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5.
IL SI-KIANG
All'indomani, al primo raggio di sole che penetrò attraverso le persiane, il Capitano saltava giù dal graticcio, pronto a dare il segnale della partenza. Vedendo che i suoi compagni dormivano, aprì la finestra per dare uno sguardo al paese circostante. Il sole, che rapidamente s'alzava dietro una lontana catena di monti, versava su quelle fertili terre del Celeste Impero una pioggia di raggi infuocati che spiccavano vivamente sul verde cupo delle boscaglie e delle piantagioni.
La fiumana, che scendeva dall'ovest ingrossata dal Pe-Kiang, scorreva maestosamente fra macchioni di bambù, d'indaco, di tamarindi, di gelsi e di mangostani, lambendo talora vaghi villaggi coi villini dalle smaglianti tinte e dai tetti acuminati e ornati di porcellana a riflessi dorati.
Il Capitano volse uno sguardo alla giunca che sembrava, colla bianca vela e coll'albero, una balenottera rovesciata col ventre in su ed un immane rampone profondamente infissovi. I barcaioli dormivano ancora; il trattore invece era in piedi e si udiva chiacchierare co' suoi dipendenti.
– Benone – mormorò Giorgio.
Rientrò mandando un fischio. Il polacco ed il cinese saltarono in piedi. L'americano stirò le braccia, sbarrando la bocca in modo da fare invidia a un pescecane.
– Sbrighiamoci, amici – disse il Capitano. – Oggi navigheremo sul Si-Kiang.
– Si-Kiang! – esclamò lo yankee, stropicciandosi le mani. – Ah, il bel fiume! Sapete, Giorgio, che io sono impaziente di giungere a questo corso d'acqua che i cinesi chiamano pomposamente Fiume delle Perle? Olà, Casimiro, non ti senti commuovere a questo nome? Fiume delle Perle! Ciò ha un bel significato!
– Che intendete dire? – chiese il polacco, che caricava flemmaticamente la sua nera pipa.
– Intendo dire che noi faremo una bella fortuna.
– Raccogliendo l'acqua del fiume, forse? In fede mia, non saprei che farne.
– Raccogliendo acqua! Perle, ragazzo mio, delle vere perle. Vuoi tu che quegli animali dagli occhi obliqui l'abbiano chiamato Fiume delle Perle per capriccio?
Il Capitano e il polacco scoppiarono in uno scroscio di risa. L'americano li guardò attonito.
– Ho detto qualche bestialità? – chiese egli.
– No, – rispose Giorgio – ma vi consiglio di non pescare nel fiume, a meno che vi piaccia caricarvi di ciottoli.
– Tuoni e fulmini! Che i cinesi siano stati sì stupidi da dare il nome di Fiume delle Perle ad un corso d'acqua che non ne ha? Ed io che contavo di caricare la giunca di...
– Ciottoloni – s'affrettò a dire il polacco. – Ah, sir James, vi accontentate ben di poco!
– Sì, burlone – rispose l'americano, che non trovava di meglio che smascellarsi dalle risa. – Briganti di cinesi! Ecco un altro dei loro tiri; ma mi rifarò con i birmani. Vedrai, ragazzo mio, che in Birmania accumuleremo tanti danari da comperare mezza Canton.
– Corpo d'una pipa rotta! – esclamò il polacco. – Avete trovato qualche ricchissima miniera sulla carta geografica della Birmania, o contate di pescare dei diamanti nell'Irawaddy?
– O pensate di saccheggiare tutti gli orefici di Amarapura? – chiese Giorgio.
– Non pensiamoci per ora – disse l'americano con aria di mistero. – Quando saremo laggiù ne parleremo.
Gli avventurieri si caricarono delle armi e dei viveri e discesero al pianterreno. Il trattore e i suoi servi li attendevano facendo bollire l'acqua pel thè.
– Ecco un bravo cinese! – esclamò l'americano, scuotendo vigorosamente il trattore. – Qua la tua zampa, valentuomo.
Fece crocchiare la mano che il cinese, molto stupito, gli porgeva, poi si tirò dinanzi una dozzina di tazzine ricolme di fumante thè, vi cacciò dentro una manata di biscotti che si mise a divorare, dimenticando i tesori della Birmania e le perle del Si-Kiang.
– Mi sembra, James, che le emozioni del viaggio aguzzino straordinariamente il vostro appetito – disse il Capitano. – Se continuate così, ci vuoterete i sacchi prima di giungere a Tchao-King.
– Li riempiremo con eccellente selvaggina – rispose il ghiottone, che aveva gettato sulla tavola una seconda, poi una terza e finalmente una quarta manata di biscotti. – M'incarico io di empire il battello.
Vuotate le tazze e pagato lo scotto, abbandonarono la capanna e si diressero verso la giunca, dinanzi alla quale il pilota Luè-Koa e i suoi battellieri terminavano di vuotare una gran zuppiera colma di riso condito con olio di pesce.
– Levati, Luè-Koa del mio cuore, e spiega la vela – disse l'americano. – Se sarai buono, questa sera mangerai una schidionata di uccelli.
Luè-Koa, brontolando, si alzò e fece spiegare la vela. Bianchi e cinesi s'imbarcarono e la giunca prese il largo rasentando la costa dell'isolotto che forma due canali ben definiti, l'uno al nord e l'altro al sud. Oltrepassato quel brano di terra, sul quale numerosi pescatori cacciavano il pesce con piccole fiocine, il battello entrò a tutta velocità nell'ultimo braccio del fiume che mena direttamente al Si-Kiang. I quattro avventurieri, assisi a prua, riparati dai cocenti raggi del sole da una piccola tenda e dai loro cappelli di rotang, osservavano con viva curiosità il paese circostante. Le due rive del canale, che di fronte all'isolotto vanno restringendosi a mo' di collo di bottiglia, cominciavano ad allargarsi formando un piccolo lago. Qua e là scorgevansi superbe piantagioni, piccole paludi sulle quali volteggiavano stormi d'uccelli acquatici, e di tratto in tratto graziosi tempietti specchiavansi nelle tranquille acque, capanne e capannucce e tettoie ingombre di balle di thè, pronte ad essere imbarcate sui pan-mi-ting o sui ch'a ting.
Uomini e donne non mancavano, sparsi sulle rive o in mezzo alle piantagioni, chi occupati a pescare e chi a coltivare le terre o a raccogliere le frutta, tutti colla testa coperta da immensi cappellacci di bambù o di rotang, dal disotto dei quali sfuggivano lunghe code che spesso giungevano fino a terra.
Verso le nove del mattino, il Capitano, che osservava minutamente il paese, mostrò ai suoi compagni la cittadina di Samschui, situata sulla riva sinistra del fiume, addossata a numerosi boschetti. Essa spiccava vivamente colle sue abitazioni dipinte a forti colori, coi suoi acuminati tetti adorni di banderuole dorate e di grandi antenne rosse. La giunca attraversò celermente la doppia linea di barche ancorate dinanzi allo scalo e risalì la corrente che andava stringendosi fra due rive boscose. Luè-Koa si alzò in piedi per meglio dirigere la sua barca.
Ben presto la corrente diventò rapidissima, sbucando irata fra tre isole, frangendosi furiosamente contro la giunca che rollava vibrando formidabili testate a destra e a manca. Giorgio, l'americano e il polacco si spinsero a prua per meglio assistere all'unione delle due fiumane, il Si-Kiang che scende dall'ovest, e il Pe-Kiang dal nord.
– Animo, Luè-Koa! – gridò l'americano. – Forza, barcaioli.
– Silenzio! – intimò il cinese. – Lasciate che i miei uomini ubbidiscano solamente ai miei ordini.
I remiganti, curvi sulle pagaie, spinsero la barca sotto le tre isole che formano una specie di barriera all'impeto della corrente. Tenendosi sotto di esse, la giunca salì fino alla confluenza e sbucò nelle acque del Si-Kiang e del Pe-Kiang che scendevano di comune accordo verso il mare. In quel medesimo istante il polacco additò alcuni pescatori che tendevano le reti su alcune isolette. Il Capitano, temendo che riconoscessero in lui e nei suoi compagni degli stranieri, comandò di ritirarsi nel casotto.
– Temete che ci facciano qualche brutto tiro? – chiese l'americano.
– Sì, James – rispose il Capitano. – Mi è sembrato di vedere Luè-Koa fare un cenno al capo di quegli uomini.
L'americano ubbidì e si ritirò sotto il casotto, mentre la giunca avvicinavasi ai pescatori.
Quegli uomini erano veri cinesi e non più di dodici. Piccoli, ma robusti, avevano la faccia larga, gli zigomi alti, il mento corto, il naso schiacciato, gli occhi obliqui e la tinta d'un giallo scuro. La maggior parte erano seminudi e vociferavano orribilmente, agitando minacciosamente le ciang-sciang, specie di picche delle quali si servivano per infilzare i pesci.
– Che cos'è tutto questo baccano? – chiese James, che non poteva starsene quieto. – Che abbiano delle idee bellicose?
– Stiamo a vedere – disse il Capitano, che per precauzione armò la sua carabina.
– Non temete nulla, Capitano – disse Min-Sì. – Sono troppo pochi per assalire una giunca montata da tre bianchi. Dite però a Luè-Koa di tenersi lontano dagli isolotti.
– Ehi, Luè-Koa, dove guidi la giunca? – gridò Giorgio. – Prendi il largo.
– Andiamo a comperare del pesce – rispose il pilota. – Mi hanno fatto vedere delle grosse trote e potremo acquistarle con pochi sapeke.
– Non sappiamo che farne.
– Tanto peggio! – esclamò il pilota. – Se vi accadono dei malanni sarà colpa vostra.
– Ehi, buffone! – tuonò l'americano. – Se non taci ti rompo una costola.
Luè-Koa capì che non bisognava scherzare e spinse la giunca al largo. I pescatori si misero tosto a urlare, a ingiuriare, a minacciare, e qualcuno alzò la fiocina mirando ai barcaioli.
L'americano saltò fuori dal casotto con la carabina in mano, mentre Luè-Koa cercava di arenare la giunca sulla riva opposta, probabilmente per dar tempo ai pescatori di attraversare il fiume. Il Capitano però, che stava in guardia, si slanciò contro il birbone, lo respinse e s'impadronì del remo.
– James, – gridò – tenete a bada i tan-kia, e tu, Casimiro, punta il fucile su pei pirati.
Con un colpo di remo rimise sulla buona via la giunca, la quale, spinta da un buon vento, filò verso l'alto corso del fiume. I pescatori, furibondi di vedersi sfuggire quella preda che ormai credevano sicura, raddoppiarono gli urli, e una decina di sassi cadde sul casotto ferendo un battelliere.
– Fuoco! – gridò l'americano.
Il polacco scaricò la sua carabina contro la banda, che prontamente si disperse. L'americano, per incutere maggior spavento, scaricò le sue pistole.
– Che coraggiosi! – esclamò lo yankee, che dolevasi di non aver ammazzato qualcuno di quei pescatori. – Ditemi, Giorgio, sono pirati quei buffoni?
– Lo credo, James.
– Avevano forse l'intenzione di assalire la giunca?
– Se l'avessero potuto! Domandatelo a Luè-Koa cosa ne pensa – disse abbandonando il remo al cinese. – Non è vero, pilota, che quelli là erano pirati belli e buoni?
– Potrebbe darsi – rispose egli tranquillamente. – È cosa naturalissima che sui fiumi cinesi ci siano dei pirati cinesi.
– Come è cosa naturalissima che il pirata Luè-Koa conosca i pirati del Si-Kiang – aggiunse l'americano.
– Il pirata Luè-Koa? – esclamò il pilota digrignando i denti.
– Sì, mio caro muso giallo. Dite a Min-Sì che narri le meravigliose imprese di Luè-Koa nell'alto corso del Si-Kiang.
Il cinese diventò verde come un ramarro, ma non rispose. Si accomodò gli occhiali, ai quali mancavano le lenti e tagliò netto il corso mettendosi a cantare l'inno in onore degli antenati:
See hoang sien tjù ling tien...[1]
Verso sera la giunca, dopo aver percorso più di novanta miglia, approdava alla riva sinistra del Si-Kiang. I barcaioli si misero all'opera per preparare la cena; il polacco e Min-Sì entrarono nelle risaie sperando di abbattere qualche fagiano dorato, e l'americano risalì la sponda per un centinaio di passi, mettendosi a frugare fra le sabbie del fiume con una lunghissima canna. Il Capitano, fatto il punto, si affrettò a raggiungerlo.
– Orsù, James – gridò egli – che fate? Scandagliate la profondità del fiume?
– Oibò! – esclamò l'americano. – Cerco le mie perle, ma finora non trovo che dei sassi che minacciano di spezzarmi la rete.
– E che, vi siete munito persino di una rete?
– S'intende, per venire a pescare le perle del Si-Kiang.
– Povero amico, potevate farne a meno.
– Lo vedo, pur troppo! Ma mi rifarò coi birmani.
– Se ci spingeremo fino in Birmania. Possiamo trovare la Scimitarra di Budda a Yuen-Kiang.
– Sarebbe una vera disgrazia, ma... Toh, che profumo viene dall'accampamento? Laggiù arrostiscono dei beef-steak.
– Hum! Ne dubito assai – disse il Capitano.
– Perché?
– In Cina è difficile avere un beef-steak.
– Non hanno buoi i cinesi?
– Sì, e tanti da nutrire per un discreto numero di anni le due Americhe, ma non li adoperano che per l'agricoltura.
– Sicché i cinesi non fanno mai grandi pranzi.
– V'ingannate di grosso, James. Non crediate che i cinesi mangino solamente il riso.
– Non dico questo, ma mangeranno certo delle castagne d'acqua, delle uova di piccione, delle salse, ecc., tutta roba che non vale un sanguinolento beef-steak.
– E le oche, e le anitre, e i cani, e i topi, e i nidi di rondini salangane...
– Dei nidi! – esclamò l'americano sbarrando gli occhi. – Dei nidi di rondini, avete detto?
– Sì, dei veri nidi.
– E i cinesi li mangiano?
– E come! Ne sono assai ghiotti e li pagano anche molto.
– Ma di che sono fatti?
– Ve lo dico subito. Lungo le spiagge della Cina e della Malesia, fra le rupi, gli scogli elevati e dentro le caverne, si trovano dei nidi costruiti da certi uccelli marini, grossi come una rondine, chiamati salangane. Questi nidi, formati di certe sostanze che gli uccelli raccolgono sul mare, sono gelatinosi e, quantunque senza sapore, sono assai sostanziosi, efficacissimi a ristorare le persone infiacchite dalle malattie e dagli stravizzi. E vi dirò che costano tanto, che il proprietario di una caverna di Giava, ne ricava 50.000 fiorini all'anno.
– In fede mia, bella somma! Non ci racconterete delle frottole, eh?
– Alla prima occasione vi farò assaggiare quei nidi.
– By-God! – esclamò l'americano dimenando le mascelle. – Con questi discorsi mi avete messo indosso una fame da antropofago.
– Andiamo a cena, James.
Proprio in quell'istante venivano raggiunti dal polacco e dal cinese, entrambi carichi come muli di oche e di anitre. Tutti e quattro si diressero verso il campo, ma con loro indicibile sorpresa non videro i barcaioli. L'americano, senza saperne il perché, provò una stretta al cuore.
– Che si siano addormentati senza aspettarci? – disse il Capitano. – Toh, guardateli laggiù, aggruppati in mezzo alle erbe.
– In una posa che fa venire i brividi – disse l'americano. – Ma non sono morti, non udite che russano?
Infatti i sei tan-kia e il loro capo, aggruppati in mezzo alle erbe l'uno sull'altro, russavano sonoramente e balbettavano delle parole, di cui una colpì l'americano.
– Whisky! – esclamò egli atterrito. – Che abbiano bevuto il mio whisky?
Si precipitò verso la tenda e trovò le sei bottiglie a terra vuote affatto, e la cena per tre quarti divorata.
– Ah, briganti! – esclamò. – Si sono ubriacati col mio whisky!
– Corpo d'una pipa! – esclamò il polacco. – Siamo rovinati.
– Vieni qui, Casimiro, che facciamo una marmellata di questo cane di Luè-Koa.
L'americano, furibondo, si mise a distribuire calci a quegli ubriachi, che non si mossero nemmeno.
– Calma, James – disse il Capitano intervenendo.
– Ma non vedete che le bottiglie sono vuote?
– Le riempiremo a Tchao-King.
Ci volle molto a calmare il bollente americano, il quale non tacque se non quando Casimiro ebbe arrostita una mezza dozzina di oche. Il ghiottone, bene o male, ne insaccò due nel suo stomaco di Gargantua.
Alla mezzanotte i quattro avventurieri si sdraiarono sotto la tenda, mentre la luna alzandosi dietro le foreste veniva ad illuminare in pieno giorno la superba fiumana.
Note
- ↑ Quando ripenso ai miei antenati, mi sento sollevare fino al cielo.