< La Secchia rapita
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Canto quinto Canto settimo


la


SECCHIA RAPITA


CANTO SESTO.

________


ARGOMENTO.


S’accozzano i due campi: e Salinguerra
     A destra i suoi contra i nemici oppone.
     Enzio il sinistro corno apre, ed atterra
     4Il Pretore, il carroccio e ’l gonfalone:
     Ma da’ suoi poscia abbandonato in guerra,
     Resta de’ Bolognesi alfin prigione.
     Fa gran prove Perinto; e s’appresenta
     8Bacco orribile al Potta, e lo sgomenta.

I.


Sovra l’arco del ciel, col sole in fronte,
     Partiva Astrea colle bilance il giorno;
     Quando i due campi già condotti a fronte,
     12Mossero a un tempo l’uno e l’altro corno.
     Rintronaron le valli, il piano e ’l monte,
     Gli argini tutti e la foresta intorno;
     Mugghiar le selve e ’l fiume indi vicino,
     16E le balze tremar dell’Appennino.

II.


Qual sullo stretto ove il Figliuol di Giove
     Divise l’Océan dal nostro mare,
     Se l’uno e l’altro la tempesta move,
     20Vansi l’onde superbe ad incontrare,
     Cadono infrante, e valle orribil, dove
     Dianzi eran monti, e spaventosa appare;
     Trema il lido, arde il ciel, tuonano i lampi:
     24Tal fu il cozzar de’ due famosi campi.


III.1


Offuscò il cielo, ai rai del sol fe’ scorno
     Il grandinar delle saette sparte.
     Chi si ricorda aver veduto, il giorno
     28Del protettor della città di Marte,
     Dall’alta mole d’Adríano intorno
     Cader nembi di razzi in ogni parte:
     Pensi che fosse ancor più denso il velo
     32Della pioggia ch’allor cadde dal cielo.

IV.


Al frangersi dell’aste, al gran fracasso
     Dell’incontro dell’armi e de’ cavalli,
     Sembran tutte cader le selve abbasso
     36Svelte dall’Alpi, e risonar le valli.
     Più non appar da lato alcuno il passo,
     Fuggono le distanze e gl’intervalli;
     E son già i prati e le campagne amene,
     40Di morte e di terror tutte ripiene.

V.


Or preme e incalza, or torna indietro il piede
     Questa ordinanza e quella; e dove inchina
     Una schiera, talor l’altra succede,
     44E ripara in altrui la sua ruina:
     Indi torna la prima, e l’altra cede,
     Come parte e ritorna onda marina.
     Van quinci e quindi i capitani accorti,
     48Spingendo i vili, e rinfrancando i forti.

VI.


Ah, dicea Salinguerra, uomini vani
     Che gite armati sol per ornamento,
     Ove sono le spade, ove le mani,
     52Ove il cor generoso e l’ardimento?
     Se vi fanno tremar questi villani
     Rozzi, senz’armi e senza esperimento,
     Come potrò sperar ch’oggi vi mova
     56Desio di fama a più lodata prova?


VII.


Questa è la via dove alla gloria vassi;
     Chi ha spirito d’onor mi segua appresso;
     Ecco v’apro il sentiero: ora vedrassi
     60Chi avrà desio d’immortalar se stesso.
     Così parla il feroce; e volge i passi
     Dove il nemico stuol vede più spesso.
     Urta il caval, la lancia abbassa, e pare
     64Un vento fier che spinga indietro il mare.

VIII.


Qual ferito nel petto, e qual nel volto
     Fa l’incontro cader dell’asta dura:
     Si dirada d’intorno il popol folto;
     68Ognun scansa, che può, sua ria ventura.
     Scontra Stefano e Ghino: e al primo, colto
     Nell’occhio destro, il ciel ratto s’oscura;
     Cade l’altro passato alla gorgiera;
     72Indi uccide Brandan dalla Baschiera.

IX.


Aperta avea la temeraria bocca
     Brandano appunto ad oltraggiar quel forte;
     Quando il ferro crudel giugne, e l’imbrocca
     76Tra denti e denti, e lo conduce a morte.
     Ricovra l’asta il valoroso, e tocca
     Alla cima dell’elmo Ilario Corte,
     Giovine irresoluto e spensierato;
     80E ’l fa cader disteso in un fossato.

X.


Non lunge il Conte di Culagna vede,
     Pomposo d’armi, e di bei fregi altero:
     E come ardito e poderoso il crede,
     84Gli sprona incontra con sembiante fiero.
     Ma il Conte lesto si rilancia a piede,
     E si ripara dietro al suo destriero:
     Trascorre l’asta; ed ei subito s’alza,
     88Tocca appena la staffa, e in sella balza.


XI.


Chi vide scimmia alla percossa infesta
     D’importuno fanciul ratta involarsi,
     Indi tornar d’un salto agile e presta,
     92Passato il colpo, e alla finestra farsi;
     Pensi che contro a quella lancia in resta
     Tal rassembrasse il Conte all’abbassarsi,
     E tale al risalir giusto a pennello
     96Tutto in un tempo, e non parer più quello.

XII.


E rivoltato a Bernardin Manetta
     Che ’l rimirava, e s’era mosso a riso:
     Affè, dicea, che l’ho giucata netta,
     100Che colui non mi colga all’improvviso.
     Io dismontai per orinare in fretta;
     E ’l fellon che si stava in sull’avviso,
     M’avea spinto il destrier per fianco addosso:
     104Ma guai a lui se riscontrar lo posso.

XIII.


Così dicendo, a man sinistra torse,
     Dove spigneano innanzi i Fiorentini;
     Credendo uscir della battaglia forse.
     108Ma quando vide Anton Francesco Dini
     Da quella parte co’ cavalli opporse;
     Rivolto a’ suoi soldati e a’ suoi vicini:
     Ritiriamci, dicea, da questo sito;
     112Ch’è troppo aperto, e non è ben partito.

XIV.


Roldano, che l’udì, si voltò ratto,
     E ’l percosse del calcio della lancia,
     Dicendo: Codardon, faccia di matto,
     116Non ti si tigne di rossor la guancia?
     Se tu quinci non esci, o non stai quatto,
     Giuro a Dio, te la caccio nella pancia.
     Il Conte rispondea: Non v’adirate,
     120Chè ’l dissi per provar queste brigate.


XV.


Torto il mira Roldano, e sol col guardo
     Gli fa tremar le fibre e le midolle:
     Indi spronando un corridor leardo2
     124Che ’l pregio al vento e alla saetta tolle,
     Drizza la lancia al giovine Averardo
     Che di sangue nemico ei vede molle;
     E ferito nel braccio e nell’ascella,
     128Il trasporta sui fior giù della sella.

XVI.


Ma il Dini gli sospinge incontro i sui,
     E grida loro: Ah pinchelloni, e dove
     Vi rinculate voi da cotestui
     132Che fuor degli altri a battagliar si move?
     Spignete innanzi: a che badate vui?
     Testè con alte immaginate prove
     Affettavate quíe com’un popone
     136Il mondo: ora v’addiaccia il sollione?

XVII.


Sprona, così dicendo, ove più stretto
     Vede lo stuol che conducea Roldano.
     E’, d’un colpo di stocco a mezzo il petto,
     140Tolta l’indegna vita a Barisano.
     Al Teggia che ’l feriva in sull’elmetto
     Con una mazzaranga3 ch’avea in mano,
     Credendolo schiacciar come un ranocchio,
     144D’un rovescio levò l’uno e l’altr’occhio.

XVIII.


Così quivi si pugna e si contende.
     Ma dalla parte verso ’l mezzogiorno
     Il re con più fervor gli animi accende,
     148E spigne i suoi contra ’l sinistro corno.
     Ei, qual cometa minacciosa, splende,
     D’oro e di piume alteramente adorno:
     Cinto è de’ suoi germani; e lor rivolto
     152Parla in barbaro suon con fiero volto:


XIX.


O dell’imperio di Germania fiore,
     Anime eccelse, eccovi l’ora e ’l campo
     In cui risplenderà vostro valore
     156Di glorioso inestinguibil lampo.
     Io confidato in voi, mi sento il core
     Tutto infiammar di generoso vampo;
     E su questi papisti oggi disegno
     160Di lasciar colla spada orribil segno.

XX.


Seguitatemi voi, che l’empia setta
     Qui tutte accolte ha le sue forze estreme,
     Perchè possa una sol giusta vendetta
     164L’ira sfogar di tante ingiurie insieme.
     Se vaghezza di fama il cor v’alletta,
     Se l’onor della patria oggi vi preme,
     Se v’è caro mio padre o molto o poco,
     168Quest’è il tempo ch’io ’l vegga, e questo è ’l loco.

XXI.


Così detto, il feroce urta il destriero,
     E l’asta a un tempo e la visiera abbassa,
     E tra’ nemici impetuoso e fiero,
     172Qual fulmine tra’ cerri, incontra e passa.
     Baldin Ghiselli, e Lippo Ghiselliero,
     E Antonel Ghisellardi in terra lassa,
     E Melchior Ghisellini, e Guazzarotto,
     176Bisavo che fu poi di Ramazzotto.

XXII.


Giandon dalla Porretta era un Petronio
     Grande come un gigante, o poco meno;
     E in vece d’un caval reggea un demonio
     180(Cred’io), senza adoprar sella nè freno:
     Un de’ mostri parea di Sant’Antonio;
     Nè pasceva il crudel biada nè fieno,
     Ma gli uomini mangiava, e distruggea
     184Co’ denti il ferro, e un corno in testa avea.


XXIII.


La fera bestia un dopo l’altro uccise
     Quattro Tedeschi, ed era dietro al quinto:
     Ma il re la lancia in mezzo ’l cor gli mise,
     188E gliel fece cader già mezzo estinto.
     Ruppesi l’asta, e ’l re non si conquise;
     Ma tratta fuor la spada ond’era cinto,
     Divise d’un fendente il capo armato
     192A Giandon che già in piedi era levato.

XXIV.


Bigon di Geremia, che di lontano
     Alla strage de’ suoi gli occhi rivolse,
     Per fianco addosso al re spronò, ma invano,
     196Che ’l Conte di Nebrona il colpo tolse.
     Il Conte cadde, a quell’incontro, al piano.
     Ma subito fu in piedi, e si raccolse;
     Che vide il suo signor mover d’un salto
     200Contra Bigone, e alzar la spada in alto.

XXV.


Bigone attende il re, nell’armi stretto:
     Ma non gli giova alzar nè oppor lo scudo:
     Che ’l brando il fende, e fa balzar l’elmetto
     204Sciolto da’ lacci, impetuoso e crudo.
     Raddoppia il colpo il valoroso, e netto
     Gli tronca dalle spalle il capo ignudo.
     Esce lo spirto; e in caldo fiato unito
     208Raggirandosi vola ov’è rapito.

XXVI.


Morto Bigone, il re tutta fracassa
     La schiera sua, nè qui l’impeto arresta:
     Urta per fianco, impetuoso, e passa
     212Tra la gente pedestre, e la calpesta.
     Ovunque il corso drizza, uomini lassa
     Uccisi a monti la crudel tempesta
     Del barbaro furor che ’l re seconda,
     216E di fiumi di sangue i campi inonda.


XXVII.


Seguono i Garfagnini; e ’l re sospinto
     Da fatale furor, già penetrato
     Dove il carroccio di sue guardie cinto
     220Fra l’ultime ordinanze era fermato,
     Coll’urto di mill’aste apre quel cinto.
     Cede ogn’incontro al vincitore armato,
     E del carroccio è giù tratto di botto
     224Lo stendardo maggior squarciato e rotto.

XXVIII.


Fu al podestà messer Filippo Ugone,
     Ch’era rimaso attonito e perduto,
     Da certi Garfagnin tolto il robone,
     228E la berretta ch’era di velluto.
     Ei del carroccio si lanciò in giubbone,
     Pregando invano e addimandando aiuto;
     E dall’impeto fier colto, in un fosso
     232Cadde rovescio col carroccio addosso.

XXIX.


Gli asini che condotte ai Fiorentini
     Le noci dietro e le castagne aviéno,
     A vista del carroccio assai vicini
     236Stavan pascendo in un pratello ameno;
     Quando i Tedeschi a un tempo e i Garfagnini
     Trassero quivi tutti a sciolto freno,
     Dall’ingordigia di rubar tirati;
     240E non restar col re trenta soldati.

XXX.


Il sagace Tognon che la vendetta
     Pronta si vide, unì le genti sparte,
     E diede avviso ai due Malvezzi in fretta,
     244Che volgessero tosto a quella parte.
     Indi avendo al tornar la via intercetta
     A quei che saccheggiavano in disparte
     I fichi secchi e le castagne in forno;
     248Cinse d’armi e cavalli il re d’intorno.


XXXI.


Il re che si rivolge e ’l guardo gira,
     E ’l suo periglio in un momento ha scorto,
     Dal profondo del cor geme e sospira;
     252Che senza dubbio alcun si vede morto;
     Ma il dolor cede, e si rinforza l’ira;
     Nè vuol morir senza vendetta a torto:
     Stringe la spada, urta il destriero, e dove
     256Più chiuso è il passo, impetuoso il move.

XXXII.


Qual tigre in su la preda alla foresta
     Colta da’ cacciatori e circondata,
     Poichè al periglio suo leva la testa,
     260Volge fremendo i livid’bocchi, e guata;
     Indi s’avventa incontra l’armi, e resta
     Del proprio e dell’altrui sangue bagnata:
     Tal fra l’armi nemiche il re s’avventa;
     264Chè ’l magnanimo cor nulla paventa.

XXXIII.


Mena al primo ch’incontra: e a Braganosso
     Figliuol di Pandragon Caccianemico
     L’elmo divide e la cotenna e l’osso,
     268La faccia, il petto, e giù fino al bellico.
     Indi toglie la vita a Min del Rosso,
     Ch’un’armatura avea di ferro antico,
     Da suo bisavo in Francia già comprata,
     272E tutti la tenean per incantata.

XXXIV.


Non la potè falsar la buona spada;
     Ma piegò il cavaliero in sulla sella,
     E scorrendo all’insù per dritta strada,
     276Passò la gola, e uscì da una mascella,
     Onde convien che Mino estinto cada:
     Vinto è l’incanto da nemica stella.
     Non può cozzar col ciel l’ingegno umano;
     280Ch’eterno è l’uno, e l’altro è frale e vano.


XXXV.


Di due percosse il re fu colto intanto
     Sull’elmo, e a sommo ’l petto al gorgierino:4
     Della seconda ebbe l’onore e ’l vanto
     284Vanni Maggi figliuol di Caterino.
     Ma con forza maggior dal destro canto
     Il ferì Gabbíon di Gozzadino;
     Che con un colpo d’alabarda fiero
     288Di testa gli levò tutto il cimiero.

XXXVI.


A lui si volse il re con un riverso,
     E ’l colse appunto al confinar del ciglio:
     Tutta la testa gli tagliò a traverso;
     292Balzò un occhio lontan dall’altro un miglio;
     Per la cuffia il cervel sen gío disperso,
     Stè in sella il tronco, e l’alma andò in esiglio:
     E ’l destriero che ’l fren sentia più lasso,
     296Incognito il portava attorno a spasso.

XXXVII.


Non ferma qui la furibonda spada,
     Ch’era una lama dalla lupa antica,5
     Ma tronca, svena, fende, apre e dirada
     300Ciò ch’ella incontra; uomini ed armi abbica:
     Or quinci or quindi si fa dar la strada;
     Ma innumerabil turba il passo intrica.
     Veggonsi in aria andar teste e cervella,
     304E nel sangue notar milze e budella.

XXXVIII.


Da mille lance il re percosso e cinto,
     E da mille spuntoni e mille dardi,
     Tutto è molle di sangue: e mezzo estinto
     308Ha il famoso drappel di que’ gagliardi.
     Tognon rimproccia i suoi, dall’ira vinto,
     E grida: Ah faccia d’uomini codardi!
     Sì vilmente morir, scannaminestre?
     312Che vi sia dato il pan colle balestre.


XXXIX.


Sospinse il rampognar di quell’altiero
     Ognuno incontro al re cui sol restato
     Vivo de’ suoi, nel gran periglio, è il fiero
     316Leopoldo conte di Nebrona allato.
     Morto da cento lance il buon destriero
     Sotto il re cadde; ed egli in piè balzato,
     Fulmina e uccide di due colpi orrendi
     320Petronio ed Andalò de’ Carisendi.

XL.


Berto Gallucci, e ’l Gobbo della lira
     Gli sono sopra, e l’uno e l’altro il fiede:
     Ma il generoso cor non si ritira,
     324Benchè sieno a cavallo, ed egli a piede.
     Il Conte che si volge, e ’n terra il mira,
     Balza di sella, e ’l suo caval gli cede;
     Ed ei, perchè rimonti il suo signore,
     328Rimansi a piede, e ’n mezzo all’armi muore.

XLI.


Il Re prende la briglia, e salir tenta;
     Ma lo distorna il Gobbo, e gliel contende.
     Egli una punta al fianco gli appresenta,
     332E colla gobba al pian morto lo stende,
     Tognon smonta frattanto, e al re s’avventa
     Dietro alle spalle, e nelle braccia il prende;
     E Passotto Fantucci, e Francalosso
     336E Berto e Zagarin gli sono addosso.

XLII.


Il re si scuote, e a un tempo il ferro caccia
     Nel ventre a Zagarin che gli è a rimpetto;
     Ma non può svilupparsi dalle braccia
     340Di Tognon che gli cinge i fianchi e ’l petto:
     Ed ecco Periteo giugne, e l’abbraccia
     Subito anch’egli, e ’l tien serrato e stretto.
     Ei l’uno e l’altro or tira, or alza, or spigne;
     344Ma da’ legami lor non si discigne.


XLIII.


Qual fiero toro a cui di funi ignote
     Cinto fu il corno e ’l piè da cauta mano,
     Muggisce, sbuffa, si contorce e scuote,
     348Urta, si lancia e si dibatte invano;
     E quando alfin de’ lacci uscir non puote,
     Cader si lascia afflitto e stanco al piano:
     Tal l’indomito re, poichè comprese
     352D’affaticarsi indarno, alfin si rese.

XLIV.


Fu drizzato il carroccio, e fu rimesso
     In sedia il Podestà tutto infangato.
     Non si trovò il robon, ma gli fu messo
     356Indosso una corazza da soldato.
     Le calze rosse a brache avea, col fesso
     Dietro, e dinanzi un braghetton frappato,
     E una squarcina in man larga una spanna:
     360Parea il bargel di Caifás e d’Anna.

XLV.


Ei gridava in Bresciano: Innanz innanzi;
     Che l’è rott’ol nemig, valent soldati:
     Feghe sbittà la schitta a tucch sti Lanzi
     364Maledetti da Dè, scomunegati.
     Così dicendo, già vedea gli avanzi
     Del destro corno andar qua e là sbandati,
     E raggirarsi per que’ campi aprichi,
     368Cercando di salvar la pancia ai fichi:

XLVI.


Perocche ’l buon Perinto avea già rotti
     Tedeschi e Sardi e Garfagnini e Corsi,
     E gli altri ch’al bottin fallace, indotti
     372Da malcauta speranza, erano corsi.
     I Tedeschi, del vino ingordi e ghiotti,
     Dietro a certi barili eran trascorsi;
     Che ne credeano far dolce rapina:
     376E in cambio di verdea trovar tonnina.


XLVII.


Al primo suon della nemica pesta
     Il popolo del mar le spalle diede;
     Si restrinse il Tedesco, e fece testa;
     380In dubbio il Garfagnin sospese il piede:
     Ma la cavalleria giugne, e calpesta
     Con impeto e furor la gente a piede;
     Nè la picca tedesca o l’alabarda
     384Ferma i cavalli armati o li ritarda.

XLVIII.


A Corrado Roncolfo, il capocaccia
     Del re, che facea agli altri animo e scudo,
     Sovraggiugne Perinto, e nella faccia
     388Mette per la visiera il ferro crudo.
     A Guglielmo Sterlin nato in Alsaccia,
     Tronca d’un manrovescio il collo ignudo;
     E Ridolfo d’Augusta, e Giorgio d’Ascia
     392Feriti di due punte in terra lascia.

XLIX.


Un giovinetto fier nato sul Reno,
     Sul Panaro nudrito, Ernesto detto,
     Che col bel viso e col guardo sereno
     396Potea infiammar qual più gelato petto;
     Vedendo i suoi che già le spalle avieno
     Volte a fuggir, da generoso affetto
     E da nobil desío di gloria mosso,
     400Un destriero affrican gli spinse addosso.

L.


Perinto il colpo del garzone attende;
     E all’arrivar ch’ei fa, cala un fendente.
     Il destrier che di scherma non s’intende,
     404S’arretra come il suon del ferro sente.
     All’estremo del collo il brando scende:
     Cade in terra il meschin morto repente.
     Ernesto che mancarsi il destrier mira,
     408Balza in piede, di sdegno acceso e d’ira;


LI.


E d’una punta nella coscia il fiede.
     Volge Perinto, e ’l ferro a un tempo abbassa:
     Ma ei si ritira, e dell’antico piede
     412D’un olmo si fa scudo, e ’l campo lassa.
     Quei l’incalza fremendo; ed egli cede,
     E va girando e fugge e torna e passa.
     Così corre alla pianta e si difende
     416Il ramarro che ’l bracco a seguir prende.

LII.


Iaconía capitan de’ Soraggini,
     Ch’amava Ernesto più che la sua vita;
     Poichè gli occhi rivolse ai rai divini
     420Onde l’anima accesa era invaghita,
     E ’l vide star sugli ultimi confini,
     Corse precipitoso a dargli aita,
     Abbandonando i suoi che mal condotti,
     424In fuga se ne gían sbandati e rotti.

LIII.


In arrivando il ritrovò piagato
     Nel destro fianco: e dalla doglia vinto,
     Spinse il destrier d’un salto; e ’l brando alzato,
     428Sulla fronte a due man ferì Perinto:
     E se non che quell’elmo era temprato
     Per man del saggio Argon, l’avrebbe estinto;
     Ma di se tolto, e di cader in forse,
     432Portato dal destrier qua e là trascorse.

LIV.


Al garzon, Iaconía rivolto allora:
     Ernesto, gli dicea, la nostra gente
     Rotta si fugge, e noi facciam dimora,
     436E perdiamo la vita inutilmente.
     Deh non voler che cada insieme a un’ora
     Mia viva speme, e tua beltà innocente.
     Vattene, rispond’ei; che ’l destrier mio
     440Vendicar voglio, o qui morire anch’io.


LV.


O fanciul troppo ardito, e poco accorto,
     Soggiunge Iaconía, mira che questa
     Che ci costrigne a ritirarne il porto,
     444E’ più, ch’a te non par, fiera tempesta.
     Ma se l’affanno d’un destrier già morto,
     E la vendetta sua quivi t’arresta,
     Prenditi in dono il mio, nè più s’estese:
     448Ma gli porse la briglia, e giù discese.

LVI.


Quegli ’l ricusa; ed egli pur s’affretta
     Che ’l prenda, e mentre i prieghi orna e rinforza,
     Ecco torna Perinto alla vendetta,
     452E fere Iaconía di tutta forza.
     Con quel furor che vien dal ciel saetta,
     Passa il brando crudel la ferrea scorza
     Del grave scudo, e la corazza forte;
     456E lascia Iaconía ferito a morte.

LVII.


Cadde il misero in terra; e quasi a un punto,
     Poco lungi da lui cadde Perinto
     Cui, passato nel petto, e nel cor punto,
     460Restò il cavallo a quell’incontro estinto.
     Al suo vantaggio allor non bada punto
     Ernesto, e corre, dalla rabbia vinto,
     A mezza spada a disperata guerra,
     464Poichè l’amico suo vede per terra.

LVIII.


Ernesto di due colpi in sull’elmetto
     Con tanta forza il cavalier percosse,
     Che ribattendo sull’arcion col petto,
     468Sovra il morto destrier tutto piegosse.
     Lo sguardo allor drizzando al giovinetto,
     Sulle ginocchia Iaconía levosse,
     E disse: Ah non voler perir tu ancora:
     472Lascia ch’io sol per la tua vita mora.


LIX.


E dicea il ver, s’un ostinato core
     Fosse stato del ver punto capace.
     Surse Perinto, e strinse con furore
     476La spada contro il giovinetto audace.
     Iaconía con quell’ultimo vigore
     Che gli somministrò l’alma fugace,
     Per impedire il colpo al ferro crudo,
     480Lanciò contra Perinto il proprio scudo.

LX.


Ma quello sforzo aprì la piaga, e sparse
     L’alma col sangue: e certo fu peccato;
     Ch’amico più fedel non potea darse,
     484E non bevea giammai vino innacquato.
     Lo scudo ch’ei lanciò, venne a incontrarse
     Nel braccio che spingea Perinto irato,
     E nel volto e nel petto e nella mano;
     488E gli fe’ rimaner quel colpo vano.

LXI.


Ma che pro, se ’l garzon non si ritira,
     E nuova fiamma al vecchio incendio aggiugne?
     Colpi raddoppia a colpi, e a ferir mira
     492Dove s’apre la piastra e si congiugne.
     Perinto avvampa di disdegno e d’ira;
     E d’una punta a mezzo il ventre il giugne.
     La panciera d’Ettor, ch’era incantata,
     496Non gli avrebbe la vita allor salvata.

LXII.


Cade Ernesto morendo in sulla piaga,
     E chiama Iaconía che nulla sente:
     Esce un rivo di sangue, e si dilaga;
     500S’oscura de’ begli occhi il dì lucente:
     L’anima sciolta disdegnosa e vaga
     Dietro all’amico suo vola repente.
     Salta Perinto in sul destrier che truova,
     504E ’l volge a ricercar battaglia nuova.


LXIII.


Nè già ritorna ove fuggir vedea
     Quei ch’ingannò la fiorentina preda,
     Che vittoria stimò vile e plebea
     508Cacciar gente che fugga, e ’l campo ceda.
     Ma, dove in mezzo la battaglia ardea,
     Contra ’l Potta sen va; come sel creda
     Bere in un sorso, e la città sua tutta
     512Ne’ sterquilinii suoi lasciar distrutta.

LXIV.


Guido scontrò, che della pugna usciva
     Con mezza spada, e una ferita in testa,
     E a medicarsi al padiglion sen giva
     516Per man del suo barbier mastro Tempesta.
     Indi trovò, che ’l suo signor seguiva,
     Messa in terror, la ravignana gesta.
     Le’ si fe’ incontro, e con superbo grido:
     520Tornate, disse, indietro, o ch’io v’uccido.

LXV.


Ed all’alfier che ’l rimirava fiso,
     Senza altro moto far, come chi sdegna,
     Fulminò d’un mandritto a mezzo ’l viso:
     524Così, dicendo, d’ubbidir s’insegna.
     Riman colui del fiero colpo ucciso;
     Ed egli di sua man spiega l’insegna.
     Alzano i Ravignani allor le grida,
     528E ’l seguono animosi, ove gli guida.

LXVI.


Il Potta, che tornar vede la schiera
     Che dianzi fuor della battaglia usciva,
     Rivolto a Tommasin ch’allato gli era:
     532Per vita, gli dicea, della tua diva,
     Ad incontrar va’ tu quella bandiera
     Che sen riede alla pugna onde fuggiva;
     E mostra il tuo valor, spiega i tuoi vanti
     536Contra quei malandrin scorticasanti.


LXVII.6


Nulla risponde, e contra i Ravennati
     Tommasin, a quel dir, strigne gli sproni
     Con una compagnia di scapigliati
     540Dediti al gioco e a far volar piccioni,
     Che Triganieri fur cognominati,
     Nemici natural de’ bacchettoni;
     Gente che ’l ciel avea posto in oblío,
     544E l’appetito sol tenea per Dio.

LXVIII.


Con questi il Gorzanese ardito e franco
     Ratto si mosse; e al primo incontro uccise
     Gaspar Lunardi, e Desiderio Bianco,
     548E a Lamberto Raspon l’elmo divise:
     Quando Perinto lo ferì per fianco
     Coll’asta dell’insegna; e in modo arrise
     Fortuna al suo valor, ch’in terra cade,
     552E restò prigionier fra mille spade.

LXIX.


Perduto il capitan, impeto allenta
     La gente sua che ’l disvantaggio vede:
     Ma non fugge però nè si sgomenta,
     556E torna in ordinanza indietro il piede.
     Perinto poi ch’a Ostasio da Polenta,
     Che tra’ primi il seguía, l’insegna diede;
     Iotatan colla spada in terra mette,
     560E Barbante figliol di Mazzasette.

LXX.


Ma intanto il Potta udito il caso fiero
     Di Tmomasino, e quel, che più gli dolse,
     Del re de’ Sardi rotto e prigioniero;
     564Santa Nafissa7 a bestemmiar si volse:
     E montato su un’erta col destriero,
     Pur novella speranza anco raccolse;
     Che le bandiere de’ nemici, sparte
     568Vide fuggir della sinistra parte.


LXXI.


E di vederne il fin già risoluto,
     Scendea dall’alto, e raccendeva l’ire;
     Quando un gigante orribile e cornuto
     572Gli apparve, e l’atterrì con questo dire:
     Che pensi? ogni ardimento è qui perduto:
     Pensa di ritirarti o di morire.
     Ecco ti svelo i lumi: or tu rimira
     576Della terra e del ciel lo sforzo e l’ira.

LXXII.


Vedi là guerreggiar l’empia Bellona,
     Tinta di sangue, incontro alle tue schiere:
     Vedi il superbo Figlio di Latona
     580Quanti coll’arco suo ne fa cadere.
     Marte ch’in tuo favor pugna, abbandona
     Stanco e sudato omai le tue bandiere.
     Tu a raccolta le chiama, e le conserva
     584Dallo sdegno di Febo e di Minerva.

LXXIII.


Qui tacque il fero mostro; e in un momento,
     Come sparisce il sogno all’ammalato,
     Ritirò il piede, e si converse in vento,
     588E ’l Potta di stupor lasciò ingombrato.
     Bacco era questi, a generar spavento
     In quella forma orribile cangiato,
     Che combattuto avea col Dio di Cinto,
     592E si partia della battaglia vinto;

LXXIV.


E giva a ricercar novo partito,
     Perchè non fosse il popol suo disfatto.
     Rimase il Potta attonito e smarrito,
     596E si fe’ il segno della croce a un tratto;
     Ch’un demonio il credè, fuor di Cocito
     A spaventarlo in quella forma tratto.
     Stette sospeso un poco; indi fe’ quanto
     600Descritto fia da me nell’altro canto.

  1. [p. 273 modifica]Parla de’ fuochi d’allegrezza, che il dì di san Pietro si fanno in Roma intorno al maschio di Castello sant’Angelo, anticamente già detto Mole d’Adriano; e parla precisamente della Girandola composta di seimila razzi, che tutti in una volta prendono fuoco; invenzione, come si dice, di Michelagnolo Buonarroti. Barotti.
  2. [p. 273 modifica]Leardo, mantello di cavallo, composto di color bianco e nero. Voc. della Crusca.
  3. [p. 273 modifica]Mazzaranga, o secondo la Crusca Mazzeranga, è uno strumento, con cui si percuote la terra, affine di assodarla. Magnum Pistillum.
  4. [p. 273 modifica]Gorgerino, cioè picciol collare, o collaretto.
  5. [p. 273 modifica]In Ispagna, saranno in circa due secoli, si fabbricavano bellissime lame da spada e molto buone, nelle quali si vede l’impronta d’una lupa.
  6. [p. 273 modifica]In Modena sono veramente queste due fazioni. I Triganieri sono una mano di scapigliati oziosi, che non sapendo che farsi, si danno a far volare colombi, ch’essi chiamano Trigani, e gli avvezzano non solamente a condurre alle loro colombaie dei forestieri, ma a portar anche delle lettere dai luoghi distanti cinquanta e sessanta miglia: usanza conservata in quella città fin dalla sua prima origine: onde leggiamo in Plinio, che quando era [p. 274 modifica]assediata da Marc’Antonio con tanta strettezza, che non ne poteva uscire uomo alcuno, furono mandate fuori colombe con lettere al collo, che furono cagione, che il senato romano affrettasse il soccorso. Salviani.Lo Sparviere, lo Smeriglio ed il Terzuolo sono uccelli di rapina.
  7. [p. 274 modifica]Santa Nafissa, o per dir meglio Nafissa, fu Maomettana; e per aver condotta una vita incolpabile, e per vantar parentela con Maometto istesso, è riverita da’ Maomettani per Santa, ed il suo sepolcro si onora nell’antica città di Mifrultheich non molto lungi dal Cairo.Giove secondo Tolomeo è motore del sesto Pianeta, che dal Tassoni è qui per lepidezza chiamato lanterna, come alla st. 72 di questo medesimo Canto le stelle son dette lampade del cielo.

Note

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