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Dialogo primo
Argomento Dialogo secondo


LA CIRCE.


DIALOGO PRIMO
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ULISSE, CIRCE, OSTRICA E TALPA.

Ulisse.
Ancora che l'amore che tu mi porti, famosissima Circe, e le infinite cortesie che io a tutte l'ore ricevo da te, siano cagiono che io mi stia volentieri teco in questa tua bella ed amena isoletta; lo amore de la patria, e il desiderio di rivedere dopo si lunga peregrinazione i miei carissimi amici, mi sollecitano continuamente al partirmi da te, e ritornare a le mie case. Ma innanzi che io mi parta, vorrei sapere se in fra questi che sono stati da te trasmutati in Lioni, Lupi, Orsi ed altre fiere, ci è alcuno Greco.
Circe.
Assai ce ne sono, Ulisse mio carissimo: ma perchè me ne domandi tu?
Ulisse.
Posiamoci a sedere in su questo scoglio, dove è la vista de le varie onde del mare, e la piacevolezza dei dolci venti che, trapassando fra tante piante odorifere, soavemente spirano, ci renderanno il ragionare insieme molto più dilettevole, ed io te lo dirò.
Circe.
Facciamo quel che tu vuoi; chè io non desidero altro che compiacerti.
Ulisse.
La cagione per la quale io t'ho domandato, bellissima Circe, se in fra questi che sono stati da te tramutati in fiere, ci è nessuno Greco, si è, perchè io desiderrei di impetrare (con i prieghi miei) da te, che e' sieno restituiti nel loro essere umano, e potergli rimenare meco a le case loro.
Circe.
E perchè desideri tu questo?
Ulisse.
Per lo amore che io porto loro, essendo noi d’una patria medesima, sperando di doverne essere appresso i miei Greci molto lodato: dove, per il contrario, intendendosi che io potendo trargli di stato cosi misero ed infelice, abbia lasciatogli guidar così miseramente la vita loro in corpi di fiere, penso che mi arrecherebbe non piccolo biasimo.
Circe.
E se gli altri, come tu pensi, Ulisse, te ne lodassino, eglino te ne porterebbono tanto odio, per il danno che tu faresti loro, che tu te ne pentiresti mille volte il giorno.
Ulisse.
Oh, è egli cosa dannosa far ritornare uno di fiera uomo?
Circe.
Dannosissima; e che sia il vero, domandane loro, perchè io non voglio anche concederti questa grazia se eglino non se ne contentano.
Ulisse.
O come posso io saperlo da loro, che, essendo fiere, non intendono, e non sanno o possono parlare? Io dubito che tu non voglia il giuoco di me.
Circe.
Non ti alterare, chè io lo concederò loro.
Ulisse.
Ed avranno eglino quel medesimo discorso che quando eglino erano uomini?
Circe.
Sì, chè come io li trasmutai in fiere, così farò tornare in loro il conoscimento di veri uomini. E per non perder più tempo, vedi tu quei due nicchi appiccati a quel sasso, che s’aprono e riserrano? e quel monticel di terra, il quale è poco fuori de l’acque a piè di quella palma?
Ulisse.
Sì, veggo.
Circe.
Ne l’uno è una Ostrica e ne l’altro una Talpa, che già furono uomini e Greci: parlerai con loro; e perchè tu possa più liberamente farlo, io mi discosterò di qui, andandomene a spasso su per questo lito; e dipoi che tu arai intesa la voglia loro, vieni a me, ed io farò quel che tu vorrai.
Ulisse.
Gran cosa certamente è questa, che m’ha detto Circe; che costoro, stando così in questi corpi di fiere, potranno discorrere e ragionare meco (mediante però l’opera sua). E parmi tanto incredibile, che io non mi ardisco quasi a tentarla, temendo, se ella non mi riesce, come pare ragionevole, di essere reputato stolto. Ma qui non è però chi possa biasimarmene, se non ella; ed ella non può ragionevolmente farlo, avendomene consigliato. Adunque io non voglio mancare di provare. Ma come ho io a chiamargli? Io per me non saprei come, se non per il nome che eglino hanno, cosi animali. Facciamo adunque così. Ostrica, o Ostrica.
Ostrica.
Che vuoi tu da me, Ulisse?
Ulisse.
Ancora io ti chiamerei per il tuo nome, se io lo sapessi; ma se tu sei Greco, come m’ha detto Circe, piacciati dirmelo.
Ostrica.
Greco fui io innanzi ch’io fussi trasmutato da lei in Ostrica, e fui d'un luogo presso ad Atene, e il nome mio fu Ittaco, e perchè io era poveretto fui pescatore.
Ulisse.
Rallégrati adunque, chè la compassione che io ho di te, sapendo che tu nascesti uomo, e l'amore che io ti porto per esser de la mia patria, mi ha fatto supplicare a Circe di restituirti ne la tua prima forma, e di poi rimenarti meco in Grecia.
Ostrica.
Non seguir più là, Ulisse, chè questa tua prudenza e questa tua eloquenza, per le quali tu sei tanto lodato in fra i Greci, non arebbono forza alcuna presso di me: si che, non tentare di consigliarmi con l'una, che io lasci tanti beni che io mi godo così felicemente in questo stato senza pensiero alcuno; nè di persuadermi con l'altra, che io ritorni uomo, conciossiacosachè egli sia il più infelice animale che si ritruovi ne l'universo.
Ulisse.
Eh, Ittaco mio, quando tu perdesti la forma d’uomo, tu dovesti perdere ancor la ragione, a dir così.
Ostrica.
Tu non la puoi già perder tu, Ulisse, perchè tu non l'hai, a credere quel che tu di'. Ma lasciamo star da parte le ingiurie, e ragioniamo alquanto insieme amichevolmente; e vedrai se io, che ho provata l'una e l'altra vita, ti mostrerò che quel che io dico è vero.
Ulisse.
Oh questo vorrei io ben vedere.
Ostrica.
Stammi adunque e udire. Ma vedi, io vo' che tu mi prometta, che mentre ch'io m'apro come tu vedi per favellare teco, di stare avvertito che non venisse alcuno di questi traditorelli di questi Granchi marini, e gittassimi un sassolino fra l'un nicchio e l'altro, onde io non potessi poi riserrargli.
Ulisse.
O perchè questo?
Ostrica.
Per tirarmi poi fuori con le sue bocche, e cibarsi di me, chè così usano fare quando ci veggono aperte.
Ulisse.
Oh odi sottile astuzia! e chi vi ha insegnato guardarvi da loro, e fuggire così questi loro inganni?
Ostrica.
La natura, la quale non manca ad alcuno mai de le cose necessarie.
Ulisse.
Sta senza sospetto alcuno, e parla sicuramente, chè io starò avvertito.
Ostrica.
Orsù, stammi a udire. Dimmi un poco, Ulisse: voi uomini che vi gloriate tanto d’esser più perfetti e più prudenti di noi, per avere il discorso de la ragione, non istimate voi più quelle cose che voi giudicate essere migliori che l'altre?
Ulisse.
Sì certamente: anzi questo è uno di quei segni, donde si può conoscere la perfezione e la prudenza nostra; conciossiaocosachè l'apprezzare ciascuna cosa egualmente nasca dal poco conoscere la natura e la bontà loro, e sia manifesto segno di stoltizia.
Ostrica.
E non l'amate voi più che l'altre?
Ulisse.
Sì; perchè sempre alla cognizione séguita o l'amore o l'odio. Perchè tutte quelle cose che ci si dimostrano buone, si amano e si desiderano: e per il contrario, quelle che ci appariscono ree, si odiano e si fuggono.
Ostrica.
Ed amandole più che l'altre, non tenete voi ancora maggior cura di loro?
Ulisse.
O chi ne dubita di questo?
Ostrica.
O non pensi tu che faccia ancora questo medesimo la Natura, o quella intelligenzia che la guida? e con molta più ragione di voi, non possendo ella errare; secondo che io udi' già di molte volte dir a quei filosofi d'Atene, mentre che io, per vendere i pesci che io pigliava, mi stava appresso a quei portici dove eglino si stavano buona parte del giorno a disputare e ragionare insieme.
Ulisse.
Questo credo io ancora.
Ostrica.
Oh se tu mi concedi questo, tu mi hai concesso ancora che noi siamo migliori e più nobili di voi.
Ulisse.
E in che modo?
Ostrica.
Perchè, tenendo la Natura più conto di noi che ella non ha fatto di voi, ne segue che ella ci ami più; ed amandoci più, ella non lo fa per altra cagione, che per quella che io t'ho detto.
Ulisse.
Oh tu mi pari il primo logico d'Atene.
Ostrica.
Io non so che cosa sia logica; pensa come io posso esser logico: io favello in quel modo che m'ha insegnato la Natura. E questa ragione se la saprebbe fare ognuno che ha il discorso de la ragione, ed è verissima.
Ulisse.
Sì, se fusse vero che la natura avesse tenuto più conto di voi, che ella non ha fatto di noi.
Ostrica.
Oh, questo è facile a provarlo; e se tu vuoi ch'io te lo dimostri, stammi a udire. E perchè tu ne sia più capace, io voglio che noi ci cominciamo dal primo giorno che ella produce e voi e noi al mondo, che è quel del nostro nascimento: dove, dimmi un poco, che cura ha ella dimostrato di tener di voi, facendovi nascere ignudi? Dove, per il contrario, ha dimostrato di stimar noi assai; facendoci venire al mondo vestiti chi di cuoio, chi di peli, chi di squame, chi di penne, e chi d'una cosa e chi d'un’altra; segno certamente che le è stato molto a cuore la conservazion nostra.
Ulisse.
Questa non è la ragione; perchè, se ella ci ha fatti ignudi e coperti d'una pelle tanto sottile che noi siamo offesi da ogni minima cosa, ella lo ha fatto perchè, avendo noi a esercitare la fantasia e gli altri nostri sensi interiori, molto più diligentemente che non avete voi, per aver dipoi a servire a l'intelletto, fu conveniente che i nostri membri, e particolarmente quegli organi e quegli istrumenti dove si fanno queste operazioni, fussino di materia più gentile e più agile, e così ancora più sottili i sangui e più caldi che non sono i vostri; donde ne nasce questa debolezza de la complession nostra. Che se noi fussimo composti di cotesti umori rozzi, e di cotesti sangui grossi che siete voi (donde nasce che voi siete più forti, e di più gagliarda complessione di noi, ma non già di più lunga vita; chè questo nasce da la temperatura de la complessione, ne la qual cosa noi vi trapassiamo di gran lunga: e però abbiamo il sentimento del toccare molto più perfetto di voi, perchè sente ogni minima differenzia), e' ne seguirebbe che noi saremmo di poco conoscimento e di poco ingegno come siete voi. Imperocchè, come dicono questi fisonomisti, i costumi de l'animo seguono la complessione del corpo; onde sempre si vede a membra di Leone seguire costumi di Leone, e a membra d'Orso costumi d'Orso. E che questo sia il vero, pon mente infra gli uomini che tu vedrai, che quei che sono composti d'umori grossi, sono ancora grossi d'ingegno; e per il contrario, quelli che hanno le carni sottili ed agili, sono ancora sottili d’ingegno. Sì che la natura, volendoci fare ragionevoli e di cognizione perfettissima, fu quasi forzata a farci così.
Ostrica.
Oh questo non vo' io già credere, che ella fussi forzata, perchè avendo ella fatto tutte le cose ella poteva farle a suo modo; e poteva molto bene tenere un'altra regola ed un altro modo in quelle, e fare, verbigrazia, che fusse l'acqua che cocesse, ed il fuoco che rinfrescasse.
Ulisse.
Oh, e' non sarebbe stato ne l'universo questo ordine tanto mirabile che si ritruova in fra le creature, donde ciascheduno confessa che procede la bellezza sua.
Ostrica.
Ei ci sarebbe stato quell'altro, del quale sarebbe nata una bellezza d'un'altra sorte, che sarebbe stata forse molto più bella di questa.
Ulisse.
Oh come noi siamo in sul forse, noi caminiamo per perduti. Ma che importa che la natura ci abbia fatti ignudi, se ella ci ha dato tanto sapere e tante forze, che noi ci copriamo de le vesti vostre?
Ostrica.
Sì, ma con che pericolo? Quanti n'è egli già capitati male di voi per volerci pigliare, per servirvi de le cose nostre? E oltre a questo, con quanta fatica? perchè se voi volete servirvi de le nostre pelli, e' vi bisogna conciarle; i nostri peli vi bisogna filargli, tessergli, e far loro mille altre cose innanzi che voi gli riduciate di maniera che voi possiate servirvene.
Ulisse.
Oh coteste fatiche ci son dolci e piacevoli: anzi ci son quasi un passatempo.
Ostrica.
Sì a coloro che lo fanno per piacere, come fai talvolta tu; ma domandane un poco quegli che lo fanno sforzati da la necessità, e per avere a cavare de le lor fatiche tanto che possino procacciarsi quel che fa loro mestieri, e vedrai se diranno che queste fatiche paiono loro dolci. Io, per me, so che, mentre ch'io fui uomo, mi dispiacque tanto il lavorare, che io, come io t'ho detto, mi feci pescatore; ed arei messomi volentieri a ogni maggior fatica per non lavorare, giudicandola arte da buoi, che lavoran sempre, e quando e' non posson più è dato poi loro d'un mazzo in su la testa.
Ulisse.
Oh se tu ti facesti pescatore per non lavorare, e' dovette avvenire a te come fa a tutti coloro che fuggono la fatica: ella ti dovette correr dietro, perchè tu pigliasti a fare un'arte, ne la quale, non la facendo per piacere, si dura più fatica che in ogn'altra; ed oltre a questo, vi si sopporta infiniti disagi di venti, di freddo, di caldo, di Sole, e

di molte altre cose.

Ostrica.
E tu vedi bene, che io non voglio più tornare uomo; e parmi averne ragione, considerando, oltra di questo, che la Natura ha tenuto tanto poco conto di voi, che, oltre al farvi nascere ignudi, ella non vi ha fatto ancora casa o abitazione alcuna propia, dove voi possiate difendervi da le ingiurie de i tempi, come ella ha fatto a noi: segno certamente che voi siate come rebelli e sbanditi di questo mondo, non ci avendo luogo propio.
Ulisse.
O che case ha ella fatto a voi?
Ostrica.
Come, che case? Considera un poco la mia di questi due nicchi, con quanta arte e con quanta comodità ella mi è stata fabbricata da lei: guarda come io l'apro e chiudo facilmente secondo che io ho bisogno di cibarmi o di riposarmi, e difendermi da chi mi volesse offendere. Considera ancora un poco quella che ella ha fatto a le testuggini e a le chiocciole, e la facilità con la quale elleno la portano seco.
Ulisse.
Ed a gli altri, che son la maggior parte, ed a gli uccelli similmente, che case ha ella fatto?
Ostrica.
Per il verno le caverne e le grotte de la terra, e per la state gli arbori e la sommità de i monti.
Ulisse.
Oh belle case. Io ti so dire che e' debbono abitare con un agio grandissimo.
Ostrica.
Se non vi son dentro tanti comodi quanto ne le vostre, e' non vi sono anche tante noie e tanti pensieri.
Ulisse.
E che noie e che pensieri abbiamo noi de le nostre, che le facciamo secondo l'animo nostro con le nostre mani?
Ostrica.
Come, che noie e che pensieri? il mantenerle e racconciarle, e difenderle da quelle incomodità che arrecano seco i tempi: oltre a questo, quando vi riposate voi mai in quelle un'ora con l'animo quieto, non essendo mai sicuri che elle non vi rovinino addosso? e quello che è più, il timore e la paura de' tremuoti; chè mi ricorda, che venendone già alcuni ne i paesi nostri, le genti si spaventavano di maniera, che elle abitavano la notte fuori per i prati, ed il giorno andavano insieme a schiera a uso di gru, supplicando e gridando a gli Iddii, e portando attorno certi loro arnesi vecchi, con fiaccole accese in mano: dove si conosceva chiaramente che può tanto in voi la paura, ch'ella vi fa bene spesso perdere il cervello.
Ulisse.
Eh coteste son certe cose che accaggiono tanto di rado, che non è da farne stima.
Ostrica.
Voi non potete, oltre a questo, fabbricarvene in ogni luogo, come ha dato la natura a noi; o veramente di maniera, che voi possiate portarvele dietro, come molti di noi.
Ulisse.
E che noia dà questo, quando noi ne abbiamo una secondo l'animo nostro? Non sai tu che chi sta bene non debbe mutarsi?
Ostrica.
Come, che noia dà? O se la mala sorte fa che voi abbiate qualche vicino, che o per i costumi suoi, o per qualche arte che faccia, vi sia in qualche modo molesto e contra l'animo vostro, che infelicità è il non potere andare altrove, come facciam noi? Sì che, ritornando a i nostri primi ragionamenti, avendo la natura tenuto molto più conto di noi ch'ella non ha fatto di voi, come io ti ho dimostro, e non potendo ella errare, e' ne segue che noi siamo migliori e molto più nobili di voi.
Ulisse.
Questa tua ragione è solamente un poco apparente; perchè, se bene e' pare che la natura vi abbia date molte più comodità che ella non ha fatto a noi, ella l'ha fatto per conoscere che voi non eri atti a procacciarvele da voi stessi. Ma sta' a udire questa ragione che io ti dirò ora, e vedrai chi è più nobile, o voi o noi: dimmi un poco, chi è più nobile, il servo o il signore?
Ostrica.
Il signore, mi credo io, come signore.
Ulisse.
Tu credi bene; e così ancora fra le cose è più nobile quella che è in luogo di fine, che non sono quelle che sono ordinate per mantenere o per servire a lei: donde ne segue che ancora noi, essendo come vostri fini, vegnamo a essere più nobili di voi. E che noi siamo vostri fini, e che voi siate stati creati da la natura tutti per servizio e comodo nostro, lo dimostra chiaramente l'esperienza; poichè noi ci serviamo di voi, mentre che voi siate vivi, a portare le nostre cose da un luogo a un altro, e lavorare la terra, e a mille altri esercizj; e dipoi, quando siete morti, a vestirci de le vostre pelli, ed a cibarci de le vostre carni. Or vedi, dunque, se voi siete stati fatti da la natura per noi.
Ostrica.
Oh se coteste ragioni fussin vere, voi sareste anche voi stati fatti da lei per la terra, che vi si mangia finalmente tutti quanti; e cosi verreste a essere ancora voi manco nobili de la terra, essendo ella il fine vostro.
Ulisse.
Questa conseguenza non vale: ed acciocchè tu ne sia maggiormente capace, tu hai a notare che i fini sono di due maniere.
Ostrica.
Io non voglio che tu t'affatichi più, Ulisse, perchè tu mi cominceresti a entrare in quelle dispute che io sentiva già fare ne' portici d’Atene da que' filosofi, mentre che io cercava, come io ti dissi dianzi, di vender que' pochi pesci che io pigliava, per provvedermi quell'altre cose di che io aveva di bisogno; le quali non credo che intendessino nè eglino nè altri. Ed oltre a di questo, io sento che comincia a cader giù la rugiada, de la quale io mi pasco, aprendomi, come tu vedi; dove io ho tanto diletto, e senza noia o pensiero alcuno, che io non provai mai il simile mentre che io era uomo. Sì che non ti maravigliare, se io mi voglio star così: e se tu l'intendi altrimenti, statti cosi tu, e non mi dare più molestia; perchè io voglio, poi che io mi sarò cibata, richiudermi e riposarmi alquanto, e vedi, senza un minimo pensiero, il che avviene rare volte a voi; e stimo più questo mio contento, che ciò che in potessi mai aver da te.
Ulisse.
Certamente che io potevo abbattermi poco peggio, perchè costui dovette essere al mondo un uomo di molto poco discorso, e l’arte che faceva lo dimostra; chè tutti quei che attendono a pesci o ai uccelli (io parlo per bisogno, e non per piacere) sono uomini vili e di poco conoscimento. E vedi anco quanto poca cognizione e’ dovette avrer de’ piaceri del mondo, poichè gli baretterebbe a un poco di rugiada che gusta ora essendo così Ostrica. Or lasciamo adunque starlo in questa sua miseria, giustissimo premio de la stoltizia sua; e proviamo a ragionare un poco con quella Talpa, che Circe mi disse che era in quel monticello di terra, chè io mi incontrerò forse in un uomo di maggior conoscimento. Io voglio accostarmi un poco più a lei, e chiamarla. Talpa, o Talpa.
Talpa.
Che vuoi tu da me, Ulisse? e che ti muove a perturbare così la quiete mia?
Ulisse.
Se tu sapessi quello che io ho impetrato da Circe con i prieghi miei per tuo bene, tu non diresti che io ti fussi molesto; se tu puoi però usare, come uomo, la ragione.
Talpa.
Che io non t’ho forse udito da te, mentre che tu parlavi con cotesto altro Greco, trasmutato da lei in Ostrica?
Ulisse.
E che io posse far tornarti uomo, e liberarti di questo luogo, e rimenarti meco a la patria tua, se tu sei però Greco, come ella mi disse?
Talpa.
Greco fui io mentre che io fui uomo, e de la più bella parte de la Etolia.
Ulisse.
E non desideri tu d’esser restituito ne la forma tua prima, dico quando tu eri uomo, e tornare a casa tua?
Talpa.
Questo non è già il mio desiderio, perchè io sarei al tutto pazzo.
Ulisse.
Adunque si chiama pazzia il desiderare miglior condizione, eh?
Talpa.
No, ma il cercare di peggiorarla, come farei io a tornare uomo: sì perchè io mi vivo con piacere grandissimo in questo grado, e in questa specie; dove essendo uomo, non farei così, ma viverei in continui affanni ed in fatiche insopportabili, de le quali è abbondantissima la natura umana.
Ulisse.
E chi t'ha insegnato questa sì bella cosa? Questo ignorante di questo pescatore con chi io ho parlato ora, eh?
Talpa.
Ei me l'ha pure insegnato l'esperienza, maestra di tutte le cose, mediante però l'arte ch'io faceva.
Ulisse.
Ed in che modo ti ha dimostrato la sperienza, che noi siamo più infelici e più miseri di voi?
Talpa.
Io te ne voglio dire una sola de le miserie che io (come io t'ho detto) conobbi chiaramente per mezzo de lo esercizio mio: da la quale tu ne potrai dipoi trar di molte altre da te stesso, che non saran di minor valore di questa.
Ulisse.
E che arte fu quella che tu facevi, che ti fece conoscere cosa tanto falsa? Di' su un poco.
Talpa.
Lavorare la terra.
Ulisse.
Oh, io ti so dire che io son saltato in piedi a uscire de le mani d'un pescatore, ed entrare in quelle d'un contadino; che, se non esce de la natura sua, sarà molto meno capace de la ragione.
Talpa.
Ulisse, non mi ingiuriar di parole, chè ogni uomo è uomo; ed avvertisci più tosto a quel ch'io dico, perchè se tu lo considererai bene, tu ti pentirai forse che Circe non t'abbia trasmutato ancora te in qualche fiera, come ella ha fatto noi.
Ulisse.
Or dì su, ch'io non bramo altro certamente.
Talpa.
Quale animate ritruovi tu in questo universo, o vuoi d'acqna o di terra, de' quali son quasi infinite le specie, che la terra non gli produca per sè stessa con che cibarsi, eccetto che a l'uomo? Il quale, se vuole che ella gli produca il suo cibo come gli altri, conviene che egli la lavori e la semini, con fatiche grandissime, con le sue mani.
Ulisse.
Questo errore nasce da lui, che vuol nutrirsi di troppi delicati cibi; ma se e' volessi vivere de' frutti che quella produce per sè stessa, come hanno gli altri animali, questo non gli avverrebbe.
Talpa.
E che erba e che semi e che frutti produce ella per sè medesima, non essendo ajutata da l’arte, che sieno nutrimento atto e conveniente a la conservazion de la vita de l’uomo, ed al mantenimento de la temperatura de la complession sua?
Ulisse.
Non si dice egli, che quelle prime antiche genti di quella età, che fu chiamata de l’Oro, vivevan cosi?
Talpa.
Eh, Ulisse, tu fai profession di savio, e poi credi queste favole?
Ulisse.
Orsù, quando e’ sia anche vero quello che tu di’, questa fatica che l’uomo ha a durare per lavorare e cultivare la terra, e potare e custodire le vite, ed annestare i frutti, non arreca ella seco tanto diletto e piacere, che si può dire che la natura l’abbia data a l’uomo per un suo spasso, e perchè e’ non abbia a vivere in ozio, e per bene ed utile suo? E che sia il vero, vedi quanto largo premio di frutti ella rende dipoi a le fatiche sue. Onde non par che si ritruovi cosa più dolce che l’agricoltura. Ed oltre a questo, l’ha fatto perchè l’uomo abbia dove dimostrare l’ingegno e l’arte sua, e come egli è da più che non siete voi altre fiere.
Talpa.
Anzi perchè non si riposi mai, e non abbia mai un’ora di bene. Ed oltre a questo, per tribolarlo più, gli ha aggiunto il timore de le carestie; di modo che, come la terra per i tempi contrarj non rende un anno così largamente i frutti suoi come ella suole, ei vive tutto quel tempo in paura ed in timore di non si avere a morire di fame, e non mangia mai boccone senza mille guai: la qual cosa non avviene a noi, che quando pure manca de le cose nel luogo dove noi siamo, ce n’andiamo in un altro facilissimamente.
Ulisse.
Si che noi non sappiamo ancor noi far venire de le cose di quei paesi dove n’è abbondanza, quando e’ n’è carestia ne’ nostri.
Talpa.
E con che fatica e pericolo di mare e di terra, e con che inquietudine d’animo! che è quello che importa più. O bástiti questo, che la vita vostra non è altro che un continuo combattimento or con una cosa ed or con un’altra; si che voi avete ben ragione di piangere quando voi nasce
la (il che non fa alcuno di noi), considerato l'infelicità e la miseria de lo stato in che voi venite.
Ulisse.
Per questo non possiamo noi già farlo, nol conoscendo noi, come tu sai.
Talpa.
Se ben voi non lo conoscete, voi cominciate a sentire l'incommodità del luogo dove voi venite ad abitare; il quale (com'io t'ho detto) dove egli è accomodato a ciascuno altro animale, è a voi soli quasi contrario, e però a voi solamente è dato il pianto da la natura.
Ulisse.
Come a noi soli? O non piange ancora il Cavallo, secondo che io ho udito dire?
Talpa.
Non credo io già; ma io mi penso che quelle lagrime che cascan loro certe volte da gli occhi, naschino da superfluità che ascendono loro a la testa, per essere il cavallo animale molto gentile. E se pure qualcuno ne piange, e' lo fa per qualche disgrazia che gli avviene, come sarebbe mutar padrone, o perdere la compagnia di qualche altro cavallo a chi egli avea posto amore, essendo egli molto atto per natura a amare; e non lo fa subito che egli è nato, come voi: che ne avete ben ragione (come io ti dissi poco fa); considerando che voi avete a essere di subito legati, ed avete a nutrirvi per le mani d'altrui, nè potete far cosa alcuna da voi di quelle che si convengono a la natura vostra. Si che non ti affaticar più, Ulisse, che io per me sono un di quegli che voglio più tosto morirmi che ritornare uomo.
Ulisse.
Ehi, Talpa mia, tu arai fatto ancor tu, come io dissi a quella Ostrica; tu arai perduto a un tempo medesimo l'effigie di uomo e la ragione. E se tu vuoi veder se gli è il vero quel ch'io ti dico, considera che animali voi siete; che se voi fussi pur perfetti, io direi che voi aveste qualche ragione.
Talpa.
O che ci manca egli?
Ulisse.
Come, che vi manca? a lei il senso de l'odorato e de lo udito, e, quello che è più, il potersi muovere da un luogo a uno altro; ed a te il vedere, che sai quanto ei merita d'essere avuto in pregio, dandoci egli notizia di più differenze di cose che alcuno altro sentimento.
Talpa.
Oh, per questo non siamo noi imperfetti; ma
siamo chiamati così da voi a rispetto di quegli che gli hanno tutti. Ma imperfetti saremmo noi se noi mancassimo di alcuno di quegli che si convengono a la specie nostra.
Ulisse.
Or non sarebbe ei meglio avergli?
Talpa.
Non a me il vedere come Talpa, nè a lei l'odorare o l' udire, o il potere andare da luogo a luogo come Ostrica: e se tu ne vuoi saper la ragione, ascolta. Dimmi un poco: perchè è dato a voi il potersi muovere da un luogo a uno altro, se non per andare per quelle cose che vi mancano?
Ulisse.
Certamente, che la natura non ce lo ha dato per altro; e però si dice che ogni moto nasce dal bisogno.
Talpa.
Adunque, se voi aveste appresso di voi ciò che voi avete di bisogno, voi non vi movereste?
Ulisse.
Ed a che fare?
Talpa.
Che ha bisogno adunque quell'Ostrica del moto locale, se ella ha quivi tutto quel che le bisogna? E similmente de lo odorare, porgendole la natura di che cibarsi, senza avere a ricercare qual cosa gli è a proposito e qual no: ed io similmente, volendo stare sotto la terra, dove io ritruovo il mio contento, che bisogno ho io del vedere?
Ulisse.
Se bene e' non ti è necessario, tu debbi pure aver voglia d'averlo.
Talpa.
E perchè? non essendo egli conveniente a la natura mia, a me basta essere perfetta ne la mio specie. Come desideri tu lo splendore cha ha una stella, o l'ale che ha uno uccello?
Ulisse.
Queste son cose che non si convengono a gli uomini.
Talpa.
E se gli altri uomini le avessino, tu le desidereresti?
Ulisse.
Sì, credo io.
Talpa.
Ed il simile farei io, se l'altre Talpe vedessino; dove non vedendo l'altre, io non vi penso e non lo desidero. Si che non ti affaticar più in persuadermi che io ritorni uomo; perchè, essendo io perfetta in questa mia specie, e vivendomi senza un pensiero al mondo, io mi ci voglio stare, perchè io ci trovo molto manco dispiaceri che io non faceva ne la vita umana. Va adunque a' fatti tuoi, chè io mi voglio ritirare un poco più sotto terra.
Ulisse.
Io non so se io son desto, o pur s'io sogno: se io sono desto certamente che io non son più quello Ulisse che io soglio dappei che io non ho saputo far credere a nessuno di questi due la verità. E soleva pur persuadere già a i miei Greci tutto quel ch'io voleva. Ma penso ch'e' venga il difetto da loro, perchè io mi sono abbattuto a due che non son molto capaci di ragione. E non è anche maraviglia, essendo l'un pescatore e l'altro contadino; si che e' non mi doverrà intervenire cosi con ciascheduno de gli altri, ne già ei non fossero tutti d'una sorte medesima. Io adunque voglio tornare a Circe, e dirle quello che mi è avvenuto, pregandola che non voglia mancare di quanto ella mi ha promesso, e che mi faccia parlare con qualchun altro; perchè mi parrebbe troppo grande ingiuria, se costoro non hanno conosciuto il bene eglino, o veramente non lo vogliono, mancare di far questo beneficio a gli altri.
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