< La Tebaide
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Publio Papinio Stazio - La Tebaide (92)
Traduzione dal latino di Cornelio Bentivoglio d'Aragona (1729)
Libro ottavo
Libro settimo Libro nono


LA MORTE DI ATI.
PROMESSO SPOSO A ISMENE.
FINE EFFERATA DI TIDEO.


 
Poichè fra l’ombre pallide repente
discese il vate, e penetrò di Morte
l’oscure case, e del sepolto mondo
scoprì gli occulti arcani, e diè spavento,
5ombra armata e guerriera, all’alme ignude,
maravigliando inorridîr d’Inferno
gli abitatori in rimirar intatte
l’armi e i vivi destrieri e ’l sacerdote,
spettacol nuovo! d’ossa e carne cinto:
10perchè non arso da funerea pira
scendea a gli abissi e fuor di nero avello;
ma di guerrier sudor grondante e caldo,
collo scudo sanguigno e polveroso
di militare arena, e non ancora
15l’avea l’Erinni con il tasso ardente
purgato e mondo, nè su l’atra porta
Persefone notato infra gli estinti:
ma prevenendo il suo destin, le Parche
sel videro vicino, e sbigottite
20lo stame in fretta ne troncâr dal fuso.
Spaventò quel rumore i lieti Elisi,
e s’oltre il primo baratro profondo
sono altre bolge, altri paesi oscuri.
Turbârsi i laghi inferni e i neri stagni,
25e il nocchier della livida palude
fremè mirando inusitate strade
aprire il suolo al Tartaro profondo,
e fuor del legno suo dar varco a l’Ombre.
  Stava per sorte il Re del basso Mondo
30assiso in mezzo del funesto regno,
del popol morto esaminando i falli
e la trascorsa vita. In lui pietade
non trova luogo, e a tutte l’Ombre è irato.
Stangli intorno le Furie e varie Morti;
35e in varie guise fa suonar la Pena
catene e ceppi. Le spietate Parche
traggono i stami delle umane vite,
e gli troncan sovente; e pur dell’opra
è maggior la fatica ed il lavoro.
40Ma il placido Minosse e ’l venerando
fratello ispira al barbaro tiranno
più giuste leggi, e ne rattempra l’ire.
Vi assistono Cocito e Flegetonte
e Stige, ch’al giurar de’ Numi eterni
45il freno impon d’invïolabil legge;
ed ei quantunque a non temere avvezzo,
pure all’aprirsi della terrea mole
temè le stelle ignote, e ’l torvo ciglio
dal dolce offeso balenar del sole,
50crollò il gran capo, e minacciando disse:
  - Qual superior ruina al cieco Inferno
mostra il nemico Cielo? E chi rischiara
queste tenebre nostre? E chi la morte
quasi richiama a vita, e ne minaccia?
55Qual de’ fratelli miei guerra m’indice?
Eccomi pronto. Il mal diviso mondo
omai si turbi, e chi di noi più ’l brama?
La terza sorte me dal Polo escluse,
e del colpevol mondo a me diè ’l regno,
60e questo ancor mi si contende: or ecco
com’egli è aperto alle nemiche stelle.
Esplora forse il tumido germano,
che regna in cielo, le mie forze ascose?
Stansi qui meco gli orridi Giganti
65che han quasi rotte le catene, e i figli
di Titano, che uscir bramano in guerra
contro de’ Numi, e l’infelice Padre.
Perchè gli ozi miei tristi l’inamena
pace mi turba, e fa bramarmi il giorno?
70Solo ch’il voglia, aprirò i regni oscuri
e involgerò fra l’ombre inferne il Sole;
io non rimanderò l’Arcade alato
a’ Dei superni (a che a me viene e parte
messagger fra le tenebre e la luce?):
75io tirerò quaggiuso ambo i gemelli
di Tindaro: e perchè gli eterni giri
d’Issione io non fermo? e perchè l’onda
dell’assetato Tantalo ancor fugge?
Degg’io soffrir che tante volte e tante
80vengano i vivi a profanar l’Inferno?
Di Piritoo l’impresa e di Teseo,
troppo fedele al temerario amico,
ho ancor in mente, e quando il fiero Alcide
Cerbero seco trasse, e restâr prive
85del triplice latrar le ferree porte.
Sento sdegno e rossor che ’l tracio Orfeo
penetrasse quaggiù co’ dolci accenti:
io vidi, io vidi al lusinghiero canto
pianger le Furie, e rannodar lo stame,
90già tronco al fuso le crudeli Parche.
Io stesso... Ma l’irrevocabil legge
fu in me più forte; ed io, che una sol volta,
nè già di furto, al ciel sereno ascesi,
e d’amor punto ne’ sicani campi
95rapii la sposa, e al letto mio la trassi,
lecito disser che non m’era, e Giove
tosto fe’ leggi inique, e colla madre
barbaramente mi divise l’anno.
Ma perchè parlo indarno? Esci, e vendetta
100fa, Tesifone, omai del nostro Inferno;
e s’ognor fosti d’esecrandi mostri
feconda, or trova inusitata e grande
sceleraggin funesta, e da le stelle
non più veduta in alcun tempo, e degna
105che l’invidin tue suore e ch’io l’ammiri:
cadan l’un sovra l’altro in lieto Marte
con alterne ferite ambo i fratelli
(sian questi esordi a le vendette nostre);
altri di fiera in guisa il capo ostile
110roda feroce con rabbiosa fame:
altri gli estremi roghi a’ corpi esangui
contenda e neghi, e l’aere puro infetti
co’ cadaveri putridi e insepolti.
Veggalo il crudo Giove, e sen compiaccia.
115E perchè i regni nostri a gli altrui sdegni
soli non sieno esposti, alcun ritrova
che muova guerra a’ Numi, e del Tonante
la folgore respinga e al ciel contrasti.
Io farò sì che non più facil sembri
120del Tartaro turbar l’oscure sedi,
che monti imporre a monti e Pelio ad Ossa. -
Disse, e al suo dir tremò l’orrenda reggia
e ’l suol, cui preme, e ’l superior terreno.
Non con forza maggior scuote il Tonante
125le stelle e i Poli, se ’l gran capo muove;
e, - A te (soggiunse) che quaggiù scendesti
per illecite vie, quai pene appresto? -
Il sacerdote allor fatt’ombra lieve
ed invisibil quasi a gli occhi altrui,
130di già consunte l’armi e già pedone,
ma conservando (ancor che spirto ignudo)
l’onor del sacerdozio, e sulla fronte
le oscure bende, e ’l ramuscel d’oliva
pallida in mano, al crudo Re rispose:
135 - Se lece, e s’è permesso alle sacr’Ombre
scioglier la voce, e in questi luoghi, o estremo
ricetto e fine delle cose al vulgo,
che poco intende, ma principio e fonte
a me, cui le cagioni e gli elementi
140fur sempre noti; le minacce affrena,
e placa il cuor turbato, e non far degno
dell’ira tua chi le tue leggi apprezza.
A l’erculee rapine io non discendo.
Donde in me tanto ardir? Nè impuro amore
145(credilo a queste bende) è che mi guida.
Non si nasconda nelle oscure grotte
il can trifauce, nè del nostro carro
Proserpina paventi: io fui poc’anzi
augure e caro a gli apollinei altari.
150Giuro per lo tuo Caos (e vano fora
giurar quaggiù per Febo), alcun mio fallo
reo non mi fe’ di così nuova morte,
nè meritai per così strane vie
esser tolto a la luce. Il sa ben l’urna
155del giudice cretense, e può Minosse
scoprirne il vero: da l’infida moglie
tradito, e a prezzo d’esecrabil oro
venduto, e del mio mal certo indovino
m’ascrissi a l’armi argive, onde tant’alme
160scesero a te poc’anzi, e di mia mano
certo non poca e non ignobil parte.
Con subita vertigine dal mondo
(inorridisco!) me fra mille schiere
la tua gran notte nel suo abisso immerse.
165Quale mi feci allor che per lo vano
della terra pendente e per l’opaco
aere discesi? Ahi che di me non resta
nulla agli amici, a la mia patria, o almeno
spoglia e trionfo a la nemica Tebe.
170Io non più rivedrò le argive mura,
nè ’l mio mortale in cenere raccolto
tornerà al mesto padre; e senza tomba,
senza l’onor del rogo e senza pianti
coll’esequie mie intere e co’ destrieri
175(ma per nulla tentare) a te ne vengo.
Nè già ricuso convertirmi in ombra,
ed i tripodi miei porre in oblio.
C’hai tu che far de’ vaticini nostri,
se a tuo voler filan le Parche i fati?
180Deh placa l’ira, e mansueto e pio
ti mostra a me più de’ superni Numi.
Ma quando a te verrà la moglie infame,
a lei serba i supplicii e l’aspre pene:
essa, o buon Re, dell’ira tua è più degna. -
185 Pluto esaudì le preci, e n’ebbe scorno.
Così leon del cacciator massile
se vede incontra balenarsi il ferro,
si muove a l’ira, e l’unghie arruota e ’l dente;
ma se cade il nemico e a terra giace,
190sol gli va sopra, e dà la vita al vinto.
  Cercano intanto sbigottiti i Greci
ove sia il carro sì temuto in guerra,
e insigne per le bende e per l’alloro,
nè da forza mortal vinto o fugato.
195Si ritiran le schiere, e ognun paventa
l’infelice terreno, e al luogo infausto
giran da lungi timidi i guerrieri:
e ciò ch’è intorno a l’avida vorago
cessa da l’armi, e s’ha rispetto e tema
200alla tomba infernal del vate assorto.
Ma Palemon, che da vicin lo scorse
precipitar nel cupo fondo, e appena
agli occhi propri il crede, al vecchio Adrasto,
ch’eccitava le schiere a la battaglia
205in altra parte, spaventato corre
pallido ancora per l’immane speco
che dinanzi si vede; e: - Fuggi (grida),
fuggi, o buon re, s’ove fuggir ci resta,
s’è ancora il suol natio, s’ancora stanno
210le mura d’Argo e le paterne case.
A che l’armi adoprar, spargere il sangue?
Che giova il ferro contro Tebe? Il suolo
per lei combatte, e i guerrier nostri ingoia
e l’armi e i carri: ahi che fuggir mi sembra
215sotto i piedi il terren che ora calchiamo.
Vidi il cieco sentier dell’ombra eterna
io stesso, e vidi nell’aperto piano
precipitar colui che mentre visse
fu così caro a le presaghe stelle,
220il diletto d’Apollo Anfïarao;
e in van gridai, la mano invan gli stesi.
Maraviglie io racconto: ancor fumante
resta il terreno, e son di spuma aspersi
gl’infami campi, e vi son l’orme impresse
225del carro e de’ destrieri. Il suol crudele
non è con tutti; i figli suoi risparmia,
e stan sicure le tebane schiere. -
Stupisce Adrasto, e non sa ben se ’l creda;
ma Mopso e Attor narran le stesse cose,
230e la Fama le accresce, e forza acquista
dal novello terrore, e narra e finge
più d’un guerriero assorto. Al fiero annunzio,
senz’aspettar che delle trombe il suono
chiami a raccolta, di spavento piene
235fuggon le schiere; ma la fuga è lenta,
ed a la brama non consente il piede.
Par che i destrieri stessi abbiano mente,
così sen van dubbiosi, incerti e lenti,
nè temono gli spron, nè mutan passo;
240ma timidi adombrando e a capo chino
non osan sollevar da terra il guardo.
Gl’incalzano i Teban: ma fuor conduce
i cavalli di Cintia Espero oscuro;
breve quïete e momentanea pace
245ebbero allora i Greci, e l’atra notte
più di tema arrecò che di riposo.
  Qual fu la faccia allor del campo afflitto,
poichè il dolersi fu permesso? Quante
lagrime uscîr, poichè fur sciolti gli elmi?
250Nulla a’ miseri giova, ed in non cale
pongon gli usi guerrieri, e l’armi e l’aste
scagliano lungi, ed i sanguigni scudi,
quali di guerra uscîr, nè alcun li terge.
Non v’ha chi cura de’ destrier si prenda,
255o chi su gli elmi le gran piume assetti.
Fasciano appena le ferite aperte
e le più gravi; tal per tutto è doglia!
Nè permette il timore a’ corpi lassi
porger ristoro cogli usati cibi,
260e rinnovar le forze a nuova pugna.
Solo delle tue lodi in mezzo a’ pianti,
Anfïarao, si parla, e del profondo
saper, con cui tu discoprivi il vero.
- Teco (dicean) partîr dal campo i Numi.
265Ov’è il carro laurigero, e le insigni
armi, e di bende l’intrecciato elmetto?
Son questi gli antri ed i castalii fonti?
Questa de’ sacri tripodi è la fede?
Così Apollo t’è grato? E chi degli astri
270fia che sveli gl’influssi; e ciò che voglia
la folgore sinistra; e nelle fibre
qual Dio si mostri; e del partir il tempo
qual sia, qual di fermarsi, e della pace
e della guerra ne distingua l’ore?
275A chi prediran più gli augelli il fato?
La pugna a noi funesta e ’l tuo destino
tu prevedesti, e pur dell’armi infauste
(tant’era in te virtù) fosti compagno.
E quando instava già l’ora fatale
280e l’aperto terreno, era tua cura
far de’ Tebani strage: ancor tremendo
a gl’inimici in morte, e ti vedemmo
scender coll’asta d’ostil sangue aspersa.
Or qual è la tua sorte? A te permesso
285fia mai l’uscir dal tenebroso Inferno,
e ritornar di sopra? O pur contento
stai con le Parche amiche, ed il futuro
con vicenda concorde insegni e impari?
O forse impietosito il Re dell’Ombre
290te mandò a’ boschi del felice Eliso
i voli ad osservar de’ fausti augelli?
Ovunque sei, tu sarai sempre a Febo
rinnovato dolore, eterna pena.
Tacerà Delfo, e piangerà gran tempo
295tua morte acerba: questo dì funesto
chiusi terrà di Tenedo gli altari,
e Cirra e Delo, cui nascendo Apollo
stabile rese, e le presaghe grotte
di Branco; nè fia più chi su le soglie
300di Claro preghi, o chi consulti il tempio
di Didime, o le sorti in Licia cerchi:
del cornigero Amon fian muti i boschi;
e la quercia fatidica e ripiena
del molosso Tonante, ed i timbrei
305oracoli ch’Apollo in Troia rende;
anzi gli stessi fiumi e i sacri allori
inaridirsi brameran per doglia.
Non predirà con i presaghi canti
il Ciel più il vero, e non vedrem gli augelli
310l’aria solcar con misteriosi voli:
ma ben tempo verrà che altari e tempii
ti fieno eretti, e a le divote turbe
renderan tue risposte i sacerdoti. -
  Questi gli onor fur ch’al duce e vate
315rese concordemente il campo argivo
di pira invece e di funereo rogo,
e dell’esequie e della tomba lieve.
Quindi cade l’ardire in ogni petto,
e s’ha in odio la guerra: in cotal guisa,
320morto Tifi repente, i Minii audaci
restâr conquisi, e men sicuro il pino
lor parve, e i remi debili e fallaci,
e al lor cammin soffiar più fiacco il vento.
  Ma negli animi lassi il parlar lungo
325e ’l molto sospirare a poco a poco
scemo aveva il dolore, e l’atra notte
sopìa le cure, e fra’ singulti e i pianti
facil l’entrata avea trovata il sonno.
  Simile già non fu la notte in Tebe,
330e nelle piazze e ne’ paterni alberghi
la consumaro in giuochi. In su le mura
ebre stanno le guardie e sonnacchiose.
I timpani ed i cembali risuonano
per tutto a gara, e le forate tibie:
335allor fra le carole i Numi lodano,
e cantano, e raccontano per ordine
i cittadini Dei; le fronti e i calici
fregian di vaghi serti, e le incoronano:
ora d’Anfïarao la tomba irridono;
340or fin al cielo il lor Tiresia inalzano,
ora degli avi lor tesson catalogo,
e della lor città dicon l’origine.
Cantano questi di Sidone i flutti,
e la fanciulla che al divino amante
345palpa le corna, e ’l bue che solca il mare:
quelli rammentan Cadmo, e la già stanca
vacca, d’uomini armati il suol fecondo:
chi di Semele il parto, e chi racconta
della figlia di Venere le nozze
350al letto nuzïal fra mille faci
accompagnata da’ fratelli amori.
Cantasi alcun bel fatto in ogni mensa,
come se allora il loro nume Bacco
col tirso domi i regni dell’Aurora
355e l’Idaspe gemmato, il popol nero
in trionfo traesse e gl’Indi ignoti.
  Fam’è che allor per la primiera volta
Edippo uscisse di sue grotte oscure,
ove giacea sepolto agli occhi altrui,
360nè schivasse seder fra liete mense,
e che allegro nel volto il suo canuto
squallido crin ricomponesse, e i detti
degli amici accogliesse, ed i conforti
ed i piaceri fino allora esclusi.
365Anzi gustò de’ cibi, e terse il sangue
su le guance rappreso: ed ei che avvezzo
era solo a trattar co’ Numi inferni,
con Pluton, con le Furie, e di querele
Antigone pagar che lo reggea,
370fatto repente affabile e cortese,
parla e risponde: ognun stupisce, e alcuno
la ragion non ne intende. A lui non cale
il trionfo de’ suoi: la stessa guerra
è che gli piace e giova, e ’l figlio loda,
375e l’esorta a seguir; nè però brama
ch’ei resti vincitor. Con voti iniqui
ei già contempla le fraterne spade,
e d’ogni sceleranza il primo seme,
quindi il piacer de’ cibi e i gaudi nuovi.
380 Così Fineo, dopo una lunga fame
sofferta in pena, nel reale albergo,
da che più non sentì strider le Arpie
(non ben sicuro ancor), le mense, i letti
e i calici trattò non più turbati
385da’ sozzi ventri e dall’immonde penne.
  Dormiva intanto la falange argiva
stanca da l’armi e da’ pensier funesti:
ma da la tenda sua, ch’è in alto posta,
vegliava Adrasto, ed i tripudii udiva
390della nemica Tebe, ancor ch’ei fosse
per la senile etade infermo e lasso.
Ma il supremo comando (o di chi regna
misera legge!) su le altrui sciagure
a vegliare lo forza. I bronzi cavi
395e le forate tibie a lui del sonno
turban la pace, ed i clamori insani.
Vede mancar le faci, e delle scorte
quasi i fuochi sopiti e moribondi.
  Così fra l’onde d’un egual sopore
400la nave oppressa tace, ed in profondo
sonno la gioventù del mar sicura
giace sopita. Il nocchier solo è desto,
e seco il Nume che presiede al legno.
Era già ’l tempo che i febei destrieri
405sente accoppiarsi al luminoso carro
Cintia, e muggire l’Oceàn profondo
a lo spuntar della novella luce,
e se stessa raccoglie e si ritira,
e con lieve flagel scaccia le stelle.
410Adrasto allor mesto concilio aduna,
e ricercan gemendo i Greci afflitti
chi a’ tripodi succeda e al sacro alloro,
e a le vedove bende, e di concorde
voler scelgon fra lor Tiodamante
415per fama insigne e di Melampo figlio.
Seco soleva Anfiarao de’ Numi
partir gli arcani e degli augelli il volo;
(nè invidïando a sua virtù) godea
di vederselo eguale o almen secondo.
420Quegli per il novello onor confuso,
l’alta gloria improvvisa e ’l lauro offerto
umile adora, e a sì sublime incarco
inegual si confessa e lo ricusa,
e in ricusando più sen mostra degno.
425 Così di perso Re tenero figlio,
per cui meglio era che vivesse il padre,
timido siede su l’avito soglio,
e ’l nuovo onor colla paura libra:
se i proceri sian fidi, e ubbidïente
430a le sue leggi il vulgo; a chi commetta
le caspie porte, a chi l’Eufrate in guardia:
l’arco e ’l destrier paterno ardisce appena
trattare: e troppo grave a la sua mano
lo scettro sembra, ed il suo capo angusto
435del serto imperïal non ben capace.
  Poichè l’infule sacre al capo attorse
il nuovo vate, ed ebbe fausti i Numi,
tra lieti applausi e tra festive grida
girò pel campo, ed a placar la Terra
440tosto s’accinse, e l’approvaro i Greci.
Dunque comanda che di vive piante
e di verdi cespugli insieme intesti
s’ergan due altari, ed a la madre antica
dona i suoi doni: innumerabil fiori,
445e cumuli di frutta, e ciò che l’anno
in sè tornando rinnovella; e ’l latte
sopra vi sparge, indi così ragiona:
  - O madre eterna degli eterni numi
e de’ mortali, che produci e crei
450e fiumi e selve, e innumerabil’alme,
e del mondo ogni seme, e che animasti
a Prometeo le mani, a Pirra i sassi;
che all’uomo desti gli alimenti primi,
e che ’l rinnovi ognor col sen fecondo;
455che l’Oceàn circondi e lo sostenti:
tu le innocenti gregge e le iraconde
fiere porti sul dorso, e dài riposo
a gli augelli volanti, e dell’eterno
mondo sei ferma e invïolabil sede;
460intorno a te, che pendi in l’aer vano,
ruotan del cielo le veloci sfere,
e de’ maggior pianeti ambedue i carri,
o mezzo infra le cose, e non diviso
fra’ celesti fratelli e comun regno.
465Dunque eguale nutrice a tante genti
tu sola basti a sostenere il pondo
de’ popoli che a te premono in giro
sopra, sotto e da’ lati il globo immenso
di tante nazïoni, e di tant’alme
470cittadi eccelse; e ’l mauritano Atlante,
che folce gli astri sul tuo dorso, porti
quasi leggero peso, e noi ricusi?
Noi soli ti siam gravi? E qual ignoto
delitto ne fa rei di tanta pena?
475Forse perchè venghiam gente straniera
da le contrade d’Argo? Ogni terreno
è patria all’uomo. Ottima madre, a noi
non voler assegnar confini angusti,
quasi ad ignobil vulgo: a l’armi nostre
480egual ti mostra e a le tebane, e lascia
che spiriam l’alme forti in giusta guerra,
e le rendiamo al Cielo, e non rapirci
con improvvise tombe i corpi vivi.
Non ci affrettare: per diverse vie,
485qual prescritto è a ciascun, tutti verremo.
Noi ti preghiam; sta ferma, e le pelasghe
schiere sostenta, e la veloce Parca
non prevenire. E tu, diletto a’ Numi,
cui non sidonio ferro o mortal destra
490estinse, ma Natura, il duro seno
aperto, nelle viscere t’accolse,
quasi entro il meritato antro cirreo;
deh in noi, pregato, il tuo saper infondi,
ed il Ciel ne concilia e i sacri altari,
495e i fati a te già noti a me rivela.
Io t’offrirò votive ostie presaghe,
e interpetre fedel del tuo gran Nume
te invocherò, quandunque taccia Apollo.
Più di Cirra a me sacro e più di Delo
500questo luogo sarà, dove cadesti. -
  Ciò detto, e nere gregge e neri armenti
vivi sotterra, e sopra di essi inalza
gran tumulto d’arena, e in cotal forma
d’immaginario avello il vate onora.
505 Ciò si facea tra’ Greci, allor che udiro
di Tebe uscir tale un rumor di guerra,
di timpani e di trombe un tale invito,
che in fretta li costrinse a prender l’armi.
Su la cima di Teumeso Megera
510scuote la chioma serpentina, e i fischi
mesce a le trombe, e fa più acuto il suono.
L’ebbro Citero e l’alte torri, avvezze
a seguir miglior canto, inorridiro
al non usato strepito di Marte.
515Bellona stessa le ferrate porte
urta e spalanca, e tutta Tebe è aperta.
Quasi per sette bocche escon al campo
confusi e misti e cavalieri e fanti
e carri, e fansi l’un a l’altro impaccio.
520Sembra che i Greci abbiano a tergo; tanto
s’affollano a le porte: esce Creonte
per l’Ogigia, e sen vien per la Neíta
Eteocle feroce; il forte Emone
sgorga per l’Emoloida, e la Pretida
525fuor manda Ipseo; quindi l’Elettra ingombra
il gran Driante; con robusta mano
l’Ipsista scuote Eurimedonte altero,
e la Dircea sta di Meneceo in guardia.
  Così talora il Nilo in sè nascoso
530sugge a gran tratti orïentali nembi,
e dell’opposto ciel gli umidi influssi;
poscia il tesoro dell’ignoto fonte
divide, e porta in abbondanza le acque
per sette foci all’Oceàn profondo:
535fuggono le Nereidi, e i dolci flutti
non pon soffrir di quei novelli umori.
  Escon dal vallo a passi tardi e lenti
i Greci afflitti, e più d’ogn’altro stuolo
vengono meste le falangi elee,
540quelle di Lacedemone e di Pilo
vedove e prive del lor duce e vate,
seguendo il nuovo lor Rege improvviso,
non bene avvezze ancora al suo comando.
Nè solo te cercan tue fide genti,
545primo fra’ vati; ma ciascuna schiera
crede che a lei tu manchi, e men sublime
il settimo cimier sorge nel campo.
  Qual se in l’umido Polo invida nube
un astro invola alle parrasie stelle,
550tronco ne resta il carro, e d’una luce
scemo risplende il cielo, e i naviganti
in numerar le stelle incerti stanno.
  Ma già mi chiaman l’armi: in me rinforza,
Calliope, i carmi, e più sonora cetra
555mi doni Apollo: il feral giorno adduce
a’ popoli vogliosi e furibondi
su facil’ali l’ultimo momento.
Uscita fuori della stigia gora
la Morte a cielo aperto il campo ingombra
560co’ tetri vanni, e col suo nero ammanto
eccita all’armi le nemiche squadre;
nè vuole alme plebee, ma quelle sceglie
che per etade e per valor più degne
di vita sono, e con sanguigno serpe
565le nota e le distingue. I fusi interi,
tolti a le Parche, delle Parche invece
troncan le Furie agl’infelici, e Marte
con l’asta ancor non sanguinosa stassi
nel mezzo al campo, e ’l risplendente scudo
570or volge a questi ed or a quelli, e a l’armi
tutti gli instiga, ed oblïar lor face
i cari alberghi, le consorti e i figli.
Scordansi ancor le patrie, e quel, ch’estremo
parte da noi, dolce di vita amore.
575Tiene il furor pronte le mani a’ brandi,
bolle l’ardir ne’ petti, e par che voglia
uscir fuor degli usberghi, e orribilmente
tremano sovra gli elmi i gran cimieri.
Ma che stupor se cotant’ira accende
580l’alme guerriere? Ogni destrier rassembra
che spiri fuoco e che la pugna agogni:
smalta il molle terren di bianche spume,
e quasi al corpo del signore unito
par che de’ sdegni suoi tutto s’informi;
585tutti rodono i freni, e la battaglia
col feroce nitrir chiedono a prova:
s’ergono in alto, e i cavalier sul dorso
scuotono impazïenti, ed ecco il segno,
e già spingonsi al corso: immensa polve
590s’alza per tutto, e l’uno e l’altro stuolo
vassi a incontrar con frettolosi passi,
e lo spazio di mezzo ognor decresce.
Urta scudo con scudo, elmo con elmo,
brando con brando, piè con piede, ed urta
595asta con asta, e in sanguinosa pugna
si mischiano le schiere, ed a vicenda
si riscaldan co’ fiati, e son confuse
insiem le penne de’ nemici elmetti.
Pur vago della guerra è ancor l’aspetto.
600Ogni cavallo ha il cavalier sul dorso;
ogni carro il suo auriga, e sovra ogn’elmo
svolazzano le creste, ed a lor luogo
stanno ancor l’armi, ed ogni scudo splende
a’ rai del sole, e sono ancor adorne
605e le faretre e i militari cinti;
nè il sangue ancor toglie splendor a l’oro.
Ma poi che crudel rabbia, empia virtude
prodiga delle vite i cuori accese:
non con impeto tal piomban dall’Arto
610il Rodope a ferir nevi gelate:
non con tanto rumor l’Ausonia turba
Giove, qualor tuona da tutto il cielo;
nè di grandin maggior le Sirti inonda
Borea, qualor da le latine spiagge
615in Libia porta turbini e procelle.
Velano il dì co’ dardi, e per lo cielo
volan nubi di ferro, e l’aria immensa
appena par che a cotant’armi baste.
Altri i dardi avventati, altri i respinti
620mandan tornando a morte. A mezzo il calle
scontransi spesso le ferrate travi,
e cadon vane a terra; asta con asta
concorre a pugna: grandine di sassi
scaglian le frombe, e le veloci palle
625van del fulmin più preste, e le saette
volan per l’aria con diverse morti.
Nè più v’è luogo ove un sol colpo a terra
cada; ma van tutti a ferir ne’ corpi.
L’un l’altro uccide, e l’uno l’altro abbatte
630spesso senza saperlo, e di virtude
sostien le veci il caso; or questa turma
s’avanza e incalza, or si ritira e cede,
ed or acquista, or va perdendo il campo.
  Siccome allor che minaccioso Giove
635scatena i venti e le procelle irate,
e con alterno turbine flagella
il basso mondo: nel celeste campo
stan due contrarie schiere, ed or più forte
è il nembo d’Austro, or d’Aquilon la forza,
640finchè pugnando i turbini, o quel vince
colle sue piogge, o questo col sereno.
  Ecco, figlio d’Asopo, il grande Ipseo
dà principio a la pugna, e le spartane
squadre respinge (avea la fiera gente
645per lo natio valor gonfia e feroce
co’ scudi aperte le tebane schiere)
e primo uccide il duce lor Menalca.
Costui per alma e per virtù lacone
e dell’Eurota alunno, e che disnore
650non fece a gli avi, si strappò dal petto
per l’ossa e per le viscere squarciate
l’asta ch’entrava, acciò che a tergo uscendo
non lo macchiasse di vergogna e scorno,
e con debile man del proprio sangue
655tinta al fiero nemico la rimanda.
Ei nel morire il suo natio Taigeto
Rimembra, e le sue imprese, e quei flagelli
cui da fanciullo l’avvezzò la madre.
Tende Aminta teban l’arco, e di mira
660Fedimo prende. O troppo pronta morte!
Fedimo sul terren già moribondo
langue: nè tace ancor l’arco d’Aminta.
Il calidonio Agreo di Fegea tronca
la destra mano: essa ancor guizza, e ’l ferro
665impugna e muove. Tra l’altr’ami sparsa
sopra del suolo paventolla Aceste,
e benchè tronca la ferì di nuovo.
Ifi Atamante, ed il feroce Ipseo
Argo distende, e Abante Fereo uccide,
670ma con diverse morti: è cavaliero
Ifi, ed Argo pedone, Abante auriga;
uno in gola, un nel fianco e ’l terzo in fronte
cadon feriti: due gemelli argivi
di Cadmo ucciser due gemelli ascosi
675sotto gli elmetti chiusi.Oh della guerra
ignoranza crudel! Ma poi che scesi
li dispogliaro e ’l lor misfatto apparve,
mesti, dolenti, afflitti e quasi immoti
si miraro i fratelli, e n’ebber doglia.
680Iön di Pisa abitatore atterra
Dafni di Cirra, i suoi destrieri avendo
pria spaventati: gli applaudì dall’alto
Giove: del suo cirreo sentì pietade,
quantunque tardi e inutilmente, Apollo.
685 Ma la fortuna quinci e quindi illustra
due forti eroi nel sangue ostil feroci.
Emon tebano i Greci urta e flagella,
e Tideo preme le dircee falangi.
A questo Palla, a quello assiste Alcide.
690Come scendon da’ monti a un tempo istesso
due rapidi torrenti, e ’l piano inondano
con subita ruina, e par che a gara
faccian tra lor chi più rapisca i campi
o più soverchi i ponti: ecco una valle
695lor dà ricetto, e ne confonde l’acque:
ma superbo ciascun del proprio corso
negano al mar portar unite l’onde.
  De’ combattenti in mezzo Ida d’Enchesto
giva scorrendo con accesa face,
700e colla fiamma disgombrando il calle,
e scompigliava e ponea in rotta i Greci:
allor che da vicin del gran Tideo
l’asta gli spezzò l’elmo e lo trafisse.
Cad’ei supino, e molto spazio ingombra;
705tien l’asta in fronte, e la caduta fiamma
gli circonda le tempie; allor l’insulta
il vincitore: - Non chiamar crudeli
gli Argivi, no; noi ti doniamo il rogo
colle tue faci e col tuo fuoco: or ardi. -
710Indi qual tigre che nel primo sangue
la rabbia accese e a tutto il gregge anela,
Aone con un sasso, e colla spada
Folo e Cromi ferisce; indi coll’asta
i due fratelli Elicaoni uccide,
715che già da Mera, dell’egea Ciprigna
sacerdotessa, della diva in onta
fur generati di furtivo amplesso.
Miseri, voi giacete! E i fieri altari
circonda ancor la supplichevol madre.
720 Con non minor furor l’erculeo Emone
sitibondo è di sangue, e mille schiere
col brando insazïabile trascorre.
I fieri Calidonii urta e fracassa;
turba quei di Pelene, e della mesta
725Pleurone abbatte i giovani feroci;
finchè già rintuzzato il brando e l’asta,
l’ollenio Buti, che le schiere affrena
e lor vieta la fuga, aggiunge e assalta.
Era giovine Buti, e ’l fean palese
730le intatte guance e ’l non tosato crine,
quando improvvisa a lui su l’elmo scese
la tebana bipenne. Ambe le tempie
cadon partite, e la divisa chioma
di qua, di là sovra le spalle pende,
735e a lui, che non attende e non sen guarda,
innanzi tempo il vital filo tronca.
Poscia il biondo Polite, Ipari il biondo
(l’uno a Febo nudriva il molle viso,
e l’altro a Bacco la lasciva chioma)
740del pari uccide. O troppo ingrati Numi!
Appresso a questi Iperion distende,
e Damaso, che in fuga era rivolto,
ma l’asta del guerrier lo coglie a tergo,
e per l’usbergo passa, e nello scudo
745si caccia, e lungi su la punta il porta.
Strage maggior nelle lernee falangi
farebbe Emon: perocchè Alcide i dardi
gli drizza, e a lui dà forza; ma Tideo
Palla gli oppone, e già si stanno a fronte
750co’ tutelari Numi; allora Alcide
parlò primier, ma placido in sembianza:
  - Fida germana, qual error di guerra,
qual sorte insieme a battagliar ne guida?
Forse un sì reo misfatto ordisce Giuno?
755Pria mi vedrà (benchè nefanda ed empia
impresa fora) al fulmine trisulco
opporre il petto, e contrastar feroce
col mio gran padre. Dal mio ceppo scende
Emon; ma se tu l’odii, io lo ricuso:
760nè se contro Ila e contro Anfitrione
(qualor tornasse in vita) il tuo Tideo
vibrasse l’asta, a lor farei riparo.
Ben mi sovvien, nè fia ch’unqua l’obblii,
quanto per me questa tua destra invitta
765sudasse, e questo tuo gorgoneo scudo,
allor che tutto andai vagando il mondo
servo infelice in duri casi involto:
ita saresti meco anche a gli abissi;
ma i Dei superni non ammette Averno.
770Tu il ciel, tu il padre a me donasti. A tante
grazie qual mai potrò donar mercede?
Se vuoi Tebe appianar, io l’abbandono,
e cedo al tuo volere e perdon chieggio. -
  Sì disse, e già partia: l’altera Dea
775placossi al suono del parlar gentile,
e serenò ’l sembiante, e su ’l Gorgone
sgonfiando i colli, si posâr le serpi.
Sente partirsi il nume, e già più lenti
i dardi vibra l’infelice Emone,
780e ne’ languidi colpi il vigor primo
non riconosce, nè l’usata destra.
In lui manca l’ardire, e ’l timor cresce,
nè si vergogna ritirarsi: allora
più feroce Tideo l’incalza e preme,
785e maneggevol solo alla sua mano
libra un’asta ferrata, e a certo segno
la drizza, e al sommo dello scudo mira,
ove confina la goletta e ’l colpo
è più mortale; nè ingannollo il braccio.
790Già portava la morte il crudo cerro,
ma nol permette, e l’omero sinistro
sol gli lascia lambir con lieve piaga
grata al fratello la tritonia Dea:
più non sta fermo Emon, nè più s’appressa
795al gran nemico, e non ne soffre il volto,
e virtude e speranza in lui vien meno.
  Qual setoso cinghial, cui nella fronte
con non felice man confisse il ferro
il cacciator, nè al cerebro pervenne:
800l’ire esercita in fianco, e più non osa
gir contro l’asta che provò sì fiera.
  Ecco vede Tideo Proteo tebano,
condottier d’una squadra, i Greci suoi
mandar con certi colpi a certa morte.
805S’accende ad ira; vibra il pino, e lui
d’un colpo solo e ’l suo caval trafigge.
Cade il destrier sul cavaliero, e mentre
cerca ei la briglia, su la faccia l’elmo
gli calca, e sopra il sen preme lo scudo,
810sin che col sangue il fren gli esce di bocca,
e morto cade al suo signore accanto.
  Così talora avviticchiati insieme
cadon dal monte Gauro, e a doppio danno
del povero cultor, l’olmo e la vite
815miseri al par; ma più scontento l’olmo,
che i tronchi rami suoi non piange tanto,
quanto della compagna i tralci amati
e l’uve amiche, suo mal grado infrante.
  Prese avea l’armi contro il campo greco
820Corebo d’Elicona, amico un tempo
e compagno a le Muse. Il dì fatale,
conscia de’ stami inferni, e dalle stelle
pria conosciuto, a lui predetto aveva
Urania, e pur l’armi e le guerre agogna
825(e forse per cantarle) il garzon folle.
Ei cade, e nel cader degno si rende
ch’altri lo canti; ma le afflitte Muse
mute restaro, e l’onorâr co’ pianti.
  Fin da’ più teneri anni era promessa
830ad Ati Ismene, e non venía straniero,
benchè di Cirra, il giovane gentile
a questa guerra, e non avea in orrore
in suo favor de’ suoceri le colpe:
la fa il casto pallor a lui più grata,
835e le accresce beltà l’indegno lutto.
Era anch’egli leggiadro, e non nudria
la vergine da lui diverse voglie;
e l’un dell’altro, se fortuna a mezzo
non troncava i disegni, erano amanti.
840Ma la guerra crudel vieta le nozze;
quinci di maggior ira acceso il seno
vien furïando, e le lernee falangi
ora pedon col ferro urta e scompiglia,
ora sovra un corsier, quasi dall’alto
845il rimirasse Ismene, i Greci assalta.
Di triplicata porpora coperte
le spalle ancor crescenti e ’l molle petto
gli avea la madre, e del destrier gli arnesi
e l’elmo e le saette erano d’oro,
850e le maniche e ’l cinto, e su ’l cimiero
(perch’ei non gisse men d’Ismene adorno)
l’oro increspato svolazzava al vento.
Misero! ei vano de’ pomposi fregi
osa i Greci sfidare, e fatta strage
855nelle men forti squadre, a’ suoi sen riede
colle acquistate spoglie, ed or uccide
un guerrier, or ritorna al suo drappello.
  Qual giovane leon ne’ boschi ircani
nudo ancora di pelo, e non tremendo
860per l’onor delle giube, e non ancora
avvezzo a ber de’ generosi il sangue,
poco lungi a le stalle il vile armento,
quando è il pastor lontano, ardito assalta,
e d’un tenero agnel pasce la fame.
865 Tale Ati, a cui noto non è il valore,
nè l’armi di Tideo; ma lo misura
solo dal corpo, nol paventa, e ardisce
con debil dardo, mentre quei minaccia
gli altri e gl’incalza, di tentarlo. Al fine
870gli occhi il fiero rivolge a’ colpi frali,
e amaramente ride: e, - Ben m’avveggio,
temerario garzon, (dice) che aspiri
a glorïosa morte. - Indi sdegnando
usar contro un fanciul la spada e l’asta,
875apre appena le dita, e lieve strale
sfuggir ne lascia, che qual fosse un grave
acuto cerro e con vigor scagliato
gli passa l’anguinaglia e ’l fere a morte.
Sdegna Tideo spogliarlo: e, - Non fia mai
880(grida) che sì vil dono abbia la Madre,
o che a te, Palla, tali spoglie appenda.
Me lo vieta il rossore; e se nel campo
qui Deifile fosse, appena a lei
per suo trastullo le porrei davanti. -
885Dice, e a gloria maggior pugnando aspira.
  Così leon per molte stragi altero
sdegna i molli vitelli e ’l vile armento,
e sol de’ generosi il sangue anela,
e al toro condottier del gregge agogna
890star su l’alta cervice e farne scempio.
  Dal flebile clamor Meneceo accorto
del caso d’Ati, i suoi destrieri e ’l carro
là volge a tutto corso, e in terra sbalza.
Già del Taigeto i giovani feroci
895stavan su lui, che giace: in abbandono
lo lasciavano i Tirii. Alto rampogna
Meneceo i vili: - O voi da Cadmo scesi,
che da’ solchi guerrier vantate i padri,
e ’l valor ne mentite; ove ne andate,
900ove fuggite? Oh eterna infamia! Oh scorno!
Dunque meglio per noi Ati sen giace?
Ati stranier, che non aveva in Tebe
cui vendicar che la diletta sposa,
e questa ancor non sua? Noi tanti nostri
905pegni, le mogli, i figli, i tempii, i tetti
tradirem dunque? - Da vergogna punte
fermârsi allor le schiere, e ’l patrio amore
tornò ne’ petti, e rivoltâr la fronte.
  Stavano intanto in solitaria cella
910del regio albergo le innocenti figlie
di Edippo amabil coppia e di costumi
dal genitor diversa e da’ germani,
rammentando tra lor gli acerbi casi,
e de’ vicini e de’ primieri tempi;
915della madre le nozze una, e del padre
l’altra gli occhi rammenta; or questa piange
il fratello che regna; or il ramingo
quella mesta deplora: ambe le guerre.
Quindi più grave a loro è la tardanza
920degl’infelici e non ben certi voti.
Sospese stan qual vincitor, qual vinto
bramin veder nel barbaro duello,
ma nell’interno l’esule prevale.
  Così il garrulo augel di Pandïone
925qualor ritorna al suo fidato albergo,
onde cacciollo il verno, e sovra il nido
va svolazzando, le sciagure antiche
a’ tetti narra e al vento, ed il confuso
flebile mormorio crede parole,
930e ben rassembra a le parole il canto.
  Dopo un lungo silenzio e dopo i pianti
parlò di nuovo alla sorella Ismene:
- Qual error turba i miseri mortali?
Qual ingannevol fede? In mezzo al sonno
935veglian le cure, e alla sopita mente
tornan distinti e simulacri e larve?
Ecco io, che appena, se profonda pace
godesse il regno, i talami e le nozze
volgerei nella mente (io mi vergogno,
940sorella, a dirlo), nella buia notte
vidi le tede nuzïali: ahi come
questo folle sopor mostrommi in sogno
lo sposo appena visto! Una sol volta
e involontaria in questa reggia il vidi,
945mentre non so quai patti alle mie nozze
stabilivan fra loro. A me parea
tutto turbarsi d’improvviso, e spente
mancar le faci, e la rabbiosa madre
con urli e strida seguitarmi, ed Ati
950ridomandarmi. E quale annunzio infausto
è mai questo di strage? E pur non temo,
se staran queste mura, e se lontane
andran le greche schiere, e tra’ fratelli
s’avremo tempo di compor la pace. -
955 Così dicean tra lor: quand’improvviso
mesto clamor la taciturna reggia
turba e spaventa, ed ecco Ati, ritolto
con gran fatica a le nemiche genti,
mal vivo si riporta e senza sangue;
960ha la man su la piaga, e dallo scudo
pende languido il capo, e su la fronte
scomposto ha il crin; prima Giocasta il vede,
e pallida e tremante Ismene chiama.
Questa sol chiede con languente voce
965il moribondo genero; sol questo
nome sta ancor su le gelate labbia.
Alzan le ancelle i gridi, e l’infelice
vergin portava già le mani al crine,
ma vergogna l’affrena: al fin costretta
970colà si porta: questo estremo dono
Giocasta accorda al genero che spira,
e a lui la mostra e l’offre. Al dolce nome
ben quattro volte su’ confin di morte
girò gli occhi ecclissati, e a è fe’ forza,
975e alzò il volto cadente, e ne’ suoi lumi
mirando sol, del ciel la luce ha a schivo;
nè può saziarsi dell’amata vista.
Ma poi che lungi era la madre, e morto
con miglior sorte era poc’anzi il padre,
980di chiudergli le luci il mesto uffizio
dassi a l’afflitta ed infelice sposa,
che quando restò sola, allentò il freno
a’ gemiti, a’ singulti, e gli cosperse
di pie lagrime amare il morto viso.
985 Mentre ciò fassi in Tebe, Enío crudele
di nuove serpi e nuove faci armata
la battaglia rinforza. Ognuno l’armi
brama, come se allora il primo assalto
fosse della tenzone, e ch’ogni brando
990splendesse ancor al sol lucido e terso.
Ma sopra tutti il gran figliuol d’Eneo
si distingue quel giorno, ancor che molto
Partenopeo da l’infallibil arco
scocchi dardi sicuri, e Ippomedonte
995col feroce destrier calpesti i volti
de’ nemici abbattuti e moribondi,
e Capaneo vibri l’acuto pino
pur troppo noto a le sidonie squadre.
Di Tideo solo è quell’orribil giorno,
1000lui sol si teme e da lui sol si fugge,
e vien egli gridando: - Ove fuggite?
Perchè il tergo volgete? Ora, ora è il tempo
di vendicar vostri compagni uccisi,
e compensar quell’infelice notte.
1005Io son colui che cinquant’alme spinsi
con brando ancor non sazio in grembo a Dite.
Vengan cinquanta, e cinquant’altri insieme,
che io qui gli attendo. Quei che dianzi uccisi
non han dunque fra voi padri o fratelli
1010vindici di lor morte? Onde proviene
questo sì vile oblio de’ vostri lutti?
Io mi vergogno riveder Micene
e star contento della prima strage.
Tali guerrier restano a Tebe? Queste
1015son le forze del Re? Ma dove mai,
dove s’asconde questo invitto duce? -
Ed ecco il vede nel sinistro corno
animando le schiere, e lo distingue
a lo splendor della superba fronte.
1020Non sì veloce piomba il grande augello,
portatore de’ fulmini di Giove,
su bianco cigno, e cogl’immensi vanni
tutto l’adombra; come allor Tideo
contro del Re si scaglia e lo rampogna:
1025 - O giusto Re della sidonia gente,
vuoi tu venir a manifesta guerra,
e meco alfin provar del pari il brando?
O sol ti fidi nell’amica notte,
e le tenebre aspetti? - Ei non risponde,
1030ma di risposta invece a lui rimanda
stridente dardo. L’etolo campione
con leggera percossa il colpo torse,
quando a lui fu vicino e al fin del volo.
Indi con tutto il braccio, e dell’usato
1035con maggior forza avidamente vibra
contro il crudel tiranno asta maggiore.
Giva la ferrea trave, e ponea fine
al fier düello, e l’applaudian dall’alto
de’ Greci e de’ Sidonii i Numi amici;
1040ma vi si oppone la spietata Erinni,
ed Eteòcle al reo fratel riserba.
Andò il ferro a piagar Flegia scudiero,
ove più ardea la pugna. Allor Tideo
il brando stringe, e più feroce corre
1045contro il Re, che già cede e si ritira,
e lo copron co’ scudi i suoi Tebani.
  Come vorace lupo in buia notte,
ch’abbia assalito tenero giovenco,
s’è de’ pastor da folto stuol respinto,
1050in rabbia monta, e disprezzando i dardi,
a lor rivolge l’affamato dente,
e in quel, per cui già venne, il torvo sguardo
fiso tenendo, contro lui s’avventa,
sempre fermo in desio di farne preda.
1055Così Tideo sdegna le opposte schiere
e la turba minore, e i colpi affrena.
Pure a Toante nel passare il viso,
a Deiloco il petto, a Ctonio il fianco,
e ad Ippodamo truce il tergo fere.
1060Sovente a’ corpi le lor membra rende,
e manda a l’aria le celate piene.
E già fatto a se stesso argine e cerchio
ha di corpi e di spoglie, ed in lui solo
si consuma la guerra, e contro lui
1065drizzansi tutti i dardi. Altri a la pelle
giungono a vuoto, cadon altri a terra:
altri Palla ne svelle, e già lo scudo
sostien d’aste e di dardi orrida selva.
Ei d’ogni parte è cinto, e già da tergo
1070squarciato pende il calidonio vello,
e con funesto augurio a terra cade
Marte, gloria ed onor del suo cimiero:
già d’ogni fregio nudo in su le tempie
posa l’elmo infiammato, e ripercosso
1075da sassi e travi orribilmente suona.
Gli scorre per la fronte e per lo petto
di sangue e di sudor tepido rio.
Ode i suoi che l’esortano a ritrarsi,
e lungi vede la sua fida duce
1080collo scudo coprirsi il mesto volto.
Essa prendendo verso il cielo il volo
giva a placar col pianto il genitore.
  Ed ecco fende il vento immensa trave,
che gran destino e gran vendetta porta,
1085e l’autor non è noto, e non si scopre.
Menalippo uom vulgar d’Astaco figlio
fu colui che fe’ il colpo, e non sen vanta,
e quanto può cerca occultar la mano,
ma il clamor delle turme il fa palese;
1090poichè al colpo mortal si piegò in dorso
Tideo ferito, ed allentò lo scudo,
e tutto il fianco gli restò scoperto.
Alzan le grida allor le aonie schiere,
e piangono i Pelasghi, e co’ lor petti
1095a lui, che freme, fan riparo e schermo.
Egli a traverso le dircee falangi
cerca coll’occhio il suo nemico, e tutte
le reliquie dell’anima raccoglie,
e un’asta, che a lui porse Opleo vicino,
1100contro gli scaglia, e per lo sforzo estremo
l’ultimo sangue dalle vene uscío.
Allor gli Etoli mesti il lor signore,
che ancor combatter brama e l’aste chiede
(ahi qual furor?) e della morte in braccio
1105di morir nega, riportaro indietro,
e le languide membra e ’l corpo frale
adagiâr su uno scudo, e lo posaro
su ’l margine del campo, e fra’ singulti
gli fer sperar di rimandarlo in guerra.
1110Ed ei, che al fin vede mancarsi il giorno,
e nel gelo mortal sente le membra
sciogliersi e già fuggir l’alma superba,
s’alza qual può su ’l debil braccio, e dice:
  - Pietà vi prenda del mio caso acerbo,
1115Greci; non già che questa inutil salma
in Argo si riporti od a Pleurone,
chè l’esequie io non curo, e sempre odiai
queste caduche membra, e ’l debil uso
del corpo frale, e peregrina spoglia
1120che presto manca ed abbandona l’alma;
ma se fia che ’l tuo capo alcun mi porti,
solo il tuo capo, o Menalippo! e certo
so che tu mordi il suolo, e che gli estremi
sforzi non m’ingannâr di mia virtude.
1125Va, Ippomedonte, se in te ferve il sangue
d’Atreo; vanne, garzon, d’Arcadia onore
e già famoso nelle prime guerre;
e tu fra tutti i Greci il più sublime,
muoviti, o Capaneo. - Corsero a gara;
1130ma Capaneo giunge primiero, e trova
Menalippo spirante, e se lo getta
su la sinistra spalla, ancor che il sangue,
che dall’aperta piaga esce a torrenti,
gli lordi il largo tergo e ’l ferreo arnese.
1135 Dall’arcadico speco in cotal guisa
il predato cinghial riportò Alcide
a’ desiosi ed acclamanti Argivi.
  Tideo s’alza di nuovo, e al suo nemico
corre incontro col guardo, e poi che ’l vede
1140gir boccheggiando ne’ singulti estremi,
e colle luci languide ed erranti,
e la sua morte riconosce in lui:
d’allegrezza e di sdegno ebbro e furente
vuol che ’l capo sen tronchi e se gli porga.
1145Il prende, e torvo il guarda, e si compiace
in rimirarlo, ancor che tronco, in giro
rivolger gli occhi torbidi e tremanti.
Tanto bastava al misero: ma chiede
maggior misfatto l’empia Furia ultrice.
1150E già scendea dal ciel (placato il padre)
Pallade non più mesta, e a l’infelice
dell’immortalità portava il dono.
Ma quando il vide di cervella e sangue
ancor fumante satollar le labbra,
1155nè poterlo staccar dal fiero pasto
inorriditi i Greci: in su ’l Gorgone
si drizzaro le serpi, e della Dea
velâr la faccia, ed essa abbominando
il capo torse, e pria di gire a gli astri,
1160purgò la vista con il sacro fuoco,
e dell’Eliso si purgò nell’onda.

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