lor fu onta e noia,
al porto, per lo grande Lamedone;
con gran’ rampogne e con risposta croia
li disfidò de la sua regione;
partìsi e gine a lo re Oetesse:
tutto dipinto v’è a moisesse
il bel navilio e la lor condizione.
Quiv’è la saggia donzella Midea, 243
figlia del re Oetesse, in pintura;
èvi Giassonno e la sua compagnia,
vestiti a ricche robe oltre misura;
come la gente incontro li venìa.
Midea ne ’nnamorò, ed e’ le giura,
in su l’imago Giuppiter e Marti,
d’amarla, s’ella l’insegnasse l’arti,
unguenti e ’ncantagion per lui sicura.
Tutto v’è come per incantamento 244
stava ’l tosone a guardia d’un serpente;
orribil era, di grande spavento,
veleno e fuoco gittava sovente;
e due feroci buoi grandi d’ermento,
che per li anar’ gittavan fuoco ardente.
Quivi fu la battaglia ed aspr’e dura,
del velen e del fuoco e de l’arsura:
Midea ugner lo fece imprimamente.
Ed èvi come fu ’l suo partimento, 245
e raportò in Grecia il bel tosone;
e come i Greci fecer parlamento,
per l’onta che lor fe’ ’l re Lamedone;
ond’a Troia fu poi l’assembiamento
de’ Greci, che la miser a struzione;
ucciser Lamedone e’ suoi ancora,
ed arser Troia ed abbattêr le mura.
Menònne Esionà re Talamone.
Molto v’è scorto quando il re Priàno, 246
Ecuba e’ figli sepper la novella;
ch’ierano a un castel di Troi’ lontano:
piangea Priàno il padre e la sorella,
e ’l gran dannaggio che sofferto aviàno;
e tutto v’è come rifecer quella,
di grande giro e di forte statura;
sei mastre porte v’ebbe e torr’e mura,
un gran leon d’overa molto bella.
La prima porta ebbe nome Dardana, 247
e la seconda porta Antoridesse,
e Schea la terza, e la quarta Fiana;
Ilia la quinta credo nome avesse,
Lucea la sesta e non fu la sovrana;
ebbevi torri assai, merlate e ispesse;
e fu fondata per istorlogia,
fu scritta in Dardaná la profezia,
che Troi’ perìa, chi la porta abbattesse.
Ben fu di giro tre grandi giornate, 248
com’uno scudo fu quasi in paruta;
le mura d’alto mare intorneate,
piú bella al mondo mai non fu veduta.
Come Priàn mandò per l’amistate,
fe’ parlamento quando fu venuta;
e disse lor come ’l padre fu morto,
che si volea vengiar di sí gran torto,
e come Esionà sia lor renduta.
E tutto v’è come mandò Antenore, 249
con ricca e nobil bell’ambasceria;
e come ’l re Pelleusso e Nestore,
e Talamon, ciascun mal rispondea;
e come ’n Grecia n’ebbe gran romore,
perch’Antenor sua suora richiedea;
ed èvi com’a Troia ritornaro,
con le lade risposte che trovaro,
e com’Ettòre a’ suoi contradicea.
D’intaglio v’è Cassandra profetessa, 250
com’ella profetò tutta la mena;
èvi ’l tempio Appollino e la deessa,
ed un poeta che gran duol dimena;
fu la vendetta in Parigi commessa,
onde’ Troian’ soffriron mortal pena;
fu presa Alena adorante la Diana,
nell iso]a di Siteri lontana,
onde ’l re Menelau gran duol dimena.
La bell’Alena v’è che ne menaro, 251
con trenta navi, a Troia in gran burbanza;
con gran festa a Parigi la sposaro,
ond’ebbero i Troian gran malenanza.
Poi v’è Polùs e Castor ch’annegaro,
ch’ierano entrati in mar per la vengianza;
ch’andavan per riaver la suora Alena;
rupper le vele e fransero in gran pena,
onde fu ’n Grecia grande conturbanza.
E poi si mosse il buon Diomedesse, 252
al re Priàn, per Alena la bella;
e ’n sua compagna fu ’l buon Olizesse,
chieser l’ammenda e rivolevan quella.
Piaùs e Telamòn e Diomedesse
invitar l’oste per venire ad ella,
il re Protesselau e ’l buon Nestore,
ed Accille ne fue ragunatore;
mandâr per tutta Grecia la novella.
I gran re, i daca, i conti e’ gran’ baroni 253
di Grecia fecer grande assembiamento;
mandâr per legni in tutte regioni;
èvi ’l navilio grande e ’l guernimento;
navi, galee, barche e galeoni
per novero vi son ben mille e cento;
èvi ciascun signor co la sua gente
dipinto col navilio apertamente;
sonvi le ’nsegne e ’l nobile armamento.
Èvi Telamonùs di Salemmine, 254
coi suoi cinquanta legni ben armati;
Tencieri, Anfimacusso, re e reine,
con lui baroni e conti assai pregiati;
Pollisenàr, Tessèu a le marine
per compagnon’ Telamòn fuôr menati;
e fuvi ’l buon Nestore e ’l pro’ Toasse,
de la cittade di Coliciasse;
con ricca gente si son presentati.
Èvi Decimenosso e Meriusso, 255
con legni trentatré di bella guisa;
Capusso ed Agiusso ed Elinusso
cinquanta sette n’ebbero a la ’mpresa;
èvi Filitoasse e Santipusso,
ch’ebber cinquanta legni d’un’assisa;
Domeriusso e Meriòn ottanta,
e Ulizesse vi n’ebbe quaranta,
cinquanta n’ebbe Accillesse di Frisa.
E con diece vi fu Mineriusso, 256
che fu di Tigri Pilarge la terra;
e con cinquanta il buono Apportacusso,
Protesselau con cinquanta da guerra;
trentadue Pollidùs, Menelausso,
se lo pintor che le pinse non l’erra;
èvi Pollibitesse e Leochini
con venticinque e fuôr german’ cugini:
fuôr di Caldea, ben armati a ferra.
Èvi con diece lo re Tofilusso, 257
con grande pregio onorato signore;
e con cinquanta il re Corripilusso,
con ricca gente di nobel valore;
cinquanta Santipusso e Anfimacusso,
re de l’Arisa, fuoro a grand’onore;
fuorvi d’Elide, la selvaggia terra,
undici legni ben forniti a guerra;
buon’galeotti avea il combattitore.
E ’l buon Diomedesse e Cielimusso 258
vi fuoron con cinquanta ben armate;
e fu con loro Erdenelausso;
Pollibitè n’ha sette rassegnate;
e con cinquanta il re di Cipri Innusso;
quelle fuôr navi a vele, incastellate;
Meneceusso duca con cinquanta,
e nove Proteùs men di quaranta;
cinquantadue son que’ l’hanno menate.
E tutto v’è dipinto a fin colori, 259
com’ad Attena fu ’l raunamento;
e come i Greci chiamaron signore
Agamennone in grido e ’n parlamento;
alto re, nobil, di grande valore,
ricco possente con bell’armamento;
dieder le ’nsegne ed ordinâr la guerra,
entraro in mare, partîrsi di terra:
da guerra aveano ogni bell’argomento.
Mosser d’Attena, le vele collaro, 260
vocando forte con diritti venti;
ogn’ammiraglio saggio e marinaro,
con galeotti e con soprassaglienti;
cantando, in gran bonaccia il mar passaro,
trombe sonando e molt’altri stormenti;
giunsero a la cittá nobel di Troia,
per fare a’ cittadini ed onta e noia:
da guerra aveano ogni bell’armamenti.
Ed èvi quando li vide Priàno, 261
e ’l prod’Ettòr, Parigi e Troillusso;
ed Eneasse lo buon capitano,
ed Antenore e il buono Eifebusso;
Menòn re, ch’iera l’aiuto troiano
venuto, appresso lui ’l pro’ Pandarusso,
Restùs e Massiusso e ’l re Carràs,
Anfimacusso e ’l forte Nesteàs,
(tutti fuôr regi) e ’l signor Cappadusso.
Èvi come Remusso a la stagione 262
sette conti menò con lui sovrani;
e quattro duca di gran valigione,
per dar aiuto, venner a’ Troiani;
e ’l re Glacòn d’Elice e Sarpedone
entraro ’n Troia, e fuôr cugin’ germani;
e fuorvi Pelleusso e Arcamusso,
e di Frigia lo buon re Antopusso;
tutti questi non fuôr de’ diretani.
Èvi dipinto il buon Pretemissusso, 263
e Terreplèx a giavellotti e a dardi;
e Miccerès e lo re Calamusso,
che fuoro duo signor’ di gran’ riguardi;
di Palaglorie il sir Feliminusso,
che fue gigante e non fue de’ musardi;
e fuvi il buon Pistòn e Anattàs,
Ensionne lo pro’ e Anfimàs,
gente barbari e siriesi e sardi.
E ’l re di Persia con gente sovrana, 264
vi fu nobilemente a dismisura;
ed assembrârsi a la cittá sovrana,
fecer le schiere, uscîr fuor de le mura.
Ettor avea, che li ’l mandò Morgana,
un bel destrier, che di miglior non cura;
il buon Ettòre ordinò le battaglie,
dove si franser elmi e scud’e maglie:
de! quanto fu crudel, mortal’ e dura!
Or quiv’è ben dipinta la prodezza, 265
veder pugnar li Greci e li Troiani;
cavagli e cavalier’ di grand’asprezza,
a front’a fronte, ogni giorn’a le mani;
troncare scudi e brandi in gran fortezza,
abbattere e cadere i più sovrani;
veder cavai rotare a vote selle,
brair, gridar, troncare aste ed istelle,
que’ nobil’ cittadini e foretani.
Quiv’è dipinto Ettòre in quella pressa, 266
che va faccendo grande uccisione;
a destra ed a sinistra, ov’è piú spessa,
a cui tronca la testa, a cui ’l bredone;
que’ fa di Greci sí grande rimessa,
fúggongli avanti com’ foss’un leone;
in quell’assalt’uccis’è il sagittaro.
E tutto v’è come i Greci pugnaro,
uccidendo i Troian’ quella stagione.
Molto si sembra ben tra’ cavalieri 267
Agamennone e lo prod’Accillesse;
uccidere e brair per li sentieri,
l’assembraglia e gli assalti e le rimesse;
fragnere scudi ed isquartar destrieri,
e far troncon di gross’aste ed ispesse;
a chiari brandi ed elmi rilucenti,
in fiotta i cavalieri a diece a venti,
riscuoter e fedire a le gran’ presse.
Ai Deo! chi vide mai uccisione 268
cosí crudele, in campo od in battaglia,
come facea il buon re Talamone,
Nesteu, Eifebusso, e sí gran taglia?
E ’l pro’ Parigi, Remusso e Giasone,
abbattêr e pugnâr con gran’ travaglia;
traìen le strida e’ guai li naverati,
dividean teste e ’nfilzavan costati,
druscian gli asberghi d’ogni forte maglia.
Ben combattea lo buon Telamonusso, 269
Nestore ed Ulizesse assai promente;
e Menelau de’ Tigri e Apportacusso,
contr’ai Troian brocciavano sovente;
Agamennon signore e Anfimacusso
danneggiavan i Troian mortalmente.
Le triegue fuoro, e poi parlamentaro,
ov’Ettore ed Accille si sfidaro,
e rimprocciarsi assai villanamcnte.
Èvi com’Accillesse il rimprocciava 270
perchè Patricolusso gli avea morto,
la cui bieltá teneramente amava,
ch’egl’iera bello e pro’, sagg’ ed accorto.
Un giorno avenne ch’Ettor si chinava,
(Andromada l’avea sognato scorto)
e volea prendere un elmo reale;
Accille il perseguìa d’odio mortale:
in tradigion l’uccise ed a gran torto.
Ed èvi a motto a motto tutto quanto 271
dipinto, come ne portaro Ettore:
le strida e’ guai e l’orribile pianto;
Andromada si squarcia e grid’e plore;
piangeva Lena e Pollisena tanto,
parea ch’al ciel n’andsse lo clamore.
«Dolze figliuolo!» diceva Ecubà.
«Signor!» dicea la moglie Andromadà.
Piangean quasi le pietre per su’ amore.
Èvi si com’Ettòre imbalsimaro, 272
e fecerli una ricca sepoltura;
e’ santi clergi l’aromatizzaro,
d’un palio imperial fêr covertura;
tre imagini li mastri v’intagliaro,
con tre lampane di grande chiarura.
Passato l’anno fecer l’anovale,
come s’usava, a la guisa reale,
ov’Accillesse innamorò allora.
La bella Pollisena Ettòr piangea, 273
quand’Accillesse sorprese d’amore,
di guisa che posar giá non potea,
sí tenea la bieltá sua preso ’l core.
Mandò un messo, s’a ’Cuba piacea,
che non sarebbe piú combattitore
sopr’ai Troiani Accille, né sua gente:
i Greci al padiglion venìar sovente,
merzé cherendo e faccendo clamore.
Tutto v’è com’Accille ruppe ’l patto 274
e feci’ armare i suoi Mirmidonesi,
cui i Troian’ non risparmiavan tratto;
quel giorno molti ne fuoron conquisi.
Armòs’Accille ed entrò nel baratto;
uccis’ev’Eifebusso in tra’ Grecesi;
allor fallìo malamente Accillesse;
fedì Parigi ’l buon Palamidesse,
d’una saietta a le ven’organesi.
Poi v’è dipinto com’egli ordinaro 275
d’uccidere Accillesse in tradigione;
un segreto messaggio gli mandaro,
che gli volean parlare una stagione,
per darli Pollisena; lo ’ngannaro,
perché non tenne la sua convenzione.
Parigi il prese ed uccisel allora;
per diligion gittòl giú de le mura:
tutt’è dipinto il modo e la cagione.
Qui v’è dipinto lo crudel lamento, 276
le strid’e ’l pianto che’ Greci faceàno;
piangea Pirrusso il padre in gran tormento,
i guai e ’l pianto infino al ciel s’udiàno.
Fecerli fare un ricco munimento,
che molte pietre prezios’aveàno;
i Greci fecer cavalier Pirrusso;
poi fu morto Parigi e Anfimacusso,
che l’un fu greco e l’altro fu troiano.
Come Pantassalea n’udio novelle, 277
dipinto v’è, del regno feminoro;
che venn’a Troia con mille pulzelle,
per la bontá ch’ell’udiva d’Ettòro;
ch’aveano incise le destre mammelle,
perch’a trar l’arco non nocesse loro.
Quivi son tutte le bell’arditezze,
ch’ell’uccideano i Greci in grand’asprezze,
chè neuna pietade avean di loro.
Èvi Pretemissùs c’ha ’n man un dardo, 278
e Terreplèx ha giavellotti assai;
fediano i Greci sanza nul riguardo,
a molti ne facean trar mortai guai;
qualunque li attendea, per tempo o tardo,
arme no gli valea contr’a lor mai.
Ben combattea Toasse e Santipusso,
e ’l buon Protesselau e Apportacusso,
co’ nobil destrieri e sori e baî.
La reina pugnava e le donzelle, 279
molto faceano a’ Greci gran dannaggio;
dipinto v’è la valentia di quelle:
parea ciascuna un pro’ leon salvaggio;
faceano a’ Greci spander le budelle;
Pantassalea col su’ ricco barnaggio,
sovente con Pirrusso s’affrontava:
chi delle lor saette una provava,
incontanente volgeva ’l visaggio.
Èvi come la nobile regina, 280
pugnando con Pirrusso molto forte,
come fortuna le si volse ’n pena:
d’una spada Pirrusso le diè morte;
onde Priàno e’ suoi gran duol dimena.
Piangevan le donzelle sue accorte;
de le battaglie allor si dipartiero,
e le pulcelle in lor regno ne giero,
e i Troian tenner poi chiuse le porte.
Èvi dipinto come i traditori 281
di Troia ordinaro il tradimento:
il re di Tracie e Ulizesse di fuori,
Diomedesse fu con lor contento;
Eneasse fu dentro e Antinori,
Pollidamasse fu al consentimento;
e di que’ d’entro fu ’l conte Dolone,
di Garil duca e di Troia leone,
salve le robe loro e ’l loro argento.
Èvi dipinto un nobile cavallo, 282
che’ Greci fecer grande e ismisurato;
e fu di fusto né non di metallo,
e di fin auro era tutto piastrato;
entraro in nave e nel campo lasciârlo,
mostraro il campo aver abbandonato;
per quel caval fu Troia isfatt’e morta,
che ’l miser dentro ed abbattêr la porta,
sí come ’l tradimento ier’ordinato.
Passante ’l giorno, la notte vegnente, 283
dipinto v’è come’ Greci tornaro;
entrò dentro da Troi’ tutta la gente,
e preserla e disfecerla e rubaro;
e tutto v’è dipinto chiaramente,
come li traditor in mar entraro;
Priàn ucciser al tempio Appollino,
ucciser ’Cuba e Cassandra e ’l divino;
ed èvi com’Alena dicollaro.
Èvi com’Eneàs entrò in mare, 284
col su’ lignaggio e i nobili e piú degni;
e come ’l mar si mostro lor soave,
e com’avevan trentadue gran’ legni,
con molti arnesi che rubati n’have.
Crucciârsi i venti per divini segni;
ebber fortuna e molti n’annegaro.
A Cartaggi arrivâr que’ che scamparo;
cercâr marin’assai, cittadi e regni.
Ed èvi come ’l popul de’ Troiani, 285
che ne scampâr, fondâr ne la marina,
(e que’ fuôr que’, ch’uom chiama i Viniziani)
per non star sotto a re né a regina;
e d’Eneasse nacquero i Romani,
Remùs e Romulùs d’una beghina.
Notricògli un porcaio con troie e becchi,
perciò mangian le cuotiche e gli orecchi:
sagrossi al tempio lor madre meschina.
Èvi dipinto il grande trionfale, 286
che fanno i Greci ai lor combattitori;
con molte trombe e con palio regale,
usciro ’ncontro lor grand’e minori;
menâr la bell’Alena a su’ ostale:
tutto v’è come i Greci fuôr signori.
Or quivi son le nobili pinture,
nobili, conti e le grand’aventure,
diece anni fuoro i Greci asseditori.
Dall’altra parte del ricco palazzo, 287
intagliat’è la Tavola Ritonda,
le giostre e ’l torneare e ’l gran sollazzo;
ed èv’Artú e Ginevra gioconda,
per cui ’l pro’ Lancialotto venne pazzo,
March’e Tristano, ed Isolta la blonda;
e sonv’i pini e sonvi le fontane,
le giostre, le schermaglie e le fiumane,
foreste e lande e ’l re di Trebisonda.
E sonvi tutt’i begli accontamenti, 288
che facevan le donne e’ cavalieri;
battaglie e giostre e be’ torneamenti,
foreste e rocce, boscaggi e sentieri;
quivi sono li bei combattimenti,
aste troncando e squartando destrieri;
quivi sono le nobili aventure,
e son tutt’a fin oro le figure,
le cacce e’ corni, vallett’e scudieri.
In quel palazzo sí meraviglioso, 289
vidi Madonna e ’l su’ ricco valore,
che fa star lo mi’ cor fresch’e gioioso,
e pasce l’alma mia di gran dolzore;
lo suo soave sguardo e dilettoso
lo mondo rinovella e dá splendore;
cotant’è adorno e di mala sembianza,
che fa gioir la sua gran dilettanza,
come la rosa in tempo di verdore.
La gran bieltá che procede del viso, 290
co li amorosi suoi gai sembianti,
chi fosse degno di guardarla fiso,
piú non vorrìa ched istarle davanti;
ch’al mondo dona canto e gioch’e riso,
onde gioiscon li amorosi amanti;
quell’è lo specchio ove bieltá riluce,
splendientissima serena luce,
al cui splendor si rinvìan gli erranti.
E vidi la sua bella compagnia, 291
che son sette regine ben ornate;
l’una l’adorna di gran cortesia,14
l’altra di pura e dritta veritate;
la terza d’umiltá scorge la via,
la quarta ha pregio di gran larghitate;
la quinta adorna di bell’astinenza,
la sesta bella castitá l’aggenza,
la settima d’umil dolze pietate.
Poi vidi le sue belle cameriere, 292
tant’avenanti mai non fuôr vedute;
piane dolzi ed umili al mi’ parere,
adorne e oneste, cortesi e sapute;
e vidile danzar per lo verziere,
ed ieran tutte di bianco vestute;
ciascun’avea di fiori una ghirlanda,
e fanno ciò che Madonna comanda,
e rendon dolzi e soavi salute.
Altra masnada adorna vidi assai, 293
secondo ch’a tal donna si pertene,
la qual molto ’n veder mi dilettai.
Per lo palazzo andando vidi bene
di nuove cose ch’io non vidi mai,
sí come a grande corte si convene;
e audivi dolzi boci e concordanti,
e nobili stormenti e ben sonanti,
che mi sembravan canti di Serene.
Quiv’era una donzella ch’organava 294
ismisurate dolzi melodie,
co le squillanti boci che sonava,
angelicali dilettose e pie;
audi’ sonar d’un’arpa e smisurava,
cantand’un lai onde Tristan morìe;
d’una dolze viuola udi’ sonante,
sonand’una donzella lo ’ndormante:
audivi suon di gighe e ciunfonie.
Udivi suon di molto dolzi danze, 295
in chitarre e carribi smisurati;
e trombe e cennamelle in concordanze,
e cembali alamanni assai triati;
cannon’ mezzi cannoni a smisuranze
sufoli con tambur’ ben accordati;
audivi d’un leuto ben sonare,
ribebe e otricelli, e ceterare,
salteri ed altri stormenti triati.
E cosí stando a mia donna davanti, 296
intorneato di tant’allegrezza,
levò li sguardi degli occhi avenanti,
ed io ’mpalidi’ per dubitezza.
Allor mi fece dir: «Piú tra’ti ’nnanti,
e prendi ne la mia corte contezza».
Ed io le dissi: «Donna di valore,
s’io fossi servo d’un tuo servidore,
sarìame caro sovr’ogni ricchezza».
Allor Madonna incominciò a parlare, 297
con tanta soavezza, e disse allore:
«Hai tu sí cuor gentil potessi amare?
Quanto potrai amar, ti fo signore;
e se ben ame potrai ’mperiare,
che ti farò signor d’ogni riccore;
ché la minor ch’è ’n fra le mie donzelle,
e ’l minor servo, diminian le stelle:
sí ch’oltr’al cielo splende il mio valore».
Quando parlava, lo dolzor ch’avea 298
di ciò che mi dicea Madonna allora,
mi’ spirito neun non si movea,
sí fu ben trallassante piú ch’un’ora;
Amor mi confortava e mi dicea:
«Rispondi: V’amo, donna, oltre misura».
Allor rispuosi per quella fidanza,
e Madonna mi diè ricca speranza,
perch’i’ l’ho amata ed amerolla ancora.
Volete voi di mia donna contezza, 299
piú propiamente ch’i’ non v’ho parlato?
Sovr’a le stelle passa la su’ altezza,
fin a quel cielo ch’Empirio è chiamato;
e ’n fin a Dio risplende sua chiarezza,
com’a’ nostr’occhi ’l sole appropiato,
l’amorosa Madonna Intelligenza,
che fa nell’alma la sua residenza,
che co la sua bieltá m’ha ’nnamorato.
La ’Ntelligenza nell’anima mia 300
entrò dolce e soave e chiusa molto,
e venne al core ed entrò ’n sagrestia,
e quivi cominciò a svelar lo volto.
Quest’è la donna di cui vi dicea,
che col su’ gran piacer m’ha servo accolto;
quest’è la donna che porta corona
di sessanta vertú, come si suona;
questa diparte il savio da lo stolto.
E l’anima col corpo è quel palazzo, 301
che fondò Dio, maestro grazioso,
nel qual la ’Ntelligenza sta ’n sollazzo;
e la gran sala è ’l core spazioso,
di pietre preziose pien lo spazzo,
quiv’è la sagresti’ e ’l tesor nascoso;
èvi la scola de la sapienza,
ché ’l cuore ha tre partite in un’esenza:
nell’una sta ’l pur sangue dilettoso.
La camera del verno e de la state 302
è ’l fegato e la milza veramente;
nodriscesi nell’un caliditate,
e l’altra fredda lo calor repente;
ben si può dir cucina in veritate
lo stomaco, che si cuoce sovente:
savete ch’è il cenacol dilettoso?
lo gusto co l’assaggio savoroso.
La volta del palazzo è ne la mente.
E li nobili ’ntagli e le figure, 303
si posson dir le belle rimembranze,
che imaginate son di tai pinture,
onde poi fanno queste ricordanze;
e gli occhi sono le speculature,
le vetriere e le belle alluminanze;
e la cappella dove s’ufizìa,
si è la fede dell’anima mia;
l’uficio son le laude e in Dio speranze.
L’audito e ’l tatto son li portinieri, 304
e ’l senso si può dir la mastra porta;
e li varî voler’ son messaggeri,
che servon quella nobel donna accorta;
la lingua è suo stormento, e giocolieri
li spiriti ove l’anima diporta;
e l’acque e le riviere e le fiumane
è l’abundanza de le vene strane,
che circondan lo corpo per via corta.
E l’ossa son le mura che vedete, 305
che sovr’a lor fermat’è la possanza;
e i nervi son le nobili parete,
di ch’è inciamberlata la su’ stanza;
ed altre cose v’ha che son sagrete,
che son fuor di leggiadra costumanza.
fu di quattr’elementi la mistura:
ond’è fatto ’l palazzo e tetto e mura:
non può perir se non per discordanza.
Le sue compagne son le gran’ bontadi, 306
che fanno co la mia donna soggiorno,
che sono assise per settimi gradi;
e le sue cameriere c’ha d’intorno,
son li sembianti suoi che non son ladi,
che la fanno laudar sovente intorno.
E i nomi e la divisa pon l’autore,
assai aperto a buon conoscidore,
e la masnada di quel luogo adorno.
O voi ch’avete sottil conoscenza, 307
piú è nobile cosa auro che terra:
amate la sovrana Intelligenza,
quella che tragge l’anima di guerra.
Nel conspetto di Dio fa residenza,
e mai nessun piacer no le si serra;
ell’è sovrana donna di valore,
che l’anima notrica e pasce ’l core,
e chi l’è servidor giá mai non erra
Amor, che mia vertute signoreggia, 308
m’ha fatto vaneggiare in questo dire;
ché co’ sudditi suoi sí bamboleggia,
che sono a costumare ed a nodrire;
che ’n prima dona ’l pomo a que’ ch’elleggia,
e poi sovente il batte e fa stridire;
ché quando la person’è ben discreta,
il padre i dá ’l tesoro e la sagreta:
cosí fa Amore a chi ’l vuol ubbidire.
La ’Ntelligenza stando a Dio davanti, 309
a lo piacer di Dio li angeli move;
e gli angeli li ciel’ muovono quanti,
che co lo ’Mpirio l’uom gli appella nove;
li ciel’muovon le cose elementanti
e naturanti, che dánno le piove;
e muovon la vertute alterativa,
e la vertute attiva e la passiva,
che fanno generar sí cose nuove.
- ↑ [p. 380 modifica]ottava 5ª, v. 5. Forse è da inserire «cor» prima o dopo «nessun» (o «giá» prima di «mai»).
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 31, v. 2. Forse «e tal ne ha la B.».
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 33, v . 1. L’unico ms. «nel mare». Mi pare che il 2º verso richieda, nel 1º, un integramento (e sta nel m.?).
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 34, v. 4. Credo aver ben restaurato la misura e il senso (il Mistruzzi, cogli altri, poi si abbuia): poiché, sebbene sia scura, ha gran valore.
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 40, v. 5. Non trascurabile la vulgata «il fa dar».
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 73, v. 7. Il Mistruzzi, pur attenendosi (come abbiamo fatto anche noi) ai mss., dice in nota che è preferibile la congettura del Gellrich «e le pulzelle che veniero allore». Forse, poiché il soggetto è Pantassaleia (v. 4), è da leggere: «e le p. che menò, coloro».
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 74, v. 1. Ho corretto, col Mistruzzi. Ma la vulg. «Ros. d’amore» può spiegarsi «amorosa».
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 84, v. 4. Sospetto che si debba leggere «si dispenò d’ogni» (=non si curò piú delle sue legioni).
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 119, v. 6. Forse è da correggere «di perdonanza».
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 139, v. 6. Alla lez. del cod. Magliab. «sanza b. starei in gran pene» (seguita anche dal Mistruzzi) ho preferito quella del meno corretto, ma spesso piú fedele all’esemplare, Laur.
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 145, v. 6. I due mss. e tutte le stampe «Pompeo che tanto amava mortalmente». Credo necessaria e sicura la mia correzione; nel Novellino e nelle antiche leggende cavalleresche è comune la frase «disamare mortalmente». Non è questo il solo luogo in cui i due mss. sono evidentemente errati.
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 221, v. 7. Le stampe (col Magliab.) «francogli liberi d’ogni». Ho corretto, tenendo presente l’altro ms. e felli liberi del t. Frequenti, nell’italiano antico, le coppie di parole sinonimiche.
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 240, v. 4. Ho corretto francamente «tra» dei due mss. e delle stampe; cfr. ott. 147, 9.
- ↑ [p. 380 modifica]ott. 291, vv. 3 e 9. Forse, è da correggere «l’adorna» in «s’adorna», e da sopprimere «d’» davanti a «umil».