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Dialogo secondo
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DIALOGO SECONDO.
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CIRCE, ULISSE E SERPE.
Circe.
Che dicono questi tua Greci, caro mio Ulisse? Èvvene alcuno che voglia tornare uomo?
Ulisse.
Nessuno. Vero è che io ho parlato solamente a que' due che tu mi dicesti, che l'uno fu pescatore e l'altro contadino; la vita de' quali è tanto misera e faticosa, che io non mi meraviglio che non voglino ritornare a provarla.
Circe.
Non pensare che io abbia fatto ancora questo a caso; che io ho voluto che tu cominci a vedere che ancora in quegli stati bassi, che sono stati già tanto lodati da molti de' vostri scrittori, sono tante incommodità, che i più vili ed imperfetti animali che si rítruovino, stanno meglio di loro, ed eglino te ne hanno assegnato le ragioni.
Ulisse.
E fatto sta, se questo nasce dal poco conoscimento loro; che certamente dovettero essere uomini di pochissimo ingegno, dappoi che parendo loro così infelice quello stato dove eglino erano, ei non seppero mutarlo.
Circe.
Ei si conosce molto più l'ingegno e la prudenza de gli uomini in sapersi accomodare a vivere quietamente in quello stato dove e' si ritruovano, che non si fa nel mutarlo; come si fa ancora la maestria de' giucatori del giucare bene que' giuochi che dà loro la sorte, se bene e' son cattivi: perchè ne l'uno opera solamente la virtù e la prudenza, e ne l'altro la fortuna, a lo arbitrio de la quale sempre cercano di sottomettersi il manco che possono gli uomini savj.
Ulisse.
Tu sai, Circe, che non è spezie alcuna d'animali dove si ritruovino le maggiori differenze che in fra gli uomini; de i quali, se tu consideri bene, tu ne vedrai alcuni di tanto sapere e di tanto ingegno, che son quasi simili a gli Dii; ed alcuni altri di sì poco conoscimento e di sì grosso ingegno che paion quasi fiere, di maniera che fanno bene spesso dubitare altrui se egli hanno l'anima ragionevole o no: il che non avviene a nessun altro animale; imperocchè, se tu riguardi in fra i Leoni e gli Orsi, ed in fra qualsivoglia altra specie, tu gli vedrai molto poco differentì l'uno da l'altro. E questi due a i quali tu m'hai fatto parlare, credo io certamente che sieno di quegli che conoscessino poco il bene o il male che ora ne lo stato loro, e per questo facessino come tutti i simili, che stimano sempre molto migliore lo stato altrui che il loro.
Circe.
Se i beni ed i mali che accaggiono a un uomo in quello stato che egli vive, si avessino a conoscer solamente con l'ingegno e con l'intelletto, io penserei che tu dicessi il vero. Ma e' si conoscono per pruova, e la speríenza (come tu sai) fa conoscere a ciascheduno le cose come elle sono. Mai sta' saldo: parlerai un poco con quella Serpe che viene attraversando la strada inverso noi; chè, se ben mi ricorda, colui che io transmutai in lei era Greco, ed egli ti soddisfarà forse assai meglio che non hanno fatto questi; ed io per questa cagione gli concedo facultà di poter risponderti e parlare.
Ulisse.
Ei debbe aver inteso che tu ragioni di lui, che egli si è così fermo a riguardarci fissamente.
Circe.
Questo potrebbe anche esser vero. Ma parlargli, ed io andrò intanto qua fra queste mie Ninfe a passarmi tempo lungo la riva del mare.
Ulisse.
Io ho avuto tanto piacere di parlare con quelle due bestie, se bene io non ho potuto persuader loro quel che io voleva e quel che è il vero, ch'io son disposto di favellare ancora con questo Serpe. Serpe, o Serpe.
Serpe.
Che vuoi tu, Ulisse? ma ohimè, io intendo, io favello: sarei io mai ritornato uomo come già era? Deh non piaccia questo agli Dei!
Ulisse.
E quale è la cagione, Serpe, che tu non vorresti esser ritornato uomo? lo stato forse nel qual tu vivesti, eh?
Serpe.
Questo no, ma la natura stessa de l'uomo, la quale veramente non è altro che uno albergo di miserie.
Ulisse.
Fa' conto che io arò dato in un altro simile a questi due. Serpe, stammi a udire. Egli è in poter mio il farti tornare uomo, che Circe me l'ha concesso, pregata però da me, per l'amore che io vi porto, essendo noi d'una medesima patria. Ora io posso farti questo bel dono.
Serpe.
Fállo pure ad un altro, che io ti prego che tu mi lasci fluire in questo modo la vita mia, perché io farei certamente troppa perdita a cambiare questo essere col vostro.
Ulisse.
E quale è la cagione?
Serpe.
Non te l'hanno detta coloro co' quali tu parlasti?
Ulisse.
Questi furono due uomini di tanto bassa condizione, e di sì poco conoscimento, che io non tengo molto conto de le parole loro.
Serpe.
O pure non ti assegnarono eglino la ragione perchè non voglion tornare uomini?
Ulisse.
L'un di loro, il quale fu pescatore, mi disse per non avere a pensar dove egli avesse abitare; il qual pensiero non hanno gli altri animali, che si stanno chi per le caverne de la terra, chi per i boschi, chi su per gli arbori, chi per le acque e chi, in altri varj luoghi: e l'altro, che fu conta
dino, per non avere a lavorar la terra, la quale non essendo cultivata e seminata da l'uomo, non gli produce il cibo spontaneamente, come ella fa a gli altri animali.
Serpe.
Ed io, che mentre ch'io vissi fui medico, ten'assegnerò un'altra, la quale vi è cagione di molto maggior miseria che non son quelle; e non vi si può riparare, come si può a quelle con l'arte de la agricoltura e con quella de l'architettura, ne le quali l'uomo è tanto eccellente.
Ulisse.
E quale è questa? dimmelo un poco.
Serpe.
La debolezza de la complessione che vi ha dato la natura, per la quale voi siete sottoposti a tante sorti di infermità, che non si può dire che voi siate mai sani perfettamente come noi. Ed oltre a questo, non siete mai tanto gagliardi, che per ogni piccol disordine che voi facciate, voi non debbiate temere d'ammalare.
Ulisse.
Questo, come io dissi dianzi a coloro, l'ha fatto la natura, perchè noi possiamo far meglio le operazioni nostre; il che non aremmo potuto far sì facilmente, se ella ci avesse composti di materia e d'umori e sangui grossi e gagliardi, come ella ha fatto voi.
Serpe.
Anzi l'ha fatto per farvi i più infermi ed i più deboli animali che si truovino al mondo.
Ulisse.
E quando questo che tu di' fusse pur il vero, non possiamo noi guardarci da quel che ci offende con quella prudenza che ella ci ha dato?
Serpe.
In qualche parte sì; ma egli è tanto difficile, che tu vedi quanti pochi lo fanno. Ma vuoi tu vedere se ella l'ha fallo solamente per essere vostra nimica? chè ella vi ha aggiunto uno appetito del cibarvi con tanta insasiabilità, ed una voglia tanto immoderata, che voi non restate di cercare continuamente nuovi cibi, e, trovatigli che vi piaccino, non potete dipoi temperarvi, o difficilissimamente, a mangiare solo il bisogno vostro: donde nascono in voi dipoi tante e tante così varie e gravi malattie.
Ulisse.
E quali son questi cibi che noi usiamo, che non sieno stati fatti da la natura per il mantenimento e per la conservazion nostra.
Serpe.
Come, quali? Sono infiniti, e particolarmente
tutte quelle cose che voi adoperate per far buone l'altre, e che non son buone a mangiare per loro stesse; come sono, verbigrazia, il sale, il pepe e simili.
Ulisse.
Io per me credeva tutto il contrario; anzi ho sentito dire che l'uomo senza il sale non viverebbe.
Serpe.
Mercè delle superfluità che si generano in voi per il troppo mangiare e per il troppo bere, le quali bisogna dipoi diseccarle. Ma se voi vi nutriste di cibi semplici, e tanto solamente quanto e' bisogna, voi non generereste umori superflui, e non areste poi a diseccarli: ma il fatto sta in questo, che l'uomo con questi condimenti (chè così si chiamano tutte quelle cose che non son buone da per loro stesse, ma fanno buone l'altre) fa i suoi cibi tanto migliori e più appetitosi, che egli ne mangia molto più che non sarebbe il bisogno suo, tirato da quel diletto che ritruova in essi. Ed, oltre a questo, è ancora incitato e sospirato da quella varietà de' sapori a bere molto più che non richiede la natura sua, donde nascono poi in lui tanti catarri, scese, gocciole, gotte, dolor di denti, donde poi bisogna cavarsegli (il che non accade a nessuno di noi) e mille altri infiniti mali ne succedono dipoi, oltre a questi.
Ulisse.
Certamente, che in questo di' tu in qualche parte il vero.
Serpe.
Considera dipoi noi, che, perchè ella ci ha voluto meglio, ella non ei ha dato codesto appetito cosi irregolato; laonde abbiamo voglia solamente di quelle cose che ci sono buone, e tanto quanto è il bisogno nostro. Nè fuor di quello mangeremmo pure un boccone. Nè sappiamo ancora variare o mescolare i nostri cibi di sorte, che gli abbino a sforzare col piacerci l'appetito nostro. Ma non vedi tu ancora, che perchè voi caschiate in questi inconvenienti, ella ha fatto che voi mescoliate con i cibi di quelle cose che erano stiettamente obietto de l'odorato, acciocchè e' vi piaccino più o più facilmente v'ingannino? come sarebbe a dire il moscado, che è la marcia di una postemazion d'un di noi, che tu non credessi che fusse qualche cosa preziosa: dove a noi non ha dato altro piacere ne l'odorare, che cose le quali ci sono necessarie a nutrircì, e solamente di
quelle tanto ancora quanto noi abbiam bisogno di mangiaro.
Ulisse.
Deh no: questo ha ella fatto perchè avendo noi avuto bisogno di maggior quantità di cervello a proporzione de gli altri animali, il quale è per natura frigido, per avere a esercitare in quello l'operazioni de' sensi interiori per servizio de l'intelletto, noi possiamo qualche volta riscaldarlo con gli odori, i quali son tutti per natura caldi: de la qual cosa noi gli abbiamo obbligo, avendoci ella ancora dato questo diletto, e questo piacere de l'odorare le cose buone; la qual cosa non ha ella fatto a voi, che non avete piacere d'altro odore che di quei che hanno i vostri cibi.
Serpe.
Io ti dirò il vero; io non mi so risolvere se l'aver voi questo senso più perfetto di noi vi sia a perdita o a guadagno: tanto son più gii odori cattivi che i buoni che voi sentite. E forse che ella non ha fatto ancora che voi stessi generiate ne' vostri corpi propii una quantità sì grande di superfluità, che quasi tutto hanno cattivo odore, che non avvien così a noi? la qual cosa è segno manifestissimo de la debolezza e de la imperfezione de la complession de la natura vostra, sottoposta ed obbligata (come io ti ho detto) a tante e tanto varie infermità, che non son pur conosciute da noi. Ohimè, non vedi tu che ne gli occhi solamente vi possono accadere più di cinquanta sorte di malattie?
Ulisse.
Quando questo fossi pure, noi abbiamo il modo a rimediarvi.
Serpe.
E come?
Ulisse.
Con la medicina, ne la quale arte l'uomo è eccellentissimo; e tu lo debbi sapere, essendo stato, come tu di', medico.
Serpe.
Questo è il punto dove io ti voleva giugnere, perchè in questo reputo io gli uomini molto più infelici di noi.
Ulisse.
O perche? dimmi un poco la cagione.
Serpe.
Perchè io tengo che la medicina facci in voi molto più mali che beni, o che voi non istiate ne l'usarla in capitale. E non sono io solo in questa opinione, chè tu sai bene quante città sono state ne la vostra Grecia, che hanno già proibiti e discacciati da loro i medici.
Ulisse.
E perchè questo? vorrai tu negare che la medicina non sia una de le sette arti liberali, verissima ed utilissima a l'uomo? Guarda che questo non proceda da te, che tu fossi un di quei che non ne sapessi molto, e però la biasimi; osservando il costume di molti, che quando non sanno una cosa, dicono che ella non può sapersi, e che non la sanno ancora gli altri.
Serpe.
Io non voglio negare che ella non sia in sè arte verissima ed utilissima e degna di molte lodi; nè voglio negare ancora, che io non ne sapessi poco, secondo quel modo che ne sanno ancor poco gli altri. Ma in quel modo che ella può sapersi, ne seppi io tanta, che io fui reputato in fra i primi medici di Grecia, e tu ne puoi render buona testimonianza; che io so che tu arai sentito ricordare infinite volte Agesimo di Lesbo.
Ulisse.
Or sei tu Agesimo di Lesbo tu, o veramente lo spirito suo, per dir meglio?
Serpe.
Sono certamente, che, per andar veggendo il mondo, arrivai qui sopra una nave, e fui così insieme con i miei compagini trasmutato in fiera.
Ulisse.
lo mi rallegro grandemente di parlare teco, chè la fama tua è ancora tanto grande per la Grecia, che mi parrebbe acquistare non poco se io ti rimenassi a loro uomo come tu eri.
Serpe.
Di questo ti dico io bene, che tu non ragioni, perchè io non lo consentirei mai. E perchè tu vegga che io non lo fo senza ragione,ti dico, ritornando al ragionamento nostro, che la medicina si può considerare in due modi. Primamente, ella si puo considerare come scienza; e in questo modo ella è verissima e certissima, perché ella considera solamente gli universali, i quali, per essere eterni e invariabili, generano in noi certezza. E sapendo in questo modo le cose per le loro cagioni, ella si chiama scienza, e appartiene al contemplativo; il fine del quale è conoscere solamente la verità. E in questo modo la sanno molti, e ancora io ne seppi la parte mia. Puossi dipoi considerare la medicina come arte; e l'arti, come tu sai, nascono da la esperienza, e in questo modo ella è fallacissima. E che sia il
vero, lo confessano i medici stessi, dicendo che le esperienze in questa arte sono molto fallaci. E così ella appartiene a lo attivo, il fine del quale è operare, e il travagliarsi circa i particolari; e in questo modo ti confesso che se ne sa pochissima; e la esperionza ve lo dimostra tutto il giorno: per la qual cosa si usa dire per proverbio, che i medici guariscono ognuno in cattedra, ma non già nel letto.
Ulisse.
O donde cavasti tu la riputazione che tu avevi, se tu sapevi poco operare?
Serpe.
Da la stoltizia de' più, che non ponendo bene spesso mente a quello che gli uomini fanno, si lasciano ingannare da quel ch'e' dicono.
Ulisse.
Certamente che gli uomini ne le come loro proprie veggono lume poco discosto.
Serpe.
E in questa sopra tutte le altre, per la voglia che gli hanno del vivere. E se tu vuoi vederlo chiaramente, avvertisci che di quegli errori ch'e' puniscono gli altri, e' pagan noi a peso d'oro. I quali son tanti e sì grandi, che mal per noi se la terra non gli ricoprisse, come disse già uno de' nostri sapienti di Grecia; il quale essendo dipoi un giorno domandato quale era la cagione che egli non aveva mai male, rispose: Il non m'impacciar con medici.
Ulisse.
Ben l'intendeva adunque quell'altro nostro grand'uomo, poichè diceva, che nessun buon medico pigliava mai medicine.
Serpe.
Tu dovevi pure anche dire quell'altra.
Ulisse.
E che?
Serpe.
Che nessun buono avvocato piatisce mai. Ma e' ci è ancor peggio, chè per mantenere in riputazione questo loro inganno, ei danno ad intendere agli uomini di pigliarlo, facendole ordinare a gli speziali e mandarsele a casa, e poi le gettan via: e io ho conosciuto di quegli che lo hanno fatto.
Ulisse.
Chi non sa che questo nostro vivere è una ciurma? e che noi non facciamo se non ingannarci l'un l'altro?
Serpe.
E i maggiori inganni che si faccino; si fanno dove più giuoca il credere; chè in questo s'adopra egli più che in alcun'altra cosa.
Ulisse.
Tu vedi bene, che e' s'usa dire che la fede che
ha uno ammalato nel medico, gli giova bene spesso molto più che le medicine; e chi meglio sa ciurmare s'acquista più fede.
Serpe.
Ed io lo so, che per sapere ben parlare e ben persuadere, e massimamente le donne, a modo de le quali si tolgono il più delle volte i medici, e non per sapere operare, mi acquistai gran credito. Ma sta' fermo, Ulisse: vuoi tu vedere che gli uomini non sanno perfettamente la medicina, che dànno a un mal solo più e più rimedj?
Ulisse.
O quanti più rimedi dà un medico a una infermità, non è egli segno che egli sa più de l'arte?
Serpe.
Tutto il contrario, perchè il dare assai rimedj a un male è segno di non sapere il suo propio. Imperrocché, così come tutti gli effetti hanno solamente una cagione propia che gli produce, se ben possono essere dipoi prodotti da molte altre accidentalmente (come avviene, verbigrazia, del calore, il quale è prodotto principalmente dal fuoco, e accidentalmente da molte altre cagioni, come sono stropicciare due legni insieme, ammontare cose umide, e simili altri modi); così ogni male ha il suo rimedio propio, e chi lo sapesse lo guarrebbe indubitatemente. Sicché, quando tu vedi che uno dà molti rimedj a un sol male, dì: costui non sa il suo propio, e cercane. E bisogna allora, come si dice, che i cieli ve la mandino buona.
Ulisse.
Pensa, dunque, se noi stiamo benissimo a capitare a le vostre mani.
Serpe.
Vedilo; e però son molti che dicono, che gli è meglio tòrre un medico ben fortunato, che un dotto.
Ulisse.
Che intendi tu per ben fortunato?
Serpe.
Uno che si vegga che la maggior parte degl'infermi che gli capitano a le mani sieno guariti da lui; perchè ben fortunato si chiama colui al quale succedon bene la maggior parte de le faccende sue, e che ne' partiti dubbj e pari gli vien sempre preso il migliore: perchè, come io ti ho detto, egli è tanto difficile ne la medicina lo applicare gli universali a' particolari, che bisogna che l'infermo abbia buona sorte; altrimenti, e' porta grandissimo pericolo.
Ulisse.
Di questo, ci abbiamo noi a dolere de gli uomini
e de l'avarizia loro, poichè si mettono a fare quel che non sanno, solamente per guadagnare.
Serpe.
Sì, ma molto più de la natura; che non ha proveduto a la salute vostra, come ella ha fatto a noi; prima, per darvi una complessione così debole e uno appetito tanto disordinato; e dipoi, de lo avervi insegnato la medicina, in un modo, che ella vi è piuttosto dannosa che utile.
Ulisse.
E che ha fatto la natura in questo meglio a voi che a noi?
Serpe.
Hacci dato primieramente una complessione tanto gagliarda, e uno appetito tanto regolato, che non ci spinge mai a far cosa alcuna che sia contro a la natura nostra. E dipoi, a le infermità nostre, molto più perfetta la medicina che a voi.
Ulisse.
Questo vo' io bene che tu mi provi con altro che con le parole solamente.
Serpe.
De la bontà e gagliardezza de la complessione, per essere ella cosa notissima per sè stessa, non vo' io ragionarti, ma de la temperanza de lo appetito. Considera, la prima cosa, il modo come noi ci cibiamo; chè tu non vedrai alcuno di noi che abbia mai voglia se non di quei cibi che son convenienti a la natura sua, e di questi ancora prende solamente quella quantità che è necessaria al suo nutrimento: dove a voi avvien tutto il contrario, perchè voi avete voglia di mille cose che vi nuocono, e non sapete anco moderarvi di non mangiare più che il bisogno vostro di quelle che vi piacciono.
Ulisse.
Certamente, che in questo siete voi più felici di noi.
Serpe.
Che dirò io ancora del bere? che, dove noi beviamo solamente tanto quanto fa bisogno a la conservazion nostra, voi bene spesso vi lasciate tirare tanto dal diletto che voi sentite nel vino, che voi non solamente vi inebriate, ma ne cavate mille varie infermità.
Ulisse.
Di questo non voglio io che tu ragioni, perchè in questo ha dimostrato la natura di volerci molto meglio che a voi, avendo dato a noi soli questo così prezioso liquore.
Serpe.
Sì, se ella vi avesse dato con esso l'appetito di
maniera regolato, che voi non ne beeste più che il l bisogno vostro; ma non avendo ella fatto cosi, egli è propio come aver dato una cosa che non può manco nuocere che giovare in mano a uno che non abbia giudizio, o che si lasci trasportare da la voglia.
Ulisse.
Di questa cosa del vino tu potresti dir mille anni, chè io non ti cederei mai.
Serpe.
Ne le cose veneree poi, non vi lasciate voi ancora trasportar tanto dal piacere, che voi ne cavate bene spesso la morte? la qual cosa non avviene mai a noi: anzi ha tanto tenuto conto la natura di noi in questo, che ella non ci lascia venire in simili desiderj se non a certe stagioni; e queste sono solamente quando noi abbiam bisogno di gittar questa superfluità, o quando il tempo è più atto a la generazione.
Ulisse.
Sì, che non si trova ancora in fra voi di quegli che sono sempre disposti a simili piaceri?
Serpe.
E chi sarà questo? la Cavalla, o simili altri animali che praticano con voi, per servirvene voi a' vostri bisogni, che saranno forse anche incitati a simili atti da voi per util vostro, acciocchè ei figlino più. Ma passa più oltre a l'altre cose, che si ricercano a la conservazione de la sanità. E considera un poco circa a l'aria, la qualità de la quale è d'importanza grandissima, avendo noi continuamente nel respirare a empiercene le parti di dentro: chi truovi tu di noi che non stia in quel luogo e in quell'aria che gli è a proposito e conveniente, se già e' non ne sono cavati da voi per forza e menati altrove? dove voi bene spesso, e per il desiderio del guadagnare, e per mille altre cagioni, andate, mutando paesi, a stare in luogo dove l'aria, vi è tanto contraria, che voi vi procacciate la morte innanzi al tempo.
Ulisse.
Questo si puo mal negare.
Serpe.
Del sonno e de la dieta e de l'altre cose necessasarie a la conservazion de la complessione e de la sanità vostra, non vo' io ragionare, perchè voi conoscete da voi stessi, che voi non le sapete usare ai tempi debiti. E questo nasce perchè voi siete indotti a ciò o da l'arte o da la fantasia vo
stra stessa dove noi, che le usiamo solamente quando la natura le richiede, non erriamo mai; per le quali cagioni, Ulisse, noi siamo sottoposti a molte manco infermità che non siete voi. E a quelle poche sa ciascheduno di noi, guidato da la natura, trovare il rimedio da per sè stesso.
Ulisse.
Ed è certo questo?
Serpe.
Certissimo, e in questo puoi tu conoscere chiaramente quanto la natura ci abbia amati più di voi, poichè ella ha insegnato a ciascheduna specie di noi i rimedj di que' mali a che ella è sottoposta; e non solamente a la specie, ma ancora a ciascheduno individuo di quella.
Ulisse.
Certamente, che in questo mi fai tu ben maravigliare.
Serpe.
Dappoichè questa ti pare sì gran cosa, io non voglio che tu ti quieti a le parole; ma comincia un poco a considerare noi Serpi, che ciascheduna di noi, quando e' ne viene la primavera, sentendosi la pelle rannicchiata addosso per essere stata il verno ferma e aggomitolata sotto la terra, va a mangiare del finocchio, il quale ci fa gittare quello scoglio così vecchio. E dipoi, veggendo ancora che ella ha diminuita la vista, ricorre a medicarsi con quel medesimo. Le Lucertole non hanno tutte una certa erba che le guarisce, quando elle son morse da noi? I Cervi, quando ei sono feriti, non ricorrono tutti al dittamo? e quando ei si senton morsi dal Falangio, che è una specie di Ragno velenoso, non si sanno eglino tutti medicare col mangiare de' Granchi? Le Rondini, quando elle veggono che lor figliolini hanno male agli occhi, non sanno elleno tutte medicargli con la calidonia? Le Testuggini non medicano i nostri morsi con la cicuta? La Donnola quando va a combattere co' Topi, non si fa ella prima forte e gagliarda col mangiare de la ruta? La Cicogna non medica ella le infermità sue con l'origano? e i Cinghiali con l'ellera? Lo Elefante non si difende dal veleno del Camaleonte con le foglie de l'ulivo? e gli Orsi da quello de la Mandragora con le Formiche? I Colombi selvatichi, le Merle e le Pornici non purgano le superfluità loro con le foglie de l'alloro? e i Colombi dimestici, la Tortora e le Galline con la alsina? I Gatti e i
Cani, quando e' si sentono il ventre grave, non ricorrono a purgarsi col mangiare de l'erba bagnata da la rugiada? Ma che bisogna che io ti racconti più lunga istoria? Toi quale spezie d'animali tu vuoi, che tu troverrai che o quella infermità che ella è sottoposta, la natura gli ha insegnato il rimedio; e non solamente a la specie sola, come io ti ho detto, ma a ciaschedono individuo di quella: donde nasce che noi non abbiamo a comperare la fatica l'uno del'altro, non abbiamo a sottometterci a cose dubbiose, e, quello che è peggio, a pagare uno che ci dia bene spesso la morte come fate voi miserelli. E forse che non vi pare, quanti più danari voi date a' medici vostri, tanto far meglio? e che voi non andate anche scegliendo le più belle monete che voi trovate?
Ulisse.
E in questo non facciamo tutti a un modo: ma che vuoi tu fare? non si trova egli de gli stolti anche fra voi?
Serpe.
No, Ulisse; e legati questo al cuore, che non si truova animale alcuno che manchi di quel conoscimento che si conviene a la specie sua, se bene talvolta se ne troverà uno alquanto più docile o più accorto che l'altro. Ma tra voi, dimmi un poco, se tutti i pazzi portassino una berretta bianca in capo, non parreste voi un branco d'oche?
Ulisse.
E il caso è, se cotesti che tu chiami pazzi, sono più sàvi che gli altri, ed hanno miglior tempo che gli altri: che mi ricorda già, che sendo domandato da una donna uno che n'era guarito, che medicina egli aveva fatto, perchè la voleva medicare un suo figliuolo, colui rispose che non la voleva insegnare, perchè e' gli parrebbe far troppa ingiuria a guarire uno di simile infermità; conciossiaeosachè a lui non pareva avere auto mai il più bel tempo, che quello mentre che egli fu tenuto pazzo.
Serpe.
E donde credi tu che nascesse cotesto? se non che in quel mentre che egli era privo di que' pensieri che tengon l'uomo mal contento, e' non conosceva la miseria de la natura umana?
Ulisse.
lo non vo' testè disputar teco di questo. Torniamo al ragionamento nostro, dove io ti dico: se bene voi avete manco infermità di noi, questo nasce perchè voi avete
la vita più corta: il che non è piccol male, nè piccola infelicità.
Serpe.
Sì, forse, a noi che siam provveduti di tutto quelle cose che ci son necessarie da la natura, e che viviam sempre sani e senza dolore o passione alcuna (benchè e' ci è anco poca doglia il morire, perchè noi non prevediamo la morte innanzi come voi; e, oltra di questo, non conosciamo così perfettamente quanto sia gran cosa il perdere l'essere). Ma a voi sarebbe e' bene felicità grandissima, perchè il viver lungamente non è altro a voi che uno stentare più tempo: con tanti disagi, e con tante fatiche conservate la vostra vita. E come e' vi viene un duol di capo, vi tormenta tanto il timor de la morte, che vi è molto più grave il dolore de l'animo che quel del corpo: tale che son stati molti, che per questa cagione han detto che la vita vostra non si può chiamar vita, ma uno continuo corso e pensamento de la morte.
Ulisse.
Coteste son parole.
Serpe.
Sì, che non ci è forse fra voi stati ancora di quegli che, considerando la miseria vostra, hanno detto che sarebbe meglio non esser mai nati; e che di quei che son nati, si posson chiamar solamente felici quei che son morti ne le fasce. E quanti sono ancora stati che, considerando lo stato vostro, per liberarsi da tanti mali, si sono dati la morte da loro stessi colle proprie mani? cosa tanto empia, che ella non cadde solamente già mai nel pensier d'alcun di noi.
Ulisse.
Sì qualche pusillanimo, che sbigottito per non saper vincere qualche avversa fortuna o sopportare qualche male che gli sarà sopravenuto: ma per uno di questi tu truoverai le migliaja che non vorrebbon morire.
Serpe.
Si, ma tu non sai la cagione.
Ulisse.
E qual è? dimmela un poco.
Serpe.
Il temer di non andare a peggiore stato; per lo spavento che vi hanno messo molti, scrivendo di non su che regno di Plutone; dove dicono che sono tante atrocissime pene, preparate a chi ha di voi punto trapassato il segno de la ragione per saziare qualche volta un poco le voglie sue. A la qual cosa non pensiamo già mai noi. Ma se gli uomini credessino
finire a un tratto la vita e gli affanni loro, tu vedresti cose che ti farebbono maravigliare: tanti son più fra voi quegli che stentano e stanno male, che quei che godono e stanno bene.
Ulisse.
Agesimo, io veggo che tu sei tanto ostinato che tu non saresti già mai capace de la ragione. Onde io non vo' disputar più teco, e massimamente avendo veduto in questo ultimo, che tu hai perduto il conoscimento affatto, cominciando a dubitare de la religione; cose proprio convenienti a una fiera come sei tu. E certamente mi incresce non poco di te. O pure, per l'amore che io ti porto, essendo tu Greco, se tu vuoi ritornare uomo, io ti farò tornare, che così mi ha concesso Circe: dove tu potrai dipoi ritornare meco a la patria tua.
Serpe.
Non già io: guárdimene chi può per sempre.
Ulisse.
Non vedi tu, che infelice essere è il tuo? e forse che tu sei qualche animale carezzato da gli uomini?
Serpe.
E coteaso è quel ch'io ho caro; chè le carezze che fanno gli uomini a gli animali, son tutte per commodo di sè stessi, e per servirsi di quegli ne' bisogni loro.
Ulisse.
Oltre a questo, tu consumi la maggior parte de la vita tua infelicemente, e senza piacere alcuno sotto la terra.
Serpe.
Oh! voi ne dormito ancor voi la metà; e molto più inquietamente di noi.
Ulisse.
Dipoi, che piaceri hai tu? Tu mangi poco, altro che terra o qualche animal bruto, e non béi altro che acqua.
Serpe.
E che importa questo, se io non ho voglia d'altro?
Ulisse.
Hai ancora la cognizion tua imperfetta; e questo nasce che la imaginativa tua e la fantasia son molto confuse.
Serpe.
E che ne sai tu di questo?
Ulisse.
Veggolo per esperienza, che tutti voi altri animali che andate per terra col corpo, fermando la parte dinanzi di voi con le vostre scaglie, e strascinando e tirando dipoi quella di dietro, quando vi s'attraversa la via, ve ne andate in un altro luogo, e non tornate per il camino che voi facevi prima. E questo donde nasce? se non che voi avete la fantasia confusa, e non avete memoria come non ha ancora la mosca. Onde non vi determinate a un luogo più che a un altro, ma vi lasciate guidare al caso.
Serpe.
Confusa l'arei io tornando uomo, chè sempre sarebbe piena d'umori e di ghiribizzi; dove a questo modo io mi vivo contento e senza pensiero alcuno. E manco arei ancor memoria a voler tornare in uno stato pieno di tanti affanni e di tante miserie. Sicché non ti affaticar più, Ulisse, che io non voglio questa tua grazia, che la mi sottometterebbe a mille infermità, e non mi potrei mai cavare una voglia sicuramente. Anzi, per ogni minimo disordine, sentirei mille duoli. E, quel che è peggio, mi arei da guardare di morire, essendo sottoposto alle storpiarmi, e viver sempre dipoi contraffatto e infermo: sì che, va al tuo viaggio, che io me ne voglio andare a grattarmi un poco la scaglia a quel ginepro, per poterla più facilmente muovere; dove io sentirò ancora tanto piacere e diletto, che io non ne provai forse mai un simile essendo uomo. Perché e' sarà senza rispetto e dispiacere alcuno; deve i vostri son sempre mescolati con tanto amore (il che vi dispiace tanto più che non vi piace quel che vi diletta}, che molti di voi hanno detto, parlando di quegli: Mille piacer non vagliono un tormento.
Ulisse.
In fine, io ho a far con bestie; e se ben Circe rende loro il poter favellare e rispondermi, secondo che pare a me, ella non rende loro il cervello perchè considerano solamente certe cose minime, e non quel che importa. Ma io non vo' però ancora tormi da sì bella impresa, ma voglio ritornare a Circe, che mi faccia parlare a gli altri che ci sono, per far bene a quegli che ne sono capaci; perchè, come dice il proverbio, e' si può ben far male a uno per forza, ma bene non mai.

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