< La Secchia rapita
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Canto secondo
Canto primo Canto terzo

la


SECCHIA RAPITA


CANTO SECONDO.

________


ARGOMENTO.


Mandano i Bolognesi ambasciatori
     Due volte a dimandar la Secchia invano:
     Onde con fieri ed ostinati cori
     4S’armano quinci e quindi il monte e ’l piano.
     Chiamano Giove a concilio i Dei minori.
     Contendono fra lor Marte e Vulcano:
     Venere si ritira e si diparte,
     8E ’n terra se ne vien con Bacco e Marte.

I.1


Già il quarto dì volgea che vincitori
     Dier la rotta ai Petroni i Gemignani;
     E per l’ira che ardea ne’ fieri cori,
     12Restavano anco i morti in preda ai cani:
     Quando in Modana entrar due ambasciatori
     Con pacifici aspetti e modi umani;
     E smontati al Monton col vetturino,
     16Chiesero all’oste s’egli avea buon vino.

II.


Indi un messo spedir per impetrare
     Che l’ordine ch’avean fosse ascoltato.
     Cominciò il campanaccio a dindonare,
     20E in un momento s’adunò il senato.
     Andar gli ambasciadori ad onorare
     Alessandro Fallopia e Gaspar Prato;
     E li condusser per diritta strada
     24Alla sala ove il duca or tien la biada.2


III.


Un vecchio ranticoso affumicato,
     Pallido e vizzo, che parea l’inedia,
     E per forza tener co’ denti il fiato,
     28E potea far da Lazzaro in commedia;
     Poichè due volte intorno ebbe mirato,
     Incominciò così dalla sua sedia:
     Messeri, io son Marcel di Bolognino,
     32Dottor di legge e conte palatino.

IV.


Il mio collega è conte e cavaliero,
     E Ridolfo Campeggi è nominato.
     Io son uomo di pace, egli è guerriero;
     36Io lettor dello studio, egli soldato.
     Or l’uno e l’altro ha qui per messaggiero
     Il nostro reggimento a voi mandato,
     Per iscusarsi del passato eccesso
     40Che ’l popol nostro ha contra voi commesso.

V.


Il popol nostro è un popol del demonio,
     Che non si può frenar con alcun freno;
     E s’io non dico il ver, che san Petronio
     44Mi faccia oggi venir la vita meno.
     Sarà il collega mio buon testimonio,
     Che quando l’altra notte ei passò il Reno,
     Fu mera invenzíon d’un seduttore,
     48Nè il reggimento n’ebbe alcun sentore.

VI.


Ma non si può disfar quel ch’è già fatto.
     D’ogni vostro disturbo assai ne spiace;
     E siam venuti qua per far riscatto
     52De’ morti nostri, e ad offerirvi pace:
     Ma vogliam quella Secchia ad ogni patto,
     Che ci rubò la vostra gente audace;
     Perchè altramente andria ogni cosa in zero,
     56E ci scorrucceremmo daddovero.


VII.


Qui chiuse il Bolognino il suo sermone;
     E rise ognun quanto potea più forte.
     Era capo di banca un Rarabone
     60Dal Tasso, arcidottor cavato a sorte.
     Per soprannome gli dicean Tassone,
     Perch’era grosso e avea le gambe corte.
     Questi, poichè ’l Senato in lui s’affisse,
     64Compose il volto, e si rivolse, e disse:

VIII.


Che ’l vostro reggimento abbia mandati
     Due personaggi suoi sì principali
     A scusarsi con noi de’ danni dati,
     68E a condolersi de’ passati mali;
     Nostra ventura è certo, e registrati
     Ne fieno i nomi lor ne’ nostri annali.
     A noi ancora in ver molto dispiace
     72De’ vostri morti che Dio gli abbia in pace:

IX.


E se per sotterrargli or qui venite,
     La vostra ambascieria fia consolata.
     Ma quella pace che voi ci offerite
     76Col patto della Secchia, è un po’ intricata;
     E conviene aggiustar pria le partite
     Con cui voi dite che ve l’han rubata;
     Perchè di secchie non abbiam bisogno,
     80E ci crediam che favelliate in sogno.

X.


Manfredi ch’era a quel parlar presente,
     Cavatosi il cappuccio, e in piè levato:
     Figlio è, disse, d’un becco, e se ne mente
     84Chi vuol dir ch’io la Secchia abbia rubato.
     Di mezzo la città nel dì lucente
     Io la trassi per forza in sella armato:
     E tornerò, se me ne vien talento,
     88Dov’è quel pozzo, e cacherovvi drento.


XI.


Siete mal informato, a quel ch’io veggio,
     Messer Marcello mio da un bolognino.
     Cappita (disse il cavalier Campeggio)!
     92Voi siete bravo come un paladino.
     Orsù, ripiglierem, ch’io me n’avveggio,
     Colle trombe nel sacco oggi il cammino;
     Ma, Gemignani miei, io vi protesto
     96Che ve ne pentirete assai ben presto.

XII.


Rispondeva Manfredi, e ne potea
     Seguir scandalo grave entro ’l senato,
     Se ’l Potta allor non vi s’interponea
     100Con modo imperíoso e volto irato.
     Taci, frasca merdosa, egli dicea;
     Che questo è ius antico inviolato,
     Che possa un messaggier dir ciò che vuole
     104Senza render ragion di sue parole.

XIII.


Così gli ambasciatori usciron fuore,
     Ed alla patria lor feron ritorno.
     La quale il Baldi, principal dottore,
     108Mandò con nuovi patti il terzo giorno;
     E la terra offería di Grevalcore,
     Se la Secchia tornava al suo soggiorno.
     Fu il dottor Baldi molto accarezzato,
     112E alle spese del pubblico alloggiato.

XIV.


Poscia di nuovo s’adunò il conseglio
     Dov’ egli fu introdotto il dì seguente.
     Il Baldi3 ch’era astuto come veglio,
     116E sapea secondar l’onda corrente,
     Incominciò: Signori, esempio e speglio
     D’onor e senno alla futura gente;
     Io rendo grazie a Dio, che mi concede
     120Di seder oggi in così degna sede.


XV.


E vengovi a propor cosa inudita,
     Che vi farà inarcar forse le ciglia.
     Giace una terra antica, e favorita
     124Delle grazie del cielo a maraviglia,
     Col territorio vostro appunto unita,
     E lontana di qua tredici miglia.
     Già vi fu morto Pansa; e dal dolore,
     128Nominata da’ suoi fu Grevalcore.

XVI.


Ancor dopo tant’anni e tanti lustri
     Il suo nome primier conserva e tiene.
     Furon già stagni, e valli ime e palustri;
     132Or son campagne arate e piagge amene:
     Non han però gli agricoltori industri
     Tutte asciugate ancor le natie vene;
     Ma vi son fondi di perpetui umori,
     136Che sogliono abitar pesci canori.

XVII.


Le Sirene de’ fossi, allettatrici
     Del sonno, di color vari fregiate,
     E del prato e dell’onda abitatrici,
     140Fanvi col canto lor perpetua state.
     I regni dell’aurora almi e felici
     Paiono questi, ove son genti nate,
     Che ne’ costumi e ne’ sembianti loro
     144Rappresentano ancor l’età dell’oro.

XVIII.


Or così degna terra e principale
     Vi manda ad offerir la patria mia,
     Se quella Secchia che toglieste a un tale
     148De’ nostri col malan che Dio gli dia,
     Quando i vostri l’altrier fer tanto male
     E sforzaron la porta che s’apría,
     Sarà da voi al pozzo rimandata
     152Pubblicamente, donde fu levata.


XIX.


Mentre vi s’offre la Fortuna in questo,
     Di cambiare una secchia in una terra;
     Ricordatevi sol, che volge presto
     156Il calvo a chi la chioma non afferra.
     Se non cogliete il tempo, i’ vi protesto
     Ch’avrete lunga e faticosa guerra:
     Nè potrete durare alla campagna;
     160Che s’armerà con noi tutta Romagna.

XX.


Qui tacque il Baldi; e nacque un gran bisbiglio,
     Nè fu chi rispondesse alcuna cosa:
     Ma si conobbe in un girar di ciglio,
     164Che la mente d’ognuno era dubbiosa.
     Alfin per consultare ogni periglio,
     E non urtare in qualche pietra ascosa,
     Fecero al Baldi dir ch’era presente,
     168Ch’avrebbe la risposta il dì seguente.

XXI.


Il dì che venne, il cambio fu approvato,
     E disser che la Secchia eran per darla,
     Sottoscritto il contratto e confirmato,
     172A qualunque venisse a ripigliarla;
     Perch’altramente non volea il senato
     Con atto indegno al pozzo ei rimandarla;
     Che in questo il reggimento era in errore,
     176Se credea di dar legge al vincitore.

XXII.


Il Baldi si scusò che non avea
     Ordine d’alterar la sua proposta;
     Ma che l’istesso giorno egli volea
     180Ritornare a Bologna per la posta:
     E se ’l partito alla città piacea,
     Avrebbe rimandato un messo a posta.
     Così conchiuso, il Baldi fe’ ritorno;
     184Nè si seppe altro fino al terzo giorno.


XXIII.


Il terzo dì, ch’ognun stava aspettando
     Che non avesse più la pace intoppo,
     Eccoti un messaggier venir trottando
     188Sopra d’un vetturin spallato e zoppo:
     E tratta fuori una protesta o un bando,
     L’affisse al tronco d’un antico pioppo
     Che dinanzi alla porta di sua mano
     192Avea piantato già san Gemignano.

XXIV.


Dicea la carta: Il popol bolognese
     Quel di Modana sfida a guerra e morte,
     Se non gli torna in termine d’un mese
     196La Secchia che rubò sulle sue porte.
     Affisso il foglio, subito riprese
     Il suo cammin colui, spronando forte
     Quel tripode animale; e in un momento
     200Parve che via lo si portasse il vento.

XXV.


Qual resta il pescator che nella tana
     Mette la man per trarne il granchio vivo,
     E trova serpe o velenosa rana,
     204O qualsivoglia altro animal nocivo:
     Tal la gente del Potta altera e vana,
     Trovar credendo un popolo corrivo;
     Quando sentì quella protesta, tutta
     208Raggrinzò le mascelle e si fe’ brutta.

XXVI.


Ma come ambizíosa per natura,
     Dissimulando il naturale affetto,
     Mostrò di non curar quella scrittura,
     212E le minacce altrui volse in diletto.
     Non ristorò le ruinate mura,
     Non cavò delle fosse il morto letto;
     Nè di ceder mostrò sembianza alcuna
     216Alla forza nimica o alla fortuna:


XXVII.


Ma scrisse a Federico in Alemagna,
     Quant’era occorso; e di suo aiuto il chiese.
     La milizia del pian, della montagna
     220A preparar segretamente attese;
     Fe’ lega per un anno alla campagna
     Col popol parmigian, col cremonese;
     Scrisse nella città fanti e cavalli:
     224Indi tutta si diede a feste e balli.

XXVIII.


La Fama intanto al ciel battendo l’ali,
     Con gli avvisi d’Italia arrivò in corte;
     Ed al re Giove fe’ sapere i mali
     228Che d’una Secchia era per trar la sorte.
     Giove che molto amico era ai mortali,
     E d’ogni danno lor si dolea forte;
     Fe’ sonar le campane del suo impero,
     232E a consiglio chiamar gli Dei d’Omero.

XXIX.


Dalle stalle del ciel subito fuori
     I cocchi uscir sovra rotanti stelle,
     E i muli da lettiga, e i corridori
     236Con ricche briglie e ricamate selle.
     Più di cento livree di servidori
     Si videro apparir pompose e belle,
     Che con leggiadra mostra e con decoro
     240Seguivano i padroni a concistoro.

XXX.


Ma innanzi a tutti il Principe di Delo
     Sopra d’una carrozza da campagna
     Venía correndo e calpestando il cielo
     244Con sei ginnetti4 a scorza di castagna.
     Rosso il manto, e ’l cappel di terziopelo,5
     E al collo avea il toson del re di Spagna:
     E ventiquattro vaghe donzellette
     248Correndo gli tenean dietro in scarpette.


XXXI.


Pallade sdegnosetta e fiera in volto,
     Venía su una chinéa6 di Bisignano;
     Succinta a mezza gamba, in un raccolto
     248Abito mezzo greco e mezzo ispano:
     Parte il crine annodato e parte sciolto
     Portava, e ne la treccia a destra mano
     Un mazzo d’áironi7 alla bizzarra,
     252E legata all’arcion la scimitarra.

XXXII.


Con due cocchi venía la Dea d’Amore:
     Nel primo er’ ella e le tre Grazie e ’l Figlio,
     Tutto porpora ed or dentro e di fuore,
     256E i paggi di color bianco e vermiglio:
     Nel secondo sedean con grand’onore
     Cortigiani da cappa e da consiglio,
     Il braccier della Dea, l’aio del Putto,
     260Ed il cuoco maggior mastro Presciutto.

XXXIII.


Saturno, ch’era vecchio e accatarrato,
     E s’avea messo dianzi un serviziale,
     Venía in una lettiga riserrato,
     264Che sotto la seggetta avea il pitale.
     Marte sopra un cavallo era montato,
     Che facea salti fuor del naturale:
     Le calze a tagli, e ’l corsaletto indosso,
     268E nel cappello avea un pennacchio rosso.

XXXIV.


Ma la Dea delle biade, e ’l Dio del vino
     Venner congiunti e ragionando insieme.
     Nettun si fe’ portar da quel Delfino
     272Che fra l’onde del ciel notar non teme:
     Nudo, algoso e fangoso era il meschino;
     Di che la Madre ne sospira e geme,
     Ed accusa il Fratel di poco amore,
     276Che lo tratti cosí da pescatore.


XXXV.


Non comparve la vergine Díana;
     Che levata per tempo, era ita al bosco
     A lavare il bucato a una fontana
     280Nelle maremme del paese tosco;
     E non tornò, che già la tramontana
     Girava il carro suo per l’aer fosco.
     Venne sua Madre a far la scusa in fretta,
     284Lavorando sui ferri una calzetta.

XXXVI.8


Non intervenne men Giunon Lucina;
     Che il capo allora si volea lavare.
     Menippo sovrastante alla cucina
     288Di Giove, andò le Parche ad iscusare,
     Che facevano il pan quella mattina,
     Indi avean molta stoppa da filare.
     Sileno cantinier restò di fuori,
     292Per innacquar il vin de’ servidori.

XXXVII.


Della reggia del ciel s’apron le porte;
     Stridon le spranghe e i chiavistelli d’oro:
     Passan gli Dei dalla superba corte
     296Nella sala real del concistoro.
     Quivi sottratte ai fulmini di Morte,
     Splendon le ricche mura e i fregi loro:
     Vi perde il vanto suo qual più lucente
     300E più pregiata gemma ha l’Oríente.

XXXVIII.


Posti a seder ne’ bei stellati palchi
     I sommi Eroi de’ fortunati regni,
     Ecco i tamburi a un tempo e gli oricalchi
     304Dell’apparir del Re diedero segni.
     Cento fra paggi e camerieri e scalchi
     Venieno, e poscia i proceri più degni;
     E dopo questi Alcide colla mazza,
     308Capitan della guardia della piazza:


XXXIX.


E come quel ch’ancor della pazzía
     Non era ben guarito intieramente;
     Per allargare innanzi al Re la via,
     312Menava quella mazza fra la gente,
     Ch’un imbríaco Svizzero paría
     Di quei che con villan modo insolente
     Sogliono innanzi ’l Papa il dì di festa
     316Rompere a chi le braccia, a chi la testa.

XL.


Col cappello di Giove e con gli occhiali
     Seguiva indi Mercurio, e in man tenea
     Una borsaccia dove de’ mortali
     320Le suppliche e l’inchieste ei raccogliea:
     Dispensavale poscia a due pitali
     Che ne’ suoi gabinetti il Padre avea,
     Dove con molta attenzíone e cura
     324Tenea due volte il giorno segnatura.

XLI.


Venne alfin Giove in abito divino,
     Delle sue stelle nuove incoronato;9
     E con un manto d’oro ed azzurrino,
     328Delle gemme del ciel tutto fregiato.
     Le calze lunghe avea senza scappino,
     E’l saio e la scarsella di broccato:
     E senza rider punto, o far parola,
     332Andava con sussiego alla spagnuola.

XLII.


All’apparir del Re surse repente
     Dai seggi eterni l’immortal senato,
     E chinò il capo umíle e riverente,
     336Finchè nel trono eccelso ei fu locato.
     Gli sedea la Fortuna in eminente
     Loco a sinistra, ed alla destra il Fato:
     La Morte e ’l Tempo gli facean predella,
     340E mostravan d’aver la cacarella.


XLIII.


Girò lo sguardo intorno, onde sereno
     Si fe’ l’aer e ’l ciel, tacquero i venti;
     E la terra si scosse e l’ampio seno
     344Dell’oceáno a’ suoi divini accenti.
     Ei cominciò dal dì che fu ripieno
     Di topi il mondo e di ranocchi spenti;
     E narrò le battaglie ad una ad una,
     348Che ne’ campi seguir poi della Luna.

XLIV.


Or, dice, una maggior se n’apparecchia
     Tra quei del Sipa, e la città del Potta.
     Sapete ch’è tra lor ruggine vecchia,
     352E che più volte s’han la testa rotta.
     Ma nuova gara or sopra d’una Secchia
     Han messa in campo; e se non è interrotta,
     L’Italia e ’l mondo sottosopra veggio.
     356Intorno a ciò vostro consiglio chieggio.

XLV.


Qui tacque Giove, e ’l guardo a un tempo affisse
     Nel Padre suo che gli sedea secondo.
     Sorrise il Vecchio, e tirò un peto, e disse:
     360Potta! i’ credea che ruinasse il mondo.
     Che importa a noi se guerra, liti e risse
     Turban laggiù quel miserabil fondo?
     E se gli uomini son lieti o turbati?
     364Io gli vorrei veder tutt’ impiccati.

XLVI.


Marte a quella risposta alzando il ciglio:
     O buon Vecchio, gridò, son teco anch’io.
     Che importa a questo eterno alto consiglio,
     368Se stato è colaggiù turbato e rio?
     Chi è nato a perigliar, viva in periglio:
     Viva e goda nel ciel chi è nato Dio.
     Io, se la Diva mia nol mi disdice,
     372L’una e l’altra città farò infelice.


XLVII.


Sazierà doppia strage il mio furore;
     Di corpi morti inalzerò montagne;
     Farò laghi di sangue e di sudore,
     376E tutte inonderò quelle campagne.
     Cavalier, disse Palla, il tuo valore
     San cantar fin le trippe e le lasagne;
     Sicchè indarno ti studi e t’argomenti
     380Di farlo or noto alle celesti menti.

XLVIII.


Ma s’hai desio di qualche degna impresa,
     Facciam così: va’ tu coi Gemignani;
     Ch’io sarò de’ Petroni alla difesa,
     384E ti verrò a incontrar là su que’ piani.
     Bologna sempre fu a’ miei studi intesa;
     Onde tenermi a cintola le mani
     Or non debbo per lei. Tu meco scendi,
     388Se palma di valor, se gloria attendi.

XLIX.


A quel parlar si levò Febo, e disse:
     Vergine bella, i’ verrò teco anch’io
     In favor di Bologna ove ognor visse
     392L’antico studio delle Muse e mio.
     Bacco che in Citerea le luci fisse
     Sempre tenute avea con gran desio:
     Così dunque, rispose in volto irato,
     396Fia il popol mio da tutti abbandonato?

L.


La città ch’ognor vive in feste e canti
     Fra maschere e tornei per onorarmi,
     Ch’ha sì dolce liquor, vedrà fra tanti
     400Travagli suoi qui neghittoso starmi?
     Bella Madre d’Amor, che co’ sembianti
     Puoi far vinta cader la forza e l’armi,
     Tu meco scendi; ch’io farò a costoro
     404Di stoppa rimaner la barba d’oro.


LI.


Sfavillò Citerea con un sorriso
     Che dicea

Bacia, bacia, anima accesa;

     E gli diede col ciglio a un tempo avviso,
     408Che sarebbe ita seco a quell’impresa.
     Marte che ’n lei tenea lo sguardo fiso;
     Avido di litigio e di contesa,
     Vedendo ch’ella avea d’andar desío,
     412Disse: Alla fè, che vo’ venir anch’io.

LII.


Gite voi altri pur dove v’aggrada;
     Ch’io vo’ seguir della mia Diva i passi.
     Dov’ ella volge il piè, convien ch’io vada,
     416E quei di voi, ch’ella abbandona, lassi.
     Per lei combatte questa invitta spada
     E questa destra: ed or per lei vedrassi
     Il Panaro gonfiarsi, e in atto strano
     420Portar soccorso al Po di sangue umano.

LIII.


Sorrise Palla: ma con occhio bieco
     Rimirollo Vulcan ch’era in disparte;
     E disse: Empio sicario, adunque meco
     424Comune il letto avrai per ricrearte?
     E Giove stesso accorderassi teco
     Nel vituperio di sua figlia a parte?
     Per Stige, ch’io non so chi mi s’arresta
     428Ch’io non ti do di questo in su la testa.

LIV.


E strignendo un martel ch’al fianco avea,
     Sollevò il braccio, e di menar fece atto.
     La manopola allor, ch’ in man tenea,
     432Lanciógli Marte, e balzò in piedi ratto,
     Sgangherato gridando: Anima rea,
     T’insegnerò ben io di starti quatto.
     Giove che vide accesa una battaglia,
     436Stese lo scettro, e disse: Olà, canaglia;


LV.


Dove credete star? giuro a Macone,
     Ch’io vi gastigherò di tanto ardire.
     Venga il fulmine tosto: e l’Aquilone
     440Il fulmine arrecogli in questo dire.
     Vulcan tratto a’ suoi piedi in ginocchione,
     Chiedea mercede e intiepidiva l’ire,
     Lagrimando i suoi casi e l’empia sorte,
     444Ma più l’infedeltà della consorte.

LVI.


Citerea che si vide a mal partito,
     Per una porticella di nascosto
     Dallo sdegno del padre e del marito,
     448Mentre questi piagnea, s’involò tosto:
     E dietro a lei, senza aspettar invito,
     Corsero il Dio dell’armi, e ’l Dio del mosto.
     Ella in terra con lor prese la via,
     452E in mezzo a lor dormì sull’osteria.

LVII.


Gli abbracciamenti, i baci, e i colpi lieti
     Tace la casta Musa e vergognosa:
     Dalla congiunzíon di que’ pianeti
     456Ritorce il plettro, e di cantar non osa.
     Mormora sol fra se detti segreti:
     Ch’al fuggir della notte umida ombrosa
     Fatto avean Marte e ’l giovane tebano
     460Trenta volte cornuto il dio Vulcano.

LVIII.


L’oste di Castelfranco un gran pollaio
     Con uova fresche avea, quanto la rena.
     Ne bebbero i due amanti un centinaio;
     464Che smidollata si sentian la schiena:
     Ma la Diva ne volle solo un paio;
     Che d’altro forse avea la pancia piena.
     La Diva, per non dar di se sospetto,
     468Presa la forma avea d’un giovinetto.


LIX.


Di candido ermesin tutto trinciato
     Sopra seta vermiglia, era vestita,
     Con un colletto bianco e profumato,
     472Calzetta bianca, e cinta colorita:
     Di bianco il piè leggiadro era calzato:
     Non si potea veder più bella vita:
     Un pugnaletto d’or cingeva al fianco,
     476E nel cappello un pennacchietto bianco.

LX.


Ma l’oste ch’era guercio e Bolognese,
     Tanto peggio stimò ne’ suoi concetti,
     Quando corcarsi in terzo egli comprese
     480L’amoroso garzon fra tanti letti.
     Sgombrarono gli Dei tosto il paese,
     Che di colui conobbero i sospetti;
     Temendo che ’l fellon con falso indizio
     484Non gli accusasse quivi al malefizio.

LXI.


A Modana passar quella mattina,
     E ritrovar che vi si fea gran festa:
     Un palio di teletta cremesina
     488Correasi, a fiori d’or tutta contesta.
     Vedendo quella gente pellegrina,
     Ognuno a gara ne faceva inchiesta;
     E molti li tenean per recitanti
     492Venuti a preparar commedie innanti.

LXII.


Dicean che Marte il capitan Cardone,
     E Bacco esser dovea l’innamorato,
     E quel vago leggiadro e bel garzone
     496Esser a far da donna ammaestrato.
     Così alle volte ancor fuor di ragione
     Si tocca il punto; e molti han profetato,
     Che si credean di favellare a caso.
     500La sorte ed il saper stanno in un vaso.


LXIII.


Poscia che passeggiata a parte a parte
     Ebber gli Dei quella città fetente,
     E ben considerato il sito, e l’arte
     504Del guerreggiare, e ’l cor di quella gente;
     A un’osteria si trassero in disparte,
     Ch’avea un trebbian di Dio dolce e rodente:
     E con capponi e starne e quel buon vino
     508Cenaron tutti e tre da paladino.

LXIV.


Mentre questi godean, dall’altro canto
     Pallade e Febo eran discesi in terra;
     E concitando gían Bologna intanto
     512E le città della Romagna, in guerra.
     Quanto è dal Reno al Rubicone, e quanto
     Tra ’l monte e ’l mar quivi s’estende e serra,
     S’unisce con Bologna, e s’apparecchia
     516Di gir coll’armi a racquistar la Secchia.

LXV.


L’intesero gli amanti, e alla difesa
     Prepararono anch’essi i lor vassalli.
     Bacco chiamò i Tedeschi a quell’impresa,
     520E andò fin in Germania ad invitalli.
     Essi quand’ebber la sua voglia intesa,
     In un momento armar fanti e cavalli,
     Benedicendo ottobre e San Martino,
     524E sperando notar tutti nel vino.

LXVI.


Marte restò in Italia a preparare
     La milizia di Parma e di Cremona.
     Venere disse che volea tentare
     528Di far venire un re quivi in persona:
     E passando dov’ Arno ha foce in mare,
     Si fe’ dalle Nereidi alla Gorgona
     Portar, e quindi all’isola de’ Sardi,
     532Ricca di cacio e d’uomini bugiardi.

  1. [p. 267 modifica]Quest’ era un’antica osteria in Modena, posta sulla strada maestra, presso alla porta di Bologna.
  2. [p. 267 modifica]Quest’ era una sala, nella quale si conservava la biada per la ducale scuderia, detta perciò: la Sala della Spelda.
  3. [p. 267 modifica]Allude al nome di uno de’ principali lettori nello studio di Bologna, ed amico di lui, mentr’ egli quivi studiava, siccome è noto da una sua lettera al canonico Annibale Sessi.
  4. [p. 267 modifica]Ginetto, o Giannetto, specie di cavallo di Spagna velocissimo nel corso.
  5. [p. 267 modifica]Terziopelo, voce Spagnuola, che significa velluto.
  6. [p. 267 modifica]Chinea è un cavallo che va d’ambio, o sia portante, e Bisignano è una città della Calabria superiore, ove nascono ottimi cavalli.
  7. [p. 267 modifica]Aironi, sono quei pennacchi composti di molte fila sottilissime di vetro, che comunemente usano portare in testa su’ teatri i comici, facendo, mercè di un vago ondeggiamento, assai bella comparsa agli occhi degli spettatori. Aironi, o Aghironi vengono anche nominati alcuni uccelli, le di cui penne servono d’un distinto ornamento presso i Munsulmani, di queste forse eran composti gli Aironi di Pallade.
  8. [p. 267 modifica]Negli originali a penna della Comunità, e dei Conti Sassi dopo la Stanza 37 si leggono quest’altre due;

    Di celeste pittura e di gioielli
         D’oro e di perle i quadri erano ornati;
         Due sovraporte d’agata i più belli
         Fur dalla Musa mia solo notati.
         Nell’uno intorno a un campo di bacelli,
         Erano due grandi eserciti attendati,
         E in mezzo a un tal Piccin, grosso di coppa,
         Dava il fuoco alla barba a un Re di stoppa.

    [p. 268 modifica]

    Un Cesare nell’altro aver parea
         La semplice camicia in su la pelle,
         E sopra un seggio imperial sedea,
         Con la berretta quadra e le pianelle:
         Ma due ragazzi che di dietro avea,
         Gli attaccavano al cul le zaganelle;
         Ed egli con la man sopra un tappeto
         Diceva la corona, e stava cheto.


  9. [p. 268 modifica]Allude alle stelle Medicee, che Galileo scoperse nel 1610, per mezzo del suo telescopio, al numero di quattro, che per orbite determinate e distinte, e con regolari periodi, aggiransi intorno al pianeta di Giove.

Note

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