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ULISSE CIRCE E LEPRE.
- Ulisse.
- Se io non sapessi quanto sia l'amore che tu mi porti, nobilissima Circe, io dubiterei certamente che tu non volessi concedermi quella grazia che io ti ho domandata; e non volendo negermela, mi avessi fatte parlare solamente a que' che tu sai che hanno l'animo tanto deliberato di non tornar uomini, che nessuno lo potrà persuader loro mai, e così io mi tolga da l'impresa.
- Circe.
- Non ti caschi ne l'animo un simil pensiero di me, Ulisse; chè questo non si conviene nè a l'amor che io ti porto, nè a la grandezza e nobiltà de l'animo mio, intento sempre e glorissime imprese: che tu sai bene che chi non sa disdire i piaceri, non sa ancora fargli.
- Ulisse.
- Oh! tu mi hai fatto parlare a uno il quale è molto più ostinato che quegli altri; e dove io mi credeva fargli un bel dono, facendolo tornar uomo e rimenandolo a la sua patria, quella sua ostinazione l'accieca tanto, ch'e' dice che peggiorerebbe assai cambiando quello essere a questo.
- Circe.
- Se tu avessi provato ancora tu lo stato loro, Ulisse, tu faresti forse ancora tu così.
- Ulisse.
- Costui, mentre che fu uomo, dice che fu medico; i quali, come tu sai, non veggon mai altro che mali, dolori, brutture e infermità de gli uomini; non sentono mai altro che lamenti e pianti di quegli. De la qual cosa ricordandosi egli ora (perchè sempre si ritengono a la memoria più i mali che i beni), mi penso che non voglia ritornare uomo.
- Circe.
- In tutti gli stati de gli uomini sono molti più gli affanni e le miserie, che i contenti e le felicità.
- Ulisse.
- Male avrebbe fatto adunque, se così fosse, quel nostro Sapiente, che in fra l'altre cose de le quali egli ren
- deva ogni giorno grazie a gli Dei, era che l'aveven fatto uomo, e non fiera.
- Circe.
- Egli lo faceva perchè così è l'opinione de la maggior parte de gli uomini, tirati da quelle ragioni che si possono cavare dal discorso ragionevole. Ma e' si debbe molto più credere o costoro, che, avendo provato l'una e l'altra vita, lo conoscono per la esperienza e per la cognizione sensitiva, la quale non solamente eccede e supera di certezze tutte le altre, ma è origine e fondamento di tutte.
- Ulisse.
- Sì, ma e' non si debbe comparare quella de gli animali a la nostra, essendo ella molto più imperfetta.
- Circe.
- Questo non credo io già, perchè veggio di molti animali che hanno i sensi molto più perfetti di voi, e che nelle operazion di quegli vi superano di gran lunga.
- Ulisse.
- Se bene e' ci vincono in qualche senso particolare, come fa, verbigrazia, l'Aquila nel vedere, il Cane ne l'odorare e l'Oca ne l'udire; e' ci sono poi inferiori tanto nel far giudizio de le cose sensibili, per non avere il senso comune tanto perfetto quanto noi, e per mancare al tutto del discorso ragionevole e del poter comparare l'un sensibile con l'altro, che le nostre cognizioni sensitive sono molto più perfette de le loro. Ma fammi favellare con qualcuno altro, ch'io non penso però che tutti ebbino ad aver così perduto il vero conoscimento de la ragione come questi tre ai quali io ho parlato; che certamente non furono senza cagione trasmutati da te in così imperfetta specie d'animali, avendo eglino come uomini sì imperfetto discorso.
- Circe.
- Io son contenta: parlerai con quella Lepre che tu vedi che pasce a l'ombra di quella quercia: va là, e chiamala, chè io le ho conceduto il favellare.
- Ulisse.
- Lepre, se gli Dii ti dìeno quel che tu desideri, non ti fuggire, ma aspettami e dégnati dì rispondermi, chè Circe mi ha detto che tu puoi.
- Lepre.
- Ohimè, che vuol dir questo? io ho riavuto l'intendere il significato de le parole umane: oh sorte mia infelice, perchè mi hai tu ricondotto in così fatta miseria?
- Ulisse.
- Chiami tu però miseria lo intendere il favellar de gli uomini?
- Lepre.
- Miseria e infelicità grandissima, se già e' non si son mutati di natura da quel tempo in qua che io era uomo.
- Ulisse.
- E quale è la cagione, Lepre?
- Lepre.
- Ohimè, oh! io non sentiva mai, mentre ch'io era uomo, altro che rammaricarsi e dolersi amarissimamente l'un con l'altro.
- Ulisse.
- Io arò fuggito Scilla e arò dato in Cariddi. Colui era medico; per la qual cosa e' non praticava mai se non con malati e con malcontenti; e costui, per quanto io posso penetrare, non dovette praticar mai se non con disperati.
- Lepre.
- Queste cose mi erano spesso cagione di tanta doglia, che io sarei innanzi voluto stare in un bosco dove io non avessi mai veduto pedate d'uomo: e certamente l'avrei fatto, se la natura umana l'avesse comportato. Ma tu sai che l'uomo ha bisogno di tante cose, che non può vivere solo se non con mille incomodità.
- Ulisse.
- E che? tu non senti rammaricarsi forse anche de gli animali, eh?
- Lepre.
- Egli è il vero, che quando quei de la specie mia medesima hanno qualche passione, che io gli conosco a la voce; perchè egli è naturale a ciascuno animale il manifestar con la varietà del suono de la voce se egli ha allegrezza, o dolore: ma queste voci così naturali mi dimostrano solamente il dolor di quegli in generale; il qual modo di dolersi è molto più comportabile che quel de l'uomo, che, oltre al dolersi con sospiri e con accenti maninconici e mesti, accresce, col narrare le sue miserie e la cagione del suo dolorsi, bene spesso a chi lo ode molto più la compassione. Ohimè, oh! io non sentiva mai (oltre ai sospiri che getta naturalmente chi ha maninconia) raccontare altro che omicidj, tradimenti, latrocinj, assassinamenti e impietà sì crudeli che facevano l'uno a l'altro gli uomini, che il più de le volte mi dava maggiore affanno la compassione d'altrui, che non faceva la pietà di me stesso.
- Ulisse.
- Or dimmi (se ti piace) che stato fu il tuo mentre che tu vivesti uomo?
- Lepre.
- Io ne mutai tanti, che io non saprei qual ti dire. Ma che ti muove a voler così sapere qual fu lo stato mio?
- Ulisse.
- Lo amore che si porta naturalmente a quei che sono de la sua patria. E questo mi ha fatto impetrar da Circe di render l’effigie de l’uomo a tutti i miei Greci. E per avere inteso da lei che tu n’eri uno, voleva farti questo bene; perchè io ancora sono Greco, e chiamomi Ulisse.
- Lepre.
- A me non le restituirai tu già, se io non sono però forzato.
- Ulisse.
- O perchè? non è egli meglio essere uomo che animale bruto?
- Lepre.
- Non già, per quanto io conosca.
- Ulisse.
- E sei tu però disposto in tutto di voler consumare la vita tua in cotesto corpo di fiera?
- Lepre.
- Sì; perchè standomi così fiera, mi vivo contento e quieto ne la mia specie; ed essendo uomo, non mi contentai mai in istato alcuno.
- Ulisse.
- E il caso è se questo per colpa tua e per esser tanto insaziabile, che tu non ti contentassi di quel che è ragionevole.
- Lepre.
- Io dubiterei di cotesto; se non che io non trovai mai uomo alcuno, in che stato si voglia (e ne praticai pure assai), che fusse perfettamente contento. Ma dimmi un poco, che ha però l’uomo ch’ e’ debba viver contento? Chè o egli è posto da la fortuna in istato che egli ha a comandare e a provvedere ad altri, o egli è comandato e governato.
- Ulisse.
- In tutti due questi stati (se egli è prudente) ha da contentarsi.
- Lepre.
- Anzi in nessuno: perchè se egli è principe e signore, e ha a governar altri se egli vuole far quel che gli conviene, e’ non ha mai un’ora di riposo; lasciando stare l’insidie e gl’inganni de’ queali egli debbe tuttavia tenere, e che nascon tutto il giorno da la invidia che gli è portata. Ohimè, non sai tu che un principe tiene nel suo principato il luogo che tiene Iddio ottimo e grandissimo ne l’universo? chè ha con la prudenza sua aver cura a tutte le cose; donde ei si dice vulgarmente, che tutti i sudditi suoi dormon con gli occhi di quello: che piacere vuoi tu adunque che egli abbia?
- Ulisse.
- Grandissimo, veggendoli viver civilmente e dicono che il rubare non è male; conciossiacosachè la roba di questo mondo sia stata tante volte rubata, che ella non abbia più i veri padroni, ma sia di chi se la toglie.
- Lepre.
- Bástiti solamente questo, Ulisse, che la povertà è cosa tanto aspra e tanto grave, che gli uomini per fuggirla si pongono insino a star per servi l’un con l’altro: cosa tanto brutta, che fra noi animali non è alcun si vile che non sopportasse prima la morte che porsi volontariamente a servire L’uno a l’altro de la sua specie medesima per mendicare le cose sue necessarie. Ma la natura ci ha voluto* Unto meglio che a voi, che in fra noi non è conosciuta questa infelicità; anzi, ciascheduno è stato fatto da lei da tanto, che cri si sa reggere per sè stesso.
- Ulisse.
- E’ bisogna che sia pur altro che la povertà che conduce gli uomini a star per servi l’un con l’altro, perchè si vede farlo a di molti che sono ricchi.
- Lepre.
- Anzi son più poveri de gli altri, se tu lo consideri bene; perchè sono poveri di nobiltà d’animo, o veramente di consiglio: per il che e’ non sanno raffrenare il loro ingiusto appetito; laonde cercano d’acquistar fama o grado, o di saziar le lor voglie immoderatamente, col farsi servi d’altrui.
- Ulisse.
- E chi fusse in uno stato mediocre, nel quale e’ potesse ragionevolmente contentarsi?
- Lepre.
- E dove è questo stato? Io per me non trovai mai nomo alcuno che non dicesse o che gli mancasse qualcosa, o che gliene avanzasse; benchè questi furono rarissimi, e se ne accorsero quando ei si videro pressa al fine de la lor vita, dolendosi de i disagi ch’egli avevano sopportati ne la loro giovanezza per acquistar roba, acciocchè ella avesse poi loro avanzare a la morte.
- Ulisse.
- Questi sono errori che nascono dal non saper l’uomo raffrenare e moderare le voglie sue; e non da la sua stessa natura.
- Lepre.
- A me pare che sia tutt’uno; poichè la natura ha fatto che egli può desiderare quelle cose che gli son poi dannose e moleste. La qual cosa, per averci più amati, non ha ella fatto a noi. E mi ricorda che essendo io in quella età ne la quale si comincia aver qualche conoscimento, sotto la custodia di quel precettore che mi aveva dato mio padre, che fu di Etolia nobilissimo e dotato di molte ricchezze; che insegnandomi egli certe cose di matematica, secondo il costarne dei Greci, io cominciai a considerare come l’uomo non sa cosa alcuna se non gli è insegnato. La qual cosa in quella età ci pare durissima, non tanto e per la diftlcultà de le coso e per la custodia del maestro, quanto per la voglia fanciullesca che arreca seco quel tempo, che io mi viveva molto mal contento e non mi mancava però cosa alcuna.
- Ulisse.
- Di cotesta età si debbe tener poco conto, perchè ella è molto imperfetta.
- Lepre.
- Seguitando dipoi più oltre, occorse la morte di mio padre; laonde io cominciai a combattere coi miei fratelli de la eredità, sperando pur sempre, mentre ch’io era in questi travagli, che come egli erano finiti, d’avermi a vivere contento e in riposo grandissimo: del che mi avvenne tutto il contrario. Perchè, come io ebbi la mia parte, che furono parte possessioni e parte danari, i pensieri crebbono; ed essendo uso a esser governato, mi pareva fatica grandissima avere allora a far da me, e d’altri non mi fidava. Perchè, essendomi forza per mantenere le mia facultà praticare è con i contadini e con mercanti, mi accòrsi che ciascuno di loro stava continuamente attento per far le mie cose sue: perchè dare un podere a un contadino non è altro che far compagnia con un ladro, e dare il suo a un mercante con unò che pensi di tòrtelo. E nientedimanco io notai che nessun di loro al contentava de lo stato suo, e non facevano mai altro tutti che continuamente rammaricarsi l’uno de le terre che non rendevano per la indisposizion de’ cieli, e de l'esser poco stimati; e l’altro de’ cattivi temporali, de la mala fortuna, de la poca sicurtà de’ mari, e de la discordia de’ principi, che non lasciavano esercitare la mercatura.
- Ulisse.
- Ogn’uno ha avere qualcosa che gli dia noja: voi avete pure anche voi de le cose che vi molestano.
- Lepre.
- Sì, ma per ognuna che ne abbiam noi, ne avete mille voi. Ma sta pur a udire. In questo mentre, e per i bisogni che occorrono a la vita de l’uomo, e per difenderti che non ti aia tolto il tuo (perchè tutti gli nomini son ladri, ma
il modo loro del rubare è vario) io ebbi a praticare una quantità infinita d'artefici e d'avvocati e procuratori: di questi non pensar che mai io ne trovassi uno che vivesse contento; perchè tutti tenendo gli occhi ne’ricchi, si dolevan d’aver a guadagnarsi il pane: e fra questi altri il medesimo, che tutti si dolevan tutto il giorno d'avere a litigare e combatter per procacciarsi le cose che sono necessarie a la vita umana.
- Ulisse.
- A doler s'ha chi s'impaccia con esso loro; che dà poca noja a loro, facendosi la guerra sempre in su quel d'altri.
- Lepre.
- Chi altrui tribola, sè non posa: tu non consideri ancora le nimicizie ch' e' ne cavano; e quanto e' sono odiati quando tu non hai bisogno di loro, e in che concetto e' sono avuti.
- Ulisse.
- Questo è ben vero, che e' mi ricorda già che disputandosi in uno dei nostri studj di Grecia di chi dovesse precedere nel primo grado o i legisti o medici, fu concluso che gli avesse andare innanzi l'avvocato, solamente per questo esemplo, che quando e' si manda a far giustizia, il ladro va innanzi e il boja dietro.
- Lepre.
- Veggend’io questa mala contentezza di tutti questi stati, e desiderando di fuggirla, pensai che se io doveva ritrovare quiete in stato alcuno, questo dovesse essere quello di quei nostri sacerdoti, che, spiccatisi dal mondo, si stanno in quelle loro congregazioni a servire a gli Dei, tenendo a comune ogni cosa, e lasciandosi governare a uno di loro. E attaccatomi a questo, deliberai di lasciare il mondo, e andarmene a vivere in una. La qual cosa non bisognò che io facessi; perchè, come io cominciai pure ad accostarmi a loro alquanto, io sentii l'odore de le discordie e de le infelicità loro, e come ciaschedun di loro cercando con ogni modo, ancora che ingiusto, d’essere il primo, tradiva e offendeva gli altri: sentiva il dispiacere che gli avevano de l'avere a osservare quelle ubidienze, e mantenersi ne l’universale in quel concetto di bontà che dà loro di che vivere; l'affanno ancora e il tedio che arreca loro la clausura, la fatica del persuadere a gli uomini di essere più amici
de gli Dei, che chi serviva al mondo con quelle leggi solamente che ci ha date Dio e la natura: che io mi fuggii tanto da loro col pensiero, che io non me ne ricordai mai più. E pensai di vivermi da gentiluomo, dandomi a gli stati; e dipoi passandomi tempo in cacciare e in uccellare e in piaceri simili.
- Ulisse.
- Se tu cercavi cotesto stato credendovi trovar dentro quiete, ti so ben dire che tu erravi la via; e molto iù ancora ne l’armi: chè in queste due vite, che io ho provate, so io bene che non si truova alcuno che viva contento.
- Lepre.
- La milizia, pensando io non trovar pace ne la guerra, non volsi io provare. E oltra di questo, giudicava cosa stolta, non combattendo per la patria o per l'onor proprio o per qualche altra legittima cagione, il vendere la propria vita per qualsivoglia prezzo. Perchè, non avendo noi a venire in questo mondo se non una volta, non mi pare che pagasse la vita d’un uomo quanto oro fece o farà mai la natura. E veggendo ancora che a tener vita di gentiluomo era necessario moltitudine di servi, i quali son tutti nostri nimici, e ogni giorno fanno cose donde ne nascon mille dispiaceri nostri; pensando che fosse difficilissima cosa il ritrovarvi il suo contento, levai al tutto l’animo da quello: e finalmente, credendomi nel servire a un principe, non in cose meccaniche ma in imprese onorate, trovar qualche contento d’animo, deliberai, con quelle poche lettere che io aveva, mettermi a simile esercizio. Dove a ponto trovai il contrario di quel che io pensava. Perchè, oltre a la fatica che è il servire a un principe, e oltra a’ disagi che si sopportano, non potendo mai nè dormire nè mangiare a tempi debiti, che son pur quelle cose che conservano la vita nostra; la invidia che è per le corti, e la ingratitudine che pare che sia ne’ principi a chi gli serve, che non pare loro essere mai rimeritati giustamente, se già eglino non dessin loro il regno; non mi lasciaron mai posar l’animo a viver un’ora sola contento. Laonde mi gittai al disperato, e mi diedi a navicare, e cosi dove io non credetti ritrovai la quiete mia; perchè, trasportato da la fortuna in questa isola, fui trasmutalo da Circe, come tu vedi, in Lepre; che fu propiamente come essere addormentato in un piacevolissimo
sonno. Perchè, se bene non ho saputo tanto quanto io sapeva quando io era uomo, io non ho anche tanto temuto.
- Ulisse.
- Oh che tu sei forse uno animale che non temi, eh?
- Lepre.
- Non di quegli de la mia spezie medesima, come voi; che è quel che mi basta: de l'altre cose curo io poco, pensando che non vi sia riparo; come fate ancor voi de l'ira
de gli Dei.
- Ulisse.
- Bene è vero che in tutti cotesti stati sono cotesti affanni che tu di’, e forse molti più. Ma i piaceri poi che vi sono, tu non ne ragioni nulla.
- Lepre.
- E che piacere hanno gli uomini in qualsivoglia stato, che non sia maggiore al fine il dolore che ti arrecano, che il diletto? Non sai tu, che quel nostro Poeta greco antichissimo diceva che il piacere che si trovava al mondo non era il vero Piacere, ma era il Dolore vestito de’suoi panni?
- Ulisse.
- E come lo dimostrava questo?
- Lepre.
- Diceva che quando e’ fu aperto il vaso che arrecò in terra Pandora, donde usciron tutti i mali e tutte le miserie umane, che ne usci ancora il Piacere. E andatosene per il mondo, cominciò ad allettare gli uomini, in modo che cominciarono di tal maniera a seguitarlo, che nessuno ne andava più al cielo. Per la qual cosa Giove pensò di levarlo di terra e ridurlo in cielo; e mandò le nove Muse per lui, le quali con la loro armonia lo ritirarono in cielo; facendolo però lasciare prima la sua veste in terra, perchè in cielo non va se non cose pure, e spogliate d’ogni ornamento corruttibile. Il Dolore in questo mentre essendo discacciato da ognuno, andandosene errando per il mondo, trovò questa veste; e pensando che se egli si vestiva di quella, egli non sarebbe cosi scacciato, non essendo conosciuto, se la messe indosso; e così sempre dipoi è ito per il mondo vestito de' panni del Piacere, ingannando continuamente gli uomini.
- Ulisse.
- E che voleva ei significar per questo?
- Lepre.
- Che tutte le cose le quali gli uomini piglian per diletto, arrecano loro dolore. E questo è perchè 'l piacere del mondo non sono altro che dolori vestiti e ricoperti d'un poco di diletto; dal quale ingannati gli uomini si mettono a cercargli, e ne la fine vi trovan dipoi più dolore che diletto. E io te ne vo' dir solamente d'uno che gli uomini mettono fra i piaceri, perché gli è comune a ciascuno stato: e questo è il giuoco: il quale non è altro certamente che lo stesso Dolore, e niente di manco è preso per Piacere da gli uomini.
- Ulisse.
- Tu vorrai forse dire il perdere, non il giuoco; perché, come si dice volgarmente, il giuocare non è male, ma male è il perdere.
- Lepre.
- Egli è male l'uno e l'altro, ancor che sia peggio il perdere; perché tutte quelle cose che perturbano la quiete de l'animo nostro seno in sé ree.