< La Secchia rapita
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Canto settimo
Canto sesto Canto ottavo


la


SECCHIA RAPITA


CANTO SETTIMO.

________


ARGOMENTO.


Rotti i Petroni dalla destra parte,
     Sta in dubbio la vittoria ancor sospesa,
     Finchè scende dal ciel Iride, e Marte
     4Fa ritirar dalla crudel contesa.
     Giugne Renoppia, e la smarrita parte
     Rinvigorisce; e giugne in sua difesa
     Gherardo che del fiume all’altra sponda
     8Caccia i nemici, e fa vermiglia l’onda.

I.


Il Conte di Culagna era fuggito,
     Com’io narrai, di man di Salinguerra;
     E quel fiero, dall’impeto rapito,
     12Pedoni e cavalier gittando a terra,
     Morto Rainero, e Bruno avea ferito,
     E mossa a un tempo a quella squadra guerra,
     Che Voluce in battaglia avea condotta;
     16E già le prime file erano in rotta.

II.


Quando Voluce ode il rumore, e vede
     Salinguerra ch’i suoi rompe e fracassa;
     Salta in arcion (che combatteva a piede),
     20E l’asta prende, e la visiera abbassa:
     Sprona il cavallo; e tosto intorno cede
     Ognuno, e gli fa piazza ovunque passa.
     Salinguerra all’incontro i suoi precorre,
     24E minaccioso alla battaglia corre.


III.


I magnanimi cor, di sdegno ardenti,
     Metton le lance a mezzo ’l corso in resta,
     E vannosi a ferir come due venti,
     28O due folgori in mar quand’è tempesta.
     Lampi e fiamme gittar gli elmi lucenti;
     Mugghiò tremando il campo e la foresta
     A quel superbo incontro; e l’aste secche
     32Volaro infrante in mille schegge e stecche.

IV.


Si fece il segno della santa croce
     L’un campo e l’altro, e si fermò guardando,
     Per maraviglia immoto e senza voce,
     36Del periglio comun scordato, quando
     L’uno e l’altro guerrier torse veloce,
     Dispettoso, la briglia; e tratto il brando,
     Fulminarsi agli scudi ambi e alla testa
     40Dritti e rovesci a furia di tempesta.

V.


Non stettero a parlar de’ casi loro,
     Come soleano far le genti antiche,
     Nè se ’l lor padre fu spagnuolo o moro;
     44Ma fecero trattar le man nemiche.
     Le ricche sopravvesti, e i fregi d’oro,
     I cimieri, gli scudi e le loriche
     Volan squarciati e triti in pezzi e ’n polve:
     48Il vento gli disperge e gli dissolve.

VI.


Tra mille colpi il Conte di Miceno
     Colse in fronte il Signor di Francolino,
     Che gli fece veder l’arco baleno,
     52La luna, il ciel stellato e ’l cristallino.
     D’ira, di sdegno e di superbia pieno,
     Sollevò Salinguerra il capo chino;
     E alla vendetta già movea repente,
     56Quando rivolse gli occhi alla sua gente.


VII.


Sotto la scorta di sì chiaro duce
     Eran trascorsi i Ferraresi tanto,
     Che dietro a lui, come a notturna luce,
     60Sconvolto avean tutto il sinistro canto.
     Ma poi ch’a Salinguerra il buon Voluce
     Si fece incontro, essi allentar frattanto
     L’impeto loro; e videsi in figura,
     64Che trotto d’asinel passa e non dura.

VIII.


Manfredi che cacciati i Milanesi,
     Rotti e dispersi avea per la campagna;
     E in aiuto venia de’ Cremonesi
     68Contra quei di Toscana e di Romagna;
     Poichè conobbe all’armi i Ferraresi
     Ch’incalzavano i suoi della montagna,
     Rivolto allo squadron ch’intorno avea,
     72Gli accennava col brando, e gli dicea:

IX.


Vedete là quella volubil gente
     Che sforza contra noi gli animi imbelli:
     E fatta guelfa, or nella vana mente
     76Seco sognando va trofei novelli:
     Mirate com’è d’or tutta lucente,
     Come d’armi pomposa e di gioielli.
     Andiamo valorosi, urtiam fra loro;
     80Che nostre fien le gemme e l’armi e l’oro.

X.


Così dice; e spronando il buon destriero,
     La spada stringe, e ’l forte scudo imbraccia,
     E tra le squadre de’ nemici, altero,
     84Colla man fulminando, urta e si caccia.
     Come al primo attizzar pronto e leggiero
     Corre stormo di bracchi a dar la caccia
     Al gregge vil; così da quegli arditi
     88I Ferraresi allor furo assaliti.


XI.


Manfredi a Pasqualin di Pocointesta
     Tagliò d’un sottobecco1 il mento e ’l naso,
     E fece rimaner con mezza testa
     92Piero Simon di Gasparin Pendaso.
     Contra Manfredi colla lancia in resta
     Venía spronando il Mozzarel Tommaso;
     Quand’ecco l’afferrò con un uncino
     96Archimede d’Orfeo Cavallerino.

XII.


Correa l’inavveduto a tutta briglia,
     Senza badar s’alcun gli movea guerra;
     E Archimede l’apposta e l’arronciglia,
     100E ’l fe’ cader d’arcion col collo in terra.
     Per la coda il destrier Tommaso piglia
     Per ritenerlo; ed egli i piè diserra
     Con grazia tal, ch’in cambio di confetti
     104Gli fa ingoiar dodici denti netti.

XIII.


Giannotto Pellicciar con un’accetta
     Spaccò la testa a Gabrio Calcagnino.
     Obizzo Angiari, e Baldovin Falletta
     108Uccisi fur da Gemignan Porrino.
     Con un colpo di mazza Anteo Pinzetta
     Ammaccò la visiera ad Acarino
     Nato del seme altier di Giliolo,
     112E gli fece del naso un raveggiolo.

XIV.


Ma questo è un giuoco a quel che fa Manfredi
     Che tutta fracassata ha quella schiera.
     Galasso Trotti ha morto, e Gottifredi
     116Gualengui, e Perondel di Boccanera;
     E ’l Rosso Riminaldi ha messo a piedi
     Passato d’una punta alla gorgiera.
     Onde d’ardire e d’ordinanza tolta
     120La gente di Ferrara, in fuga è volta.


XV.


Salinguerra ch’i suoi vede fuggire
     Dal nemico valor che gli sbaraglia,
     Ferma la spada in atto di ferire,
     124E dice al Conte: Tua bontà mi vaglia
     Sì, che la gente mia possa seguire
     Tanto, ch’io la rivolga alla battaglia;
     Che s’io resto qui sol cinto da’ tuoi,
     128Nè tu meco pugnar con laude puoi.

XVI.


Voluce rispondea: Signor marchese,
     È morto Orlando, e non è più quel tempo:2
     Ma per non vi parer poco cortese,
     132Se volete fuggir, voi siete a tempo.
     Seguite pur, ch’io non farò contese,
     La gente vostra, e non perdete il tempo,
     Perchè mi par che corra come un vento:
     136Ma vo’ venir anch’io per complimento.

XVII.


Oh questo no, rispose Salinguerra;
     Io non partirò mai s’ella non resta.
     E in questo dire, un colpo gli disserra
     140A mezza lama al sommo della testa.
     Perdè le staffe, e quasi andò per terra
     Il Conte a quella nespola brumesta;3
     Strinse le ciglia, e vide a un punto mille
     144Lampade accese, e folgori e faville.

XVIII.


Allora Salinguerra il tempo piglia,
     Sprona il cavallo, e si dilegua ratto;
     E là dove Manfredi i suoi scompiglia,
     148D’ira avvampando e di furor, s’è tratto:
     Grida, rampogna, e or questo e or quel ripiglia;
     Mena la spada a cerco, e a chi di piatto,
     A chi coglie di taglio, a chi minaccia;
     152E non può far ch’alcun volga la faccia.


XIX.


Voluce intanto si risente, e gira
     Il guardo, e vede il Principe lontano.
     Tosto dietro gli sprona: e poi che mira
     156Chiusa la strada, e che s’affanna invano;
     Urta, fremendo di disdegno e d’ira,
     Tra i Ferraresi anch’ei col brando in mano,
     E fa volare al ciel membra tagliate,
     160E piastre rotte, e pezze insanguinate.

XX.


Tagliò una spalla a Tebaldel Romeo,
     E a Bonaguida Fiaschi un braccio netto;
     La gamba manca a Niccolin Bonleo
     164Troncò dove finía lo stivaletto;
     E mastro Daniel di Bendideo,
     Pieno d’astrologia la lingua e ’l petto,
     Uccise d’una punta, ond’ei s’avvide
     168Che del presumer nostro il ciel si ride.

XXI.


Voluce fe’ quel dì prove mirande,
     E uccise di sua man trenta marchesi:
     Perocchè i marchesati in quelle bande
     172Si vendevano allor pochi tornesi;4
     Anzi vi fu chi, per mostrarsi grande,
     Si fe’ investir d’incogniti paesi
     Da un tal signor che, per cavarne frutto,
     176I titoli vendea per un presciutto.5

XXII.


Come nube di storni, a cui la caccia
     Lo sparvier6 dava dianzi o lo smeriglio,
     Se l’audace terzuol per lunga traccia
     180Le sovraggiugne col falcato artiglio,
     Raddoppia il volo, e quinci e quindi spaccia
     Le campagne del ciel, volta in scompiglio;
     Or s’infolta, or s’allarga, or si distende
     184In lunga riga, e i venti e l’aria fende:


XXIII.


Tal la gente del Po, che pria fuggiva
     Dalla tempesta di Manfredi irato,
     Poichè Voluce anch’ei le soprarriva
     188E ’n lei doppia il terror freddo e gelato,
     Con disordine tal, fuggendo, arriva
     Tra il popol di Fiorenza a destra armato,
     Che seco lo trasporta, e lo sbaraglia,
     192E lo fa seco uscir della battaglia.

XXIV.


Segue Manfredi, e d’armi e di bandiere
     Resta coperto il pian dovunque passa,
     Fende Voluce or queste or quelle schiere,
     196E memorabil segno entro vi lassa.
     Pippo de’ Pazzi, e Cecco Pucci ei fere,
     Beco Stradini, e Pier di Casabassa.
     Seco è il Duara: e per foreste e boschi
     200Fuggon dispersi i Ferraresi e i Toschi.

XXV.


Ma non fuggon così già i Perugini
     Nè la cavalleria del Malatesta;
     Anzi come fu noto ai pellegrini
     204Fregi il Duara e alla pomposa vesta,
     L’arroncigliar con più di cento uncini
     Nelle braccia, ne’ fianchi e nella testa.
     Fate pian, grida Bosio: aiuto, aiuto:
     208Non stracciate; che ’l saio è di velluto;

XXVI.


Fermate i raffi, ch’io mi do per vinto:
     Non tirate, canaglia maladetta
     Che malann’aggia il temerario instinto,
     212Perugini, ch’avete, e tanta fretta.
     Così dicendo, fu subito cinto,
     E fatto prigionier dalla cornetta
     Del capitan Paolucci; indi, legato
     216Sopra un roncino, a Crespellan menato.


XXVII.


La prigionia del duce lor commosse
     A furore e vendetta i Cremonesi.
     Spinsero innanzi, e rinforzar le posse;
     220E s’uniron con loro i Frignanesi:
     Ma il Perugino audace il piè non mosse,
     E stettero in battaglia i Riminesi,
     Dal valor proprio, e dall’esempio degno
     224De’ capitani lor tenuti a segno.

XXVIII.


Il capitan Paolucci a Perdigone
     Fratel di Bosio, che il destrier gli uccise,
     Tirò d’una balestra da bolzone,
     228E con due coste rotte in terra il mise.
     Indi ammazzò col brando Ercol Pandone
     Che se l’ebbe per male in strane guise,
     Perch’era vecchio in guerra, e buon soldato,
     232E nissuno mai più l’avea ammazzato.

XXIX.


Aveva intanto Alessio di Pazzano
     Il buon Omero Tortora assalito,
     Istorico famoso e capitano,
     236Che le Ninfe d’Isauro avean nudrito;
     Quando d’una zagaglia soprammano
     Fu dal Signor di Rimini ferito;
     E ’l ferro al vivo penetrò di sorte
     240Che ’l trasse dell’arcion vicino a morte.

XXX.


E già per ispogliarlo era smontato,
     Quando ei si volge, e ’n sul morir gli dice:
     O tu che godi or del mio acerbo fato,
     244Sappi che morirai via più infelice:
     Vicina è la tua sorte; e ’l tuo peccato
     Già prepara per te la mano ultrice,
     Dove meno la temi; e, quel ch’importa,
     248Teco la fama tua fia spenta e morta.


XXXI.


Qui chiuse i lumi Alessio; e ’l Malatesta
     Frenò la mano, e ritirando il passo:
     Col mal augurio tuo (disse) ti resta:
     252E va’ giù a profetar con Satanasso:
     L’armi e la ricca tua serica vesta
     Portale teco pur; ch’io le ti lasso
     Con questi annunzi tuoi sciaurati e rii,
     256O poeta o stregon che tu ti sii.

XXXII.


E in questo dire in sul destrier salito,
     Alla pugna volgea senza soggiorno,
     Dal magnanimo cor tratto all’invito
     260Del suon dell’armi che fremea d’intorno;
     Quando il tergo de’ suoi vide assalito
     Dal feroce Roldan che fea ritorno
     Dalla campagna, e seco avea Ramberto
     264Di sangue e di sudor tutto coperto.

XXXIII.


Onde contra il furor delle balestre
     Che scoccava ne’ suoi la gente alpina,
     Subito strinse l’ordinanza equestre,
     268E si ritrasse a un’osteria vicina:
     E ’l capitan Paolucci alla pedestre,
     Sudando e ansando, e colla man mancina
     Dimenando il cappel per farsi vento,
     272Ritrasse anch’egli i suoi, ma con più stento;

XXXIV.


Che Betto e Vico e Peppe e Ciancio e Lello
     E Tile e Mariotto e Cecco e Bino,
     E ’l Miccia d’Erculan Montesperello
     276Vi restar morti, e Cittolo Oradino;
     E prigioni, Binciucco Signorello,
     E Mede di Pippon Montomelino;
     E Fulvio Gelomia cadde di sella,
     280Primo cultor della natia favella.


XXXV.


Vi s’abbattè il Dottor da Palestrina,
     E fu storpiato anch’ei per mala sorte:
     E fu d’un colpo d’una chiaverina
     284Tratto un occhio di testa a Braccioforte,
     A Braccioforte a cui quella mattina
     Cinta la propria spada avea la Morte,
     E ’l fiero Pluto per altrui spavento
     288Messa gli avea l’orrida barba al mento.

XXXVI.


Ma intanto che la palma ancor sospesa
     Pende, e l’un campo e l’altro è omai disfatto,
     Due politici fanno in ciel contesa,
     292E vengono all’ingiurie al primo tratto.
     Mercurio pe’ Petroni alla difesa;
     Favorisce i Potteschi Alcide matto.
     Giove sta in mezzo, e con real decoro
     296Raffrena l’ire e le discordie loro.

XXXVII.


Ne’ gangheri del ciel ferma ogni stella,
     Cessa di variar gl’influssi e l’ore;
     Cade nel mar tranquillo ogni procella;
     300Rischiara l’aria insolito splendore.
     Dall’alto seggio allor così favella
     Della sesta lanterna il gran Motore:7
     Non affrettate, o Dei, degli odi il tempo;
     304Ch’ancor verrà per voi troppo per tempo.

XXXVIII.


Vedete là dove d’alpestri monti
     Risonar fanno il cavernoso dorso
     La Turrita8 col Serchio, e fra due ponti
     308Vanno ambo in fretta a mescolare il corso:
     Due popoli fra questi arditi e pronti
     In fiera pugna si daran di morso,9
     E si faran co’ denti e colle mani
     312Conoscer che son veri Graffignani.


XXXIX.10


Oh quante scorze di castagni incisi
     D’intorno copriran tutta la terra!
     Quanti capi dal busto fian divisi
     316In così cruda e sanguinosa guerra!
     Caronte lasso in trasportar gli uccisi
     Ch’a passar Stige scenderan sotterra,
     Bestemmierà la maledetta sorte
     320Che gli diè in guardia il passo della morte.

XL.


Quinci in aiuto a’ suoi correre armato
     Vedrassi al monte il forte Modanese;
     Quindi ai passi ch’in pace avrà occupato,
     324Opporsi l’astutissimo Lucchese.
     Entrar potrete allor nello steccato,
     Tu, Mercurio, e tu, Alcide, alle contese,
     E provar se più vaglia in quella parte
     328L’accortezza o il vigor, la forza o l’arte.

XLI.


Un Alfonso e un Luigi Estensi11 appena
     D’un pel segnata mostreran la guancia,
     Ch’a più di mille insanguinar l’arena
     332Faranno or colla spada, or colla lancia.
     Le squadre intere volteran la schiena
     Dinanzi ai nuovi paladin di Francia;
     E Castiglion12 fra le percosse mura,
     336Sotto si cacherà della paura,

XLII.


Pregando il conte Biglia in ginocchione,
     Che venga a far cessar quella tempesta,
     Spiegando di Filippo il gonfalone
     340Con una spagnolissima protesta.
     Quivi potrete allor con più ragione
     Cacciarvi gli occhi, e rompervi la testa:
     Cessate intanto, e la pazzia mortale
     344Resti fra quei che fan laggiù del male.13


XLIII.


Così disse; e chiamando Iride bella,
     Ch’al sole avea l’umida chioma stesa:
     Vola, le impone, o mia diletta ancella,
     348E di’ a Marte, che ceda alla contesa
     Finch’arrivi Gherardo e sua sorella
     A cui si dee l’onor di questa impresa.
     Iride non risponde, e i venti fende,
     352E giù dal ciel nella battaglia scende.

XLIV.


Vede Marte da lunge, e drizza l’ale
     Dov’ei combatte, e l’ambasciata esprime:
     Indi si parte, e fuor della mortale
     356Feccia ritorna al puro aer sublime.
     Marte che scorge la tenzone eguale,
     Ritira il piè dall’ordinanze prime.
     E nella retroguardia intanto passa,
     360E ’l Potta incontro ai Romagnuoli lassa.

XLV.


Il Potta avea assaliti i Faentini,
     E fracassata la lor gente equestre,
     Che gli scudi dipinti e gli elmi fini
     364Non ressero al colpir delle balestre.
     Giacoccio Naldi, e Pier de’ Fantolini
     Rimasero feriti e alla pedestre:
     E a Mengo Foschi e al cavalier Giulita
     368Il Potta di sua man tolse la vita.

XLVI.14


Ma poi che Marte il suo favor ritenne,
     E tornò di quadrato indietro il passo;
     E che Perinto15 in quella parte venne,
     372Guidato dal furor di Satanasso;
     Il modanese stuol più non sostenne
     L’impeto ostil, dal faticar già lasso;
     E rallentate l’ordinanze e l’ire,
     376Cominciò a ritirarsi, indi a fuggire.


XLVII.


Il Potta pien di rabbia e disperato,
     Gridava colla bocca e colle mani;
     Ma non potea fermar da nessun lato
     380Lo scompiglio e ’l terror de’ Gemignani:
     E dall’impeto loro alfin portato,
     Costretto fu d’abbandonar que’ piani;
     Benchè tre volte e quattro, in volto fiero,
     384Spignesse tra i nemici il gran destriero.

XLVIII.


Correndo intanto, e traversando il lito,
     Senz’elmo, e molle e polveroso tutto,
     Il Conte di Culagna era fuggito,
     388E giunto alla città piena di lutto.
     Narrato avea fra il popolo smarrito,
     Che ’l re prigione, e ’l campo era distrutto:
     Onde i vecchi e le donne al fiero avviso
     392Fuggian chi qua chi là, pallidi in viso.

XLIX.


Corsero gli anzían tutti a consiglio
     Per consultar ciò che s’avesse a fare.
     Molti volean nel subito periglio
     396Fuggirsi, e la cittade abbandonare:
     Altri dicean ch’era da dar di piglio
     A tutto quel che si potea portare,
     E salir sulla torre allora allora;
     400E chi non vi capia, stesse di fuora.

L.


Surse all’incontro un Bigo Manfredino
     Che sedea appresso a Carlo Fiordibelli,
     E disse: Senza pane e senza vino;
     404Che vogliamo cacar lassù, fratelli?
     Questi sono consigli da un quattrino,
     Che non gli sosterrian cento puntelli:
     Però i’ vorrei, se ’l mio parer v’aggrada,
     408Cavar un pozzo in capo d’ogni strada,


LI.


E ricoprirlo sì, ch’in arrivando
     Cadessero i nemici in giù a fracasso.
     Guarnier Canuti allor rispose: E quando
     412Sarà finita l’opra, e chiuso il passo?
     Non è meglio, che star quivi indugiando,
     Condur lo stabbio16 ch’abbiam pronto abbasso,
     Ch’ingombra la metà della cittade,
     416E con esso serrar tutte le strade?

LII.


Ugo Machella a quel parlar sorrise,
     E disse, rivoltato a que’ prudenti:
     Se chiudiamo le strade in queste guise,
     420Dov’entreranno poi le nostre genti?
     Prendiamo l’armi. Il ciel sovente arrise
     Alle più audaci e risolute menti.
     Qui s’alzar tutti, e gridar senza tema:
     424A la fè, che l’è vera: andema, andema.

LIII.17


Ma i bottegai correndo in fretta ai passi
     Che feano la città poco sicura,
     Con travi e pali e terra e sterpi e sassi
     428Tosto alzaron trinciere, argini e mura;
     Sbarrar le strade, e gli affumati chiassi,
     E i portici d’antica architettura,
     E dinanzi alle sbarre in quelle strette
     432Cominciaro a votar le canalette:18
                                  

LIV.


Quando armato apparir fu vista intanto
     Renoppia al suon della novella fiera,
     E correre alla porta, e seco accanto
     436Condurre il fior della virginea schiera.
     Diede agli uomini ardir, riprese il pianto
     Del sesso femminil con faccia altera;
     E rimirando giù per la via dritta,
     440Non vide alcun fuggir dalla sconfitta.


LV.


Stette sospesa, e addimandò del Conte;
     Ma il Conte avea già preso altro sentiero:
     Onde deliberò di gire al ponte
     444Sovra il Panaro a investigar del vero.
     Quivi arrivò che ’l sol dall’orizzonte
     Già poco era lontan nel lito ibero;
     E mirò in vista dolorosa e bruna
     448Spettacolo di morte e di fortuna.

LVI.


Nella parte più cupa e più profonda
     Notavano pedoni e cavalieri.
     Tutta di sangue uman torbida l’onda
     452Volgea confusi e misti armi e destrieri.
     I Gemignani alla sinistra sponda
     Fuggian cacciati dai Petroni fieri.
     Stavan Tognone e Periteo lor sopra,
     456E mettea l’uno e l’altro il ferro in opra.

LVII.


Per man di Periteo giaceano morti
     Guron Bertani, e Baldassar Guirino,
     Giacopo Sadoleti, e Antonio Porti,
     460E ferito Antenor di Scalabrino.
     Ma il superbo Tognone e i suoi consorti
     Le schiere di Stuffione e Ravarino
     Avean distrutte, e a gran fatica s’era
     464Salvato Gherardin sulla riviera.

LVIII.


L’altro fratel, ferito e prigioniero,
     Cedeva l’armi al vincitor feroce.
     Ma sugli archi del ponte un cavaliero
     468Fulminando col ferro e colla voce,
     Cacciava i Gemignani: e a quell’altiero
     S’opponea solo il Potta in sulla foce
     Del ponte, e di fermar cercava in parte
     472L’ordinanze de’ suoi già rotte e sparte.


LIX.


Giugne Renoppia; e dove rotta vede
     Dalla ripa fuggir l’amica gente;
     Volge coll’arco teso in fretta il piede,
     476E, di lampi d’onor nel viso ardente:
     Oh infamia, grida, ch’ogn’infamia eccede!
     Tornate, e dite alla città dolente,
     Che moriron le figlie e le sorelle
     480Dove fuggiste voi, popolo imbelle.
                                 

LX.


Noi morirem qui sole e gloriose;
     Gite voi a salvar l’indegna vita:
     Non resteran vostre ignominie ascose;
     484Nè la fama con noi fia seppellita.
     Seco Renoppia avea le bellicose
     Donne di Pompeian, schiera fiorita
     Ch’in Modana arrestò tema d’oltraggio;
     488E cento delle sue di più coraggio;
                                  

LXI.


E fra queste Celinda e Semidea
     Di Manfredi sorelle, e sue dilette:
     E l’una e l’altra l’asta e l’arco avea,
     492E la faretra al fianco e le saette.
     Renoppia che dal ponte i suoi vedea
     Tutti fuggir, la cocca all’occhio mette,
     E drizza il ferro alla scoperta faccia
     496Di Perinto ch’a’ suoi dava la caccia.

LXII.


E se non che Minerva il colpo torse
     Dal segno ove ’l drizzò la bella mano,
     Il fortissimo eroe periva forse:
     500Ma non uscì però lo strale invano:
     Ch’al destrier ch’a quel punto in alto sorse
     D’un salto, e si levò tutto dal piano,
     Andò a ferir nel mezzo della fronte;
     504Onde col suo signor cadde sul ponte.


LXIII.


Perinto dal destrier ratto si scioglie;
     Ma lui non mira più la donna altera
     Che declina dal ponte, e si raccoglie
     508Dove fuggiano i suoi dalla riviera.
     Quivi a Tognon che l’onorate spoglie
     Avea tratte a Engheran dalla Panciera,
     Prende la mira, e fa passar lo strale
     512Dove giunto alla spalla era il bracciale.

LXIV.


Ferito il cavalier si ritraea:
     Quand’un altro quadrel gli sopraggiunge,
     Che dall’arco gli vien di Semidea,
     516E in una gamba amaramente il punge.
     Strinse l’asta Celinda, e giù scendea
     Là dove Periteo poco era lunge;
     Quand’ecco col caval cader nell’onda
     520Rotolando il mirò dall’alta sponda.

LXV.


Avventar le compagne all’improvviso
     Cento strali in un punto al cavaliero.
     L’armi difeser lui; ma cadde ucciso
     524Ai colpi di tant’archi il buon destriero.
     La sembianza real, l’altero viso,
     La ricca sopravvesta, e ’l gran cimiero
     Trasser gli occhi così tutti in lui solo,
     528Che meglio era vestir di romagnolo.

LXVI.


Qual Telessilla già dal muro d’Argo
     Cacciò il campo spartan vittoríoso;
     Tal fe’ Renoppia dal sanguigno margo
     532Ritrarre il piede al vincitor fastoso.
     Come uscito di sonno o di letargo,
     Da quell’atto confuso e vergognoso,
     Il campo che fuggia, voltò la fronte,
     536E fermò le bandiere appiè del ponte.


LXVII.


Indi allargati in sulla destra mano,
     Correano a gara a custodir la riva;
     Quando s’udì un rumor poco lontano,
     540Che ’l ciel di gridi e di spavento empiva.
     Era questi Gherardo il capitano,
     Ch’in soccorso de’ suoi ratto veniva.
     Al giugner suo mutar faccia le carte,
     544E ripresero cor Dionisio e Marte.

LXVIII.


Gherardo in arrivando a destra invia
     Bertoldo con due schiere; ed egli, dove
     Vede il Potta pugnar, prende la via:
     548Passa sul ponte, e fa l’usate prove.
     Perinto a piedi e sol gli s’opponia;
     Ma come vide tante genti nuove
     Che correano del ponte alla difesa,
     552Ritrasse il piede, e abbandonò l’impresa.

LXIX.


Gherardo sbarra il ponte, e ’n guardia il lassa
     A Giberto che quivi era con lui;
     E torna indietro, e sulla riva passa
     556Là dove combattean nell’acqua i sui.
     Vede stanco il caval: subito abbassa;
     Ne fa un altro venir, che n’avea dui;
     Nè può soffrir di scender dalla sponda,
     560Ch’a precipizio giù salta nell’onda.

LXX.


Il Signor di Faenza era in battaglia
     Col capitan Brindon Boccabadati;
     E Matteo Fredi, e Gemignan Roncaglia,
     564E Beltramo Baroccio avea ammazzati.
     Gherardo colla mazza apre e sbaraglia
     Faentini, Imolesi e Cesenati,
     Quei di Ravenna, e quei della Cattolica:
     568E fa strage di ferro e di maiolica.


LXXI.


Al capitan Fracassa in sull’elmetto
     Menò d’un colpo esterminato e fiero,
     Che tramortito nell’ondoso letto
     572Cadendo, di Brindon fu prigioniero.
     Quindi si volse, e con feroce aspetto
     Nel petronico stuol spinse il destriero;
     E di Panago al Conte, e a Boniforte
     576Signor di Castiglion, diede la morte.

LXXII.


Si ritira il nemico all’altra riva;
     Che ’l disvantaggio suo vede e comprende:
     E poi ch’all’erta in fermo sito arriva,
     580L’ordinanze restrigne, e si difende.
     Ma già la notte d’oriente usciva,
     E fra l’orror delle sue fosche bende
     Le lampade del ciel tutte accendea,
     584E giù in terra a’ mortali il dì chiudea.

  1. [p. 274 modifica]Sottobecco, vocabolo aggiunto dal Tassoni alla Crusca nelle sue postille: Sottobecco è quando altri percuote all’insù nella bocca, nel mento e nel naso.
  2. [p. 274 modifica]Nel Poema dell’innamorato d’Orlando si legge, che combattendo quel Paladino col re Agricane, e vedendo quel barbaro i suoi che fuggivano, pregò Orlando che glieli lasciasse rimettere in battaglia, che poi ritornerebbe a duellare con lui; e Orlando se ne contentò. Ma qui Voluce dice che Orlando è morto, e non è più quel tempo. Salviani.
  3. [p. 274 modifica]Brumesto, o Brumasto si dice d’alcuna sorta d’uva grossa e assai dura. Qui s’applica alle nespole.
  4. [p. 274 modifica]Tornesi, monete d’oro e d’argento, così dette, perchè si battevano a Tours città della Francia. Tournois.
  5. [p. 274 modifica]Un tal principe Greco, che si vantava della stirpe di Costantino Magno, andava pescando i balordi per le città d’Italia, e mostrava privilegi di carta pecora vecchia, e veggendo l’ambizione degl’Italiani dava loro titoli e croci a diccine senza risparmio per ogni minima mercede. Onde molti si trovarono cavalieri e conti per una forma di cacio, o per un salame, o per un prosciutto; e a Ferrara fe’ gran profitto, dove infeudò le terre del Turco. Salviani.   Quel tal Signore fu un certo Giovann’ Andrea, che si diceva discendente dalla famiglia Commena. Era principe di Macedonia, e gran maestro dell’ordine imperiale costantiniano di S. Giorgio.
  6. [p. 274 modifica]assediata da Marc’Antonio con tanta strettezza, che non ne poteva uscire uomo alcuno, furono mandate fuori colombe con lettere al collo, che furono cagione, che il senato romano affrettasse il soccorso. Salviani.Lo Sparviere, lo Smeriglio ed il Terzuolo sono uccelli di rapina.
  7. [p. 274 modifica]Santa Nafissa, o per dir meglio Nafissa, fu Maomettana; e per aver condotta una vita incolpabile, e per vantar parentela con Maometto istesso, è riverita da’ Maomettani per Santa, ed il suo sepolcro si onora nell’antica città di Mifrultheich non molto lungi dal Cairo.Giove secondo Tolomeo è motore del sesto Pianeta, che dal Tassoni è qui per lepidezza chiamato lanterna, come alla st. 72 di questo medesimo Canto le stelle son dette lampade del cielo.
  8. [p. 275 modifica]La Turrita è un torrente nella Garfagnana rapidissimo, procedente da’ monti della Pania, che si unisce col Serchio tra il Ponte della Madonna, e il Ponte di santa Lucia sopra il Serchio di Castelnuovo.
  9. [p. 275 modifica]Fin dall’anno 1602 cominciarono le discordie e le guerre tra la repubblica di Lucca e il duca di Modena per cagione de’ confini nelle terre delle Fabbriche e di Vallico nella provincia della Garfagnana, sulla quale da molti anni indietro pretendevano i Lucchesi d’aver ragione, e solamente smontarono da questa loro pretendenza, quando dalla camera imperiale fu deciso contro di loro, come racconta il Muratori nel T. 2. delle Antichità Estensi, cap. 14 . . . . . Barotti.  Queste discordie però furono altre volte ravvivate, e specialmente nel 1613, con gravissimo danno e furore.
  10. [p. 275 modifica]Queste violenze e soperchierie furono dal Vedriani l. 19, accennate con quelle parole: Poscia datisi (i Modenesi,) a depredare la campagna scorzarono gli arbori, tagliarono le viti, e desolarono ogni qualunque cosa, facendo lo stesso i nemici sul nostro. Barotti.
  11. [p. 275 modifica]Loda il Poeta in questo e ne’ seguenti versi il valore mostrato contra i Lucchesi nella guerra della Garfagnana dai due principi estensi figliuoli di Cesare duca di Modena, Alfonso, che al padre nella signoria succedette, e Luigi marchese di Montecchio.
  12. [p. 275 modifica]Castiglione, Terra grossa (come la disse il Vedriani l. 9) e ben guardata, di ragione de’ Lucchesi nella Garfagnana, fu strettamente assediata e gagliardamente battuta dal principe Alfonso (siccome fu fatto dal marchese Bentivoglio due volte nelle due prime rotture del 1602 e 1603) e forse fu il pericolo della caduta di questo forte, che affrettò alla pace i Lucchesi. Barotti.
  13. [p. 275 modifica]Castiglione era assediata dai Modenesi e ridotta all’ultimo, quando vi entrò dentro il conte Baldassarre Biglia Milanese, personaggio mandato dal governator di Milano per vedere d’acquetar que’ popoli; e salvò la piazza spiegando una bandiera del Re Cattolico, alla quale subito i Modenesi fecero di berretta. Ma questi versi nelle stampe di Parigi si leggono mutati dai Lucchesi medesimi a favore della loro nazione, perchè un gentiluomo lucchese soprastette alla stampa. Ognuno procura a suo vantaggio. Salviani.
  14. [p. 275 modifica]Questa stanza e la seguente furono aggiunte dall’Autore nell’edizione di Venezia 1625.
  15. [p. 275 modifica]Il cavalier Enea Vaino fu amicissimmo del Poeta, e qui venne introdotto fra gl’Imolesi, sebben era nato in Firenze, perchè [p. 276 modifica]traeva la sua origine di Romagna. Fu nipote di sorella del Cardinale Magalotti, e amatissimo nella corte di Roma. Salviani.
  16. [p. 276 modifica]A quel tempo Modena era tutta piena di masse di stabbio; oggidì le strade ne sono meno adorne, ma non però in tutto prive. Da Omero sarebbe stata detta: Urbs bene stabulata. Salviani.
  17. [p. 276 modifica]L’antichità di Modena si conosce dalle fabbriche particolarmente de’ portici sui balestri, che mostrano essere stati fatti assai prima che Vitruvio scrivesse d’Architettura.
  18. [p. 276 modifica]Le Canalette sono le chiaviche, o cloache, delle quali è piena quella città, e quando le votano non si può passare per quelle strade per rispetto della lordura che si diffonde, oltre il puzzo che appesta. Salviani.

Note

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