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13.
I MIAO-TSE
Il Capitano era giunto all'accampamento verso il tramonto portando una mezza dozzina di schiavi d'acqua, alcune anitre e una mezza dozzina di tordi dal canto melodioso.
Egli li unì ai gamberetti raccolti dai compagni negli stagni che, a detta di Min-Sì, dovevano essere non meno eccellenti di quelli di Macao.
Il polacco, che accendeva il fuoco, fu sorpreso nel vedere il cacciatore ritornare senza il compagno.
– Sir James è forse occupato a rimorchiare un elefante? – chiese egli.
– No, – rispose il Capitano ridendo – è imbarazzato a venire avanti con un tapiro che giura d'aver ferito.
– Cospetto! Abbiamo delle costolette in vista. Se è così, possiamo aspettare un po'.
– Se aspetti le costolette del tapiro non cenerai più. Lo vedrai, tornerà tardi e senza una bistecca.
– Fuoco alla pentola, dunque.
– Bada che la cena sia abbondante giacché sfogherà il suo cattivo umore sulle anitre.
– Lasciate pensare a me, Capitano. Conosco la capacità di quel ventricolo.
Il bravo ragazzo, aiutato dal piccolo cinese, preparò un fuoco colossale e mise ad arrostire tanti uccelli e tante anitre da nutrire quindici persone. Anche la pentola ben piena di gamberi si mise a borbottare. Due ore dopo la cena era pronta, ma l'americano non si era fatto vivo.
Il pasto fu triste. Quell'assenza prolungata aveva finito col renderli tutti e tre inquieti.
Il Capitano, che sapeva essere la foresta popolata da non poche bestie feroci, avendone scorto le tracce, si spinse fino a mezzo chilometro dal campo sperando di raccogliere qualche rumore, qualche grido, qualche fucilata che segnalasse la presenza dell'americano, ma nulla udì. Chiamò a più riprese e pure chiamò il polacco, ma solo le urla delle fiere che vagavano sotto gli oscuri boschi risposero alle ripetute chiamate.
– Che gli sia toccata una disgrazia? – chiese il Capitano, che provò a quel pensiero una stretta al cuore.
– È impossibile – disse il polacco. – Un uomo come sir James, forte come un toro e coraggioso come un leone, non si lascia ammazzare.
– Ti credo, Casimiro, ma provo una forte angoscia. Se fosse vivo scaricherebbe la sua carabina, farebbe qualche segnale e invece nulla, assolutamente nulla.
– Non disperiamo, Capitano. Può essersi smarrito a dieci o quindici miglia di qui.
– Se si andasse a cercarlo? Amici miei!...
– Sarebbe una pazzia, Capitano. Dove volete dirigervi? E poi sotto le foreste fa molto scuro; aspettiamo l'alba.
– E vuoi che io lo lasci solo in mezzo alla foresta tutta la notte?
– E se perite anche voi, chi ci guiderà? Chi andrà a cercare la Scimitarra? Rimanete, Capitano, domani mattina andremo a trovarlo.
Il Capitano si arrese, ma rifiutò di prendere riposo e si sedette accanto al fuoco che andava spegnendosi. I suoi compagni si sdraiarono ai suoi fianchi. La notte la passarono in continue angosce. Sorgeva l'alba e l'americano non era ancora tornato.
Il Capitano e Casimiro, raccomandata la tenda al cinese, si cacciarono sotto i boschi, risoluti a trovarlo vivo o morto.
Il sole, che cominciava a diffondere una luce rossastra, agevolava la marcia dei due marinai, i quali non avevano bisogno di curvarsi per cercare le tracce dell'americano.
Trottavano da mezz'ora sul sentiero del tapiro gettando di quando in quando delle grida, alle quali rispondevano le fiere che affrettavansi a guadagnare le loro tane, allorché una fragorosa detonazione rintronò sotto le cupe vôlte di verzura. La riconobbero entrambi.
– La carabina di James! – esclamò il Capitano arrestandosi di botto.
– Sì, sì! – confermò il polacco. – È la sua arma, io la riconosco, la distinguerei fra mille.
Una seconda fucilata rombò destando l'eco della foresta. Era stata sparata a mezzo miglio di distanza.
– Corriamo, corriamo! – gridò Casimiro. – Bum! Una terza detonazione.
– Via, Casimiro, via! – esclamò il Capitano. – Forse giungeremo in tempo per salvarlo.
Si misero a correre verso il luogo ove era stata sparata la carabina. Andavano come il vento, saltando fossati e stagni, salendo e scendendo le ondulazioni del suolo, cacciandosi fra i cespugli senza badare alle spine, alle radici, ai rami che laceravano le loro mani e le loro vesti. La speranza di trovare il compagno ancor vivo metteva le ali ai loro piedi.
Ad un tratto, una chiamata giunse fino a loro.
– Mille tuoni! – gridò il polacco.
In due salti varcarono un fiumicello e sbucarono in una radura, in mezzo alla quale, ai piedi di un occhio di drago, l'americano, colle vesti a brani, lordo di sangue, orribilmente sfigurato, gemeva. Il Capitano gli si precipitò addosso stringendoselo al petto.
– James! James! Amico mio! – esclamò. – Siete tutto insanguinato!
L'americano si aggrappò al suo amico.
– Giorgio!... Casimiro!... Amici!... – balbettò. – Ah! Cane di un tapiro! Non ho più forze... sono rovinato.
– Ma cosa vi è accaduto? Chi vi ha ridotto in questo stato? Su, rispondete, cosa è successo?
– Che cosa mi è successo? Le tigri, Giorgio, le tigri.
Il poveretto non poté proseguire e cadde all'indietro semisvenuto.
I suoi compagni, vedendo che non si poteva farlo camminare, tagliarono in fretta una dozzina di rami, improvvisarono una barella, che resero soffice con una bracciata di foglie, e ve lo adagiarono prendendo la via dell'accampamento. Dovettero fermarsi parecchie volte per dare da bere al ferito, che sentivasi abbruciare da una fortissima febbre.
Malgrado i divieti del Capitano, in quelle brevi fermate l'americano narrò le avventure della notte e si sfogò contro le tigri con insulti e minacce.
– Guarirò, – diceva – e allora guai alle tigri! Farò una vera strage e mi ingrasserò colle loro carni.
Alle otto del mattino giungevano al campo. Il cinese, in un batter d'occhio, colle coperte preparò un soffice letto, vi stese sopra l'americano, lo denudò, ed essendo versato in medicina, esaminò attentamente le ferite.
– Ebbene? – chiese l'americano fissando i suoi occhi in quelli del piccolo cinese, come volesse leggergli ciò che pensava. – Che ti pare? Guarirò io?
– Ve l'avete cavata a buon mercato, – rispose Min-Sì, toccando le piaghe con la punta dell'indice – ma per un certo tempo non potrete muovervi.
– Per quanto? Di' su, cinese mio.
– Per otto giorni almeno.
– Eh! – esclamò l'americano impallidendo. – Otto giorni! Mi credi una femminuccia, medico di tisicuzzi?
– Che cattivo ammalato! – disse il cinese ridendo. – Brontolare per soli otto o dieci giorni di immobilità!
– Otto!... Dieci!... Se continui così mi farai stare a letto un mese. Ti pare? Condannare un uomo come me a soffocare otto giorni sotto questa tenda! Tu vuoi farmi crepare, birbante d'un cinese.
– Ma bisognerà rimanervi, se vorrete guarire, testardo americano – disse Giorgio.
– Ma otto giorni! È impossibile; alla prima occasione scapperò.
– Vi legheremo e metteremo una sentinella davanti alla tenda. Orsù, fate un po' di silenzio e lasciatevi medicare.
Il cinese si fece portare una pentola piena d'acqua fresca, vi sciolse il succo di alcune erbe efficacissime per combattere l'infiammazione e rimarginare le ferite, bagnò alcune pezzuole, pulì le ferite e le fasciò con ammirabile destrezza.
L'americano lasciò fare senza emettere un solo lamento, indi si cacciò sotto le coperte sperando l'indomani di alzarsi, a dispetto delle raccomandazioni dei compagni.
– Guarirà – disse il cinese udendolo russare tranquillamente. – Quell'uomo lì è di una robustezza fenomenale.
– È di ferro – disse il Capitano. – Sarebbe stata una grandissima disgrazia perdere un sì valoroso compagno.
– Speriamo che dopo una simile lezione non scherzi più colle tigri.
– Non hai udito quello che ha detto? Vuole sterminare tutte le tigri delle foreste.
– Non gliene lasceremo il tempo. Bisogna affrettarsi, Capitano, e riattraversare più presto che si può il Pe-Kiang. La stagione delle piogge è vicina.
– Troveremo ponti per passarlo?
– Lo attraverseremo presso le sorgenti; là non è molto largo.
L'americano non si svegliò che verso sera. Gli fecero una minestra con brodo di oca e un po' di riso spigolato in una piantagione, poi lo costrinsero a riaddormentarsi.
Durante la notte il Capitano, il polacco e il cinese vegliarono per tener lontane le belve che si aggiravano in gran numero per la pianura. Dovettero adoperare più volte il fucile, svegliando così l'americano, il quale, ad ogni detonazione, voleva slanciarsi fuori per ammazzare almeno una tigre.
Il 7 luglio, cioè quattro giorni dopo, l'americano era fuori di pericolo. Il 9 gli si permise d'alzarsi e di uscire dalla tenda a respirare una boccata d'aria.
Appena poté sedersi sull'erba, un tonante «oh!» gli uscì dalle labbra. Non gli pareva vero di aver lasciato «l'orrida prigione».
– La libertà, l'aria, la luce! – esclamò egli. – Che orribile tortura, amici miei, essere condannato a soffocare sotto una tenda! Un giorno ancora e io moriva asfissiato.
Vedendo una dozzina di costolette che arrostivano sui carboni, s'alzò per ammirarle più da vicino, ma dovette appoggiarsi ad un piolo della tenda. Un'esclamazione di rabbia gli sfuggì:
– Sono ubriaco forse? Eppure non ho bevuto una goccia di whisky.
Il Capitano si mosse per aiutarlo, ma venne respinto.
– Olà! – tuonò l'americano irritato. – Mi credete una femminuccia per offrirmi il braccio? Sono debole, lo confesso, ma la colpa non è mia, è vostra. Mi avete sottoposto ad una dieta che stremerebbe Ercole stesso, ma quando avrò messo sotto i denti quelle bistecche che stanno arrostendo, diventerò forte come un toro.
– Lo credete, James? – disse il Capitano ridendo.
– Cospetto! Sacco vuoto non sta in piedi e il mio sacco è perfettamente vuoto. Se i medici, invece di raccomandare la dieta, ordinassero ai malati dei beef-steak e delle bottiglie di whisky, guarirebbero tutti in una sola giornata.
– Che sia vero, sir James? – chiese il polacco, ritirando dal fuoco le costolette.
– Ma sicuro, ragazzo mio. Quando perderai un secchio di sangue ne farai la prova.
– Spero di non farla, sir James.
– Hai paura di perdere un po' di sangue?
– Ho paura degli artigli delle belve.
– Peuh! – fe', l'americano alzando le spalle. – Le belve mi fanno ridere e vedrai, ragazzo, che strage di tigri farò io.
– Non vi è passata la voglia di cacciare, dunque?
– Tutt'altro, Casimiro. Quando saremo giunti nell'Yun-Nan, ammazzerò tante tigri e tanti tapiri quanti sono i capelli che ho in testa.
– Al diavolo i tapiri! – esclamò il Capitano. – Da tre settimane non sognate che tapiri, eppure hanno una carnaccia più coriacea di quella d'un mulo di quarant'anni. Lasciate là le bestie, ora, e date un colpo di dente a queste costolette.
– Fate un po' di posto al povero dissanguato, dunque. Farò una indigestione di carne.
Ognuno si assise dinanzi alle costolette che fumavano su di un bel piatto di foglie, esalando un profumo che aguzzava straordinariamente l'appetito. L'americano si mise a lavorar di mascelle con un'avidità tale da spaventare; il suo stomaco pareva proprio che non avesse fondo. Se non fosse stato ammalato, avrebbe senza dubbio divorato altre dieci costolette. Calcolando di mettersi in cammino la domane si affrettarono a cacciarsi sotto la tenda. Il polacco montò pel primo la guardia, sdraiandosi a poca distanza dal fuoco.
Dovevano essere le undici, quando la sua attenzione fu attirata da un lontano scalpiccìo. Alzatosi, con sua grande sorpresa vide staccarsi sul fondo azzurrognolo dell'orizzonte una bestia dalle forme veramente strane.
– Oh! – borbottò egli. – Che razza d'animale è mai quello là? Non mi sembra né un elefante né un rinoceronte.
Fu lì lì per dare l'allarme, ma si vergognò e si nascose fra le erbe colla carabina montata.
La grande ombra s'avvicinava con fantastica rapidità e di tratto in tratto emetteva un fischio che somigliava allo schioppettìo di una frusta.
– Oh! – ripeté ad un tratto il polacco scattando in piedi.
In quella massa oscura aveva riconosciuto un cavallo montato da un individuo munito di un lungo archibugio. Temendo d'aver a che fare con qualche miao-tse[1] alzò la carabina e lo prese di mira. Il bandito però aveva buoni occhi e stava in guardia; armò rapidamente l'archibugio e sparò. La palla fischiò vicino agli orecchi del polacco, il quale si mise a urlare con quanto fiato aveva in corpo:
– All'armi! I banditi!
I suoi compagni si precipitarono fuori della tenda. Il Capitano, vedendo il bandito galoppare a centocinquanta passi di distanza, gli sparò addosso. Si udì un grido terribile e cavallo e cavaliere caddero scomparendo fra i cespugli.
– Che vuol dir ciò? – chiese l'americano.
– Abbiamo da fare coi miao-tse – balbettò Min-Sì che tremava di paura.
– Miao-tse o tonchinesi, avanti! – comandò il Capitano impugnando la pistola. – Laggiù qualcuno si lagna e forse sta spirando.
Dei gemiti infatti s'alzavano da una macchia di cespugli. I quattro accampati, credendo di non aver nulla da temere, si slanciarono verso quel luogo, ma con loro grande sorpresa non trovarono che il solo cavallo, il quale dibattevasi negli ultimi aneliti.
– È strano – disse l'americano che aveva fatto il giro della macchia. – Dove è fuggito il birbone? Olà, amici, aprite per bene gli occhi.
– Guarda alle spalle! Guarda! – gridò in quello stesso istante Casimiro.
Una scarica d'archibugi rintronò fra le tenebre, seguita da clamori assordanti.
In mezzo ad una nube di fumo, furono visti quindici o sedici cavalieri arrivare come un uragano presso la tenda, balzare a terra, prendere il meglio che conteneva, risalire a cavallo, allontanarsi e scomparire prima che i viaggiatori avessero avuto il tempo di mettere mano alle armi.
Note
- ↑ I cinesi selvaggi che abitano le frontiere settentrionali del Kuang-Si.