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ATTO II.
SCENA I.
Erasto innamorato, Cintia.
Erasto. (Non ho lasciato luogo nella cittá, dove suol conversar Cintio, che non abbia cerco, e non ho avuto ventura d’incontrarlo).
Cintia. (Ho caminato gran pezza con desio di veder un poco Erasto, perché son risoluta narrargli il mio caso sotto altri nomi e altre persone, per iscoprir qual sia il suo animo verso il mio).
Erasto. (Dove potrá esser gito costui?).
Cintia. (Giá lo veggio. Vo’ narrarglielo in ogni modo).
Erasto. (Ma eccolo). Dove si va, Cintio mio caro?
Cintia. Cercando di voi. E voi?
Erasto. Col medesimo pensiero son uscito di casa ancor io, che non è ben di me quel giorno che non vi veggio; però vi andava cercando.
Cintia. Cercavate uno che non si parte da voi mai.
Erasto. M’amate al solito, eh?
Cintia. Al solito, perché non si può piú, e salito al colmo non si può piú crescere.
Erasto. Non so come stiate di mala ciera, Cintio mio, e con un ventre gonfio: patite forse d’oppilazione o d’idropisia?
Cintia. Di cuor piú tosto; e i dolori son fatti meco sí familiari che non si partono da me mai e mi tengono oppresso cosí di corpo come d’animo. Ahi, ahi!
Erasto. Voi sospirate: certo che sète innamorato, e gli occhi ve lo manifestano.
Cintia. Ragionamo d’altro, di grazia.
Erasto. Se non ragionamo de’ nostri amori, di che ragioneremo noi?
Cintia. Dite il vero, ché a niuno appartengono quanto a noi.
Erasto. Quante dolcezze e gioie ho conseguito in questa vita, tutte l’ho conseguite per vostro mezo.
Cintia. È vero che senza me non areste avuta niuna dolcezza, né di ciò mi dovete aver obligo alcuno, perché di quella ne ho avuto altretanta anch’io, anzi il doppio, ché ho avuto il mio e il piacer del vostro piacere.
Erasto. Orsú, narratemi i vostri amori, ché farò tutto il possibile accioché abbiate il vostro intento.
Cintia. Fusse pur cosí che lo diceste col core e non per complemento con parole di cerimonie!
Erasto. Mi sia cavato il core se non lo dico con tutto il core!
Cintia. Volendo voi favorir i miei amori, son gionto a quel segno a cui son volti tutti i miei pensieri.
Erasto. Io non m’offerisco di nuovo, accioché non ponga in compromesso quello che vi ho offerto da prima. Vorrei che mi comandaste, accioché io cominciassi a sciôr uno di quegli oblighi che vi tengo, e ogni affanno che patissi sarebbe ben impiegato per voi.
Cintia. Non vi feci alcun serviggio mai che non l’avessi fatto con animo di farvene degli altri: bastare solo che conosciate che io vi ami.
Erasto. Non moltiplichiamo in cerimonie; pregovi per quanto amor mi portate, che mi scopriate i vostri amori.
Cintia. Poiché mi giurate per cosa alla quale io non posso venir meno, io vo’ narrarvi i miei amori.
Erasto. Orsú, dite.
Cintia. Gli dirò. Ma fate conto che voi siate quella persona che tanto amo e a cui sia accaduta questa mia amorosa istoria, accioché ne possiate far quel giudicio che si conviene. ...
Erasto. Volentieri.
Cintia. ... Io avea amicizia con una persona, l’eccellenza della cui bellezza era tanta che non si potria esprimere a parole, ché come avanzava tutte l’altre da me conosciute, cosí conversando con lei me ne accesi sí fieramente che la fiamma era al maggior grado. Ma io fui cosí destro che non la feci accorta dell’amor mio, dubitando che, non essendo convenevol sogetto d’esser riamato da lei, avesse schivato o sdegnato l’amor mio. M’accorgo che costei s’era invaghita d’un gentiluomo, ma da quello non conosciuta o stimata poco; onde era cosí impossibile io di lasciarla come quello fusse rivolto ad amarla. Io, vedendo che col core ci perdeva il tempo e la vita insieme, feci pensiero d’ingannarla. Mi domestico con la balia, la corroppi con danari e l’indussi a tradirla d’un amoroso tradimento. ...
Erasto. Questo è un principio d’ingiuria.
Cintia. ... Finse la balia esser amica del gentiluomo amato; e le referí da sua parte che molto gradiva l’amor suo, ma per certi rispetti, che sarebbon lunghi a raccontarsi, egli non voleva venir a lei se non di notte, che a pena si fidava di lui medesimo. La donna rimase contenta, e si determinò la notte; ed io con le vesti simili a quelle del gentiluomo, sotto il mentito abito fui introdotto in sua camera, gli diedi la fede e godetti del suo amore. ...
Erasto. Come costei fu cosí sciocca che non s’accorse che non giaceva con quello che tanto amava?
Cintia. Quella falsa imaginazion di dolcezza l’ingannò, avendo ripieno l’animo dell’imagine della sua bellezza.
Erasto. Ognuno si può ingannare, ma non un innamorato.
Cintia. La buona sorte m’aiutò, in somma.
Erasto. In ogni cosa io porei esser ingannato, ma non in questa.
Cintia. ... Cosí ella pigliando molte volte me in fallo, ma non io lei, sotto sí piacevole inganno ho gustato le estreme dolcezze di amore. Ahi, che non ingannava lei, ma ingannava me stesso, perché abbracciando lei abbracciava la mia ruina, cercando refrigerio in mezo le fiamme e riposo in mezo le pene! Ecco il meglio stato dove mi trovo.
Erasto. Cintio mio caro, per dirvelo alla libera, come conviene fra tali amici come noi siamo, da che nacqui io non viddi piú brutto e piú infame atto di questo, o non piú mai inteso tradimento al mondo, indegno non solo da imaginarsi da un gentiluomo par vostro ma da un barbaro e ben incolto; né so come in un bell’animo, come il vostro è, abbia potuto capir cosí brutto pensiero. Avere ingannato una donna, il cui sesso è esposto all’ingiurie di ognuno, poi innamorata! E che si può dir peggio? Converrebbe che quella gentildonna perdesse la vita per farla perdere a voi, avendo con voi perduto il suo onore; e che colui, sotto il cui nome l’avete ingiuriata, togliesse per lei l’impresa. Ed io vi giuro su la fé di gentiluomo che, se non fussi vostro amico cosí stretto, terrei l’impresa di ambedue sovra di me, tanto è l’atto infame e disonorato!
Cintia. Oh che sentenza crudele, oh che giudice precipitoso! come prorumpete in un cosí rigoroso decreto senza ascoltar le mie ragioni e legittime difese!
Erasto. E che ragioni e che difese?
Cintia. E chi fu mai condannato senza ascoltar le sue ragioni? Amava e ardeva senza speranza, occecato di amore non sapeva quello che mi facesse.
Erasto. Amor non fu mai cagion di atto discortese e infame.
Cintia. Il mio non fu effetto di malvagio pensiero siccome appare alla prima vista, ma per alleggiar la mia passione e non morirmi, sapendo quanto è naturale cosa difendersi dalla morte. E che? voleva io consumar la mia vita in piangere e suspirare?
Erasto. Non si deve mai commettere inganno.
Cintia. E se pur si dovesse commettere, solo per amor si dovrebbe.
Erasto. Chi veramente ama non fa cosí.
Cintia. Anzi, chi veramente ama fa cosí.
Erasto. Chi ama procura l’amor della sua amata, non le procura biasmo o disonore.
Cintia. Era mia moglie, non l’ho machinato contra l’onore.
Erasto. Il matrimonio non è valido, perché non è contratto con colui col quale ella aveva l’animo; e se voi non foste cosí occecato dalla passione, un tal fatto lo reprenderesti in un altro. Né so come non vi morde la conscienza, che val piú di mille testimoni e accusatori.
Cintia. Che ho fatto altro di male che rubbar le dolcezze altrui?
Erasto. Ma che dolcezze eran le vostre di goder quel corpo di cui l’animo non concorreva col piacere con voi? godevate un cadavere.
Cintia. Vuol la ragione che chi è amato ami, se non vuol essere ingannato.
Erasto. Nello amore non bisogna assegnar ragioni, perché è libero.
Cintia. Voi dunque perché ne assegnate tante contro di me? Avete il torto a star cosí sul rigor del primo decreto: m’avete cosí inacerbite le piaghe dell’anima che me ne sento morire.
Erasto. Seguite. Par che non abbiate parola: che mutazione è questa? voi mi parete mezo morto!
Cintia. Sento un svenimento d’animo che mi pone in forse tra il vivere e il morire.
Erasto. O Dio, che cosa è questa? Cintio mio, rivenite!
Cintia. Ho fretta di partirmi; adio.
Erasto. Non vorrei che costui patisse alcun male, per quanto mi val la vita, perché è il piú gentil, cortese e leal amico che mai nascesse, e mi ama svisceratamente. Volea ragionargli un poco de’ fatti miei, ed è partito subito. Ma non so perché tardi tanto Dulone, il mio servo, ché ho mandato in dono una collana ad Amasia. Ma lo veggio venire. — Dulone, dimmi, son morto o vivo? perché mi porti la morte o la vita nella tua lingua.
SCENA II.
Dulone servo, Erasto.
Dulone. Morto, arcimorto, piú di lá de’ morti, ascoltate.
Erasto. Come vuoi che ascolti se dici che son morto? i morti non ascoltano.
Dulone. Rivocate l’animo a voi mentre vi racconto quanto ho fatto. — Andai col presente a Pandora mia amica e intrinseca di Amasia, le narrai i progressi de’ vostri amori: come per mezo di Cintio vostro amico siate sposati insieme e come è pregna di voi vicina al parto, e che l’avete fatta chiedere a Pedofilo per moglie, il qual, se ben al principio s’è mostrato alquanto ritrosetto, speravate che presto ve la concederebbe. ...
Erasto. Presto alla conclusione, che sto attaccato alla corda.
Dulone. ... E come la domenica passata giaceste seco tutta la notte. Ella ne restò tutta stupefatta, che, essendo Amasia tanto sua amica e intrinseca, in una cosa di tanta importanza non si fusse fidata di lei. E dice che la domenica passata fu con lei in un festino in casa di una sua vicina insino alle sei ore, e che poi dormí in sua camera insino al giorno, e che era impossibile che voi fuste giaciuto seco. Di piú, che l’ha spogliata e vestita mille volte e che in conto alcuno ha segno di pregnanza, anzi il ventre è cosí scarno e ritratto in dentro che non par femina. ...
Erasto. Uccidimi presto e non farmi morire d’una ferita immortale.
Dulone. ... Al fin le diedi i dieci ducati per amor vostro e le diedi la collana, ché la portasse ad Amasia. Andò molto volentieri: e dice che Amasia restò molto meravigliata, e che non solo non era vostra sposa ma che né col pensiero ci era caduta mai, e che ha sí ben amicizia con Cintio ma che di voi non mosse parola mai; all’ultimo, che l’avevate presa in cambio: e le tornò la collana. Eccola. Avete inteso?
Erasto. Cosí fusse nato sordo! Ma non lo credo.
Dulone. Perché non lo credete?
Erasto. Perché se lo credessi morirei.
Dulone. Non lo credete perché vi dispiace.
Erasto. Ma tu non sai che la domenica passata giacque meco e l’ebbi nuda in queste braccia? come dice che dormí seco in sua camera?
Dulone. Dite che nol credete, e pure il domandate.
Erasto. Cerco la veritá del fatto.
Dulone. Quanto piú cercherete peggio troverete: ché quel Cintio, che voi stimate cosí buon amico, è...; basta.
Erasto. Che vuol dire quel «basta»? che dici balbottando? che ti riservi fra la lingua?
Dulone. M’ha ciera di un traforello, di un traditorello.
Erasto. Ma che piú bella ciera si potrebbe veder di quella sua? come sotto quel color di latte e rose può covar tradimento? come è possibile che quel che dentro si covasse non apparisse di fuori?
Dulone. Io non so perché tanta affezione.
Erasto. Mi ama, mi onora, mi serve con ogni affetto e ne ricevo continui benefici, che è la maggior catena che attacchi la benevolenza.
Dulone. V’ama e vi serve con amor simulato e con nemicizia coperta, con desegni.
Erasto. Che utile ne può sperar egli da me?
Dulone. Che so io?
Erasto. Parla, col tuo malanno!
Dulone. Dubbito non ve la facci doppia.
Erasto. Come doppia?
Dulone. Che mentre egli vi trattiene in casa sua con qualche puttana vecchia in letto sotto nome di Amasia, si giaccia con Lidia vostra sorella.
Erasto. Perché tu non avesti mai né bontá né fede, col paragon del tuo animo fai giudicio degli altri e pensi sia qualche traditore.
Dulone. Io non lo penso ma lo credo.
Erasto. A che te ne sei avvisto?
Dulone. Quando egli viene a casa a trovarvi, Lidia a scavezzacollo corre agli usci, alle fenestre per vederlo; si tramuta di cento colori; e se la onestá di donzella non gliel vietasse, correrebbe in mezo la strada per vederlo.
Erasto. Di questo me ne sono avveduto anch’io, lo confessa ella e l’ha fatto chiedere al padre per suo sposo; ma egli risponde che non vuol ammogliarsi. Se l’amasse come tu dici, l’accettarebbe per isposo.
Dulone. Pazzo è chi accetta per isposa chi può giacer seco quando gli piace.
Erasto. Taci, lingua fradicia! Non so io il costume di servi, che come veggon un che sia caro al padrone se gli congiurano contro? tu cerchi turbar una coppia di amici cari come noi siamo.
Dulone. Questo s’acquista per dirsi il vero a’ padroni e per tener dal suo onore.
Erasto. Non mi sono accorto io che da certi giorni in qua tu l’odii?
Dulone. Perché da certi giorni in qua m’accorgo che vi tradisce.
Erasto. È gentiluomo, non fará cosa cattiva.
Dulone. Quel che non fa la natura, lo fa il mal uso. Ma io dubito che voi siate come colui che ha la febre al cervello, che vede una cosa per un’altra. Dice madonna Pandora ch’ella non vi conosce, che non ha ventre gonfio per pensiero; e voi dite che è vicina al parto.
Erasto. Pandora deve esser qualche porca come tu sei: vi sète accordati insieme per farmi cadere in odio Cintio. La domenica notte l’ebbi in braccio a suo e tuo dispetto: non sognava o stava in estasi, e credo piú a me stesso che a ninno.
Dulone. Non dico io che non siate giaciuto con una donna e che non sí l’abbiate impregnata, ma non è Amasia.
Erasto. Quella con la quale io giaccio ha il piú bel corpo che mai si sia visto, i piú gentili costumi che sieno in donna, la maggior accortezza che s’udí mai.
Dulone. Dubito che non siate come quello che dorme, che sempre sogna quel che desia, e desto poi trova il contrario; ma il giorno avete la mente cosí ripiena dalla sua imagine che la notte pur al buio vi par di godere l’istessa bellezza. Però vi dovreste risolvere di vederla ben di giorno e non starne con l’animo cosí dubioso.
Erasto. Se potesse essere saria giá fatto.
Dulone. Usate l’ingegno o la forza.
Erasto. Non vorrei turbarla o farle dispiacere, siché offesa nella fede o nell’onore si sdegnasse meco e non l’avessi a godere piú mai.
Dulone. Non è vostra moglie? non è per partorir tra poco? È bisogno che si sappia, o le piaccia o dispiaccia.
Erasto. Orsú, cosí son rissoluto di vederla a mio modo, e se non posso di giorno, di notte avendola in braccio: vo’ per forza portarla a casa, e seguane quel che si voglia, rovini il mondo, ancorché avesse a romper seco l’amicizia e uccidermi con Cintio.
Dulone. Concorro con voi in un istesso volere, e sol ciò ho voluto tutto oggi significarvi.
SCENA III.
Capitano, Pedofilo.
Capitano. Io penso che arai mille volte letto, Pedofilo mio padrone, per tanti scartafacci che Teseo rapí Arianna, Achille Briseida ed Ercole Pirene, e poi quanti fracassi ne sieno seguiti da queste rapine. Io di questi Teseunculi, Achillini ed Erculetti ne porto le centinaia attaccati per stringa; or pensa che arei fatto per Amasia tua figlia, di che ne sto cotto e spolpato. Ma Amor, che doma i leoni, le tigre e i ferocissimi animali, mi mitiga l’orgoglio e rammorbidisce il mio rabbioso sdegno. Onde per lei ho dismesso mandar popoli a fil di spada, cittá a sangue e fuoco e far balzar castelli per aria con le mine e altre opre da stragi; e vo’ piú tosto con amorevoli persuasioni conseguire il mio intento che venir alla forza. Però mi meraviglio non poco di te che a concederlami ne stia cosí restivo.
Pedofilo. (Io non vidi in mia vita giamai il piú bugiardo vantatore, timido e impastato di mala creanza, di costui: oh che venerabil bestia!). Mi meraviglio di voi che me la dimandiate.
Capitano. Anzi vo’ che abbi a sommo favor di darlami: ho cento gentildonne principali, principesse e regine che me ne pregano, perché di pari miei pochi se ne trovano nel mondo.
Pedofilo. Di grazia, toglietevi una di queste regine e lasciate mia figlia.
Capitano. Il fatto sta a poterlo fare. Se potessi cosí lasciar d’amarla come farla principessa o regina, lo farei assai volentieri. Che pensi tu che ci metta a far una principessa? in una ora ammazzarei tutte le persone di una provincia e la fo principessa, e volendola per reina porrei a fil di spada tutti gli uomini del mondo; ma non lo fo per non restar solo e non aver a chi comandare. Chi pensi che sia io? Ho tanto caldo nel petto che, un minimo suspiro che buttassi, accenderei l’aria e ridurrei una montagna in cenere; e se ponessi il piè in fallo e stropicciassi, farei venir il terremoto; ho la presa delle mani tanto gagliarda che, se non toccassi le cose con destrezza, ne farei polvere.
Pedofilo. E per questo non vo’ darvi la mia figlia, ché volendola toccare non ne faceste polvere, e volendola baciare ne faceste cenere.
Capitano. Per dirti il vero, ho piú l’animo inchinato a combattere in steccato da solo a solo, debellar popoli, ruinar muraglie e abbatter beluardi che a trattar con donne. Ma Amor per questa volta me n’ha còlto e fa ch’io arrabbi per mio dispetto.
Pedofilo. E Amor fa contrario effetto in lei, perché non ha core col qual ne possa amare.
Capitano. O Amor senza amor, che ogni cosa hai sopra, eccetto che di amore, dove sei? fatti vedere, ché ti farò conoscere chi sono o sia in campagna, fantasma con quei tuoi straluzzi spuntati! Puoi negar tu che non sia figlio di una puttana? se ne dici il contrario, menti per la gola. Ti fo troppo onore pormi con te. Una sola cosa ti scampa dalle mie mani: che ho troppo vantaggio teco ed io non voglio combattere con vantaggio: tu putto ed io gigante, tu nudo ed io coperto di piastre e maglie, tu con uno archetto ed io con pugnali, spadoni a due mani e pistoletti. Se tu fussi mio pari, verrei fin costá dove sei, per disfidarti. Ma tu a che ti risolvi?
Pedofilo. Voi pensate che siate solo a ricercarmela? son tanti che per sbrigarmene non posso attendere a’ fatti miei.
Capitano. E chi son costoro? Fusse mai quel cattivello, quel disgraziato di Erasto, quel civettone che non fa altro tutto il giorno che civettarci intorno alle finestre? e va infamando per tutto che t’ha impregnata tua figlia?
Pedofilo. Perché non può essere quel che dice, non me ne curo.
Capitano. Una bastonatina che gli darò, lo farò star un anno ammalato in letto, che non ci dará fastidio. Ma tu sei uno di quei che piglia il peggio. Aimè, e cerchi altri? Ascolta: Amor regge suo imperio senza spada; non darmi tu occasione che l’abbi ad adoprare!
Pedofilo. Vi lascio, ché ho da fare.
Capitano. Lascio io te, ché ho da far piú di te.
SCENA IV.
Cintia, Erasto.
Cintia. (O quanto è misera e infelice la mia vita, posciach’io, io, oimè!, io con le mie orecchie ho inteso da Erasto la crudel sentenza della mia morte; ché, sperando ch’egli avesse compassione dell’amor mio come imagine del suo, dimostrò il volto avampato del foco dell’ira che l’ardeva nel petto, e negli occhi suoi come in un specchio si vedevano scolpiti il veleno e il furore, e le parole che venivan fuori eran piene della perfidia del suo mal animo. Onde io, percossa da quelle parole come da un folgore, fui morta prima che morisse, siché ancora ho l’orecchie piene dell’ingiurie dettemi. Or che farò quando s’accorgerá che quello, che ho celato sotto l’altrui persona, sia accaduto nella sua propria? Ahi, che la sentenza della mia morte nella sua bocca mi parea dolce e suave! Oh contro me implacabil contumacia di fortuna! se taccio fo male, se parlo fo peggio, se non parlo io parlerá il ventre per me. Che speranza posso aver io di salute, se l’infirmitá ch’io pato sono fra sè contrarie e discordanti, e quel che giova all’uno nuoce all’altro? Ecco i giochi della mia infelicitá! oh che sogetto di poco onorata favola darò di me per tutte le lingue: uomo di giorno e femina di notte!).
Erasto. Cintio mio, vi son gito cercando una gran pezza.
Cintia. Eccomi per servirvi.
Erasto. Ti ha lasciato il dolore?
Cintia. I dolori mi son fatti tanto familiari che mai quasi non m’abbandonano.
Erasto. Cintio mio, perché conosco l’amor vostro verso di me, piglio animo di avalermi del vostro favore: i’ vorrei pregarvi di molti favori che mi premono ben assai.
Cintia. Ho caro me si porga occasione onde possiate accertarvi dell’amor che vi porto.
Erasto. Ditemi prima: che sai d’Amasia mia?
Cintia. È sempre con voi la poverina, e piú ora che mai.
Erasto. Da questo, di che intendo pregarvi, piglio argomento dell’amor che mi portate: ché la notte che viene mi trovi con Amasia e, perché senza voi non posso far nulla, mi avaglio della grazia solita.
Cintia. Veramente senza me non potreste far nulla: farò di modo che la mia balia gli ne faccia motto e che restiate sodisfatto in ogni modo.
Erasto. Vorrei un’altra grazia: vederla in casa vostra di giorno o in fenestra fuor della gelosia liberamente, perché, avendola amata tanto tempo ed essendo mia sposa, non ho potuto saziarmi di vederla a mio modo.
Cintia. Mi chiedete cose troppo difficili, Erasto mio: io vorrei che soffriste quanto potete, e godeste fratanto tutto quel piacere che vi viene offerto dalla vostra felice avventura, ché poi quando sarete vostri conoscerete le cagioni scerete di quel che or non sapete. Come volete ch’una donzella, o stimata donzella insin ora, venghi di giorno in casa mia ove non son altre donne ch’una mia balia vecchia e scimonita, e per farsi veder per le fenestre? Ponetevi in suo luogo e siate giudice di voi stesso.
Erasto. Non è ella mia moglie? l’onore e la sua infamia è mia.
Cintia. Vi ponete a pericolo che, scoprendosi un tantino, la perderete per sempre.
Erasto. Ella è in punto di partorire e bisogna che si scuopra: un poco piú over un poco meno non importa.
Cintia. Forse fra questo mezo porebbe balenar per voi qualche raggio di speranza.
Erasto. Né mi basta sol questo; ma quando trattarete con lei in questo particulare, vorrei esservi io presente e ascoltarlo con le mie orecchie.
Cintia. A che proposito? dubitate forse non si faccia l’ufficio cosí caldamente come desiate?
Erasto. Sapete che gli amanti intorno i loro amori credono solo al testimonio degli occhi loro. Fate, Cintio mio caro, ch’io non resti cosí defraudato d’un mio cosí ardente desiderio, e se amate la mia vita adopratevi per lei.
Cintia. Non si lascierá opra per servigio vostro, e se non di tutto, almeno in parte ne resterete sodisfatto. Tratterò con lei; ma bisogna che restiate discosto e appiattato di modo ch’ella non se ne accorga, ché, cosí ingannandola, voi ne resterete sodisfatto e a lei non darete occasione di dolersi di voi.
Erasto. Vi prego a mostrarmi con effetto quello ch’or dimostrate con le parole. Ma non è Amasia quella ch’or si mostra in fenestra? ella è per certo e par che mostri voglia di ragionarvi: vi sta mirando.
Cintia. (O Dio, a che punto costei ha voluto comparir in fenestra!).
Erasto. O felice incontro! Or conoscerò, Cintio mio caro, quanto appresso di voi vagliano le mie preghiere.
Cintia. Scostatevi ché non vi vegga, se non che sconciaremo il tutto.
Erasto. Sto qui bene?
Cintia. Un poco piú in lá; un altro poco: cosí state benissimo. (O Dio, in che pericolo mi pongo! Questo voler ascoltar con l’orecchie sue e voler chiarirsene con gli occhi suoi è un certo che di voler tacciarmi di mancamento di fede, e io conosco al volger degli occhi che ha non so che contro di me. Certo sará insuspettito del fatto mio; onde, accioché la suspezione non alligni e vada crescendo nell’animo suo, è bisogno estirpar le radici e purgarla con altra evidente chiarezza).
SCENA V.
Amasio, Cintia, Erasto, Lidia, Balia di Lidia.
Amasio. (Desiderarci veder passar per costá Cintio per mostrar a Lidia che m’affatico a servirla. Ma non vorrei che Cintio s’accorgesse del fatto e che per mio mezo s’amassero da dovero e io fussi ministro del mio male; ma ragionando con lui vo’ ingannar l’uno e l’altra, e trattando di altra cosa li facesse ascoltar solo quelle parole che facessero a suo proposito).
Cintia. (Parlerò con Amasia ma non di Erasto, percioché, se da dovero s’amassero insieme e si scoprisse l’inganno, sarebbe spacciato il fatto mio ed io stesso m’arei data dell’ascia ne’ piedi. Ma bisogna ingannarlo, e se l’inganno non mi riesce, son rovinata. Parlerò di modo che alcune parole ne ascolterá egli che li parranno che vadino in suo favore, e parlerò basso poi quelle che non voglio che ascolti. Dio me la mandi buona!).
Amasio. (Ma ecco la balia di Lidia che vien fuori dalla sua casa). Balia balia! accostati a me.
Balia. Eccomi, signora mia.
Amasio. Di’ a Lidia che ascolti dalla fenestra ch’ora ragionerò di lei a Cintio, perché me ne porge occasione; e aiutami come m’hai promesso.
Balia. Molto volentieri; ma siate destra che né Cintio s’accorga di lei, né pur ella dell’inganno.
Cintia. (Io vo’ salutarla).
Amasio. (Io vo’ salutarlo). Signor Cintio, Dio vi dia ogni contento!
Cintia. Ne arei bisogno, signora Amasia mia padrona! E a voi doni Iddio ogni contento e felicitá; né bisogna ch’io domandi come stiate che vi veggio bellissima.
Amasio. L’affezion che mi portate vi fa parer cosí.
Cintia. Anzi è cosí il grido universale, che dove voi apparite come un lampo offuscate lo splendor di ciascheduna: e questa mattina in chiesa se ne vide il paragone al giudicio di tutti e principalmente di un fidelissimo e affezionatissimo vostro servitore che vi ama e riverisce fra tutti.
Erasto. (Certo ch’ora le vuol ragionar di me, che ha detto: un fidelissimo e affezionatissimo vostro servidore che vi ama e riverisce fra tutti»).
Amasio. Chi è costui che voi dite?
Cintia. Era stamane io cogli altri in chiesa, che la giudicai tale.
Erasto. (Non tel dissi io? ben l’indovinava: ha detto «Erasto»).
Cintia. Non son io vostro servidore?
Amasio. Anzi, mio carissimo padrone.
Erasto. (Ha risposto che son suo «padrone». O Cintio mio galante, o Cintio mio realissimo amico!).
Cintia. Le vo’ chieder una grazia, ...
Amasio. Che mi comanda?
Erasto. (Le chiede «una grazia»: certo le dirá che venghi a giacer meco questa notte).
Cintia. ... la qual perché sète solita concedermi altre volte, mi prometto tanto del suo favore che so non mi mancherete: ...
Amasio. Dite via, presto.
Cintia. ... che mi prestiate le vostre vesti, che vogliam recitare una comedia; e mi servono dalle due ore di notte insino all’alba. ...
Erasto. (L’ha dimandato «una grazia solita». E poi non so che ha detto, ché non l’ho potuto intender bene; ma ará detto che venghi «alle due ore di notte insin all’alba») .
Cintia. ... E se volete venir in casa nostra a vederla, ci onorarete con la vostra presenza.
Amasio. Se volete questa será al vostro comando, né bisogna me ne abbiate obligo alcuno, che ho piú a caro servirlo che voi, o esser servito; del venir a veder recitar la comedia non posso prometterlo, ché tra noi donne vogliam far maschere questa sera.
Erasto. (Ha detto: che «questa sera» verrá per servirlo, né di ciò bisogna che ce ne abbi «obligo alcuno», e che ha «piú a caro servirlo che d’esser servito». All’ultimo non so che ha detto. O felice mia ventura!).
Cintia. Ma quando io vi reservirò tanta grazia?
Amasio. Farei altra cosa per amor vostro.
Cintia. Vorrei un’altra grazia da Vostra Signoria: ...
Amasio. Comandate liberamente.
Erasto. (Le chiede «un’altra grazia»: certo sará da farsi veder liberamente in fenestra).
Cintia. ... che quando mi mandate le vesti, me le porgeste per quel vicolo con una pertica e che non le faceste veder per la fenestra sopra la porta senza gelosia; ...
Erasto. (Giá l’ha pregata che compara «su la fenestra senza gelosia sopra la porta»).
Cintia. ... accioché le genti vedendole non pensino alcun male. ...
Amasio. Farò quanto da voi mi vien comandato.
Erasto. (O vita mia, quanto ce l’ha concesso liberamente! Ma non so che altra cosa ha detto piú bassamente. O Cintio mio caro, e con quanto bel modo ne la priega! Dove sei, o Dulone, ché l’ascoltassi, ché conosceresti Cintio quanto fusse lealissimo amico?).
Cintia. ... E questo per un effetto importantissimo: ...
Amasio. Io non vi ho inteso. Accostatevi un altro poco: dove sète?
Cintia. Dove era sto. — ... dico, per un effetto importantissimo.
Erasto. (Ha nominato «Erasto», e dice: «per un effetto importantissimo»).
Amasio. (Giá Lidia compar su la fenestra — oh, mia ventura! — e la balia le sta a lato: certo ne aiuterá al bisogno). — Signor Cintio, una vostra umilissima serva ancora vi supplica d’un favore.
Lidia. (Certo adesso le deve ragionar de’ fatti miei).
Cintia. Chi è «questa umilissima mia serva»? quella corteggiana dell’altro giorno di cui mi ragionaste?
Amasio. Il malanno che Dio li dia! è la vostra umilissima serva Amasia.
Cintia. Costei è degnissima mia padrona.
Balia. (Ascolta, figlia, che ha detto che «Lidia è vostra umilissima serva», ed egli ha risposto che sète la sua «dignissima padrona»).
Lidia. (O Amasia mia cara, in quanto obligo tu mi poni! ben conosco che m’ami!).
Cintia. Che dunque mi comanda ella?
Amasio. Che questa notte alle due ore vengate a casa a portarmi le vostre vesti; ed io le manderò a tôrre, acciò li dia ad una sua amica, ché vogliam far maschere tra noi.
Balia. (Li ha detto che venghi «alle due ore di notte a casa di Lidia»).
Lidia. (Giá l’ho inteso benissimo).
Cintia. Farò quanto dalla mia padrona mi sará imposto.
Lidia. (O felicissima Lidia, ecco quello che non ha potuto il padre, la balia e tutto il mondo. Amasia mia dolce l’ha conseguito in un subito: aver accettato che vuol venire insino a casa!).
Cintia. Se volete questa che ho adosso, questa sera certissimo.
Lidia. (Ha replicato: «questa sera certissimo»).
Amasio. Quelle istesse che altre volte m’avete prestato, ché siam simili di persone.
Lidia. (Non ho potuto intendere quel che ha detto ora: ha parlato pian piano).
Balia. (Dice che in ogni modo verrá in persona).
Amasio. Non mi mancate, di grazia, se m’amate.
Cintia. Mancherei piú tosto a me stesso.
Amasio. Io adesso vo a spogliarmi per mandarvele; adio.
Cintia. Adio, signora mia.
Lidia. (O felice e contenta Lidia, che alle due ore di notte vedrò qui Cintio, sfogherò seco i miei ardori raccontandogli le mie pene! Balia, vattene a casa sua e fatti raccontare appuntino ogni cosa che han detto, ché non ho potuto intendere ben il tutto).
Balia. (Andrò or ora).
SCENA VI.
Erasto, Cintia.
Erasto. Cintio mio caro, amico mio dolce, convenevol mezo da conseguir tutte le mie amorose consolazioni, quando vi pagherò giamai tanto obligo? Deh, lasciate che vi baci le mani apportatrici de’ remedi alle mie passioni!
Cintia. Vo’ che me ne baciate la bocca, se la mia indignitá nol vieta.
Erasto. Io stesso non avrei potuto far l’ufficio per me stesso secondo l’animo mio, e se voi foste stato nel mio core e io nel vostro.
Cintia. Non so se io son nel vostro: so ben io che voi sète nel mio. Ma se di queste cosucce mostrate avermene cosí grand’obligo, quanto me ne devreste per quelle che non sapete?
Erasto. Vorrei poter sodisfar l’obligo di quanto fate per amor mio.
Cintia. E se non lo fo per amor vostro, per chi lo debbo far io?
Erasto. Ma dimmi, Cintio mio, tutte le paroli e che ti disse del venir alle due ore di notte e del comparir su la fenestra; ché non potei intender ben bene il tutto.
Cintia. Del venir questa notte, disse che per téma di suo padre e di quei di casa, che non si fussero avisati del fatto, avea determinato fra sé per alcuni mesi aver pazienza di non essere insieme con voi; ma a’ vostri e miei prieghi dice che verrá senza fallo, ancorché fusse sicura di aver a perderci la vita: né lo poté esprimere che con le piú suavi e dolci parole.
Erasto. E come non volevano esser dolci e suavi se uscivano dalla piú dolce e suave bocca de quante mai fussero in terra? Poi, che disse del comparir su la fenestra?
Cintia. Che arebbe dato una scorsa per la casa; e come tutta la famiglia era occupata ne’ servigi, arebbe fatto segno alla balia ch’io fusse venuto alla buca, e che sarebbe passata in casa mia.
Erasto. Deh! andatevene a casa, gentilissimo Cintio mio, ché forse or ora potrá aver l’agio e venirsene a casa vostra; ché con la medesima affezione io servirei negli amori vostri.
Cintia. Quando i miei amori saranno aiutati da voi, saranno felicissimi. Orsú, io me ne vo, ché questa festa non si può far senza me.
Erasto. Veramente la gentilezza e la cortesia di Cintio è incomparabile, e conosco che m’ama lealmente. Ecco, pur mi son chiarito di alcune cose: che in mia presenza Cintio ha ragionato con Amasia di me, e l’ha promesso venir questa sera — e l’ho inteso con le mie orecchie — e che or ora si fará su la fenestra; che se verrá, conoscerò chiaramente che tutto sia forfantaria quanto mi ha detto Dulone di lui.
SCENA VII.
Balia di Cintia, Erasto, Cintia.
Balia. Erasto mio padrone. Amasia m’ha fatto intendere che verrá or ora alla fenestra, che mandiate Cintio a far la spia e che non vi tratteniate.
Erasto. Cintio è giá venuto, ed io non mi partirei di qua se mi fusse consignato l’imperio di tutto il mondo.
Balia. Eccola che viene.
Cintia. Erasto, vita mia. Dio vi dia ogni contento e felicitá!
Erasto. Ogni contento e felicitá che posso aver in questa vita è la tua presenza, anima mia!
Cintia. M’avete comandato per Cintio, vostro fidelissimo amico, che fusse venuta qui in finestra: ecco vi ubbedisco, perché la vostra bellezza è fatta padrona del cor mio, ogni vostro desiderio è fatto padron del mio.
Erasto. e quando io potrò compensarle cotanta cortesia?
Cintia. Io non ho fatto mai tanto per lei che il suo merito non ne meritasse molto piú.
Erasto. Ma qual merito non cede a tanta ricompensa? pregovi per ora appagarvi della mia perpetua servitú.
Cintia. Non può esser servo chi è maggior del padrone.
Erasto. Signora mia, poiché questa è la prima volta che le parlo di giorno e la prima che Vostra Signoria mi favorisce della sua vista, la prego a far questo ufficio un poco piú spesso.
Cintia. Il farò sempre che conoscerò che il vedermi vi apporti piacere.
Erasto. Come volete che non mi apporti piacere, se non per altro ho caro questi occhi che per vedervi?
Cintia. Gli occhi vostri non devrebbono mai veder altro che voi stesso, perché non ponno mirar cosa piú bella di loro; e però devreste sempre tener dinanzi un specchio.
Erasto. Voi sète il mio specchio, ché mirando voi vedo tutto quel bello che posso veder qui in terra; e se pur vedete in me cosa che vi piaccia, vien dal reflesso della vostra bellezza. Ma lasciamo le cerimonie. Vorrei, signora mia, che mi amaste piú di quello che fate.
Cintia. V’ho donato il mio core e sta giá in vostra podestá: fatevi amar quanto vi piace. Ma ditemi, signor mio, come posso amarvi piú di quello che vi amo?
Erasto. Se m’amaste quanto vi amo io, desiareste vedermi piú spesso di quello che fate.
Cintia. Se voi mi vedete di rado, io vi vedo ben spesso ad ogni ora che voglio, e vi son sempre appresso come ve ne accorgerete alcun giorno.
Erasto. Ditemi di grazia, è vera tanta difficoltá, che vi pone Cintio, quando io vo’ venire a vedervi?
Cintia, Quanto Cintio vi dice è tutto vero; e fate conto ch’io e Cintio siamo una cosa medesima: che vi parli con la mia bocca, che vi ami col mio core, ch’io sia la sua mente, ch’io sia lui tutto; e quando non possiamo essere insieme, egli se ne afflige quant’io, e quando vi ha sodisfatto, n’ha quel gusto che n’ho io.
Erasto. Veramente l’ho stimato cosí sempre, ma ho voluto saperlo di bocca vostra, padrona singulare. Attendo l’altra grazia che vi chiese — e perdonatemi tanta importunitá per dar questa importunitá al mio core: — che apriate il portello della gelosia che v’impedisce la vista, ché non mi lascia godere un tanto bene.
Cintia. Di grazia, signor mio, stendete la vista per la strada e per le fenestre, che non vi sia alcuno che stia spiando i fatti nostri.
Erasto. Non appar anima viva.
Balia. Amasia Amasia, presto presto! ché Cintio vi chiama che vostro padre vi cerca.
Cintia. Cor mio, perdonatemi. — Eccomi eccomi!
Erasto. O infelicissima mia disgrazia, mira a che ponto è stata chiamata! or non poteva tardar un altro pochino che l’avessi potuto mirar a mio modo?
SCENA VIII.
Dulone, Erasto.
Dulone. Padrone, se foste stato meco, avreste goduto la vista della vostra Amasia quanto avreste desiderato.
Erasto. Teh, e come?
Dulone. È stata ragionando col suo padre una gran pezza.
Erasto. Mira traditora bugia che ardisce dirmi! Come ora stava ragionando col padre, se ora stava ragionando meco?
Dulone. Alcun di noi sta fuor di sè. Dove voi avete ragionato con Amasia?
Erasto. In casa di Cintio, in quella finestra sovra la porta; nel por che tu facesti il piè nella strada, ella fu chiamata e partissi.
Dulone. Ed io nel por del piè in questa strada, l’ho lasciata che stava ragionando col padre su la fenestra in quel vicolo, e l’ho vista come veggio voi. Se Amasia non gioca di bagattelle o non è qualche fantasima, non so come possa star in duo luoghi in uno istesso tempo.
Erasto. Chi era seco nella strada?
Dulone. Ben dimandate quella venerabil bestia del capitano, che stava passeggiando dinanzi a lei e suo padre, e con tanta sproporzionata bravura che ha mosso a rider l’uno e l’altra piú di tre volte.
Erasto. E il capitano stava mirando?
Dulone. Sí che il suo suspirare s’udiva un miglio. — Ma eccolo che viene; non potea venir a tempo piú opportuno.
SCENA IX.
Capitano, Erasto, Dulone.
Capitano. Ecco che la tua mala sorte pur me ti ha menato dinanzi!
Erasto. (Anzi, la tua dinanzi a me!).
Capitano. E stimo che nel vedermi calará la barretta su gli occhi, e allo sventolar del pennacchio tu debba conoscere che il cervello mi frulla sotto.
Erasto. (Mira che volto acerbo, che fronte crespa, che trasvoltar d’occhi! par che mi voglia inghiottire alla vista). Che vòi tu da me che mi stai cosí mirando?
Capitano. E tu perché stai mirando me?
Erasto. Che mi curo io di mirar un tuo pari?
Capitano. Come sai tu dunque ch’io miro te, se tu non miri me?
Erasto. Su, che vo’ far questione teco.
Capitano. Tu vòi far questione meco?
Erasto. Sí.
Capitano. E sei deliberato cosí?
Erasto. Deliberatissimo.
Capitano. E senza altro vòi far questione meco?
Erasto. Senz’altro.
Capitano. Or se tu vuoi far questione, non ne vo’ far io.
Dulone. Padrone, datemi licenza ch’io facci questione con lui.
Capitano. Un tuo pari tôrsela meco, ah? Che stimi tu ch’io fugga le questioni? corro io piú volentieri alle coltellate che un tedesco invitato al bere; né si allegra cosí il chirurgo delle ferite come io di farle: e io do di vivere a tutti, ché se non fusse per me si morirebbono di fame. Turberei la face di Ottavian per far questione. Ma la tua indegnitá ti salva per questa volta, e ti si perdona la vita: però ingenocchiati e cercami perdono.
Dulone. Io ingenocchiarmi a te?
Capitano. Fa’ quello che dico, non ti far guastare: non sai tu che, se pongo mano alla spada, ti spolpo, disosso, scarnifico e smidollo? La maggior cortesia che possa farti è darti una boffettina dietro la testa e farti balzar gli occhi fuor della testa piú di un miglio e farti restar figura contrafatta, e con un dito farti piú busi nel corpo che non ha un crivello da crivellar meloni!
Erasto. Capitano, ti son gito cercando molte volte per far teco questioni per conto di Amasia, e or vogliamo azzuffarci.
Capitano. Io ti vo’ far conoscere che veramente sono innamorato di Amasia, ché l’odor che spira da questa casa dove abita mi ferisce nell’anima e mi fa un essempio di pazienza: mi farei dar bastonate per amor suo. Vo’ temprar la fierezza del mio guardo, ché non ti ferisca mirando, e vo’ parlar teco cortesemente.
Erasto. Dico che la tua è una soverchia importunitá, ché non passo mai di qua se non ti veggia in questa strada passeggiare; però cava fuor la spada.
Capitano. Non è mia usanza por mano alla spada, se almeno con un colpo non ho speranza di squartar cento uomini, sbarattar un essercito, cacciarmi dinanzi dieci bandiere; e avendola in mano nuda, ammazzo cosí gli amici come gli nemici.
Erasto. Se non poni mano alla spada, te la darò in testa con tutto il fodero.
Capitano. Ahi, fortuna traditora, perché non ho meco la «gastigamatti» o lo spadone a due mani? ché lo farei pentir del tanto ardire: e giá mi brillano le mani. Ma perché vuoi far tu meco questioni?
Erasto. Accioché non passi piú per questa strada.
Capitano. La strada è mia e ci posso passar quanto voglio.
Erasto. Come tua?
Capitano. A me sta ammazzar tutti gli uomini che ci stanno e farla mia. Ma perché non vuoi tu che ci passi?
Erasto. Accioché non miri in quelle finestre.
Capitano. In quelle finestre sta Amasia mia moglie.
Erasto. Come tua moglie?
Capitano. È mia e vo’ che sia mia.
Erasto. Non è tua né sará tua, né il padre la vuol dar ad un baionaccio tuo pari.
Capitano. Io son stato or ora ragionando con lei e col padre nella sua finestra.
Erasto. Da qual finestra?
Capitano. Da quella che risponde sul vicolo. E ha riso e scherzato meco.
Dulone. Ascoltate, padrone, che ha pur detto il vero senza che glielo dimandaste.
Erasto. A te fece tanti favori dianzi suo padre?
Capitano. Il padre tiene a molto favore darlami per isposa ad ogni mia richiesta.
Erasto. Che favori ti fece ella?
Capitano. Mille basciamani e inchini con la testa e con cenni, che dimostravan apertamente che dentro brusciava tutta; e ci siamo parlati col cuore l’un con l’altra senza adoprar la lingua, che ci sarebbe stata anzi d’impedimento, vedendo ella il cor mio ed io il suo: e ci siamo partiti l’un dall’altra pieni di scontentezza.
Erasto. Dicoti che Amasia è mia moglie e giá ci siamo sposati di nascosto, e giaccio seco quando mi piace a mio bell’agio ed è giá gravida di me: e se ben devrei tacerlo per amor suo, pur lo dico accioché non passi per qua; ché, cosí facendo, tu viverai sano e a me non darai fastidio di averti a romper la testa.
Capitano. Con la mia testa ho fracassato bastioni e belovardi, e fo piú col mio fronte che non fa l’ariete con la testa di bronzo. Ma s’ella è tua moglie, ha perdute meco le sue ragioni e la ripudiarò com’ella merita. Ma che so io se sia vero quel che dici?
Erasto. La domenica passata giacqui seco insino all’alba.
Capitano. Come può esser ciò vero, se la domenica a notte fu ad un festino d’una sua vicina ed io fui sempre seco? penso che ciò l’arai sognato.
Erasto. Per vincer cosí perfida tua ostinazione e ché non dichi se ciò sia vero o no, questa notte vo a dormir seco e voglio che tu me la veda in braccio con gli occhi tuoi.
Capitano. Quando vedrò questo, la disgraziarò: a me non mancano innamorate. Che resta da far dunque?
Erasto. Quello che tu intenderai: fatti trovar qui alle due ore di notte ché ti farò veder quanto ti ho detto. E accioché l’uno e l’altro di voi si penta di quanto dice, tu di averle parlato dalla fenestra e tu d’esser stato seco al festino, vo’ che siate spettatori della mia gloria e delle mie dolcezze.
Capitano. Io non mi partirò da qui intorno.