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TAY-SEE
Tay-See toccava appena i diciassette anni ed era da tutti ritenuta per la più bella e la più strana creatura della vallata del Dong-Giang.
Era un fiorellino profumato — come dicevano gl'indigeni nella loro pittoresca e poetica lingua a cui il soffio di Buddha aveva dato sembianze umane.
La persona era piccola, snella, delicatissima, flessuosa; aveva i capelli abbondanti, più sottili dei fili di seta e più neri dell'ala d'un corvo, il viso d'una bellezza originale, dalle linee di una purezza ideale.
Bianchissima, anzi diafana la pelle, grandi ma sempre malinconici e sempre umidi gli occhi, piccola la bocca che talvolta, nello schiudersi, mostrava dei denti adorabili, bianchi come avorio e più brillanti delle splendide perle di Ceylan.
Da due anni Tay-Shung l'aveva tratta sulle rive del Dong-Giang, ma in così lungo tempo nessun abitante della vallata aveva veduto un solo sorriso sfiorare quelle piccole labbra, né mai aveva veduto quella fronte, anche per un solo istante, serena, né comparire una sola volta quella strana creatura ad una festa, ad una riunione, né a nessun thè danzante. Si era sempre mostrata triste, malinconica, taciturna, come se un dolore immenso, straziante, avesse costantemente regnato in quel piccolo cuore.
Solamente di notte, in certe epoche dell'anno ma più specialmente quando Tay-Shung si trovava da lei lontano, ella era stata veduta uscire a tarda ora tutta sola ed errare a lungo sotto la fosca ombra dei grandi boschi, oppure tenersi ritta fino che spuntava l'alba, su certe rocce tagliate a picco sul fiume, in un atteggiamento di chi si sente attratto a lanciarsi nel vuoto; e in quelle notti era pure stata udita a suonare, con quelle dita di bimba, il tro siamese traendo certe flebili note che nessun pi[1] dei dintorni sarebbe stato capace d'imitare ed era stata udita, quando maggiore era il silenzio e più profonda l'oscurità, cantare, in una lingua che nessuno aveva mai udito, certe canzoni piene di tristezza che parevano lo sfogo di un'anima addolorata, straziata.
Strane voce correvano su quelle passeggiate, là in mezzo ai grandi boschi. Si diceva dai soldati, che stavano a guardia dei bastioni durante la notte, che ella volava come fantasma sulle più alte cime di cay-sao ad abboccarsi cogli spiriti celesti; si diceva, che proprio alla mezzanotte, col suono del tro ella evocava i defunti e che cento fiammelle — le anime dei trapassati — venivano a danzarle intorno. Alcuni assicuravano di averla veduta, là sotto quegli alberi, trasformarsi in una vaga rosa che poi andava a mormorare coi fiori e colle tenere erbette; altri assicuravano averla veduta cangiarsi in una brillante stella e poi innalzarsi negli spazi del cielo e altri ancora di averla sorpresa, quando la luna sorgeva dietro le alte montagne, tramutarsi in un vago uccello e allontanarsi rapidamente in direzione del mare, per poi ritornare ai primi albori.
Un giorno però quelle gite misteriose erano cessate, e più si erano uditi risuonare né la voce, né il tro della Rosa del Dong-Giang. Una fiera malattia l'aveva colta, malattia strana, inesplicabile per tutti i medici della vallata. Quegli occhi così belli e scintillanti avevano perduto il loro splendore; quelle carni lattee la loro floridezza; quell'organismo così delicato pareva si fosse spezzato sotto un nero colpo. Il fiore avvizziva a vista d'occhio come se fosse stato trapiantato in altra terra ed in altro clima o come se un vento gelido gli avesse spezzato il gambo.
Non era stata più veduta uscire dalla sua casa, ma si era udita più volte singhiozzare a lungo. Eppure si sapeva che Tay-Shung l'adorava alla follia e che nulla le risparmiava per farla felice.
Due volte la stagione delle piogge era venuta a inondare le campagne; due vòlte il gran cappero bianco e le rose avevano fiorito, ma quella del Dong-Giang era invece sempre più appassita e pareva ormai prossima a declinare ed a morire.
Invano gli indigeni, che guardavano con superstiziosa ammirazione e che adoravano quella creatura convinti che fosse una incarnazione del loro dio, avevano cercato a lungo le cause di quel deperimento. Ma un giorno una voce era venuta dalle basse pianure del delta di Saigon ed aveva detto qualche cosa.
Quella voce erasi a poco a poco sparsa per la vallata raccontando che Tay-See, prima di diventare la moglie di Tay-Shung, aveva amato, ma di amore immenso, sconfinato, un uomo di razza bianca, uno spagnolo chiamato Josè e che questi pure innamorato di lei le aveva solennemente giurato di farla sua. Si diceva poi che quell'uomo, chiamato imperiosamente in patria, era partito promettendo di ritornare e di mantenere la fede giurata.
A quella prima voce si erano tenute dietro altre, e queste avevano narrato che il padre di lei, un fiero cocincinese nemico giurato della razza bianca, scoperto quell'amore, avesse brutalmente spezzato il giuramento sposandola a Tay-Shung mettendo per prezzo quaranta chiodi d'oro.
Ed ora si tornava a sussurrare che lo spagnolo era sbarcato nella Cocincina, che Tay-See ne era stata informata, e che la disgraziata, disperando ormai di diventare sua sapendosi vegliata dal generale, moriva lentamente di dolore...
E la storia era proprio vera!...
Quando Tay-Shung la vide apparire sulla porta dell'abitazione, scarna, pallida, come se le nere ali della morte l'avessero già toccata, cogli occhi incavati, provò uno stringimento doloroso al cuore. Egli l'abbracciò delicatamente e la guardò a lungo con uno sguardo innamorato, poi la baciò a più riprese sulla bocca.
— Tay-See, mia vaga Rosa del Dong-Giang! — esclamò egli con voce appassionata. — Lascia che io ti contempli, o mio vago fiorellino, lascia che io miri i tuoi occhi che sono più vividi degli astri più brillanti, che io respiri il tuo profumo più soave di quello del calambuc.[2] Mostrami il tuo sorriso, fammi vedere i tuoi dentini che sono più splendidi delle perle e che ti dica ancora una volta che io sono tuo schiavo e che ti adoro più del mio dio.
Tay-See rimase impassibile dinanzi al guerriero. L'espressione malinconica del suo visino si fece ancora più profonda, e dal petto le sfuggì un sordo gemito.
— Ah! Tu soffri, tu sei ammalata — disse Tay-Shung, con ispavento. — Dimmi cosa posso fare per te, divina creatura, per vederti un solo istante felice. Sai che tu mi strazi il cuore e che quasi mi fai piangere nel vederti sempre così? Sei ben cangiata dal giorno in cui partii per questa funesta guerra che insanguina il paese nostro. Perché? È forse il vento che viene dal paese dei visi bianchi che ha piegato il mio vago fiorellino? Maledetto vento, rugge sempre nel cuore tuo, dacché un viso bianco ha messo gli occhi su di te!
— Tay-Shung — balbettò ella con un filo di voce e con accento di mesto rimprovero.
— Sono pazzo, Tay-See, ma che vuoi, la collera mi prende talvolta e la gelosia mi rode il cuore. Dimmi, stai molto male?
— No, mio ong (signore).[3]
— Lascia il mio ong che non lo voglio più udire. Chiamami il tuo anh (fratello maggiore) che è mille volte più dolce dell'altro. Ma vieni, Rosa del Dong-Giang, rientra, che la notte non fa bene ai fiorellini delicati. Olà, Ca Bong, vieni a vuotare una zuppiera di nuoc narri che la nostra Tay-See sa farla meglio di tutti i cuochi di Tu-Duc, che Buddha lo conservi.
Entrarono in una stanza piuttosto vasta, elegantemente arredata, con all'intorno, lungo le pareti, strati di morbidissime e variopinte stuoie alti tre piedi e certe predelle pure coperte di stuoie. Nel mezzo si elevava una tavola stretta, alta quanto bastava per giungervi col petto sedendosi per terra, verniciata in nero, filettata d'argento e coperta da grandi zuppiere, di teiere, di chicchere e di tazze di porcellana di Ming color del cielo dopo la pioggia.
Negli angoli si vedevano eleganti sputacchiere, grandi scatole di lacca ricolme di noci di areche da masticare e, appese ai muri, pipe di svariate forme, sacchetti di ciandù (oppio) e parecchi strani amuleti quali pezzetti di huyen phach (ambra nera), pelli di ranhò (serpentelli gialli) e alcune ossa di kim-mau-cu-u (cani di razza gialla).
Uno schiavo siamese in un batter d'occhio allestì il pranzo, semplicissimo del resto, consistente in una zuppiera colma di riso ridotto in pasta, in un vaso di nuoc nam o salsa piccante, in un cay-ró-an-nam o cavolo palmista e the annacquato e senza zucchero.
Tay-Shung e Ca Bong, sedutisi per terra, si misero a lavorar di denti con grande appetito, lanciando di quando in quando uno sguardo su Tay-See, la quale si era seduta o meglio si era lasciata cadere sulle stuoie, conservando una immobilità quasi assoluta. Si avrebbe potuto crederla morta, tanto era pallida.
— Guardala, Ca Bong — disse Tay-Shung con tristezza, volgendosi verso il compagno. — È sempre così, sempre triste e taciturna. Ah! Sento che non possederò mai il suo cuore!
— Lo vedo, generale — rispose il luogotenente. — Si direbbe che il fiorellino a poco a poco appassisce.
— Ed io che l'amo tanto, mentre ella non ha mai detto una parola d'amore a me. Sono un maledetto, sono per lei il genio del male.
— E che vuoi farci? Ella è nata così e tale morrà: Buddha così ha voluto.
— In città tutti fanno festa ai superstiti della guerra, i guerrieri vengono in questo istante baciati ed abbracciati dalle loro donne, ed a me nemmeno un sorriso, nemmeno una parola — continuò Tay-Shung con maggior amarezza. — Mi sarei accontentato anche di un semplice sguardo e nemmeno questo ho ottenuto da quella donna che tanto adoro. Ah! Ca Bong, io perdo la speranza di essere un giorno amato da costei.
— Aspetta, aspetta ancora; il tempo, tu lo sai, rimargina anche le più orribili ferite.
— Non lo credo. Ella è stata stregata da un uomo che è venuto dal lontano occidente. Oh! Io questo lo so.
— Da un bianco dunque?
— Sì, da un bianco.
— Ma col tempo lo dimenticherà.
— La morte me la rapirà prima... Guarda come è pallida, Ca Bong; guarda il suo sguardo che va spegnendosi a poco poco. Se ella morrà, in quel dì si spegnerà pure la vita di Tay-Shung.
— Non dir questo, generale.
— Lo vedrai, Ca Bong.
Tay-Shung, che aveva finito di pranzare, si alzò, fece alcuni passi per la stanza, tenendo le braccia incrociate sul petto, poi fermandosi improvvisamente dinanzi alla Rosa del Dong-Giang:
— Tay-See, — disse con voce dolce, — ti ho portato un gioiello che è costato la vita ad un nemico della nostra patria.
La giovane si scosse, e aprì lentamente gli occhi fissandoli su quelli del generale.
— Guardalo!... — proseguì egli. — È il più bello che io abbia veduto da quando son nato.
Si slacciò la casacca di seta e trasse dal petto una splendida catena d'oro di una forma particolare, con in mezzo un medaglione su cui vedevansi alcune lettere ornate di brillanti.
— Prendi — disse.
Invece di avvicinarsi, Tay-See indietreggiò vivamente di alcuni passi, poi rimase immobile, come affascinata, cogli occhi sbarrati e fissi fissi sul gioiello.
— A chi l'hai presa? — balbettò finalmente, facendo uno sforzo supremo.
— Ad uno spagnolo alto sei piedi, che spacciai con un colpo di scimitarra sotto i bastioni di Saigon.
— Dove sono gli spagnoli? — chiese ella, con un tremito che non sapeva più dominare. — Dove sono?...
— I maledetti sono laggiù, alla foce del fiume.
— Ah!... — esclamò la giovane impallidendo. — Quella catena... la conosco... sì... è di Alvarado...
— Alvarado!... — gridò Tay-Shung. — Chi è quest'uomo? Come lo conosci tu? Tay-See, parla, parla!...
La Rosa del Dong-Giang lo guardò con smarrimento, poi rimettendosi:
— Era un amico di mio padre e di...
— Di chi?... — domandò il generale, con voce strozzata.
— Del mandarino di Tuan-Keou — balbettò ella.
Tay-Shung respirò come gli si fosse levato un gran peso che gravitavagli sul petto e si terse il freddo sudore che avevagli inumidita la fronte.
— Ah! Tu conoscevi quell'uomo?... — diss'egli. — Mi rincresce di averlo ucciso, ma egli era fra i nostri nemici. Prendi il gioiello che è davvero superbo. Domani, se verrai ad assistere al supplizio del prigioniero, tutte le donne di Bien-hoa te lo invidieranno.
— Un prigioniero!... Qual prigioniero?... — chiese ella con emozione.
— È uno di quelli che ci sconfissero alla foce del fiume e che era venuto a ronzare nei dintorni della nostra città. L'abbiamo pescato mentre stava per annegarsi, gettato ai pesci forse dai kemays che vegliano sulle rive.
— È... uno spagnolo?
— No, è un francese.
— Francese? E domani lo ucciderai?
— Lo farò combattere contro la tigre del mio amico Huthia.
— È un volerlo uccidere.
— E quanti dei nostri sono stati uccisi sotto Saigon da quei ladroni dell'estremo occidente — disse Tay-Shung, con odio profondo.
Tay-See stette un momento pensierosa guardando però fissamente il guerriero, poi disse:
— Voglio vederlo anch'io combattere colla tigre.
— Verrai, mia vaga Rosa, e io sarò felice di sedere al tuo fianco.
La notte era calata da qualche tempo e le tenebre più fitte avvolgevano le immense piantagioni, i boschi, il fiume e la cittadella.
La palla di rame vuota e traforata, che serve di orologio, quattro volte erasi riempita d'acqua e quattro volte era calata a picco dentro il bacino. Il gong della mezzanotte non doveva essere molto lontano.
Ognuno si ritirò nella propria stanza e Tay-See, giunta che fu nella sua, vagamente illuminata da una microscopica lampada cinese, arrestossi lungamente a guardare, ansante, pallidissima, trasfigurata, la brillante collana.
— È a Saigon! — balbettò. — Sì, è a Saigon, lo sento, il cuore me lo dice... Sì, sì, questa è la catena di Alvarado, il suo amico d'infanzia... Grande Buddha, lascia che io lo veda ancora una volta, per un momento, per un istante e poi... se vorrai... toglimi da questa terra... che non amo più.
Chinò il capo sul petto e due lagrime caddero dai suoi occhi.
Quella notte essa non dormì. Strane paure l'agitavano e provava di quando in quando delle scosse che la facevano sobbalzare.
Ogni tanto le sembrava udire la voce di Josè; a momenti di vederselo dinanzi agli occhi colle mani tese in atto supplichevole; a momenti, strana cosa, il sangue scorrevale più rapido nelle vene e si sentiva rivivere e ringiovanire...
All'alba i gong strepitavano da un capo all'altro della città e le chiarine e le trombe squillavano in tutti i quartieri, annunciando alla popolazione il supplizio del prigioniero.
Gli abitanti, avidi di sanguinosi spettacoli, si portavano in massa al recinto destinato pel combattimento, eretto durante la notte all'estremità settentrionale di Bien-hoa.
Vecchi che male si sostenevano, guerrieri, donne, fanciulli, fino dalle prime ore del mattino avevano preso d'assalto i dintorni. Tutti volevano vedere il nemico lottare contro la tigre; tutti volevano vedere il bianco spirare fra gli artigli della feroce belva.
Tay-Shung, decorato dei distintivi del suo grado, si affrettò ad entrare nella stanza di Tay-See. La povera Rosa del Dong-Giang, più pallida che mai, erasi di già abbigliata ponendosi la scintillante collana sul petto. Ella si sentiva invasa da una strana febbre, che la faceva tremare come in piena stagione delle piogge. Nondimeno si sentiva spinta da una forza misteriosa, irresistibile, ad accorrere al supplizio.
— Come stai, mio vago fiorellino? — chiese Tay-Shung, premurosamente ed abbracciandola con tenerezza.
— Mi sento bene, tanto bene — rispose ella con filo di voce.
— Non avrai paura della tigre?
— No, non ho paura. Andiamo, Tay-Shung, andiamo; voglio vedere il prigioniero.
Tay-Shung la fece appoggiare al suo braccio e uscirono seguiti da Ca Bong e da gran numero di guerrieri armati fino ai denti.
Man mano che si avvicinavano al recinto, Tay-See si sentiva venire meno le forze ed il cuore battere così fortemente da credere che si volesse spezzare. Invano cercava di indovinare la causa di quelle strane sensazioni; invano cercava di sembrare tranquilla; invano faceva appello a tutte le sue forze; invano cercava di calmare la febbrile ansietà che la divorava.
Quando vide il recinto e quando udì le urla feroci della folla agglomerata all'ingiro, provò un tremito tale che a Tay-Shung non isfuggì.
Egli la guardò e rimase atterrito della pallidezza di quel bel visino che era diventato più bianco di un giglio.
— Stai male, Tay-See? — chiese egli.
— No, Tay-Shung — rispose ella con voce soffocata.
— Tu sei pallidissima.
— Non è nulla.
— Ma tu tremi, fiorellino mio.
— È un po' di emozione e niente di più. Andiamo che io voglio vedere la tigre.
Erano giunti al recinto. Il generale fu accolto da un uragano di applausi e dai grandi dignitari della cittadella venne condotto in un elegante padiglione di seta azzurra, adorno di enormi gruppi di rose del Dong-Giang.
Il fuan fu, o capo della provincia, e gli altri capi si assisero attorno a lui ed a Tay-See, la quale non aveva più forza di reggersi, paralizzata da un misterioso terrore.
Tay-Shung tornò a guardare la compagna ed ebbe maggior paura nel vederla abbandonata, semisvenuta, sui guancialetti che le servivano da sedia.
— Ah! — esclamò egli. — Tu stai male, Tay-See, io lo vedo. Cos'hai, vago fiorellino?
Ella reagì contro quello strano malore e rialzandosi disse:
— Fa' suonare il pi.
Ad un cenno di Tay-Shung un trombettiere diede fiato all'istrumento. Quasi nel medesimo istante la gran gabbia, fino allora tenuta coperta, si aprì e una magnifica tigre balzò leggermente nella arena mandando un urlo potente, una specie di ruggito.
La folla l'accolse con frenetici e prolungati battimani.
— Avanti!... Avanti!... — balbettò Tay-See.
Un secondo squillo echeggiò a cui tenne dietro il più profondo silenzio. La giovane cocincinese volse il capo verso il piccolo padiglione guardato da parecchi guerrieri kemays nel quale stava il prigioniero, e senza sapere il perché chiuse gli occhi.
Quando li riaprì il prigioniero si trovava in mezzo al recinto, impugnando una larga sciabola, di fronte alla tigre che si preparava ad assalirlo.
Lo guardò un istante, poi scattò in piedi, mandò un urlo disperato, straziante, e cadde come fulminata.
Tay-Shung, atterrito, si era curvato verso la giovane moglie, gridando:
— Tay-See!... Grande Buddha!... è morta!...
Ca Bong accostò una mano sul cuore della povera Rosa del Dong-Giang e sentì che batteva debolmente.
— No, Tay-Shung, non è morta... — esclamò.
Nel medesimo istante la tigre si avventava contro il prigioniero il quale l'attendeva a pié fermo, colla scimitarra in pugno ed uno sprezzante sorriso sulle labbra.
Il prigioniero, che stava per combattere contro la tigre, era Josè!