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XIX.
Egli era un sontuoso appartamento, quello della Perrotti, in via Palestro. Le sale non erano stragrandi, come quelle dei vecchi palazzi, ma spaziose abbastanza, e la quantità teneva luogo dell’ampiezza, imperocchè di due quartierini, posti al medesimo piano, se n’era fatto un solo, e ci stava ad agio in una fila di salotti, dove, alle conversazioni del lunedì, o a qualche festa da ballo, conveniva la miglior compagnia, vo’ dire la più ricca e la più sfoggiata di Genova.
Oltre la sala da ballo, i salotti da conversazione e la credenza, c’erano le camere da giuoco sacre al goffo tradizionale, giuoco genovese pretto sputato, contro cui si sono rintuzzate le armi della moda, tiranna ordinatrice di whist e di lansquenet, come di crinolini rigonfi e di vesti sfiancate, di spalle ignude e di capigliature tolte a prestanza. Là, il signor Cesare Perrotti, perdendo quasi sempre di bei danari, s’era guadagnato il nome di magnifico, egli che usava lesinare la mattina sui venti centesimi in piazza de’ Banchi, egli che non aveva mai reso servizio ad un amico in angustia.
Del signor Cesare Perrotti vo’ appunto raccontarvene una che vi darà un giusto concetto dell’uomo. Un giorno fu da lui un tale, suo conoscente e degnissima persona, per chiedergli un migliaio di lire ad imprestito. Costui non era ricco, siccome vi tornerà agevole argomentare dal bisogno che aveva; ma gentiluomo perfetto qual era, e universalmente stimato, metteva la sua onoratezza a guarentigia della restituzione. Il signor Cesare Perrotti non poteva dirgli asciuttamente di no, nè come ricco mercatante, nè come uomo che la pretendeva a gran signore. Ma rastiate il Russo, dice il proverbio, e sotto l’intonaco v’apparirà sempre il barbaro. Ora sotto l’intonaco del signore e del ricco, c’era sempre il Perrotti. — Mi duole, rispose egli all’amico bisognoso, mi duole davvero di non potervi accomodare di questa somma. Come sapete, io traffico insieme col Branca, e nella nostra ragione di commercio c’è una clausola molto fastidiosa, che m’ha più volte vietato di far servizio agli amici, quella cioè di non far mai imprestiti sulla cassa comune. — Ma, aveva risposto quell’altro, egli non è già alla casa Perrotti e Branca che io domando questo servizio... — Sì, sì, intendo quello che volete dirmi, ma lasciatemi finire. Io, sempre per questo malaugurato atto di società, non piglio dalla cassa che ventimila lire all’anno, per mantener la famiglia, e il mio socio del pari. Ora, che cosa si fa con ventimila lire all’anno? Io lo domando a voi. Mettete su casa, tenetela in piedi con un certo decoro, senza scialaquo, e ve ne accorgerete al finir di dicembre! Avevo ancora tremila lire di sparagni, e le ho imprestate la settimana scorsa ad un tale, che conoscete anche voi, e rimarreste grandemente meravigliato se vi dicessi il nome. Già capisco che quelle tre mila lire io dovrò segnarle tra le partite perdute, ma tutti facciamo la nostra parte di minchionerie. Figuratevi, amico mio, se non vi accomoderei di questa piccola somma, sol ch’io potessi!..... Per fortuna, se non posso io, ci saranno cinquanta altri che si ascriveranno a ventura di darvi una mano in questo vostro bisogno.
In questa guisa si sgabellò il Perrotti; ma quanti altri non s’avranno a riconoscere in questo bozzetto? Imperocchè, già m’è occorso di dirvelo, io copio dal vero, e posso dire a parecchi, con Orazio Flacco alla mano:
...... mutato nomine, de te |
E adesso gli è tempo di indossare il vestito nero, coi guanti paglierini, e di entrare nella festa da ballo dei Perrotti.
La signora Aurelia aveva già raccolti in casa tutti i suoi convitati. Nelle sue sale, alla luce dei doppieri, splendevano le più celebrate bellezze ligustiche, ornate, o no, di blasone, la Cisneri, la Roccanera, la Morati, la Vallechiara e tante altre. Tra gli uomini si notavano il Nelli di Rovereto, che aveva rassegnate da poco tempo le sue spalline di maggiore per non allontanarsi dalla Torralba, della quale era più che mai invaghito, il Pietrasanta, il Percy. Seguiva poi uno sciame di farfallini, solita mercatanzia, anzi zavorra di tutte le feste da ballo, senza di cui la contraddanza non avrebbe più il numero giusto di figure, e la polka o la scozzesa lascierebbero troppe signore a far tappezzeria di rincontro alla parete. Grande era lo sfarzo, non di diamanti, poichè la era una festa senza cerimonie (così almeno dicevano i padroni di casa), ma di sete, merletti, e foggie che avrebbero indotto in tentazione anco il povero Sant’Antonio.
Le danze erano per cominciare, allorquando un accalcarsi di uomini nelle prime sale, un pissi pissi, un voltar gli occhi curiosi tutti da un lato, annunziarono l’arrivo di una bella signora. La padrona di casa le era già andata incontro, e la conduceva nel folto della compagnia, in mezzo a due ale di riguardanti ammirati.
Era la signora Argellani, vestita di raso bianco con uno strascico abbondante, gli sgonfi della veste, i cappii e il dinanzi della vita raffermati da ramoscelli di fiorellini della memoria (vergiss-mein-nicht), i quali facevano eziandio bella mostra di sè nelle treccie nere, e col loro castissimo colore azzurrognolo non offendevano la bianchezza del volto, anzi giovavano a metterne in rilievo quel po’ d’incarnato che già cominciava a mostrarsi sulle guance della bellissima donna.
Il vecchio signore che la accompagnava, era tutto pomposo, e andava in gota contegna, con quell’aria che vuol dire alla gente: ammiratemi ed invidiatemi. Ma chi non li conosce e non li pesa, questi innocenti amici di tutte le donne, piante parassite sull’albero della bellezza, talfiata draghi posti a custodia, che si contentano di guardare il pomo e non lo toccano mai? Veri servitori delle gran dame, e’ vivono vicino ad esse, ma sempre in anticamera, e se qualche volta hanno sui visitatori il vantaggio di vederle nelle ore indebite, si ha a credere che ciò avvenga perchè le dame sullodate non li hanno neppure in conto di uomini.
L’apparire di quella donna produsse una vera rivoluzione negli animi, e mentre molti ammiravano quella stupenda figura, molti altri avrebbero voluto essere invisibili agli occhi suoi. La più parte dei convitati la conoscevano, e parecchi tra essi, uomini e donne, le erano stati dimestici, ma l’avevano a poco a poco lasciata sola; v’erano anzi taluni ai quali non era neppur sembrato dicevole allontanarsi da lei con un po’ di rispetto alle convenienze sociali; ed erano i più famigliari. Ella stessa, dal canto suo, s’era lasciata andar giù, aiutando in tal guisa l’oblio dell’universale. Percy l’aveva abbandonata; che le importava del rimanente? Ferita nel cuore, ella si lasciava morire, e dimenticare innanzi d’esser morta, ma non odiava, non disprezzava nessuno; la sua maggior vendetta era stata quella di mettere nell’albo il ritratto del Percy accanto a quello della marchesa Bianca. Atto puerile forse, ma indizio d’anima nobile. E così ridotta allo stremo, si appartò dal mondo, siccome il mondo si appartava da lei. Se non che ella era inferma, morente, e la sua generosa noncuranza non iscusava punto l’oblio di quella gente tra la quale era vissuta, alla quale aveva dato i più belli anni della sua giovinezza.
Cotesto farà intendere ai lettori che spero benevoli al mio racconto, come il vederla risanata, rientrar d’improvviso in iscena, riuscisse a molti peggiore di una mazzata fra capo e collo, e in taluni destasse come una ansiosa curiosità, in tal’altri il rimorso.
Tra questi ultimi più colpevole e più fieramente combattuto il Percy; al quale la sua apparizione gelò il sangue nelle vene come se fosse stata la testa di Medusa, sicchè egli non ebbe nemmanco la forza di muoversi dalla scranna su cui stava seduto presso la marchesa Bianca di Roccanera.
Povero regnatore di salotto! Egli era da qualche tempo assai giù. I suoi vagheggiamenti non gli avevano fruttato un bruscolo presso quella superba, che gli usava sempre le solite cortesie, ma gli faceva scorgere molto chiaramente che il suo gli era tempo sprecato. La marchesa Bianca non amava altri che sè; il leggiadro Percy, diventato suo adoratore, aveva saziato la sua vanità, e non c’era per lei più altro da spremerne. Per tal modo egli era capitombolato nel fosso, innanzi di afferrare i bastioni, e non è a dire com’egli fosse avvilito di quello smacco. La vergogna, soltanto la vergogna, lo riteneva colà, argomento alle beffe dell’universale, dispettoso, ingrugnato con lei, che fingeva di non addarsene punto, in quella che faceva buon viso alle cavalleresche gentilezze del duca di Marana y Cuelva, un giovine spagnuolo che correva per suo diporto da un capo all’altro del mondo, e si riposava un tratto a Genova di un suo recente viaggio alle Indie.
Donna di buon gusto, e di fino accorgimento, quella marchesa Bianca! Senza muoversi, e sopratutto senza commuoversi, ella sfiorava l’etnografia, facendo un albo di adoratori di tutte le razze. Chi sa che a furia di studiare, di raffrontar tipi diversi, ella non giunga alla scimmia! Gli è questo, dicesi, l’ultimo passo degli scienziati odierni, e certo, senza mestieri del dicesi, è l’ultimo passo di molte superbe, le quali, dopo aver molto cercato, e molto rifiutato, fanno capo a qualche gramo personaggio, diventato di botto l’archetipo della specie.
Lo stato di Percy era compassionevole davvero. La signora Perrotti non gli aveva lasciato trapelar nulla di quella apparizione improvvisa. E come d’altra parte avrebbe ella potuto dargliene sentore? La relazione di lui colla signora Argellani era come tante altre che si stringono e si rompono di continuo in questa nostra società bastarda. Tutti sapevano di quella intrinsichezza, ma tutti dovevano ignorarla del pari. Egli andava in casa della Luisa, come tanti e tanti altri; era sempre dove ella era, e mai dov’ella non fosse; ognuno poteva mormorarne alla spartita, nessuno buttargli sul viso quella indebita frase: voi, voi siete l’amante. La signora Perrotti non poteva dire a Percy, anche se lo avesse veduto i giorni innanzi, «badate che verrà l’Argellani» senza aver l’aria di sapere che c’era stato del fuoco e poi del ghiaccio tra i due, e che egli non aveva nemmanco ricordato il suo debito di cortesia verso l’inferma.
E poi, che serve? la signora Perrotti non si dava un pensiero al mondo delle angustie di quel leggiero corteggiatore di donne; ella badava a restituire in trafitture profonde i colpi toccati alla sua vanità. In quel battibuglio che ella pensava di far nascere, ce n’era per lui, vecchio ingrato, come per tante donne, regine di fresco, alle quali doveva sicuramente nuocere l’apparizione di quella donna, fantasma del passato, bellezza rinnovata, resa più efficace dalla oscurità in cui s’era lungamente costretta. La Luisa Argellani ricordava all’Aurelia, impastata di bellezza e di fiele, ciò che questa aveva patito per lei; ma poteva essere anco un’arma potente, un carro falcato da scagliarsi contro altri nemici, a vendicare più recenti sconfitte. Arcani del cuore! È egli mestieri di altre parole per farli intendere ad ogni generazione di lettori?
Ora l’effetto del carro falcato fu grande, più grande di quello che non s’argomentasse l’Aurelia. Come è bella! dicevano gli occhi di tutti, voltandosi alla nuova venuta. Intorno agli altri soli (soli che ricevono luce e calore, come ho già detto al principio di questo racconto, e non ne danno ai pianeti), intorno agli altri soli s’era fatto un ambiente freddo; v’ebbero donne le quali si credevano amate, e in quel momento sentirono mancarsi qualcosa d’attorno, e sto per dire l’aria respirabile. L’ammirazione era tutta laggiù; i pianeti raggiavano tutti verso la signora Argellani.
La bellissima donna sorrideva; di sotto all’arco eminente delle lunghe sopracciglia, i suoi occhi mandavano lampi, ma non già di tempesta; l’incarnato del volto non diceva soltanto la ricuperata salute, ma eziandio la modesta contentezza della vittoria. Strinse affettuosamente la mano alla Roccanera; si lasciò presentare qualche nuovo cavaliere, e presto fu dintorno a lei un crocchio di gentiluomini, una gara di motti leggiadri.
E intanto che faceva il Percy? Egli stette parecchi minuti sopra di sè; poscia, come uomo che dopo aver lunga pezza combattuto, si ferma ad una deliberazione che non gli par buona, ma che è pure l’unica a cui possa appigliarsi, si armò di coraggio e si fece innanzi. La signora Luisa aveva notato ogni cosa, ma il suo viso sereno non lasciava trasparir nulla delle fatte considerazioni.
— Posso io salutare la signora Argellani?
— Oh, signor Percy, Ella può farlo certamente. Io non ho dimenticato i miei vecchi amici.
Ella aveva detto queste parole con tanta cortesia e insieme con tanta misuratezza, che nessuno degli iniziati ai pericolosi nascondimenti di quel dialogo, potè scorgervi ombra di seconde intenzioni. Le donne stesse, che pur capiscono tante cose, non capivano nulla di quella schietta urbanità, non potevano cavarne un costrutto. Ella non aveva premuto della voce su nessuna parola; quella sua risposta era stata una musica, un sorriso, ma senza affettatura, senza ostentazione di sorta.
— Ah! — disse alla sua vicina un tale che s’imputava a volerla indovinare. — La è sempre innamorata come prima. Non vedi quei ramoscelli di non ti scordar di me? L’Argellani è sempre stata quella dei simboli. La viene per riconquistare il Percy.....
— E ne verrà — a capo — rispose l’amica, — perchè la Bianca lo tiene da un pezzo sull’uscio, a morire dal freddo. —
In breve, passato di bocca in bocca, recato da un crocchio all’altro, fu quello il concetto universale. Percy stesso, senza saper nulla di que’ ragionamenti, vedendosi così bene accolto da lei ed onorato di particolari discorsi, se pure non lo disse chiaramente a sè medesimo, certo ne adombrò in cuor suo e ne accarezzò quasi inconsapevolmente il pensiero.
La marchesa Bianca era in gran faccende pel ballo, ed egli ne fece suo profitto per rimanere da presso alla Luisa, non già solo con lei, ma di brigata con altri parecchi, i quali tenevano vivo il discorso.
In un intermezzo delle danze, il crocchio si accrebbe. Il duca di Marana si faceva presentare dalla padrona di casa alla signora Argellani. Era un bel giovine, il duca di Marana y Cuelva; forte di ricchezza e di nobiltà in un mondo nel quale non si pregiano che queste due cose; d’ingegno e di cognizioni svariate, che lo facevano amare dagli uomini assennati; di modi leggiadri e magnifici, che lo rendevano accetto alle donne. Se fosse uomo da lasciare il suo cuore in pegno, non era noto, e non si poteva ancora argomentarlo dal corteggiar che faceva la marchesa Bianca; ma io potrò parlarvene con più agio in un’altra storia, vera come questa, che mi farò a raccontarvi, se m’accorgerò che a questa facciate buon viso.
La presentazione del duca di Marana fu il colpo di grazia per gli ondeggiamenti del Percy. Ah, ah! pensò egli. Costui che corteggiava la Bianca, or viene a’ piedi della Luisa!.... Ma qui non troverà certamente vanità di femmina da accarezzare.
E questo pensiero intanto accarezzava la sua. La Luisa, quella Luisa che egli aveva abbandonata per correr dietro alla marchesa Bianca, valeva ben più di costei, se l’adoratore novello della Roccanera disertava con armi e bagagli per venire nel campo della Argellani. Ora cotesto, meglio assai che le grazie evidenti della persona di Luisa, significò a lui l’efficacia di quella rinnovata bellezza, e lo fortificò nel suo folle proposito.
— Signora — disse il Marana, inchinandosi davanti alla Luisa, — io non mi sono fatto presentare a Vostra Mercede soltanto per ossequiarla, ma eziandio per iscrivere il mio nome nel suo libriccino, se egli c’è un foglietto bianco per me. Mi concede Ella l’onore di una contraddanza, o d’altro ballo che non abbia impromesso?
— Signor duca, io debbo, con mio grande rammarico, negarle questo nonnulla, come agli altri gentili cavalieri che me ne hanno richiesta. Son fresca di malattia, e non ardisco ancora provar le mie forze.
— Mi duole — soggiunse il Marana; — ma Vostra Mercede non avrà certamente negato a nessuno la grazia di rimanerle vicino.
— Oh questo poi no. —
Il duca di Marana si sedette presso a lei, pigliando il posto che gli offriva cortesemente un amico, e cominciò allora una gaia conversazione che non dovea garbar punto al Percy. Il cuore di costui pativa un’aspra battaglia, al vedere Luisa tanto cortese col giovine spagnuolo; la qual cosa lo conduceva all’amarissima considerazione che quella bellissima era stata sua, e che egli non era più nulla per lei, nè aveva più ragione a dolersi.
Luisa cionondimeno era sempre pari a sè stessa, e non faceva differenza tra lui e il Marana, od altri de’ suoi ammiratori stretti a crocchio d’intorno al sofà sul quale essa stava adagiata. A lui spesso volgeva la parola amorevole, incuorandolo a parlare, ed egli notò che ella, avendo per caso a ragionare della marchesa Bianca, ne disse un gran bene, senza che dalle sue parole trapelasse pure un’ombra di rancore. Ma così fatto è il cuore dell’uomo, che perfino quelle schiette lodi tornavano amare al Percy, il quale avrebbe amato meglio scorgervi uno zinzino di gelosia.
Alla credenza, dove il duca di Marana la condusse, fu un vero trionfo per la donna gentile. Il ballo, quando ripigliò, ebbe a rimanere un po’ fiacco, per la contumacia ostinata dei cavalieri. Sissignori, cotesto avvenne, contro tutte le buone creanze. Ognuno di que’ vagheggini pensava che la sua assenza non avesse a far sconcio, e per tal modo ne rimasero una dozzina, a far le viste di satollarsi, ma nel fatto per non allontanarsi dal contemplare la regina della festa, che tale essa era stata salutata per acclamazione.... di votanti maschi, s’intende.
Luisa che si addiede di quella diserzione dal ballo, e non voleva po’ poi farsi odiare oltre il bisogno dalle sue sorelle in Eva, fu costretta a mandare, con dolci esortazioni, parecchi de’ suoi conoscenti nella sala delle danze.
Uno dei più renitenti ebbe l’impertinenza di rispondere, così forte che tutti potessero udirlo:
— Vado, signora, vado, ma solo perchè ella me lo comanda. —
Bel complimento invero per la dama alla quale egli andò a chieder l’onore di una mazurca.
Della signora Argellani, che era là seduta a sostenere gli assalti della ammirazione verbosa di otto o dieci cavalieri, le galanterie foggiate a madrigale, e gli inni ristretti, lampeggiati in languide occhiate; della signora Argellani, dico, si notava la nobile compostezza, si levavano a cielo le risposte leggiadre, si respiravano avidamente i sorrisi. Uccisa dai caritatevoli rimpianti delle donne, ella rinasceva nello spirito innamorato degli uomini. E chi aveva ardito dire ch’ella fosse imbruttita, se era anzi bellissima, e nessuna delle più celebrate per eccellenza di forma poteva entrare a paragone con lei? Che occhi profondi! che profilo delicato! che collo voluttuosamente tornito! E giù una filatessa di pregi, in lingua pigliata a prestanza dal pittore e dallo scultore. I signori uomini sono assai materiali quando nei loro crocchi ragionano delle bellezze di una donna, e ci hanno del brutale nella loro ammirazione.
Ma brutale o no, l’effetto era grande. Perfino la rinomata bellezza della marchesa Bianca aveva impallidito dinanzi alla regale maestà di persona della nuova venuta, e dinanzi alla divina serenità di quel viso. Fu insomma un subisso, una battaglia campale, una vittoria per quella rinnovata bellezza che appariva d’improvviso, tremenda, irresistibile, giusta il biblico paragone, come oste schierata in campo.
«Non ti scordar di me» dicevano umilmente i suoi fiori; ma il trionfo oltrepassava que’ modesti desiderii. In quella che taluni si pentivano d’averla dimenticata, il suo regno era assicurato su salde basi nel cuore di tutti. Ella rientrava loricata, catafratta, in quella società dove il suo petto inerme aveva ricevuto un colpo terribile, e dond’era uscita semiviva; vi rientrava col cuore sano, libero e forte, educata dai suoi danni a conoscere uomini e donne, a non amare nè odiare; magnanima, non fiaccamente pietosa; superba, non orgogliosa, come colei che sapeva la sua forza e si sentiva di tutti a gran pezza migliore.
E nessuno la aveva intesa, quella pericolosa guerriera; nessuno aveva indovinato il segreto dell’anima sua generosa.
Cotesto doveva tornar fatale al Percy.
Il giovinotto aveva fatto male i suoi conti, come tutti coloro che lasciano far d’abbaco alla propria vanità. Meglio per lui se avesse dato ascolto alla vergogna, la quale gli diceva di non osare. Ma la vanità era a tortura; la gelosia di quella donna che era stata sua, rinasceva più gagliarda, quanto più gli altri tutti la dicevano bella e colle parole e con gli occhi. Gelosia e vanità lo persuasero a ridiventar tenero; dopo essere stato villano. Infine, per chi era il dolce richiamo di quei fiorellini simbolici che le adornavano tutta la persona, se non per lui, per l’antico ed unico amante? Se ella avesse incominciato un romanzetto amoroso col suo medico, siccome era stato bisbigliato da qualcheduno, perchè sarebbe venuta alla festa da ballo? E perchè, dato il caso di un capriccio che l’avesse fatta uscire dal suo eremo, perchè il medico, che pure dicevano essere un giovanotto, non c’era anche lui? No, no, il medico non c’entrava punto; quell’amore sbocciato di fresco tra una ricetta e una toccata di polso, era una calunnia bella e buona; Luisa non amava nessuno; dunque....
Il dunque veniva pe’ suoi piedi; dunque ella poteva amar lui, anzi lo amava ancora, non aveva mai tralasciato di amarlo. Que’ fiori erano una confessione ed una preghiera: o non era quella una donna che aveva aspettato di ripristinarsi in salute, per tornare, armata di tutto punto, fresca e bella come prima, a ripigliarsi il suo? Sì certo, la era così, non poteva essere altrimenti.
Fatti tra sè questi bei ragionari, Percy colse il momento che potè dirle due parole da solo, e fattosi animo le susurrò questa frase:
— Mi permettete di venire ad implorare perdono?
Ciò detto, chinò gli occhi a terra e stette tutto tremante ad aspettare la risposta. Fu quello un momento terribile per lui; la terra gli mancava sotto i piedi, e dimenticandosi di aver ragionato con tanta logica pur dianzi, già si sentiva fulminato da uno sguardo e da una parola di superbo dispregio.
Ma egli, chinato com’era, non vide lo sguardo, e la parola giunse in quella vece al suo orecchio dolcissima e carezzevole.
— Perdono? di che, sig. Eugenio? di non essere venuto a vedermi? Oh, non avete bisogno di scuse; io ho inteso benissimo lo stato vostro. Sarete stato trattenuto....
— Sì; — s’affrettò egli a soggiungere, cogliendo imprudentemente il pretesto che ella gli offriva; — compiangetemi; ho avuto molti torti con voi, ma vi giuro....
— Oh, ve li ho già perdonati, i vostri torti; — proseguì la signora Argellani. — Noi donne intendiamo di molte cose, senza bisogno che ci si dicano, e impariamo ad essere generose... Ma non parliamo di ciò; ecco qui il duca di Marana che torna.
— Questa donna ha da ridiventar mia! — esclamò tra sè il Percy, e in quella che l’altro si avvicinava alla signora, si pavoneggiò da lunge in uno specchio che copriva tutta la parete di rincontro. Le grazie irresistibili del suo volto non erano punto scemate, e il nostro eroe, rifattosi animoso, pensò con lieta baldanza a que’ tempi in cui sapeva ridere e piangere così bene, e commuovere a suo talento quel cuore di donna.
Povero vanitoso! Mezz’ora dopo, egli e il duca di Marana accompagnavano la signora Argellani fino alla sua carrozza dov’ella salì in compagnia del vecchio custode che ho già fatto conoscere di profilo ai lettori.
Quella notte la marchesa Bianca se ne andò a casa soletta; chè non poteva parerle compagnia quella di due o tre vagheggini di second’ordine, solite ombre di Percy, quando c’era lui per ricondurla da teatro o da qualche veglia notturna.
Intanto alla signora Luisa, nel salire in carrozza, era parso di raffigurare sul margine opposto della strada il volto mesto e severo di Guido Laurenti. Il cuore le balzò forte nel petto; rispose a mala pena poche scucite parole ai complimenti di commiato de’ suoi accompagnatori, e si rannicchiò pensierosa nel fondo della carrozza, che pigliava al piccolo trotto la discesa della via.