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I PRIGIONIERI
Nella Cocincina un dinh non è altro che un tempio, più o meno vasto, più o meno ricco, destinato al culto delle deità marittime, oppure a quello di Buddha o di Fo.
Ogni villaggio, per quanto piccolo sia, ha il suo dinh, e nelle foreste accade spesso di trovare, sul luogo ove un tempo sorgeva qualche borgata, uno di quegli edifizi, non di rado bellissimi e ancora ben conservati, con torri dai tetti arcuati e statue colossali.
Quello a cui si dirigeva lo spagnolo per trovare un rifugio e contro la tempesta e contro gli inseguitori, benché in gran parte diroccato, era grandioso, con muraglie di marmo, smisurate colonne di legno scolpite e dorate, che ad ogni lampo rifulgevano qua e là, e rizzava ancora, attraverso la fitta vòlta di verzura, le sue torri dai tetti arcuati come quelle dei ta-tzeu[1] cinesi.
Josè, anelante per la lunga corsa, inzuppato d'acqua, pieno di contusioni, affranto dalla stanchezza, ma stringendosi sempre al petto l'amante, dopo aver superato un ammasso di rottami d'ogni specie, giunse all'entrata dell'edificio la cui porta era sfondata e scardinata.
Si arrestò un momento tendendo gli orecchi ai fragori del largo, gettò uno sguardo sotto le foreste, poi si avanzò nel corridoio dove il vento ruggiva su tutti i toni, scuotendo il vacillante tetto e le pareti.
— Josè, dove mi porti? — chiese Tay-See.
— Ti porto nel tempio — rispose lo spagnolo. — Saremo al coperto dalla pioggia e dalle palle di coloro che c'inseguono. Sfido Tay-Shung e tutti i suoi guerrieri a entrare.
— Questo luogo mi fa paura, Josè. Non odi rumori in fondo al corridoio? È il dio che ci maledice.
— È il vento che fischia fra le colonne. Non avere paura di Buddha: se questa notte apparisse, mi sentirei capace di abbattere anche lui.
— Non parlare così.
— Io non credo al tuo Buddha.
— Taci, taci.
Il vento fischiava sempre con maggior violenza nello stretto corridoio e dall'estremità venivano mille gemiti, mille fischi, mille urla. Si avrebbe detto che una legione di demoni si sbizzarriva dentro il tempio.
Tay-See, superstiziosa come tutte le donne della sua razza, tremava nell'udire tutti quei fragori, che per lei avevano qualche cosa di soprannaturale e pregava lo spagnolo di fermarsi. Ma questi, che si sapeva inseguito da un uomo che non lo avrebbe risparmiato a nessun patto, continuò la traballante ed incerta corsa, finché s'accorse di essere giunto in fondo al corridoio e di essere entrato nel tempio.
Sostò un momento, porgendo orecchio al furioso tintinno dei campanelli sospesi alle torri e agli scoppi della folgore che l'eco centuplicava, poi, con una pistola nella dritta, sostenendo col braccio sinistro l'amante, tirò avanti.
Il rimbombante tocco di una gran campana echeggiante nel tempio, lo fece indietreggiare fino alla parete. Tay-See gettò un urlo di terrore. — Josè!... Josè!... — esclamò. — Fuggiamo di qua.
— Giammai, Tay-See.
— Non hai udito la voce del dio?
Lo spagnolo stava per farsi innanzi, quando i suoi sguardi si fissarono su di una gigantesca figura bianca che stava ritta in mezzo al tempio. Quantunque coraggioso, si sentì un brivido correre per le ossa.
— Chi va là? — gridò, più irritato che spaventato.
Nessuno rispose alla domanda, né la figura si mosse.
— È una statua — diss'egli.
— E il tocco? Non hai udito tu suonare una campana? — chiese tremante Tay-See.
— Non tremare così, bella Rosa del Dong-Giang. Mi ricordo d'aver visto dei gong sospesi agli altari dei dinh cocincinesi. Senza dubbio il vento ha scosso il battaglio.
— Ah! Josè... tutto, tutto è contro di noi.
Lo spagnolo non rispose e andò dritto contro la bianca figura.
Era una colossale statua di pietra, rappresentante Ba-chua-ngoc, una delle divinità adorate dalle cocincinesi. Al chiarore di un lampo scorse, sospesi agli altari, parecchi gong.
— Lo vedi bene, Tay-See, — diss'egli, — né Buddha, né le anime dei morti, hanno a che fare con noi. Vieni, che qui troveremo un sicuro asilo contro i furori di Tay-Shung. Quando la tempesta sarà cessata e la via libera, noi spiccheremo il volo verso il sud come due pavoni innamorati e raggiungeremo i miei compatrioti che accampano sulle rive del Tan-binch-giang. Come sarò felice allorché ti vedrò in salvo e potrò posare, senza timore, le mie labbra sulle tue! Daremo, allora, un ultimo addio a questi luoghi pieni di pericoli e navigheremo, stretti in un tenero amplesso, verso i lidi della libertà.
— Sì, sì, Josè! — esclamò la giovane, fuori di sé.
— Lascerai, adunque, senza rimpianti questa terra maledetta, questa terra della sventura?
— Sì, Josè, io lascerò senza rimpianti la terra de' miei padri, la terra dove sono nata e cresciuta — diss'ella singhiozzando.
— Non piangere, mia diletta, — riprese lo spagnolo con tenerezza. — Lasci la bella riviera del Dong-Giang, ma troverai nella mia patria la Guadiana; lasci le profumate foreste del calambuc, ma troverai nella mia patria le foreste di aranci e di gelsomini.
— Non piango, no, non piango mio Josè. Ti seguirò ovunque andrai, lo giuro dinanzi a questa divinità, dinanzi a Ba-chua-ngoc.
Le labbra dello spagnolo baciarono i lunghi capelli di lei, baciarono le pallide gote e la nivea fronte.
— Tay-See, quanto ti amo! — esclamò.
Ad un tratto indietreggiò, pallido, sconvolto, cogli occhi accesi, le membra tremanti.
— Gran Dio! — esclamò.
Tay-See, atterrita, si appoggiò alla gigantesca statua.
— Josè — mormorò.
— Zitta, Tay-See, zitta!
Fra le urla della tempesta echeggiò un lungo fischio, quello d'un pi. — Josè!... — esclamò la giovanetta. — Chi suona il pi? Dio!... Dio!... Ira e dannazione! è il pi di Tay-Shung!
Al di fuori tornò a farsi udire il medesimo fischio. Non era possibile ingannarsi: Tay-Shung aveva scoperto le tracce dei fuggiaschi e s'avvicinava con tutti i suoi guerrieri.
Josè cacciò fuori un vero ruggito, un ruggito di belva.
— Ah! — tuonò egli. — Anche qui vieni a inseguirmi? Sta bene: ci batteremo e ti ucciderò!
Armò risolutamente il fucile per accorrere alla difesa del corridoio, ma Tay-See gli si aggrappò alle vesti gridando:
— Non lasciarmi, non lasciarmi!
Egli si staccò dalle mani di lei, cercando di respingerla.
— Lasciami, non voglio che Tay-Shung qui entri e t'uccida. Io sono forte, non ho paura né di lui, né dei suoi guerrieri. Ti prego, rimani qui, e ti giuro che fintanto io sarò vivo nessuno ti toccherà un capello, senza passare sul mio cadavere. Se tu mi segui, non saprò difendermi. Il solo vederti qui mi mette la febbre indosso, perché ad ogni archibugiata tremerei di paura che la palla troncasse il gambo della Rosa del Dong-Giang.
— No, Josè, lasciami venire; se tu muori, io pure voglio morire con te. Non lasciarmi sola! Non lasciarmi sola!
Al di fuori si udì suonare, ma più da vicino, una chiarina.
— Vengono, Tay-See — diss'egli. — Addio! E se non ritorno più... se la morte mi colpisce... l'ultima mia parola, l'ultimo mio pensiero sarà per te!... Ma no... perché parlare di morte?... No, non morrò... il mio Dio non lo permetterà. Ritornerò dopo di averli fugati e noi... noi saremo ancora felici!
Egli rimase lì come trasognato, indeciso di allontanarsi da quella donna che forse non avrebbe mai più riveduta, poi se la strinse fortemente al petto stampandole sulle labbra un ultimo bacio.
— Addio... addio!... — esclamò, e rizzandosi fieramente, cogli occhi in fiamme, disse: — Ora a noi due, Tay-Shung!
Rinvenne, come potè, la porta e si slanciò nel corridoio col fucile armato, mentre la povera Tay-See, priva di forze, atterrita dallo spavento, si lasciava cadere ai piedi di Ba-chua-ngoc. Egli si era appena appostato dietro ad una colonna, quando gli giunsero agli orecchi delle voci umane. Si spinse due passi innanzi, ed al livido chiarore di un lampo scorse una banda di cavalli sulle cui gualdrappe infioccate stavano curvi i guerrieri di Tay-Shung.
Un istante dopo, alcune ombre apparvero all'entrata del corridoio.
— Chi va là? — gridò lo spagnolo imbracciando e puntando l'arma.
Rispose un colpo d'archibugio, che andò a vuoto; poi, quindici o venti uomini, zitti, zitti, s'inerpicarono colle mani e coi piedi su per le rovine e si affollarono dinanzi alla porta.
Il primo che fece un passo nel corridoio ricevette in pieno petto la fucilata dello spagnolo. Il guerriero gettò un urlo straziante, barcollò un momento battendo l'aria colle mani, poi cadde addosso ai compagni i quali s'affrettarono a ritirarsi.
Dopo quei due spari successe un profondo silenzio, ma, qualche minuto dopo, i cocincinesi aizzati dalla tuonante voce del loro capo, il quale prometteva sacchi di sapeh[2] a coloro che fossero riusciti ad arrestare i fuggiaschi, ricomparvero alla porta e si spinsero lentamente innanzi, tenendosi celati dietro le rovine che coprivano il terreno. Avevano impugnato gli archibugi, ma pareva che attendessero d'essere vicini per servirsene.
— Indietro o vi uccido! — gridò Josè, che aveva ricaricato prontamente il fucile.
— Saremo noi che ti uccideremo, rapitor di donne — rispose Tay-Shung con voce furente. — Su tutti, miei prodi, avanti senza paura! Lui è solo e noi siamo cinquanta!
Alcuni colpi d'archibugio rintronarono, ma Josè erasi ben celato e rispose con una seconda fucilata, la cui palla abbattè un altro cavaliere che si trovava accanto a Thay-Shung.
— Avanti miei prodi! — ripeteva il generale.
I cocincinesi si erano precipitati attraverso le rovine eccitandosi con urla feroci e sostenendosi con un fuoco d'inferno, che faceva più fracasso che danno.
Lo spagnolo, riparato dietro alle colonne, non ne soffriva quantunque le palle gli fischiassero attorno e rispondeva con colpi così aggiustati, da tenere in iscacco gli assalitori.
Tay-Shung, che pareva protetto da qualche buon genio, precedeva i suoi guerrieri urlando allo spagnolo di arrendersi e minacciando di ridurre il tempio in un mucchio di rovine, ma non osava avanzarsi troppo, ben sapendo che le palle dell'avversario erano a lui, più che agli altri, dirette.
La lotta durò così per cinque buoni minuti, poi i cocincinesi batterono improvvisamente in ritirata seguiti dal loro capo, e il corridoio tornò silenzioso.
Solo al di fuori si udivano ancora le acute note della chiarina.
Josè, spossato, insanguinato da una ferita toccatagli in un braccio, inquieto per Tay-See, stava per ritirarsi verso il tempio quando udì gridare:
— Aiuto, Josè! Aiuto!...
— La sua voce! — esclamò egli facendo un salto indietro. — Gran Dio!...
Nel medesimo istante otto o dieci uomini riapparvero all'estremità del corridoio e ricominciarono il fuoco. Josè non li attese, né cercò di sbarrare il passo.
Fuori di sé, atterrito, angosciato, si precipitò verso il tempio, gridando:
— Eccomi, Tay-See!... Eccomi!
Ma invece di trovare la porta aperta, la trovò sprangata. Smarrito, ansante, si mise a percuoterla furiosamente col calcio del fucile, sperando di abbatterla.
— Aprite, maledetti, — gridava, — aprite o vi uccido tutti!
In quell'istante udì la voce di Tay-Shung: — Avanti!...
Lo spagnolo, pazzo di rabbia, tornò prontamente indietro ma si trovò di fronte agli assalitori.
I cocincinesi, libero il passo, si erano precipitati nel corridoio con Tay-Shung innanzi.
— Ah, cane! — esclamò il generale, saltandogli addosso.
Josè si rivolse colla schiuma alle labbra, ma fu violentemente rovesciato a terra dai guerrieri e ridotto nell'impossibilità di reagire.
— Oh, mia Tay-See! — gridò egli con accento straziante.
— T'ho preso finalmente! — esclamò Tay-Shung, curvandosi su di lui. — Fra poco ci rivedremo!
Lasciò il prigioniero, che i guerrieri s'affrettavano a legare strettamente, ed entrò nel tempio dove alcuni dei suoi, calatisi là dentro per un'apertura del tetto, sostenevano Tay-See svenuta.
Nel rivederla, quell'uomo pochi istanti prima così terribile, barcollò come un ubriaco, sentì il cuore farsi grosso grosso e un nodo serrargli la gola.
Ad un suo cenno gli uomini deposero l'infelice donna ai piedi di Ba-chua-ngoc ed uscirono senza pronunziar sillaba. Quando fu solo, si lasciò cadere presso di lei strappandosi i capelli e piangendo di rabbia e di dolore.
— Sciagurata! — esclamò con voce rotta. — Che ti avevo fatto io per abbandonarmi in tal modo!... Non ti ho sempre amata, io?... Non ero forse il tuo schiavo?... E tu mi hai tradito! Ed io, che credevo di esser felice!... Abbandonare me che per amor tuo avrei sparso l'ultima goccia di sangue, che per te mi sarei sentito capace di sollevare il mondo; che per te avrei rinnegato la religione dei miei avi, la mia patria, il mio re!... Ed ora tutto è finito! Quella felicità, a cui aspiravo e che tutti m'invidiavano, ora è spezzata per sempre e la gelosia sola roderà in eterno il mio cuore!...
Un grido straziante lacerò il petto del guerriero.
— E sei fuggita, — continuò, — m'hai abbandonato per un uomo che appartiene ad altra razza, per uno straniero, per un nemico!... Oh! Vendetta!... Vendetta!...
Uno scoppio di pianto soffocò la sua voce. S'alzò cogli occhi gonfi, i pugni chiusi, fuori di sé per la rabbia e la disperazione, ma si fermò quasi subito.
Tay-See si era lentamente rialzata e lo guardava cogli occhi pieni di lagrime.
— Josè!... — mormorò ella. — Dove sei, Josè?
Tay-Shung vacillò come avesse ricevuto un colpo di mazza sul cranio e una nube di sangue gli velò gli occhi. Afferrò l'adultera per le braccia, la scosse furiosamente, cieco di rabbia, ma anche d'amore, poi se la strinse al petto, la baciò furiosamente e infine la respinse gettandola contro la statua della dea.
— Sciagurata! — gridò adoperando più fiele che voce. — E tu lo invochi ancora!
Tay-See non ardì rispondere. In preda ad un vivo terrore, pallida, disfatta, lo guardava come trasognata, cogli occhi vitrei e come se nulla comprendesse di quanto le accadeva d'intorno.
— Ma Tay-Shung ha sete di sangue! — riprese il generale con accento d'odio. — Ah! Tu lo invochi ancora!... E sia! Ma io ti sacrificherò alla mia vendetta!... Ed io quell'uomo lo salvai dalle acque del Dong-Giang. Meglio sarebbe stato che in quell'istante io avessi perduto ambe le mani!... Ma, dimmi, malvagia creatura, perché mi hai abbandonato? Forse non ti ho sempre amata e rispettata? Forse non ho soddisfatto sempre i tuoi più strani capricci? E forse non sono sempre stato buono e affettuoso con te? E questa donna, che fino a poche ore fa io ho adorata come una dea, e la credevo pura, vilmente mi fuggiva con un altro uomo che è figlio di quella razza che io odio, e che vorrei veder distrutta.
Si nascose il volto fra le mani e per parecchi minuti si udì piangere come un fanciullo.
Tay-See non osava più fiatare, né guardarlo. Cupa, rinchiusa in un dolore, il quale ormai la rendeva insensibile a tutto, e null'altro le faceva desiderare che una rapida morte, attendeva rassegnata il castigo, certa, d'altronde, che l'amato Josè l'avesse di già preceduta nella tomba.
— Ma hai dunque un cuor di tigre? — gridò Tay-Shung, scuotendola furiosamente. — Ma non senti proprio nulla per me? Tay-See!... Tay-See!...
— Lasciami, Tay-Shung... tutto è finito — mormorò l'infelice.
— No, no! — urlò il generale. — Non è vero che tutto è finito, non è vero! Dimmi che tu l'esecri quel bianco; dimmi che ti rapì colla forza! Sì, è vero, ti ha strappato dalla tua camera colla forza, sì, sì, io lo leggo nei tuoi occhi. È vero che tu m'ami? È vero che non mi disprezzi? Tay-See, io ti amo ancora, e sarò ancora tuo schiavo e ti adorerò più che Buddha e mi sottometterò a tutti i tuoi capricci. Io ti perdono tutto, Tay-See, tutto, tutto! Dimmi che tu m'ami ed io ti cadrò alle ginocchia!
Il guerriero, così parlando, era tutto cangiato: la passione aveva preso il sopravvento sulla tempesta, che poco prima ruggivagli in cuore. Le sue mani stringevano teneramente la fuggitiva e le sue ardenti labbra sfioravano quelle gelide di Tay-See.
— Ti porterò lontana da questi luoghi — continuò egli con irresistibile veemenza. — Io ti porterò sui miei monti, tanto lontana che nessuno possa mai sapere ciò che avvenne. Io ti lascerò scorrere sola i grandi boschi dell'alto Dong-Giang, io ti circonderò di mille cure, io ti servirò, se tu vorrai, in ginocchio. Nessuno, sai, nessuno saprà ciò che tu facesti, in un momento di aberrazione. Tay-See, dimmi che m'ami, dimmelo e ti salverò, e ti adorerò, e ti farò felice!...
Tay-See non rispose. Lo guardava con occhi semispenti, insensibile a quelle parole d'amore, a quei baci e a quegli amplessi.
— Non mi ami più dunque? — urlò Tay-Shung. — Tay-See!... Tay-See!...
— Non posso — balbettò alfine ella. — Non posso, è impossibile... uccidimi... poiché non potrò mai amarti!
— Adultera! — ruggì l'uomo. — Sciagurata!... Sciagurata!...
S'alzò colla spuma alle labbra, cogli occhi iniettati di sangue, fremente, delirante.
L'afferrò pei capelli, la scosse furiosamente e la scagliò a battere il capo contro le pareti.
— Oh! La vendetta!... La vendetta!... — gridò con istrazio. — Poi venga la morte!...