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Questo testo fa parte della raccolta Poesie (Monti)



LA MUSOGONIA


Contenuto: Il p. si propone di cantare l’origine delle Muse, ch’egli invoca propizie (1-16); e narra come Giove, trasformato, per consiglio d’Amore, in pastorello beoto, innamorasse di Mnemosine, e come questa partorisse al dio le nove divine sorelle (17-208). Le quali, con suoni di cetre, con canti e con balli, salirono in cielo, ove furono accolte dal padre e date in compagnia d’Amore e delle Grazie (209-272). Ogni nume porse loro, pegno di benevolenza, doni preziosi (273-288): ed esse, cantando, dissero prima le lodi di Amore, generatore delle cose (289-368); poi la guerra dei Titani, che furono vinti e fulminati da Giove (369-488). Gli dei s’allietarono del canto delle Muse, e piú Minerva, che in tanta lotta aiutò, meglio di tutti, il padre (489-520). Dopo la memorabile vittoria, Giove fece di nuovo germinare la terra, arsa anch’essa dalle sue folgori (521-552); Giove, padre degli uomini e degli dei, che il poeta invoca soccorritore d’Italia, la quale, per opera di Bonaparte, sta gettando i ceppi e le catene per ricomporsi in unità di nazione, se ciò siano concordi a volere tutti i suoi figli (553-624). — La Musogonia fu composta prima della sollevazione romana del 1793 e data alle stampe nel settembre di quell’anno, quando, interrotta la composizione e, per conseguenza, la pubblicazione della Bassvilliana, l’editore Perego-Salvioni non sapeva come mantenere i patti co’ suoi abbonati. Cfr. Vicchi VIII, p. 336. Questa stampa ha il primo e parte d’un altro canto, composti secondo il concetto primitivo del poeta («Era mia mente, allorché intrapresi questo lavoro, di dilatarlo in due canti, nel secondo de’ quali mi proponeva di ricondurre in terra le Muse a beneficare il genere umano, traendo gli uomini dalla vita selvaggia, congregandoli in società, e insegnando loro la virtù, la giustizia, e tutte le arti, e tutte le scienze....»: cfr. l’Avvertimento, citato più oltre), concetto, che abbandonò poi del tutto. Edizioni intere della Musogonia, ridotta a un canto solo, sono la veneziana del Curti, la milanese, con notevoli emendamenti dell’autore, dei Pirotta e Maspero, ambedue del 1797, e la bolognese del 1821 (nel. v. I delle Opere del cav. V. M.), che riproduce, salvo lievissime differenze, quella del Curti. Nell’edizione milanese dei Classici italiani del 1826, al poeta fu necessario, per le mutate condizioni politiche, togliere e variare più cose. Quindi noi abbiamo, come già il Carducci, accettata la lezione del ’97 e del ’21, ma colle correzioni di stile del ’26; riportando in nota le varianti di forma delle due ediz. del ’97 e dell’altra del ’21, e di sostanza di quelle del ’93 e del ’26. — «Pochi versi d’Esiodo, scrive il Monti nell’Avvertimento preposto all’ediz. venez. del ’97, che ognuno può riscontrare sul bel principio della sua Teogonia, formano tutto il fondamento di questo tenue poemetto. Dic’egli che Giove trasformato in pastore si giacque nove notti continue con Mnemosine, che lo fe’ padre delle Muse; le quali appena nate salirono in cielo, ed ivi accolte con festa cantarono l’origine delle cose e le imprese degli Dei contro i Titani». — Del valore artistico della Musogonia giudica, al solito, bene lo Zum., p. 194: «Nella forma presente,... è la più squisita riproduzione che un moderno potesse fare d’immagini e di favole antiche; uno dei piú notevoli ritorni a quel mondo che, scomparso dalla vita, rimase eterno nell’arte». — Il metro è l’ottava rima, che fu usato per la narrazione fin dalla prima metà del secolo xiv, e che il Monti trattò con tanta finezza d’arte, quanta maggiore non ebbero l’Ariosto e il Tasso.

Cor di ferro ha nel petto, alma villana
     Chi fa de’ carmi alla bell’arte oltraggio,
     Arte figlia del cielo, arte sovrana,
     Voce di Giove e di sua mente raggio.
     O Muse, o sante dee, la vostra arcana
     Origine vo’ dir con pio linguaggio,
     Se mortal fantasía troppo non osa
     8Prendendo incarco1 di celeste cosa.
Ma come in pria v’invocherò? Tespíadi2
     Dovrò forse nomarvi o Aganippèe3?
     O titolo di caste Eliconíadi
     Piú vi diletta o di donzelle Ascrèe4?
     So che ninfe Castalie5 e Citeríadi
     Chiamarvi anco vi piace e Pegasèe6;
     E vostro sulle rive d’Ippocrene
     16Di Pïeridi7 è il nome e di Camene.
Qualunque suoni a voi piú dolce al core
     Di sí care memorie, a me venite;
     E qual fuvvi tra’ numi il genitore
     E qual la madre tra le dee mi dite:
     Ché ben privo è di senno e mentitore
     Chi di seme mortal vi stima uscite;
     Né Sicïon8 sue figlie or piú vi chiama,
     24Né d’Osiride serve invida fama.

Ma il maggior degli dei, l’onnipossente
     Giove di nembi adunator v’è padre,
     E a lui vi partorí diva prudente
     Mnemosine9 di forme alme e leggiadre;
     Diva del cor maestra e della mente,
     E del caro pensier custode e madre,
     All’Erebo nipote, e della bella
     32Temi e del biondo Iperïon sorella.
Reina della fertile Eleutera10
     Sovente errava la titania dea
     Per la beozia selva, e di Pïera
     Visitava le fonti e di Pimplea.
     Sotto il suo piè fioría la primavera11;
     E giacinti e melisse ella cogliea,
     Amor d’eteree nari, e quel che verno
     40Unqua non teme, l’amaranto eterno12.
Il timo e la vïola, onde il bel suolo
     Soavemente d’ogni parte oliva13
     Va depredando la sua mano, e solo,
     Solo del loto e del narciso14 è schiva;
     Ché argomento15 amendue di sonno e duolo
     Crescon di Lete16 su la morta riva,
     E l’uno di Morfeo le tempie adombra,

     48L’altro il crin bianco delle Parche17 ingombra.
Mieter dunque godea l’avventurosa
     Il vario april18 dell’almo suo terreno:
     Ella sovente un’infiammata rosa
     Al labbro accosta ed un ligustro al seno;
     E il candor del ligustro e l’amorosa
     De’ fior reina al paragon vien meno,
     E dir sembra: Colei non è sí vaga
     56Che vermiglia mi fe’ colla sua piaga19.
Ma la varia beltade, onde natura
     Le rive adorna de’ ruscelli e il prato,
     L’antica non potea superba cura
     Acchetar, di che porta il cor piagato.
     Incessante la punge ed aspra e dura
     La memoria del cielo abbandonato,
     Alla cara pensando olimpia sede
     64Venuta in preda di tiranno erede20.
Quindi nell’alto della mente infissi
     Stanle i fratelli al Tartaro sospinti,
     Ivi in quei tenebrosi ultimi abissi
     Dal fiero Giove di catene avvinti.
     E molto è già che in quell’orror son vissi,
     Né gli sdegni lassú son anco estinti;
     Ché nuova tirannia sta sempre in tèma21,
     72E cruda è sempre tirannia che trema.
Arroge, che del suo minor germano22
     Novella piú non intendea, da quando
     Re Giove usurpator figlio inumano
     Dal tolto Olimpo lo respinse in bando;
     Né sapea che Saturno iva di Giano
     Per le quete contrade occulto errando,

     Ai nepoti d’Enotro23, al Lazio amico,
     80Del secol d’oro portator mendico.
In tante d’odio e d’ira e di cordoglio
     Altissime cagioni ella smarrito
     Del gran titanio sangue avea l’orgoglio;
     E fior parea depresso, abbrividito,
     Quando soffiar dall’iperboreo scoglio24
     Si sente d’Orizía l’aspro marito,
     E tutta carca di soverchia brina
     88L’odorosa famiglia il capo inchina.
Sol che il nome tremendo oda talvolta
     Del saturnio signor25 la sconsolata
     Tutta nel volto turbasi, e per molta
     Paura indietro palpitando guata.
     Ma che? la Parca indietro era già volta26,
     E decreto correa che alfin placata
     Del patrio ciel ricalchería le soglie
     96Mnemosine di Giove amante e moglie.
Sotto vergine lauro un giorno assisa
     Di Piera ei la vede alla sorgente.
     La vede; e d’amor pronta ed improvvisa
     Per le vene la fiamma andar si sente27,
     E dalle vene all’ossa; in quella guisa
     Che d’autunno balen squarcia repente
     La fosca nube e con veloce riga
     104Di lucido meandro i nembi irriga.
Per quell’almo adempir dolce disío
     Che Venere gli pose in mezzo al core,
     Che farà il caldo innamorato iddio?
     Che far dovrà, che gli consigli, Amore28?
     Amor, che già scendea propizio e pio,
     Manifestossi in quella all’amatore;
     E gli sorrise cosí caro un riso,

     112Che di dolcezza un sasso avría diviso29.
Ed umile pigliar sembianza e panno
     L’ esortò di pastore e portamento.
     Villano e illiberal30 parea l’ inganno
     Al gran Tonante, e ne movea lamento.
     Oh! gli rispose quel fanciul tiranno,
     Oh! che dirai31, superbo e frodolento,
     Quando giovenco gli agenorei liti
     120Empirai di querele e di muggiti?
Quando di serpe vestirai la squamma,
     E or d’aquila le piume ora di cigno?
     Quando pioggia sarai, quando una fiamma,
     E l’erba calcherai con piè caprigno?
     Sí dicendo lo tocca e piú l’infiamma,
     E il bel labbro risolve32 in un sogghigno.
     Pensoso intanto di Saturno il figlio
     128Né mover chioma si vedea né ciglio.
Stavansi muti al suo silenzio i venti,
     Muta stava la terra e il mar profondo;
     Languía la luce delle sfere ardenti,
     Parea sospesa l’armonia del mondo.
     Allor l’idalio dio33 delle roventi
     Folgori gli togliea di mano il pondo,
     Arme fatali che trattar sol osa34
     136Giove e Palla Minerva bellicosa.
Ed or le tratta Amore, e nella mano
     Guizzar le sente irate, e non le teme35;

     E appiè d’un’elce le depon sul piano,
     Che tócco fuma36, e l’elce suda e geme.
     Ne pute l’aria intorno e da lontano
     Invita i nembi; e roco il vento freme,
     Dir sembrando: Mortal, vattene altrove,
     144Ché il fulmine tremendo è qui di Giove.
Fatto inerme cosí l’egíoco nume37
     Tutta deposta la sembianza altera,
     Di pastorel beòto il volto assume,
     E questa di sue frodi è la primiera.
     S’avvía lunghesso38 il solitario fiume:
     La selva si rallegra39 e la riviera,
     E del dio che s’appressa accorta l’onda
     152Piú loquace a baciar corre la sponda.
Guida al fervido amante è quell’alato
     Garzon che l’alme a suo piacer corregge,
     Contro cui poco s’assecura il fato40,
     Il fato a cui talor rompe la legge.
     Egli alla diva l’appresenta, e aurato
     Dardo allor tolto dalla cote41 elegge;
     E al vergin fianco di tal forza tira,
     160Ch’ella tutta ne trema e ne sospira.
Loda il volto gentil, le rubiconde
     Floride guance e il bel tornito collo;
     Loda le braccia vigorose e tonde,
     E l’omero che degno era d’Apollo;
     Bel sorriso, bel guardo, e vereconde
     Care parole, e tutto alfin lodollo.
     Amor sí dolce le ragiona al core,
     168Che in lui questo pur loda, esser pastore.

Verrà poscia stagion ch’altre due dive
     Faran la scusa del suo basso affetto42,
     Quando Anchise del Xanto in su le rive
     E quel vago d’Arabia giovinetto
     Famoso incesto delle fole argive43,
     La dea piú bella stringeransi al petto;
     E sul sasso di Latmo Endimïone
     176Vendicherà Callisto ed Atteone44.
In poter dunque di due tanti dei
     Congiurati in suo danno, Amore e Giove,
     Cess’ella al frodo, e castitate a lei
     Porse l’ultimo bacio, e mosse altrove.
     Forniro il letto allegri fiori e bei45
     Spontaneo–nati ed erbe molli e nuove,
     E intonâr consapevoli gli augelli
     184Il canto nuzïal fra gli arboscelli.
Facean tenore46 alle lor dolci rime
     L’aure fra i muti e ancor non dotti allori47,
     E il vicino Parnaso ambe le cime48
     Scotea, presago de’ futuri onori.
     Le scotea Pindo ed Elicon sublime,
     Che i lor boschi sentian farsi canori;
     E Temide di Vesta in compagnia49
     192Dall’antro a Febo già dovuto uscía.
Tre volte e sei l’onnipossente padre
      Della figlia d’Urano in grembo scese,

     Ed altrettante avventurosa madre
     Di magnanima prole il dio la rese:
     Di nove io dico vergini leggiadre,
     Del canto amiche e delle belle imprese:
     Melpomene che grave il cor conquide,
     200E Talía che l’error flagella e ride;
Callïopea che sol co’ forti vive,
     Ed or ne canta la pietade or l’ira50;
     Euterpe amante delle doppie pive,
     E Polinnia del gesto e della lira;
     Tersicore che salta, e Clio che scrive,
     Erato che d’amor dolce sospira;
     Ed Urania che gode le carole
     208Temprar degli astri ed abitar nel sole.
A toccar cetre, a tesser canti e balli
     Si dier concordi l’inclite donzelle,
     E pei larghi del ciel fulgidi calli
     Al padre s’avvïar festose e belle51.
     Dalle rupi ascendeva e dalle valli
     Il soave concento all’auree stelle,
     E l’ineffabil melodia le note
     216Rendea men dolci dell’eteree rote.
Tacquero vinte al canto pellegrino
     Le nove delle sfere alme sirene52,
     Quelle che viste da Platon divino
     Cingono il ciel d’armoniche catene.
     E già l’olenio raggio era vicino53,

     E in nubi avvolta di tempesta piene54
     La gran porta apparía55, donde ritorno
     224Fan gl’immortali all’immortal soggiorno.
Alla prole di Temi56, alle vermiglie
     Ore l’ingresso i fati ne fidaro,
     Pria che lor poste in man fosser le briglie
     Del carro che a Feton costò sí caro.
     Per questa di Mnemosine le figlie
     Carolando e cantando oltrepassaro,
     E bisbigliar di giubilo improvviso
     232Fêr la cittade dell’eterno riso.
Dagli alberghi di solido adamante
     Tutta de’ numi la famiglia uscía,
     E dell’empiro fervida e sonante
     Sotto i piedi immortali era la via.
     All’affollarsi, al premere di tante
     Eteree salme57 cupo si sentía
     Tremar l’Olimpo; e nel segreto petto
     240Giove un immenso ne prendea diletto.
Alle nuove del cielo cittadine
     Surse dal trono; per la man le strinse,
     E le care baciò fronti divine
     Come paterna tenerezza il vinse58.
     Poi diè lor d’oro il seggio e di reine59
     L’adornamento, e il crin di lauro avvinse,
     D’eterno lauro che d’accanto all’onda
     248Del nèttare dispiega alto la fronda.
Strada e lassú regal sublime e bianca60,

     Che dal giunonio latte il nome toglie:
     De’ piú possenti numi61 a destra e a manca
     Vi son gli alberghi con aperte soglie.
     Ma dove piú del ciel la luce è stanca
     Confuso il volgo degli dèi s’accoglie:
     Le Nebbie erran laggiú canute i crini62,
     256E l’ignee Nubi delle nebbie affini,
E i Turbini rapaci, e le Tempeste
     Co’ Zefiri che l’ali han di farfalle,
     Tal menando un rumor che la celeste
     Ne risuona da lunge ampia convalle.
     Un piú liquido63 lume infiora e veste
     Le sponde intanto di quel latteo calle.
     Ivi i palagi del Tonante sono,
     264Ivi le ròcche tutte d’oro e il trono.
Ed in questa del ciel parte migliore
     Giove accolse le Muse, e alle pudiche
     Liberal concedette il genitore
     Splendide case eternamente apriche64;
     A cui d’accanto la magion d’Amore
     Sorge con quella delle Grazie amiche,
     Dive senza il cui nume opra e favella
     272Nulla è che piaccia e nulla cosa è bella.
Fra le Grazie e Cupido e le Camene
     Dolce allor d’amistà patto si feo.
     Poi65 qual pegno d’amor a piú si conviene
     Ogni nume lor porse; il Tegeèo66

     Le sette amate disuguali avene;
     Ciprigna il mirto; i pampini Lieo;
     E a Melpomene fiera il forte Alcide
     280Donar l’insegna del valor67 si vide.
Venne Mercurio, e alle fanciulle offerse
     La prima lira, di sua man costrutta68:
     Apollo venne, e del futuro aperse
     Il chiuso libro e la scïenza tutta69:
     Pito70 ancor essa, onde il bel dire emerse,
     Le Muse a salutar si fu condutta,
     E l’arte insegnò lor dolce e soave
     288Che dell’alma e del cor volge la chiave.
Piú volubili allor l’inclite dive
     Mandâr dal labbro d’eloquenza i fiumi71;
     Allor con voci piú sonanti e vive
     La densa72 celebrâr stirpe de’ numi;
     Quanti le selve e de’ ruscei le rive
     E de’ monti frequentano i cacumi,
     Quanti ne nutre il mar, quanti nel fonte
     296Del nèttare lassú bagnan la fronte.
Primamente cantar l’opre d’Amore73;
     Non del figliuol di Venere impudico,
     Che tiranno dell’alme feritore
     La virtú calca di ragion nimico;
     Ma delle cose Amor generatore
     Il piú bello de’ numi ed il piú antico74,
     Che forte in sua possanza alta infinita
     304Pria del tempo e del moto ebbe la vita.

Ei del caòsse sulla faccia oscura
     Le dorate spiegò purpuree penne,
     E d’Amor l’aura genitrice e pura
     Scaldò l’abisso e fecondando il venne.
     Del viver suo la vergine Natura
     I fremiti primieri allor sostenne,
     E da quell’ombre già pregnanti e rotte
     312L’Erebo nacque e la pensosa Notte.
Poi la Notte d’amor l’almo disío
     Sentí pur essa, e all’Erebo mischiosse;
     E dolce un tremor diede e concepío,
     E doppia prole dal suo grembo scosse;
     Il Giorno, io dico, luminoso e dio75,
     E l’Etere che lieve intorno mosse;
     Onde i semi si svolsero dell’acque,
     320Della terra, del fuoco, e il mondo nacque.
Quindi la Terra all’Etere si giunse
     Mirabilmente, e partorinne il Cielo,
     Il Ciel che d’astri il manto si trapunse
     Per farne al volto della madre un velo76.
     Ed ella allor piú bei sembianti assunse:
     L’erbe, i fior si drizzaro in su lo stelo;
     Chiomârsi i boschi, scaturiro i fonti,
     328Giacquer le valli, e alzâr la testa i monti.
Forte muggendo allor le sue profonde
     Sacre correnti l’Oceán77 diffuse,
     E maestoso colle fervid’onde
     Circondò l’Orbe, e in grembo lo si chiuse78.
     Poi con alti imenei79 nelle feconde
     Braccia di Teti80 antica dea s’infuse
     E di Proteo fatidico la feo
     336E di Doride madre e di Nerèo,
E dei fiumi taurini e dei torrenti81,

     E di molte magnanime donzelle82,
     Cui del cielo son noti i cangiamenti
     E del sol le fatiche e delle stelle
     Predir sann’anco lo spirar de’ venti
     E il destarsi e il dormir delle procelle,
     San come il tuono il suo ruggito metta
     344E le prest’ale il lampo e la saetta.
San quale occulta formidabil esca
     Pasce i cupi tremuoti e li commove;
     San qual forza i vapori in alto adesca
     E dell’arsa gran madre in sen li piove
     Come il flutto si gonfi e poi decresca,
     E cento di natura arcane prove;
     Ché natura alle vaghe Oceanine
     352Tutte le sue rivela opre divine.
E son tremila, di che il grembo ha pieno,
     Del canuto Oceán l’alme figliuole,
     Che l’etïopio pelago e il tirreno
     Fanno spumar con libere carole.
     Ed altre dell’Egeo fendono il seno,
     Altre quell’onda in cui si corca il sole83,
     Là dove Atlante lo stridore ascolta84
     360Del gran carro febeo che in mar dà volta.
Altre ad aprir conchiglie, altre si dànno
     Dai vivi scogli a svellere coralli;
     Per le liquide vie tal altre vanno
     Frenando verdi alipedi85 cavalli

     Qual tesse ad un Triton86 lascivo inganno,
     Qual gl’invola la conca: e canti e balli
     E di palme un gran battere e di piedi
     368Tutte assorda le cave umide sedi.
Cosí cantâr dell’orbe giovinetto87,
     Gli alti esordii le Muse e l’incremento;
     E un insolito errava almo diletto
     Sul cor de’ numi all’immortal concento.
     Poi disser come dal profondo88 petto
     La Terra suscitò nuovo portento,
     Col Ciel marito nequitosa e rea89,
     376Che i suoi figli, crudel, spenti volea.
Quindi i Titani di cor fero ed alto
     Con parto90 ella creò nefando e diro,
     Congiurati con Oto ed Efïalto
     Ad espugnar l’intemerato Empiro.
     La gioventú superba al grande assalto
     Con grande orgoglio e gran possanza usciro91,
     E fragorosa la terra tremava
     384Sotto i vasti lor passi, e il mar mugghiava.
Ma Piracmon dall’altra parte e Bronte92,
     Co’ lor fratelli affumicati e nudi,

     Sudor gocciando dall’occhiuta fronte93
     Per la selva de’ petti ispidi e rudi,
     Cupamente facean l’eolio monte94 e
     Gemere al suon delle vulcanie incudi,
     I fulmini temprando onde far guerra
     392Giove ai figli dovea dell’empia Terra.
Tutte di ferro esercitato95 e greve
     Son l’orrende saette; ed ogni strale
     Tre raggi in sé di grandine riceve
     E tre d’elementar foco immortale96,
     Tre di rapido vento e tre ne beve
     D’acquosa nube, e larghe in mezzo ha l’ale.
     Poi di lampi una livida mistura97,
     400E di tuoni vi cola e di paura98;
E di furie e di fiamme e di fracasso
     Che tutto introna orribilmente il mondo.
     Prende il nume quest’arme e move il passo;
     Il ciel s’incurva, e par che manchi al pondo.
     Sentinne il re Pluton l’alto conquasso99,
     E gli occhi alzò smarrito e tremebondo;
     Ché le volte di bronzo e i ferrei muri
     408All’impeto stimò poco securi.
Da’ fulmini squarciata100 e tutta in foco

     Stride la terra per immensa doglia.
     Rimbombano le valli, e caldo e roco
     Con fervide procelle il mar gorgoglia.
     Vincitrice, di Giove in ogni loco
     La vendetta s’aggira; e par che voglia
     Sotto il carco de’ numi il gran convesso
     416Slegarsi tutto dell’Olimpo oppresso.
E in cielo e in terra e tra la terra e il cielo
     Tutto è vampa e ruina e fumo e polve.
     Fugge smarrita del signor di Delo
     La luce, e indietro per terror si volve101.
     Fugge avvolta ogni stella in fosco velo,
     Ed urtasi ogni sfera e si dissolve:
     E immoto nell’orribile frastuono
     424Non riman che del Fato il ferreo trono.
Ma coraggio non perde la terrestre
     Stirpe, né par che troppo le ne caglia.
     Di divelte montagne arman le destre,
     E fan con rupi e scogli la battaglia.
     Odonsi cigolar sotto l’alpestre
     Peso le membra, e ognun fatica e scaglia.
     Tre volte all’arduo ciel diero la scossa102,
     432Sovra Pelio imponendo Olimpo ed Ossa.
E tre volte il gran padre fulminando,
     Spezzò gl’imposti monti e li disperse,
     E dalle stelle mal tentate in bando
     Nel Tartaro cacciò le squadre avverse:
     Nove giorni le venne in giù rotando,
     E nel decimo al fondo le sommerse;
     Orribil fondo d’ogni luce muto103,
     440Che da perpetui venti è combattuto104.
E tanto della terra al centro scende105,

     Quanto lunge dal ciel scende la terra.
     Di pianto in mezzo una fiumana il fende,
     Di ferro intorno una muraglia il serra106:
     E di ferro son pur le porte orrende
     Che Nettuno vi pose in quella guerra.
     I Titani là dentro eterna e nera
     448Mena in volta la pioggia e la bufera107.
Ivi Giapeto si rivolve e Ceo,
     E l’altra turba che i celesti assalse;
     Ivi Gige, ivi Coto e Brïareo
     Cui la forza centimana108 non valse.
     Fuor dell’atra prigion restò Tifeo109,
     Ch’altramente punirlo a Giove calse:
     Su l’ineffabil mostro in giù travolto
     456Lanciò Sicilia tutta; e non fu molto.
Peloro110 la diritta e gli comprime
     Pachin111 la manca e Lilibeo le piante:
     Schiaccia l’immensa fronte Etna sublime,
     Di fornaci e d’incudi Etna tonante.
     Quindi come il dolor dal petto esprime
     E mutar tenta il fianco il gran gigante,
     Fumo e foco dal sen mugghiando erutta112.
     464Ne trema il monte e la Trinacria113 tutta.
Del sacrilego ardir sortí compagna
     Encelado a Tifeo la pena e il foco.
     Gli altri sulla flegrea vasta campagna114
     Rovesciati esalâr di Giove il foco115:

     Ond’ivi ancor la valle e la montagna
     Mandan fumo e rumor funesto e roco.
     Della divina Creta alcun satolle116
     472Fe’ del suo sangue le feconde zolle.
E tu pur desti agli empii sepoltura,
     Terribile Vesevo, che la piena
     Versi rugghiando di tua lava impura
     Vicino ahi troppo! alla regal Sirena117.
     Deh sul giardin d’Italia e di natura
     I tuoi torrenti incenditori affrena;
     E questa d’Acheloo leggiadra figlia118
     480Non far che per te meste abbia le ciglia.
Poco è forse alla misera il tiranno
     Giogo che il collo sí le curva e doma,
     E incatenata il piè119, carca d’affanno
     Indarno sospirar sotto la soma,
     Se portator tu pur di strazio e danno
     Il manto non le bruci e l’aurea chioma?
     Deh non crescer ferite al suo bel volto:
     488Pompea ti basti ed Ercolan sepolto.
Il sacro delle Muse almo concento
     Del ciel rapiti gli ascoltanti avea.
     Tacean le dive; e desïoso e attento
     Ogni nume l’orecchio ancor porgea.

     Del nèttare il ruscello i piè d’argento
     Fermare anch’esso per udir parea,
     E lungo l’immortal santissim’onda
     496Né fior l’aure agitavano né fronda.
Qual dell’alba discende il queto umore
     Sull’erbe sitibonde in piaggia aprica,
     Tal discese agli dei dolce sul core
     La rimembranza della gloria antica.
     Rammentò ciaschedun del suo valore120
     In quel duro certame la fatica.
     Polibote a Nettuno e gli Aloídi
     504Di gran vanto fur campo ai Latonídi.
Favellò del crudel Porfirïone,
     Alto scotendo la fulminea clava,
     L’indomato figliuol d’Anfitrïone121,
     E con superbo incesso il capo alzava.
     Ma delle Muse l’immortal canzone
     Te piú ch’altri, o Minerva, dilettava,
     Te che il primo recasti, o dea tremenda122,
     512Soccorso al padre nella pugna orrenda.
Né alle sacre cavalle, in mar tergesti
     I polverosi fianchi insanguinati,
     Né il gradito a gustar le conducesti

     Fresco trifoglio ne’ cecropii123 prati,
     S’ai Terrigeni in pria morder non festi
     La sabbia in Flegra, e non fur pieni i fati,
     I fati che ponean Giove in periglio
     520Senza il braccio d’Alcide, e il tuo consiglio124.
Cosí gl’immani anguipedi125 pagaro
     Di lor nefanda scelleranza il fio;
     Ai superbi cosí costar fe’ caro
     Quel famoso ardimento il maggior dio.
     Egra126 la Terra in tanto caso amaro
     Ai caduti suoi figli il grembo aprio,
     E di cocenti lagrime cosparse
     528Le lor gran membra folgorate ed arse.
E ardea pur ella, e i folti incenerire
     Sul capo si sentía verdi capelli
     Dal fulmine combusti e in sen bollire
     L’alte vene de’ fiumi e de’ ruscelli:
     In sospiri esalava il suo soffrire,
     Gli occhi alzando offuscati e non piú quelli:
     Volea pregar, ma vinta dal vapore127
     536La debil voce ricadea nel core.
Le volse un guardo di Saturno il figlio,
     Pietà n’ebbe, e le folgori depose,
     E tornò col chinar del sopracciglio128

     Il primo volto alle create cose.
     Scórse le sfere col divin consiglio
     E la rotta armonia ne ricompose,
     Alla traccia129 dell’orbite smarrite
     544Richiamando le stelle impaurite.
Scórse la terra, ed alle piante uccise
     Ricondusse la vita e ai morti fiori;
     E fuor di sue latebre il capo mise
     Il fonte e sciolse i trepidanti umori.
     Tu il mar scorresti ancora, e il mar sorrise,
     Posti in silenzio i fremiti sonori.
     Sdegnato lo guardasti, ed ei sdegnossi:
     552Lo guardasti placato, ed ei placossi.
Salve, massimo Giove: o che vaghezza
     D’errar ti prenda per gli eterei campi
     Sul carro130 in che Giustizia e Robustezza
     Sublime ti locâr fra tuoni e lampi;
     O che deposta la regal grandezza
     Pel nativo Liceo131 l’orma tu stampi;
     O le melie nutrici e la contrada
     560Della tua Creta visitando vada;
O, le parlanti querce dodonee132
     E di Libia133 lasciando le cortine,
     Nel sen ti piaccia delle selve Idee134
     Le stanche riposar membra divine;
     O colle Muse su le rote elee
     Ir d’olimpica polve asperso il crine,
     Mentre il canto teban135 l’aquila molce

     568Che su l’aureo tuo scettro in piè si folce136:
Tu beato, tu saggio e onnipossente,
     E degli uomini padre e degli dei137:
     Tu provvida del mondo anima e mente,
     Tu regola de’ casi o fausti o rei:
     A te cade la pioggia obbedïente:
     A te son ligi i dí sereni e bei:
     A te consorte è Temi e Palla è figlia138,
     576E da te scende il saggio e ti somiglia.
Sacri sono a Gradivo139 i buon guerrieri,
     Gli artefici a Vulcano, a Febo i vati;
     A Cinzia140 i cacciator selvaggi e feri
     Della sposa fedel dimenticati;
     De’ popoli a te, Giove, i condottieri,
     E tu la mente ne governi e i fati.
     Deh! l’anime supreme, in cui s’affida
     584L’itala libertà, soccorri e guida.

Soccorri Ausonia, che le oneste gote
     Di nuova vita colorando viene,
     E il crin nell’elmo a chiuder torna e scuote
     L’asta, i ceppi gittando e le catene.
     Aítala, gran padre; e a te devote
     Tante l’are arderan su queste arene,
     Che men poscia ti fia dolce e gradito
     592Degli Etiòpi141 l’ospital convito.
Tu, magnanimo eroe142, che alla dolente
     Dell’antico servaggio hai franti i ferri,
     Che in frale umana spoglia143 alteramente
     Il coraggio di un dio palesi e serri,
     Tu che forte del brando e della mente
     L’umil sollevi ed il superbo atterri,
     La ben comincia impresa alfin consuma,
     600E sii d’Ausonia l’Alessandro e il Numa144.
Vedila, ahi lassa!, che di caldo rio
     Bagna la guancia vereconda e casta,
     E nel seno t’addita augusto e pio
     Il solco ancor della vandalic’asta145.
     Assai pagò la dolorosa il fio
     D’antiche colpe che l’han doma e guasta:
     Deh! più non la percota antica spada,
     608Ché non v’ha parte intatta ov’ella cada146.
Ma di leggi dotarla, e le disciolte
     Membra legarle in un sol nodo e stretto,
     Ed impedir che di sue genti molte
     Un mostro emerga che le squarci il petto147,
     E l’aquila148 frenar che l’ugne ha volte
     Contro il suo fianco e l’empie di sospetto,
     Sia questa, o salvator forte guerriero,
     616La tua gloria più cara e il tuo pensiero.
E voi di tanta madre incliti figli,
     Fratelli, i preghi della madre udite.

     Di sentenza disgiunti e di consigli149,
     Che sperate, infelici? e cui tradite?
     Una, deh!, sia la patria, e ne’ perigli
     Uno il senno, l’ardir, l’alme, le vite.
     Del discorde voler che vi scompagna
     624Deh non rida, per Dio!, Roma e Lamagna150.

    sudorem». Mt.

  1. prendendo incarco: assumendo il grave impegno di dire. Si noti la contrapposizione di celeste cosa a mortal fantasia.
  2. Tespíadi: dalla città di Tespia in Beozia vicina al monte Elicona. Cfr. Ovidio Metam. V, 310.
  3. Aganippèe: dal fonte Aganippe su l’Elicona. Cfr. Ovidio Metam. v, 312.
  4. Ascrèe: cfr. la nota al v. 13, p. 40.
  5. Castalie: dalla fonte Castalia. Cfr. Ovidio Amor. I, xv, 36. — Citeriadi: dal monte Citerone. Cfr. Ovidio Metam. II, 223.
  6. Pegasèe: dal cavallo alato Pegaso, formatosi dal sangue di Medusa (cfr. Ovidio Metam. IV, 784), che con un calcio fece nascere su l’Elicona, oltre l’Aganippe, l’Ippocrene.
  7. Pieridi: dal Monte Pierio in Tessaglia, ove nacquero da Giove e da Mnemosine. Cfr. Virgilio Ecl. VIII, 63. — Camene (forse da canere): che cantano. Cfr. Orazio Carm. sec., 62.
  8. Né Sicïon: «Varia nelle favole è l’origine, come il numero delle Muse. I Sicionesi ne adoravano da principio tre solamente, e sant’Agostino, bib. I, 2, De doctr. christ., illustrando un passo oscuro di Ausonio, racconta, sull’autorità di Varrone, che avendo una città della Grecia (creduta Sidone) ordinato a tre valenti artefici di scolpire ciascuno separatamente le tre statue delle Muse con promettere un premio a chi le avesse meglio eseguite, accadde che tutti riuscirono cosí bene nell’opera, che il pubblico stimò buona e giusta cosa non rigettarne veruna e collocarle tutte nel tempio d’Apollo. Cosí fu fatto; e le Muse, di tre, divennero nove. Diodoro racconta diversamente l’origine di queste dee, dicendo ch’esse furono nove donzelle esperte nel canto e nel ballo, le quali sotto la direzione d’un generale nominato Apollo, accompagnavano Osiride nelle sue spedizioni militari». Mt.
  9. Mnemosine: «dea della Memoria, come il suo nome stesso significa, era, secondo Esiodo, dell’infelice famiglia de’ Titani, e perciò sorella di Temide, d’Iperione e di molti altri personaggi assai celebri nella Teogonia di quel poeta». Mt.
  10. Eleutera: «Luogo della Beozia. Esiodo nella Teog., v. 53. ne assegna il comando alla madre delle Muse, «Le quai feconda sul pïerio giogo A Giove padre partorí Mnemosine, D’Eleutera ubertosa imperatrice». E Fedro, copiando Esiodo, nel prologo del lib. III: Pierium iugum in quo tonanti sancta Mnemosyne Iovi foecunda novies artium peperit chorum». Mt.
  11. Sotto ecc.: A proposito di questo bellissimo luogo nota bene lo Zumb., p. 195: «Colorendo e atteggiando le figure appena schizzate dal poeta greco, riuscí talvolta a mutarne anche le aride enumerazioni in magnifiche dipinture .... Mnemosine .... sotto al suo pennello diventa una creatura d’incomparabile leggiadria. E, gentile com’è, fa gentile tutto ciò ch’ella guarda e tocca».
  12. amaranto eterno: cfr. la nota al v. 191, p. 78.
  13. oliva: olezzava. Dante Purg. xxviii. 6: «Su per lo suol che d’ogni parte oliva».
  14. loto... narciso: fiori del sonno (Morfeo) e della morte, e però invisi alla dea della memoria. Il Monti stesso, nell’ode La pace: «Lungi il loto, o fanciulle, ed il narciso, Ch’ella non ama delle Parche i fiori». Cfr. anche Feron. c. II, 219.
  15. argomento: cagione. Ariosto XLIII, 10: «E ti dirò il principio e l’argumento Del mio non comparabile tormento».
  16. Lete: il fiume dell’oblio. Cfr. Virgilio En. VI. 705 e 714; Dante Purg. xxviii. 130 ecc.
  17. Parche: Erano, com’è noto, tre sorelle: Cloto, Lachesi, Atropo, inflessibili misuratrici della vita dell’uomo e concordi nel volere del Fato. Cfr. Virgilio Ecl. IV, 47, e Orazio Carm. sec., 25.
  18. Il vario april: i vari fiori. Specie di metonimia elegrantissima, ch’io non ricordo se usata da altri.
  19. Colei ecc.: Favoleggiarono i poeti che la rosa, a Venere sacra, fosse prima di color bianco, e diventasse poscia vermiglia col sangue di questa dea cbe ne restò ferita nel piede, passeggiando pe’suoi giardini». Mt.
  20. Venuta ecc.: «Per diritto di nascita l’impero del cielo apparteneva ai Titani. Ma Giove, rimasto lor vincitore, gli escluse dal regno paterno, e parte ne cacciò nel Tartaro, parte ne lasciò andar dispersa sopra la terra». Mt.
  21. Ché nuova ecc.: Verissima sentenza in perfettisima forma.
  22. minor germano: Saturno, l’ultimo dei Titani, marito di Rea, che dal figlio Giove fu cacciato dal cielo, suo regno. Esiliò in Italia, ove fu accolto ospitevolmente da Giano ed ove portò l’età dell’oro, che dal suo nome fu detta anche saturnia, e piantò la prima vite. Cfr. Ovidio Fast. I, 99 e Virgilio En. VIII, 329. Cfr. anche Metam. I, 89; Tibullo I, iii, 35 e Feron. I. 326.
  23. Enotro: figlio di Pelasgo, il primo che passasse in Italia con una colonia di Greci: onde questa fu detta anche Oenotria tellus. Cfr. Virgilio En. VII, 85.
  24. Quando ecc.: Cfr. la nota al v. 85, p. 33. «Non è oziosa l’espressione iperboreo scoglio, perché allude alla spelonca di Borea di cui parla Callimaco; insegnandoci che da quella si scatenavano le sue procelle (Hymn. in Dian.) e che stava in essa la mangiatoia dei cavalli di Marte (Hymn. in Del.)». Mt.
  25. Del saturnio signor: di Giove.
  26. la Parca ecc.: il destino delle Parche era già mutato.
  27. e d’amor ecc.: Virgilio (En. VIII, 388), dell’amore di Vulcano per Venere: Ille repente Accepit solitam flammam, notusque medullas Intravit calor, et labefacta per ossa cucurrit: Non secus atque olim, tonitru cum rupta corusco Ignea rima micans percurrit lumine nimbos.
  28. Che far dovrà ecc.: Petrarca P. II, canz. i, 1:
    «Che debbo io far? Che mi consigli, Amore?»
  29. Che di dolcezza ecc.: Forte espressione, che ha vigore dall’iperbole e può esser paragonata a questa di Dante (Par. vii, 17): «Raggiandomi d’un riso Tal, che nel fuoco farìa l’uomo felice».
  30. illiberal: indegno di lui.
  31. Oh che dirai ecc.: se oggi per questa tua prima frode amorosa (v. 148) ti è grave il trasformarti in pastore, e che sarà quando ti dovrai trasformare in toro per Europa, figlia di Agenore re de’ Fenici, in serpente per Proserpina, in aquila per Asteria, in cigno per Leda, in pioggia d’oro per Danae, in fuoco per Egina e in satiro per Antiope? Cfr. Ovidio Metam. VI, 103.
  32. risolve: scioglie, converte. Dell'Anguillara Metam. II, 89: «Oimè che appena la mia debil voce Nel mio debil parlar risolver posso».
  33. l'idalio dio: Amore, figlio di Venere, detta Idalia dalla città di questo nome nell’isola di Cipro, a lei sacra. Cfr. Plinio St. N. V, 35 e Virg. En. I, 681.
  34. che trattar sol osa ecc.: che di tutti gli dei sola Minerva può e sa, colla sua forza, maneggiare. Cfr., fra’ molti autori che il M. cita qui in appoggio del suo dire, Virgilio En. I, 42; Valerio Flacco Argon. IV, 670 ecc. ecc.
  35. Guizzar ecc: «Fra i pensieri dell’immortale Pikler uno ne fu trovato, quando egli venne a morire, disegnato in matita rossa, rappresentante Amore col fulmine in pugno in atto di scherzo.... Ho cercato di colorire in verso il detto pensiero, ed ora il restituisco con trasporto alla memoria di quel grand’uomo, sulla cui tomba la tenerezza di figlio mi fa spargere questo fiore di gratitudine». Mt. Cfr. la nota d’introd. della canz. Pel giorno onom. ecc.
  36. Che tócco fuma ecc.: «Ho avuta qui di mira una bella immagine del non sempre stravagante Nonno nelle Dionisiache lib. I, V. 150, ove parla dei fulmini che Giove nasconde in una spelonca per giacersi liberamente con Plotide, che fu poi madre di Tantalo. Ne tradurrò, come meglio saprò, i versi che mi paiono del carattere omerico più sublime: «Eruttavano al ciel globi di fumo Le folgori nascose, onde dintorno Di bianca divenia negra la rupe. Degli strali, che punta hanno di foco, Facea l’occulta ed immortai scintilla Bollir l’urne de’ fonti, e la commossa Del Migdonio torrente alta vorago Mettea vapori, gorgogliando, e spuma». Mt.
  37. Egioco: «Cognome derivato a Giove dalla capra che lo allattò, non dell’egida, come altri pretendono. Che anzi l’egida non desunse altronde il suo nome che dalla pelle di quella capra perché di essa ricoperse Giove il suo scudo quando andò a combattere coi Giganti. Divenne poi sinonimo dello scudo ancora di Pallade; lo che sia detto per togliere l’errore di alcuni che confondono l’egida di Giove coll’egida di Minerva». Mt. Cfr. Omero Iliad. V, 738.
  38. lunghesso: Cfr. la nota al v. 127, p. 88.
  39. La selva si rallegra: Tasso XVIII, 29: «Questa selva.... Vedi che tutta al tuo venir s’allegra».
  40. Contro cui ecc.: Petrarca P. I, son. 183: «L’alto Signor dinanzi a cui non vale Nasconder né fuggir né far difesa».
  41. cote: faretra.
  42. Quando Anchise ecc.: Anchise, pastore troiano (il Xanto scorreva presso Troia), fu, com’è noto, amato da Venere, che gli partorì Enea. Insuperbito dell’onore, se ne vantò: ma fu punito dal fulmine di Giove, che, non istornato del tutto da Venere, lo rese debole per il restante della vita. Cfr. Virgilio En. II, 647.
  43. E quel vago ecc.: Adone, anch’esso pastore (Virgilio Ecl. X, 18), nato dall’incesto di Cinira e Mirra. Cfr. Ovidio Metam. X, 298.
  44. E sul sasso ecc.: Endimione pastore «stava dormendo nella spelonca di Latmo, monte della Caria, quando Diana, lodata tanto per pregio di castità, lo vide, e ne fu presa d’amore. Cosi Endimione fece la vendetta della Ninfa Callisto maltrattata da quella dea per non aver saputo custodire la sua virginità; e la fece pur d’Atteone, trasformato da lei in cervo e lacerato dai propri cani, perché ebbe la temerità di mirarla nuda mentre si bagnava nel fonte di Gargafia». Mt.
  45. Forniro ecc.: «Non è diverso in Omero il talamo di erbe e di fiori che la terra somministra a Giove, quando si addormenta in braccio a Giunone sul monte Ida». Mt. Cfr. Iliad. XIV, 347.
  46. Facean tenore: s’accordavano armoniosamente.
  47. Fra i muti ecc.: perché non erano ancora nate lo Muse.
  48. ambe le cime: Cfr. Ovidio Metam. II, 221.
  49. E Temide ecc.: «Era alle falde del Parnaso una spelonca che, al riferire di Pausania, fu sacra primieramente alla dea Tellure (la stessa che Vesta), la quale mandava di là i suoi oracoli. Vesta cedette poscia il suo tripode a Temide, e Temide ad Apollo quando divenne preside delle Muse». Mt.
  50. Ed or ecc.: S’accenna a’ poemi epici specialmente dell’Eneide (la pietà di Enea) e dell’Iliade (l’ira d’Achille).
  51. s’avviar ecc.: «Esiodo non descrive altrimenti il loro viaggio all’Olimpo: «Esultando le dive, e la gentile Voce foggiando in immortal concento Avvïârsi all’Olimpo. Alla divina Degl’inni melodia tutta d’intorno Echeggiava la terra; e le donzelle Verso il padre affrettando il passo allegro Destavano per via grato ad udirsi Un tripudio di piedi». Teog., v. 68». Mt.
  52. Le nove ecc.: «Platone, che era tutto armonia, si avvisò nei sublimi suoi sogni di porre in cielo nove sirene che incessantemente cantavano, e regolavano le sfere a forza di melodia. Queste non erano in sostanza che le nove Muse sott’altro nome, alle quali attribuiva quel filosofo il governo dell’universo sì morale che fisico. E s’egli avvenne che bandisse poi i poeti dalla chimerica sua repubblica, ciò fu solamente per la paura che i poeti, arbitri del cuore umano, non turbassero la tranquilla apatia de’ suoi cittadini, ch’egli voleva esenti affatto dalle passioni. Dal che si conclude che l’ostracismo platonico, lungi dall’essere un’ignominia pei i poeti, è anzi il massimo degli encomi. Mi si perdoni questa digressione in grazia di un’arte, di cui sembra che pochi conoscano l’importanza e la dignità». Mt.
  53. E già l’olenio raggio ecc.: «Questa è la costellazione di Capricorno, o sia della capra Amaltea, detta olenia perché nutrita nei prati di Oleno città dell’Acaia. Olenium astrum l’appella anche Stazio, Teb., lib. III, V. 25 e altrove". Mt.
  54. E in nubi ecc.: Il segno di Capricorno è piovoso e burrascoso. Cfr. Virgilio En. IX, 668 e Stazio Teb. VI, 423.
  55. La gran porta ecc: «Due sono, secondo i mitologi, le porte del cielo, situate una nel tropico del Capricorno, l’altra in quello del Cancro. Per la prima le anime ascendono in cielo, per la seconda discendono in terra. Perciò quella chiamasi degli dei, questa degli uomini. Ne parla Macrobio nei Saturnali, e piú eruditamente Dupuis, Origine de lous les cultes». Mt.
  56. Alla prole ecc.: «Tre erano dapprima le Ore, Eunomia, Dice, Irene. La piú antica mitologia le fa portinaie del cielo, in cui introducono a lor piacimento la nebbia e la serenità. Omero Il. lib. V. Posteriormente divennero ancelle del Sole, a cui apparecchiavano il carro e i cavalli: Iungere equos Titan velocibus imperat Horis. Ovidio Metam. II, 118. Altri ne contano nove, altri dieci.... Sette ne ha poste Guido intorno al carro del Sole nell’Aurora di Rospigliosi, e fino a ventiquattro le ha portate il Marini: «Dodici brune e dodici vermiglie». Mt.
  57. salme: cfr. la nota al v. 199, p. 16.
  58. Come ecc.: in quel modo che paterna tenerezza, vincendolo, gl’insegnò; ovvero: non appena che paterna tenerezza lo prese.
  59. reine: «Il titolo di reine è comune presso tutti i poeti a tutte le dee di primo ordine; reine sono chiamate espressamente le Muse negl’Inni orfici; e regina Calliope disse Orazio [Od. III, iv, 2], e come Musa e come la prima». Mt.
  60. Strada è lessú ecc.: «Giove per dare ad Ercole ancor bambino l’immortalità lo appressò un giorno alla poppa di Giunone mentre dormiva. Svegliatasi la dea e respinto da sé il fanciullo, venne a spargersi il divino latte parte pel cielo, e fece la via che adesso si chiama lattea; parte sopra la terra, e diede la bianchezza ai gigli che prima erano di color croceo... Del resto, a tutti è noto presentemente che la via lattea altro non è che un aggregato di soli cosí numerosi, che Herschel nelle ultime sue osservazioni asserisce averne distintamente notati oltre cinquantamila nel solo arco di 15 gradi, non computandone un numero molto maggiore che il suo gran telescopio debolmente raccolse, e l’occhio non potè fissare». Mt.
  61. De’ piú possenti ecc.: Ovidio Metam. 1, 158: Est via sulbimis coelo manifesta sereno; Lactea nomen habet, candore notabilis ipso... Dextra, laevaque deorum Atria nobilium valvis celebrantur apertis. Plebs habitat diversa locis.
  62. Le Nebbie ecc.: «Erano varie presso gli antichi le specie degli dei. Perocché altri possedevano la pienezza della divinità, e chiamavansi dei massimi; altri la possedevano imperfetta, e questa appellavasi la plebe degli dei, come i venti, le nebbie, i fiumi ecc.» Mt. Cfr. Cicerone De Nat. D. III, 20; Ovidio Fast. VI, 193, Metam. I, 171 ecc.
  63. liquido: chiaro, limpido. L’Ariosto, in questo senso, ha un «liquide onde»: cfr. O.F. I, 37.
  64. apriche: illuminate dal sole.
  65. Poi ecc.: «Era frequente fra gli dei il costume dei doni in contrassegno di particolare benevolenza. L’osserviamo nelle nozze di Tetide con Peleo, in quelle d’Ermione con Cadmo, e nella prima comparsa che fece in cielo Pandora». Mt.
  66. il Tegeèo: Pane (detto cosí da Tegea, città dell’ Arcadia). Che offerse loro la zampogna.
  67. l’insegna del valor: la clava, per indicare che la tragedia non s’occupa che delle vicende degli eroi.
  68. di sua man costrutta: «Mercurio, nato e cresciuto e divenuto ladro tutto in un giorno, avendo trovato il giorno medesimo della sua nascita una testuggine per caso, l’uccise, la votò ben bene, e tanto vi si adoperò intorno, che vi congegnò sette corde, e cominciò a suonarle con maestria. Questa fu l’invenzione della lira. Altri la narrano diversamente; ma tutti ne concedono l’onore a Mercurio, il quale la cedette poscia ad Apollo in cambio del caduceo». Mt. Cfr. Omero (?) Inno a Merc. 472 e Orazio Od. I, xxi, 11.
  69. e del futuro ecc.: «La scienza dell’avvenire era singolarmente propria d’Apollo, i cui oracoli superarono tutti gli altri». Mt.
  70. Pito: la dea dell’eloquenza e della persuasione, che i Latini dissero Suada e Suadela.
  71. d’eloquenza i fiumi: Comunissima questa immagine e questa locuzione omerica (Iliad. Monti I, 332) a’ poeti specie italiani. Cfr., in fatti, Dante Inf. i, 79 o Par. v, 135; Tasso XX. 130, Parini Od. XVII, 65 ecc. ecc.
  72. densa: numerosa.
  73. «In tutta la seguente poetica dottrina sulla generazione delle cose, non mi sono dipartito punto dalle tracce d’Esiodo nella Teogonia».
  74. Il piú bello ecc.: «Platone nel Convito, ragionando sulla sentenza d’Esiodo, conclude che Amore è il piú antico, il piú onorato, il piú degno di tutti gli dei. Ebbe in vista l’Amore del poeta greco anche Virgilio in quel verso (Georg. IV, 347): Atque Chao densos Divûm numerabat amores. E vi alluse piú chiaramente Aristofane negli Uccelli, quando disse: «che non ebbe esistenza alcun dio avanti che Amore ordinasse e fecondasse tutte le cose». Mt.
  75. dio: «Luce piú dia, spera piú dia, region dia usò Dante, canti xiv [34], xxiii [107], xxvi [10] del Paradiso. E dias luminis auras disse Lucrezio lib. I, v. 22. e altrove dia pabula, dia otia». Mt.
  76. Per farne ecc.: Gentilissima immagine.
  77. l’Oceán: «Omero parla sempre del mare come d’un fiume, e assolutamente fiume lo chiama nel penultimo verso dell’XI dell’Odissea. Adottò questa espressione anche il principe della poesia latina quando disse: Oceani spretos pede repulit amnes, nel quarto delle Georgiche [233]. E Serse in Erodoto lib. VII, lagnandosi del mare, non lo chiama con altro titolo che di fiume amaro e fallace». Mt.
  78. Circondò ecc.: «Nessuna idea piú vera e piú ripetuta di questa nei poeti greci e latini. Quindi l’opinione che l’Oceano fosse generatore di tutte le cose».
  79. imenei: nozze.
  80. Teti: Cfr. la nota al v. 4, p. 30.
  81. E dei fiumi taurini ecc.: «La ragione di attribuir le corna di toro ai fiumi si ha nello Scoliaste di Sofocle, il quale dice che rappresentansi i fiumi col capo taurino per significare il muggito con cui sboccano nel mare». Mt. Cfr. Virgilio Georg. IV, 371 ed En. VIII, 77; Orazio Od. IV, xiv, 25; Testi ode A. R. Montec., 22 ecc.
  82. «Altre sono le Nereidi, altre lo Oceanidi. Qui parlasi delle seconde, che erano tre mila, secondo Esiodo, laddove le prime non erano che cinquanta. Si attribuisce loro la cognizione dei fenomeni della natura, perché ordinariamente lo stesso lor nome esprime una qualità fisica. Dicasi altrettanto delle Nereidi». Mt.
  83. quell’onda ecc.: l’Oceano alle rive di Spagna e del Portogallo.
  84. Atlante: figlio di Giapeto e di Climene, e fratello di Premeteo e d’Epimeteo, stando nel confine del mondo (lo stretto di Gibilterra, vicino alla regione africana della Mauritania), sosteneva il cielo col capo e con le braccia. Cfr. Omero Odis. I, 52; Esiodo Teog. 507 e Ovidio Metam. IV, 630. — lo stridore ecc.: Leopardi Ad A. Mai, 78: «oltre alle colonne, ed oltre ai liti, Cui strider l’onda all’attuffar del sole Parve udir su la sera...» Era, annota a questo luogo il Leop. stesso, «fama divulgata anticamente, che in Ispagna o in Portogallo, quando il sole tramontava, si udisse di mezzo all’Oceano uno stridore simile a quello che fanno i carboni accesi, o un ferro rovente quando tuffato nell’acqua».
  85. verdi alipedi: «Verdi, perché algosi, o perché imitanti il colore dell’acqua marina che si risolve in un verde cupo. Perciò Ovidio nel secondo della sua Arte, v. 92: Clauserunt virides ora loquentis aquae; e precisamonte nello stesso mio caso Claudiano (De tert. Cons. Honorii, 197): Vobis Ionia virides Neptunus in alga Nutrit equos. Né in altro significato debbesi intendere il virides Nereidum comas di Orazio (Od. III, xxviii, 10) e il virides capillos di Aretusa in Ovidio [Metam. V, 575], il quale nella seconda elegia del primo dei Malinconici chiamò espressamente verdi gli dei marini: Viridesque Dei, quibus aequora curae.Alipedi poi o vogliasi prendere per positivo, ovvero per metaforico a indicare velocità, l’epiteto è conveniente nell’uno e nelle altro senso. Perocché realmente, quanto al primo, i cavalli marini si rappresentano colle zampe che terminano in cartilagini alate, come quelle degli uccelli; e quanto al secondo, abbiamo l’autorità di Virgilio En. XII, 481: Alipedumque fugam cursu tentavit equorum; abbiam quella di Catullo: Obtulit Arsinoes Chloridos ales equus; e quella finalmente di Lucrezio che, nel lib. VI, v. 766, dà l’epiteto di alipedi ai cervi. Che anzi Valerio Flacco non ha dubitato di darlo fino ad un carro (Arg. V, 612): Alipedi pulsantem corpora curru». Mt.
  86. Triton: I Tritoni erano dei marini, che suonavano con conchiglie (conche) ripiegate a guisa di corno. Cfr. Ovidio Metam. I, 331 e II, 8.
  87. Cosí ecc.: Virgilio Ecl. VI, 33: ut his exordia primis Omnia et ipse tener mundi concreverit orbis.
  88. profondo: «Anche negl’Inni orfici il seno della terra è detto profondo; e largo in Esiodo: l’uno e l’altro per indicare la pienezza della sua fecondità». Mt.
  89. Col Ciel ecc.: «La ragione dello sdegno della Terra contro Urano suo marito e le disoneste sue conseguenze si possono vedere in Esiodo, v. 134 e segg.». Mt.
  90. Con parto ecc.: Virgilio Georg. I, 278: tum partu nefando Coeumque Iapetumque creat saevumque Typhoea, Et coniuratos coelum rescindere fratres.
  91. La gioventù ecc.: Orazio (Od. III, iv, 49), de’ Titani: magnum illa terrorem intulerat Iovi Fidens iuventus horrida brachiis. Cfr. anche Od. II, xii, 7 e Virgilio En. VI, 580.
  92. Piracmon... Bronte: due de’ Ciclopi della fucina di cano.
  93. dall’occhiuta fronte: I Ciclopi avevano un sol occhio in mezzo la fronte.
  94. eolio monte: «Discordano i poeti nell’assegnare a Vulcano la sua fucina; perocché altri la pongono nelle isole denominate Eolie, la maggiore delle quali è Lipari; altri sotto l’Etna, altri in Lenno, altri nell’Eubea. Omero la pone in cielo... Io mi sono attenuto a Virgilio... (En. VIII, 416 e segg.)» Mt.
  95. esercitato: lavorato.
  96. Tre raggi ecc.: "Ho presa tutta dal maestro Virgilio la formazione di questi fulmini. Ecco i versi, Eneide, lib. VIII, 429: Tres imbris torti radios, tres nubis aquosae Addiderant, rutili tres ignis et alitis austri. La precisione di questi due versi è ammirabile, se non che pare che manchi il quarto tres innanzi all’alitis austri. La copia ch’io n’ho tratta è ben lontana dalla bellezza dell’originale; tuttavolta credo non averla pregiudicata coll’aggiungervi le ali nel mezzo, il che ho fatto sulla fede di antico monumento riportato nei commenti dell’eruditissimo La Cerda». Mt.
  97. Poi ecc.: Virgilio, loc. cit., 431: Fulgores nunc terrificos sonitumque mettimque Miscebant operi, flammisque sequacibus iras.
  98. scaglia: spinge in su.
  99. Sentinne ecc.: Omero Iliad. XX, 75 (trad. M.): «….Tremonne Pluto, il re de’ sepolti, e, spaventato, Diè un alto grido e si gittò dal trono. Temendo non gli squarci la terrena Volta sul capo il crollator Nettuno, Ed intromessa colaggiù la luce.... ». Cfr. anche Serm. sulla Mit., v. 112.
  100. «Leggasi la descrizione che ci dà Esiodo di questa battaglia nella Teogonia dal verso 678 fino al v. 810. Si ravviserà in quello squarcio divino di poesia che l’immaginazione del poeta di Ascra sapeva riscaldarsi e sublimarsi quanto quella d’Omero. Chi poi bramasse vedere fin dove in soggetto fertile può arrivare l’intemperanza d’una fantasia non castigata, legga Claudiano nella Gigantomachia». Mt.
  101. del signor ecc.: del sole. Anche pel delitto di Atreo il sole indietro per terror si volse. Ctr. Ovidio Amor. III, xii, 39.
  102. Tre volte ecc.: Virgilio Georg. I, 281: Ter sunt conati imponere Pelio Ossam Scilicet, atque Ossae frondosum involvere Olimpum; Ter pater extructos disiecit fulmine montes. Cfr. anche Omero Odiss. XI, 314; Properzio II, i, 19; Ovidio Metam. I, 158 e V, 319; Fast. I, 897; Amor. II, i, 11 ecc.
  103. d’ogni luce muto: cfr. la nota al v. 219, p. 17.
  104. Che ecc.: Dante Inf. v, 30: «Se da contrari venti è combattuto».
  105. E tanto ecc.: «Tale è il sentimento di Esiodo, Teog., v. 720: tale ancor quello di Omero nell’ottavo dell’Iliade; ma non tale quello di Virgilio, secondo cui il Tartaro: Bis patet in praeceps tantum, tenditque sub umbras Quantus ad aethereum coeli suspectus Olympum. En. VI, 578». Mt.
  106. E di ferro ecc.: «Mi fa scorta Esiodo, il quale vuole che Nettuno abbia messe queste porte di ferro all’ingresso del Tartaro, non per altro, credo io, che per dinotare la profondità delle acque che investono il centro della terra». Mt.
  107. Mena ecc.: È quasi la stessa pena a cui Dante pone i lussuriosi. Cfr. Inf. v, 31.
  108. centimana: È noto che tutti tre questi giganti avevano cento mani.
  109. Fuor ecc.: «È incredibile la dissonanza delle favole sul conto di Encelado e di Tifeo. I poeti, tanto greci che latini, cacciano ora l’uno ora l’altro sotto l’Etna... L’Ariosto seppellisce il primo sotto l’isola d’Ischia, appellandola [XXXIII, 24]:.... lo scolio ch’a Tifeo si stende Su le braccia, sul petto e su la pancia». Seppellisce il secondo sotto il Mongibello [XII, 1]: «Là dove calca la montagna etnea Al fulminato Encelado le spalle». Mt. Il nostro poeta segue Ovidio (Metam. V, 315) e Virgilio (En. III. 578).
  110. Peloro: ora Capo Faro.
  111. Pachino: ora Capo Passero.
  112. Fumo ecc.: Cfr. Dante. Par. viii, 70.
  113. Trinacria: Sicilia.
  114. flegrea... campagna: i campi di Flegra (fuoco) in Tessaglia, ove avvenne la grande finale battaglia tra Giove e i Titani, durata dieci anni.
  115. di Giove il foco: l’anima. Cfr. la nota al v. 17, p. 46.
  116. Della divina ecc.: «Anche in Creta fu balzato non so qual gigante dall’impeto dei fulmini, e appellasi divina quest’isola per l’educazione che v’ebbe Giove dai Coribanti, per lo che fu detta sua cuna». Mt.
  117. la regal Sirena: Napoli, cosí detta dalla sirena Partenope che tentò sedurre Ulisse, e, delusa, si precipitò in mare. La sua tomba fu ove sorse Napoli. Cfr. Ariosto XXXIII, 56.
  118. E questa ecc.: l’Italia meridionale bagnata in gran parte dal mare Ionio e detta però figlia d’Acheloo (oggi Aspropotamo), fiume che, nato dal Pindo, sbocca in detto mare. Omero lo dice regale: cfr. Iliad. XXI, 104.
  119. incatenata il piè: accusat. di relaz.; Cfr. la nota al v. 26, p. 3.
  120. «E veramente tutti gli Dei ebbero una gran faccenda in quella giornata, ed ognuno segnalò il suo valore. Nettuno mise a morte Polibote lanciandogli addosso un’isola dell’Egeo mentre fuggiva; Diana ed Apollo [Latonidi] disfecero Oto ed Efialte figli di Alceo [Aloidi]; Ercole. Porfirione... Io non ho accennati che questi». Mt.
  121. L’indomato ecc.: Ercole, figlio di Giove sotto le forme del marito di Alcmena, Anfitrione.
  122. Te che il primo ecc.: «Che Pallade andasse anch’ella con cavalli a battaglia, l’accenna Pindaro nell’Olimpica XIII, Sofocle nell’Edipo Col., v. 1124, e ce ne assicura Pausania, asserendo che esisteva un’ara in Atene dedicata a Pallade equestre. Ma niuno lo dice piú espressamente di Callimaco nel lavacro di Pallade. Ne riporterò l’intero passo da me imitato, servendomi della traduzione del Checozzi...: Fortia non Pallas perfundet membra priusquam Coeno sordentes terserit alipedes. Tum quoque cum bello decedens retulit arma Turpia dirorum sanguine Terrigenum Fumantes primum solvit temone iugales, Abluit et magni fontibus Oceani Pulvereum
  123. cecropii: cfr. la nota al v. 1, p. 2.
  124. Senza ecc.: «Correva fama in cielo che niuno de’ Giganti sarebbe rimasto perdente, se Giove non prendeva in aiuto il braccio di qualche mortale. Giove allora per consiglio di Pallade chiamò in soccorso Ercole, che fu il primo a menar le mani e a fissar la vittoria». Mt.
  125. gl’immani anguipedi: gli smisurati Giganti, dal piede di serpente. Cfr. Ovidio Fast. V, 35.
  126. Egra: dolente (lat.).
  127. dal vapore: dal fumo, prodotto dalle arsioni del fulmine.
  128. col chinar ecc.: «Il moto dello chiome e dei sopraccigli era l’atto più maestoso di questo dio. È mirabile il passo d’Omero, nel primo dell’Iliade, allorché Giove promette a Tetide la vendetta d’Achille: «Disse: e il gran figlio di Saturno i neri Sopraccigli inchinò. Su l’immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro e tremonne il vasto Olimpo». Dalla qual sublime immagine tolse Fidia il pensiero del suo Giove Olimpico e Orazio [Od. III, i, 8] il cuncta supercilio moventis tanto lodato». Mt. Cfr. anche Virgilio En. IX, 106 e Ovidio Metam. II, 849.
  129. traccia: cfr. la nota al v. 166, p. 57.
  130. Sul carro ecc.: «Callimaco dà per assistente al soglio di Giove la Robustezza; Orfeo la Giustizia, per testimonianza di Demostene nell’Orazione seconda contro Aristogitone; ed Eschilo l’una e l’altra nelle Coefore». Mt.
  131. Liceo: «monte d’Arcadia, sulla cima del quale Rea partorì Giove dentro una spelonca, donde poi il mandò segretamente in Creta raccomandato alla cura de’ Coribanti e delle ninfe Melie. Pausania negli Arcadi parla di questa spelonca, e ci significa ch’ella era a tutti inaccessa, fuorché alle sacerdotesse di quella dea. Sul contrasto de’ mitologi se Giove sia nato in Creta piuttosto che in Arcadia, Callimaco decide la lite sul principio dell’inno a quel dio. «...Rea Te sul Parrasio (in Arcadia) partorí là dove Sorge più denso d’arboscelli il monte». Mt.
  132. querce dodonee: «Vicino a Dodona città dell’Epiro sorgeva una gran selva di querce dedicate a Giove, di cui rendevano in voce umana gli oracoli». Mt.
  133. E di Libia ecc.: Ne’ deserti della Libia era il celebre oracolo di Giove Ammone, sul quale cfr., per maggiori notizie, Servio Ad Aen. IV, 198.
  134. selve Idee: «Ad ogni passo dell’Iliade si fa menzione del monte Ida imminente a Troia, sulla cima del quale, denominata Gargaro, Giove era solito di ritirarsi a riposo, circondato di nebbie e di tenebre». Mt.
  135. il canto teban: la poesia di Pindaro. Cfr. la nota al v. 59, p. 12.
  136. si folce: si appoggia.
  137. padre ecc.: Ovidio Metam. II, 848: pater, rectorque deum.
  138. A te consorte ecc.: ti è sposa Giustizia e figlia Sapienza.
  139. Gradivo: Marte. Cfr. Virgilio En. III, 35.
  140. Cinzia: la luna. — i cacciator ecc.: È l’oraziano (Od. I, i, 25): Manet sub Iove frigido Venator, tenerae coniugis immemor.
  141. Degli Etiopi ecc.: Gli Etiopi posti a mezzogiorno dell’Egitto erano di gran religione, e per questo è fama che ospitassero sovente gli dei e anche lo stesso Giove. Cfr., p.e., Omero Odiss. I, 22 e segg.
  142. magnanimo eroe: Napoleone.
  143. In frale ecc.: Cfr. Congr. d’Ud., v. 72.
  144. E sii ecc.: e costituisci Italia in unità di nazione e di leggi. - Alessandro III, detto, per antonomasia, il Grande (396-323 av. C.), figlio di Filippo il Macedone e di Olimpia di Neottolemo d’Epiro, fu uno de’ piú grandi conquistatori che le storie ricordino: Numa Pompilio fu invece uno de’ più benefici legislatori. Cfr. la nota al v. 141 del c. II della Feron.
  145. Il solco ecc.: i tristi effetti delle invasioni e del dominio barbarico.
  146. Che non v’ha ecc.: non v’è parte intatta del corpo d’Italia ove essa spada possa discendere a ferire.
  147. Un mostro ecc.: le discordie intestine, che tanto ora le nocciano, quanto le nocquero pel passato.
  148. l’aquila: Arma imperiale della nemica Austria.
  149. Di sentenza disgiunti: divisi di parere.
  150. Roma: Il papa, che, per poter conservare il dominio temporale, doveva aver piacere delle dissensioni degli Italiani, a’ quali solo la concordia avrebbe potuto dare la patria libera e forte: così dicasi dell’Austria (Lamagna). — Il M., con tutte le sue mutazioni, in parte non solo spiegabili, ma anche giustificabili, nutrí amore vivissimo ed immutato alla gran patria italiana. «Ho sospirato e sospiro ardentemente (scriveva con sincerità e veracità al Salfi: cfr. la nota d’introd. a p. 50) l’indipendenza dell’Italia, ho rispettato in tutti i miei versi religiosamente il suo nome, ho consacrato alla sua gloria le mie vigilie, ed ora le consacro coraggiosamente me stesso, gridando in nome di tutti la verità».

Varianti

N.B. Cfr. la nota d’introduzione. L’edizione del Curti è indicata con un C.; quella del Pirotta e Maspero con un P.; quelle del 1793, 1821 e 1826 con un ’93, un ’21 e un ’26.

6. Origine vuo’ dir (P.)

23-4. Né piú d’Osiri le donzelle han fama, Né piú sue figlie Sicïon vi chiama. (C. ’21).

35. Per la selva beota. (P.).

47. Ed uno (C. P.).

49-50. Fiori adunque mietea l’avventurosa Ilari e vivi, e sen dolea ’l terrerno: (C. P. ’21).

57. Ma la varia beltate (P.).

83. Del gran sangue titanio (C. ’21).

115. Vil troppo e illiberal (C. ’21).

126 Le rosee labbra aprendo in un sogghigno (C. ’21).

147. Di biondo pastorello il volto (C. ’21).

172-3. E il famoso d’Arabia giovinetto Lungo argomento delle fole argive, (C. ’21).

184. su gli arboscelli (C.).

190. Che i suoi boschi sentia (C. ’21).

194. Di Mnemosine in grembo egli discese (C. ’21).

200. che l’error percote e ride;

213-16. S’udian di sotto armonizzar le valli Soavemente e ne stupian le stelle, Vergognose d’intendere che note Spandean men dolci le sideree rote. (C. ’21).

229. Per questo varco le mnemosie figlie (C. ’21).

245. E lor diè d’oro il seggio (C. ’21).

256. E l’atre nubi (C. ’21).

259. un rumor (’21).

273-4. Dolce si strinse allor fra le Camene E le Cariti un nodo e il Dioneo (C. ’21).

296. Dell’ambrosia lassú bagnin la fronte (C. ’21)

314. Sentí pur ella (P.)

329 Roco muggendo (C. ’21).

340. E del sole i vïaggi e (C. ’21).

342. E il dormire dell’onde e le procelle (C. ’21).

355. E l’etiopio sale (C. ’21).

376. crudel, le nascondea (C. ’21).

381. La terrigena stirpe (C.’21).

384. Sotto i grandi lor passi (C.’21).

386. Co’ suoi fratelli (C.).

398. Di densa pioggia, e larghe (C. ’21).

409-32. Nell’ediz. del ’93 invece di queste tre stanze si legge la seguente: Lo sentì da lontan l’ambizïosa Antica madre, e si coprì d’un velo; De’ suoi figli il sentì la faticosa Perversa turba, e alzò la testa al cielo; E furendo ciascun d’una petrosa Rupe si fece incontro a Giove un telo. Tre volte all’arduo ciel dietro la scossa, Sovra Pelio ponendo Olimpo ed Ossa.

414. La vendetta passeggia, e (C. ’21).

429. Odesi cigolar (C. P.).

432. Sovra Pelio ponendo (C. ’21). 459-64. Su la fronte gli grava Etna sublime E sul petto infocato e crepitante: Quindi come i sospir dal fianco esprime E si contorce e sbuffa il gran gigante, Fumo e foco mugghiando all’aure erutta. (C. ’21). — Fumo e foco dal sen mugghiando erutta. (P.).

467. Gli altri di Flegra su la ria montagna. (C. ’21.).

469-70. Ond’ivi ancor fumante è la campagna, Livido il cielo e mesto il vento e roco (C. ’21).

471. altri satolle (C. ’21).

474-5 O Vesevo fatal, tu che la piena Versi iracondo di tua spuma impura (C. ’21).

479-80. Non imitar lo scempio e la ruina Del gallico ladron che s’avvicina. (’93) — Ti basti oimè! l’aver di Pompeiano I bei colli sepolti e d’Ercolano (26).

481-88 Questa stanza mancava nell’ediz. del ’93 e fu tolta in quella del ’26.

482. già la curva (P.).

485. Se fecondo tu pur (P.).

489-520. Nell’ediz. del ’93 queste quattro strofe, di poco diverse, sono non qui, ma al principio del canto 2º.

489. Il sacro delle dive (C. ’21).

491. Tacean le Muse (C. ’21).

493. Il rivo dell’ambrosia i piè (C. ’21).

496. Nè fior l’aurette percotean nè fronda (C. ’21).

497-8. Qual suole dell’aurora il queto umore Su le fresche cader rose pudiche, (C. ’21).

500. delle glorie antiche. (C. ’21).

501-2. Rammentò ciaschedun l’ira e il furore Di quell’alto certame e le fatiche. (C. ’21).

504. Alla mente tornâr de’ Latonídi (C. ’21).

505-9. Ragionò del crudel Porfirïone, In man scotendo la famosa clava, Il figliuolo fatal d’Anfitrïone, E magnanimo e grande passeggiava. Ma delle dive (C. ’21).

523. parer fe’ caro (C. ’21).

525-6. Ai caduti suoi figli il grembo amaro Allor la Terra sospirando aprío (C. ’21).

525. caso avaro (P.).

528. divampate ed arse (C. ’21). — rosseggianti ed arse (P.).

530. In fronte si sentìa (C. ’21).

532. L’ampie vene (C. ’21).

533. In vapori esalava (C. ’21).

534. Gli occhi alzando oscurati e non più belli: (C. ’21).

535-6. E tuttavia dal manto arso scotea Le celesti faville e si dolea. (C. ’21).

537-9 Di Saturno l’udì l’inclito figlio, E pietà n’ebbe e il fulmine depose, E tornò col girar del sopracciglio (C. ’21).

543. Al costume dell’orbite (C. ’21).

550. Pacificando i fremiti (C. ’21).

551. egli sdegnossi (C. ’21).

581. Nell’ediz. del ’93 il primo canto, cominciando da questo verso, finisce cosí: A te, Giove, i regnanti, e tu i pensieri Ne tempri, o padre, e ne proteggi i fati. Al crudo nembo ch’or gli avvolge e preme, Deh, tu gli togli e tu difendi insieme. Cesare salva, che le auguste gote All’egra Europa rasciugando viene, E la franca sul Reno idra percote E i vacillanti troni erge e sostiene. Salvalo; e tante fumeran devote L’are al tuo nume sulle vinte arene, Che men poscia ti fia dolce e gradito D’Etiopia l’ospizio e il pio convito. E voi, numi del frigio pellegrino Cui dier le fiamme rispettose il passo, Dei Penati, e tu Marte e tu Quirino Che immoto del Tarpeo serbate il sasso, Voi che tutta dell’italo destino Mai non volgeste la potenza in basso, Contro il Gallo fellon che varca il monte Destatevi e levate alto la fronte. Pietà d’Ausonia, a cui di pianto un rio Bagna la guancia delicata e casta, E nel sen v’addimostra augusto e pio Il solco ancor della vandalic’asta. Assai pagò la dolorosa il fio Di non sue colpe che l’han doma e guasta. Deh! piú non la percota iniqua spada. Che non v’ha parte intatta ov’ella cada. Tu, germanico eroe, che in biondo pelo Mostri, invitto Francesco, alto consiglio. Tu ricomponi alla piangente il velo. Ch’ella t’è madre, e madre prega al figlio. Vien, pugna, e salva la ragion del cielo, Ché ben per Dio si corre ogni periglio; Vieni, e al furor del seme empio di Brenno Il petto opponi di Cammillo e il senno.

583. Deh le bell’alme elette in cui (C. ’21).

584. Nell’ediz. del ’26 il poemetto, cominciando da questo verso, finisce cosí: L’umana compagnia, proteggi e guida. Proteggi insieme delle Muse il canto, E ciò torni a tuo pro. Morta è la lode De’ numi e degli eroi dove del santo Elicona sonar l’inno non s’ode: Molta virtú sepolta giace accanto Alla viltà, perché non ebbe un prode Vate amico al suo fianco; e le bell’opre Che non hanno cantor l’oblio ricopre. 614. Contro il tuo seno, (C.’21).


Note

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