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Traduzione dal latino di Cornelio Bentivoglio d'Aragona (1729)
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L’ASSEDIO DI TEBE.
LA MORTE DI ANFIARAO.
Mentre in tal guisa a vani giuochi intenti
tardano i Greci a cominciar la guerra,
mirolli Giove con turbato ciglio,
e crollò il capo: al di cui moto scosse
5treman le sfere, e si querela Atlante
che sovra ’l dorso suo s’aggravi il pondo.
Mercurio chiama, e: - Fendi (dice) e vola
per mezzo l’Aquilone a’ tracii lidi,
e de l’Astro nevoso al freddo Polo,
10là dove l’Orsa, a cui vietato e tolto
è l’Oceàno, la sua stella pasce
de le invernali piogge e de’ miei nembi:
ivi, o deposta l’asta e il fiero brando,
Marte riposa (ancor ch’ei l’ozio aborra)
15o, qual io penso, fra le trombe e l’armi
insazïabil gode e lussureggia
del popolo diletto in mezzo al sangue:
tu pronto il trova, e l’ammonisci e l’ira
del genitor gli fa palese, e nulla
20a lui tacer de’ miei sovrani imperii.
Io gli commisi pur che a guerre e a risse
tutte accendesse le falangi argive
e quanto l’Istmo parte e quanto abbraccia
Malea latrando co’ suoi rauchi flutti,
25ed or usciti da la patria appena
si stanno i Greci a’ sacrifici intorno:
sembra che riedan vincitori in Argo,
in tanti applausi van perduti, e offesi,
l’aspra ingiuria crudel posta in oblio,
30fan lieti giuochi d’un fanciullo all’ombra.
Tal dunque, Marte, è il tuo furor? I dischi
stridon per l’aria e cogli ebalii cesti
si fan le pugne; ma se in lui s’accenda
l’innata rabbia ed il crudel diletto
35di stragi e morti, onde si pasce: al piano
farà cader in ceneri e faville
le innocenti cittadi, e furibondo
ferro e fuoco portando, intere intere
struggerà le nazioni, allor che a noi
40più fanno voti, e desolato e vano
renderà il mondo. Ed or che ’l nostro sdegno
lo chiama a l’armi, è mansueto e lento.
Che s’egli non s’affretta, e se non spinge
tosto le greche schiere a’ tirii muri,
45(non minaccio rigori) egli pur sia
placido Nume, e ’l genio suo crudele
nell’ozio illanguidisca: il brando scinga,
e i cavalli mi renda, e nelle guerre
più non abbia ragion. Con lieto aspetto
50guarderò il mondo, e spanderò la pace
sopra la terra, e la tebana impresa
condurrà a fine la Tritonia Dea. -
Tacque, e Cillenio a’ traci campi scese;
ma nell’entrar de l’Iperboree porte,
55procelle eterne e di quel polo algente
i folti nembi e d’Aquilone i fiati
lo rivolsero in giro: il manto suona
da grandine percosso, e ’l capo appena
gli difende l’arcadico cimiero.
60Mira, e non senza orror, l’erme foreste,
che son del fiero Nume albergo e tempio,
u’ da mille furori intorno cinta
incontro a l’Emo la feroce reggia
al ciel s’inalza: son di ferro armati
65gli angoli de le mura, e son d’acciaio
le porte e le colonne che sostengono
del tetto di metallo il grave incarco:
la gran lampa Febea, che vi riflette,
offesa resta, e spaventata fugge
70la luce, e lo splendor pallido e tristo,
che n’esce, in ciel fa impallidir le stelle.
Stanza degna del luogo: in su le soglie
scherza l’Impeto insano e ’l reo Delitto
e l’Ire rubiconde, ed il Timore
75pallido, esangue; e con occulte spade
vi son le Insidie, e la Discordia pazza,
che tiene armata l’una e l’altra mano.
Suona la reggia di minacce, e stassi
nel mezzo la Virtù mesta e dolente,
80ed il Furor allegro, e armata siede
fra lor la Morte con sanguigno volto.
Null’altro sangue su gli altari fuma,
che sangue in guerra sparso, e non s’adopra
altro fuoco che quel che vien rapito
85dalle cittadi in cenere consunte.
Pendon spoglie e trofei del mondo vinto
tutti a l’intorno, e ne’ sublimi palchi
stanno i cattivi; orribilmente sculte
stridon le ferree porte, e vi si scorgono
90navi guerriere e vuoti carri e i volti
sotto le ruote deformati e infranti,
e poco men che i gemiti e i lamenti:
cotanto al vivo le ferite e gli atti
vi sono espressi. In ogni luogo vedi
95Marte, ma non mai placido in sembianza:
tal lo fece Vulcan, che non ancora
l’adultero scoperto a’ rai del sole
incatenato avea nel letto impuro.
Non avea appena a ricercar del Nume
100dato principio il messaggero alato:
ed ecco il suol tremare, e muggir l’Ebro
frangendo i flutti, e ’l bellicoso armento,
che le valli pascea, di nuove spume
tutte smaltar le tremolanti erbette
105(segno che il Nume giunge), e spalancarsi
le porte d’infrangibile adamante.
Egli sen vien sul ferreo carro adorno
d’ircano sangue, che grondando a’ campi
muta l’aspetto, ed ha le spoglie a tergo
110e de’ cattivi le piangenti turme.
S’aprono l’alte nevi, e le boscaglie
dan luogo, ovunque passa, e con sanguigna
mano Bellona i destrier regge e ’l carro,
e con lung’asta li flagella e punge.
115Inorridissi a sì terribil vista
di Cillenio la prole, e chinò ’l volto:
lo stesso padre, se in sì fier sembiante
scorto l’avesse, riverenza e tema
n’avria sentito, e le minacce e l’ire
120avria frenate e ’l suo crudel comando.
Marte parlò primiero: - Or qual mi porti
di Giove impero o di lassù novella,
fratel? Perch’io so ben che tu non scendi
di tuo voler in questo Polo algente
125e fra gli orrori de le nostre nevi:
a te i Menali ombrosi umidi boschi
giovano, e del Liceo l’aura più mite. -
Quegli di Giove il gran comando espone.
Nè Marte indugia; ma i destrier rivolge
130ansanti e molli, ed egli stesso ha in ira
le dimore de’ Greci. Il vide Giove
da l’alto soglio, e mitigò lo sdegno,
e gravemente torse altrove il guardo.
Così qualor Affrico cessa, e ’l mare
135in pace lascia, procellosa e incerta
sorge la calma, e l’onda, che si spiana,
la tempesta mancante agita ancora:
ancor tutti non son del legno afflitto
raddrizzati gli arnesi, e non respira
140l’affannato nocchier da tutto il petto.
Dato avean fine a le battaglie inermi
e a’ funerali, e al busto spento intorno
stavano i Greci: e già ciascun tacendo,
versava Adrasto il vino, e ’l cener freddo
145d’Archemoro placava in questi sensi:
- Danne, sacro fanciul, le triennali
tue feste rinnovar per molti lustri:
che più non pregherà gli arcadi altari
Pelope tronco, nè con mano eburna
150batterà i tempî elei, nè il fier Pitone
curerà i pizii giuochi, e non più a nuoto
verrà l’ombra al pinifero Lecheo.
Noi frettolosa turba al mesto Averno
or t’involiamo, e ti doniamo a gli astri
155co’ sacrifici. Ma se abbatter Tebe
per te ne sarà dato, allor sublime
t’ergerem tempio, allor ci sarai Nume;
nè sol t’adoreran d’Inaco i regni,
ma la pingue Beozia e Tebe vinta. -
160Così per tutti Adrasto, e nell’interno
approvava ciascuno il regio voto.
Ma già scendea co’ rapidi destrieri
Marte a’ lidi efirei, là dove estolle
Acrocorinto il capo e tutti adombra
165i due mari divisi, e di sua schiera
sceglie il Terrore e lo spedisce al campo.
Non v’è ’l più destro a insinuar ne’ petti
la sollecita tema, o chi più ’l falso
col vero adombri: innumerabil mani
170ha ’l fiero mostro, innumerabil voci,
e qual più gli convien, prende sembianza;
a lui tutto si crede, e pon sossopra
e in furia le cittadi, e s’egli afferma
il terreno ondeggiar, splender due Soli,
175le stelle ruinare, andar le selve,
il fantastico vulgo e gl’infelici
giureran di vederlo. Ed or che ’l Nume
a tant’uopo lo sceglie, egli raddoppia
l’arte e l’ingegno. Da l’erculea valle
180alza turbo di polve, e sbigottiti
lo mirano da l’alto i duci argivi.
Indi accresce il terror, e un rumor vano
imita e finge di cavalli e d’armi,
e d’urli orrendi l’aria intorno assorda.
185Restan sospesi i Greci, e mormorando
fremon le turme: - Qual fragor? Qual suono?
Noi pur l’udiamo. Quale immensa nube
il cielo involve? Sarian mai le schiere
de l’oste ismena? Ah certo sono. E tanto
190Tebe presume? e non paventa? Or stiamo,
stiamo a perdere il tempo intorno a’ roghi. -
Tai sensi ispira alle confuse menti
il fallace Timore, ed or l’aspetto
d’un guerriero pisan, or d’un eleo,
195or d’un lacon ei prende, e giura e afferma
che ’l nemico è vicino, e un van terrore
sparge per tutto il campo, e lo perturba.
Ma poi che all’alme inferocite il Nume,
il Nume istesso sopraggiunse involto
200in un turbin di polve, e che tre volte
l’asta crollò, tre volte al corso spinse
i feroci cavalli, ed altrettante
percosso al petto fe’ suonar lo scudo:
- A l’armi, a l’armi - furïosi e insani
205gridan per tutto: ognun l’armi rapisce,
chi le sue, chi le ignote, e chi ’l cimiero
cambia, chi l’asta, e chi i non suoi destrieri
al carro accoppia; in ogni petto bolle
desio di stragi e morti, e nulla frena
210più il lor furor: precipitosi vanno,
e compensan gl’indugi. In cotal guisa
al cominciar del vento il lido suona
di strepito e tumulto, allor che ’l porto
lascia la nave, e dà le vele al vento,
215e accomoda le sarte. I salsi flutti
già flagellano i remi, e di già a galla
vengon l’ancore curve, e già l’amata
spiaggia d’alto si mira, e quei che a tergo
cari pegni restâr, consorti e figli.
220 Vide Bacco partir le squadre argive
rapidamente accelerando il corso,
e lagrimando a la materna Tebe
gli occhi rivolse e al suo natale albergo,
e ricordossi il fulmine paterno.
225Turbato abbassa il rubicondo viso,
ed il crine scompon, mentre ne strappa
il serto, e mentre da le corna l’uve
e ’l tirso da le man cader si lascia.
Indi ’l manto discinto e lagrimoso,
230sen corre a Giove, che in rimota parte
stava del cielo, in tal sembiante e mesto
che tale unquanco non fu pria veduto
(e ben sa ’l padre a che ne venga): allora
supplichevole a lui così favella:
235 - Dunque, o buon genitor de’ sommi Dei,
la tua Tebe distruggi? A cotant’ira
giunge la tua consorte? E non ti muove
la terra a te sì cara, e l’ingannata
casa, e de’ miei il cenere sepolto?
240Siasi che già tu involontario fuoco
da le nubi scagliasti: ed or di nuovo
perchè la terra accendi? Il giuramento
già non ti sforza dell’inferna gora,
nè de l’amata le preghiere e l’arti.
245E quando avran mai fine i tuoi rigori?
Dunque a noi soli il fulmine riserbi,
irato padre? ma non già sì fiero
scendi di Danae a’ tetti, e a’ boschi amici
d’Arcadia, e al letto dell’amata Leda.
250Dunque fra tanti figli abietto e vile
io sol ti sembro? E pur gradito peso
ti fui già un tempo, e pur a me rendesti
la vita e l’alvo ed i materni mesi.
Arroge a ciò, che i miei Teban non sanno
255altr’armi maneggiar che l’armi nostre:
cinger di frondi il crine, e al suon de’ bossi
invasati danzar, e de le spose
temere i tirsi e de le fiere madri.
Come potran le trombe e ’l suon de l’armi
260timidi sostener? Ecco rimira
con qual furor vien Marte, e forse adduce
i tuoi Cureti in guerra? O ci propone
pugne innocenti di quadrati scudi?
Ahi che incontro ne spingi Argo odïosa.
265Forse mancan nemici? O duro impero
più de’ perigli ancor! Alla matrigna
darem le nostre spoglie ed a Micene.
Che se pur tale è ’l tuo volere, io cedo.
Ma dove poi de la mia gente estinta
270porterò ’l culto e (se vi son) gli avanzi
de l’infelice mal feconda madre?
Forse fra’ Traci? O di Licurgo a’ boschi?
O a gl’Indi soggiogati andrò cattivo?
Se profugo mi vuoi, dammi una sede.
275Poteo fermar (nè già l’invidio) Apollo
Delo materna ne l’Egeo profondo:
potè Minerva da l’amata rocca
respinger l’acque; e con quest’occhi io vidi
Epafo dominar ne’ regni Eoi;
280e Mercurio e Minosse in dolce pace
godon Cillene e Creta. I nostri altari
hai solo in odio. Ma se noi men grati
ti siam, Tebe rimira: ivi godesti
l’erculee notti, e di Nitteo la figlia
285ivi t’accese di soave fiamma:
quivi è il seme di Tiro, e del mio fuoco
il toro più felice. Almen ti prenda
del sangue d’Agenor qualche pietade. -
Sorrise Giove a quel parlar, e ’l figlio,
290che già prostrato a lui tendea le mani,
sollevò al bacio, e placido rispose:
- Non è Giunon, come tu pensi, o figlio,
che dia impulso al furor; negar saprei
le atroci imprese a la consorte ancora,
295qualor le richiedesse: il giro eterno
mi trasporta de’ Fati, e antiche sono
le cause de la guerra. In ciel qual mai
trovi di me più mansüeto Nume?
Chi ha più in orror l’umano sangue? Il vede
300pur questo Polo e questa immobil reggia,
che sarà meco eterna. O quante, o quante
volte ho deposto il fulmine già pronto!
Come di rado su la terra il vibro!
Nè già di mio voler io diedi in preda
305a Dïana ed a Marte a torto offesi,
e gravemente, i Lapiti feroci
e i Calidonii antichi. È mia fatica
tanti corpi formar, mutar tant’alme.
Ma di Labdaco e Pelope i nipoti
310troppo ho tardato a svellere dal mondo.
Quanto sien pronti ad oltraggiare i Numi
i tuoi Tebani (restin or da parte
i Dorici delitti) è a te ben noto,
che anche offeser te stesso, e pur si taccia,
315giacchè placossi in noi l’antico sdegno.
Penteo però le scelerate mani
non avea tinte del paterno sangue,
nè compressa la madre, e a sè i fratelli
procreato nel talamo nefando,
320e pur fra gli orgii tuoi lacero cadde.
Ove i tuoi pianti allor? Ove le preci?
Nè già destino al mio privato sdegno
l’empia stirpe d’Edippo: a me la chiede
la terra, il cielo, la pietà, la fede
325offesa, la natura, e ’l fier costume
de l’empie Furie. Tu per or la tema
deponi, o figlio: il fatal giorno ancora
non è giunto per Tebe; a più funesta
età la serbo e a vindice maggiore:
330or tutto di Giunon sarà l’affanno. -
Bacco a tal dire il manto e ’l cor riprese.
Così talora in bel giardin le rose,
se ’l fosco Sol le adugge e ’l torbid’Austro,
pallide stanno; ma se i dolci fiati
335spira Favonio e rasserena il cielo,
ritornan belle, e i lor novelli germi
ridon d’intorno, e si fan verdi i rami.
Ma del tiranno a l’atterrite orecchie
gli esploratori aveano esposto intanto
340che vien l’oste nemica a lunghe schiere,
e ch’è già su’ confin: che ovunque passa
treman le genti, ed han pietà di Tebe:
narran le nazïoni, i duci e l’armi.
Il Re cela il timore, e più ricerca,
345ed ha in odio chi ’l narra: alfin risolve
d’animar le sue squadre e farne mostra.
Tutta l’Aonia avea commossa a l’armi
Marte, e l’Eubea e Focide vicina.
Tal di Giove è ’l piacer: scorre per tutto
350il segno militar, e in un momento
armate escon le squadre, e vanno al campo
alla città soggetto, a cui serbate
son le battaglie e i gran furori aspetta.
Non hanno ancora gl’inimici intorno:
355e pur, timida turba, il sesso imbelle
su’ muri corre, e a’ pargoletti figli
mostran l’armi lucenti, e sotto gli elmi
additan loro i genitori ascosi.
Stavasi sola sovra eccelsa torre,
360di nero vel coperto il molle viso,
Antigone, non anco a l’altrui sguardo
concessa, e seco solo iva Forbante
già scudiero di Laio: il venerando
vecchio onora la vergine reale,
365e prima a lui favella: - Abbiam noi speme,
padre, che queste insegne abbian possanza
per resistere a’ Greci? A noi la fama
porta che contro noi vengono in guerra
tutti i regni di Pelope. Or ti prego,
370mostrami i duci e le straniere squadre,
chè i nostri ben ravviso, e quali insegne
Meneceo porti, e di qual armi adorno
splenda Creonte, e per la ferrea Sfinge
superbo Emon, come se n’esca altero
375per l’Emoloida porta. - Ella sì dice
semplicemente, e a lei risponde il veglio:
- Mille Driante sagittari in guerra
da’ freddi colli di Tanagra adduce:
egli ha il tridente in bianco scudo impresso,
380ed aspro d’oro il fulmine trisulco;
del gigante Orïon degno nipote
per sua virtù: deh stia da lui pur lungi
il destino del padre, e l’ira antica
la vergine Dïana in tutto oblii.
385Seguono le sue insegne e fangli omaggio
Medeone ed Occalea, e la selvosa
Nisa, e Tisbe, che al suon delle colombe,
care a Ciprigna, mormora d’intorno.
Questi, che porta in man le rusticali
390armi paterne, è detto Eurimedonte
figlio di Fauno, ed ha su l’elmo un pino,
che di destrier cadendo imita il crine:
quanto ardito fin qui fu nelle selve,
tanto sarà nelle sanguigne pugne:
395lo segue Eritre d’ampie greggi ricca,
e de l’arduo Scolon gli abitatori,
e quelli d’Eteonon cinti d’intorno
d’alte scoscese rupi, e quei che d’Ile
stan fra gli angusti lidi, e quei che in Scheno
400superbi van per Atalanta, e i campi
onoran dove ella più volte corse:
armati di macedoni zagaglie
vengono in guerra e di quadrati scudi,
che mal ponno coprir da’ colpi il petto.
405Quelli d’Onchesto, che a Nettun son cari,
ecco scendon nel campo a gran fracasso,
e i Micalessi fertili di pini,
e quei che ’l Mela ed il Gargafio rio
irrora, a Palla sacri ed a Dïana,
410e gli Aliarti, che le nuove messi
invidian de’ vicini, e con dolore
miran le loro dal rigoglio oppresse:
portan tronchi per aste, e per cimiero
i capi de’ leoni, e son le targhe
415di sovero leggere, e di costoro
duce è ’l nostro Anfïon: ben lo ravvisi,
vergine, al plettro che su l’elmo porta,
e al toro avito nello scudo impresso.
Generoso garzon! ei si prepara
420gir per mezzo le spade, e ’l petto ignudo
esporre in guardia de l’amate mura.
Voi d’Elicona pur turbe venite
a soccorrer nostr’armi; e tu, o Permesso,
e tu felice pe i canori flutti,
425Ormio, non usi a le battaglie i vostri
popoli armate: or tu li senti, o figlia,
venir cantando i patrii carmi, appunto
di cigni, in guisa, che al partir del verno
del sereno Strimon lascian le sponde.
430Itene pur felici: i vostri fasti
vivranno sempre, e saran fatti eterni
dal dolce canto de le caste Muse. -
Egli, così dicea; ma l’interruppe
la vergine: - E chi son quei due fratelli
435che van sì uniti? di qual stirpe? Oh come
sono simili all’armi, oh come eguali
svolazzano le creste in cima agli elmi!
Deh fosse tal concordia anche fra’ nostri! -
Cui sorridendo il veglio: - In questo errore
440tu la primiera, Antigone, non sei:
altri ingannati da l’età germani
gli hanno creduti, e pur son padre e figlio;
ma confusero gli anni; or tu m’ascolta:
Lapitonia Dircea ninfa lasciva
445del primo s’invaghì, che giovinetto
era e inesperto e a’ talami immaturo;
e tanto fece con lusinghe e vezzi,
che seco si congiunse e n’ebbe un figlio,
il vezzoso Alatreo, che ’l genitore
450nella primiera gioventù somiglia
al volto, e insieme hanno l’età confusa.
Or del nome fraterno, ancor che finto,
hanno piacer, e del comune inganno;
ma vie più gode il genitor, cui giova
455sperar compagno in sua vecchiezza il figlio.
Trecento in guerra cavalieri eletti
il figlio mena, ed altrettanti il padre;
se il ver narra la fama, a noi li manda
Glisanta angusta e Coronea ferace:
460è ricca l’una d’ubertose viti,
e l’altra pingue di copiose messi.
Ma qua rivolgi il guardo, e Ipseo rimira,
che i suoi quattro corsieri e ’l carro adombra.
Colla sinistra man di sette cuoia
465di toro cinto alto sostien lo scudo.
Copre il gran petto d’interzata maglia,
e da tergo non teme. Un’asta impugna
che fu onor de le selve, e che vibrata
penetra l’armi, e va per l’armi a’ petti,
470nè mai lanciolla il cavaliere in fallo:
generollo il rapace Asopo, e degno
padre d’un tanto figlio allor si mostra,
che, rotti i ponti e gli argini, sonoro
sen corre al mare, e le campagne inonda;
475o quando a vendicar l’offesa figlia,
turgidi alzò contro le stelle i flutti,
e sdegnò aver per genero il Tonante.
Poichè rapita al patrio fiume Egina
fra gli amplessi di Giove ascosa giacque,
480sdegnossi il fiume, e mosse guerra al cielo.
(Non era in quell’età lecito a’ numi
contaminar le vergini innocenti).
S’alza sovra se stesso a la vendetta,
e spinge l’onde in alto, e benchè privo
485d’ogni soccorso, pur combatte solo;
ma dal fulmin percosso oppresso giacque;
gode il fiume orgoglioso in su le sponde
vedere ancor le ceneri celesti,
e va superbo de l’avuta pena
490contra il cielo esalando etnei vapori.
Tale vedremo Ipseo ne’ cadmei campi,
se pur Egina a lui placò il Tonante.
Seguono il suo stendardo Itone, e a Palla
Alalcomene sacra, e Mide ed Arne:
495quei che in Aulida e in Grea spargono i semi,
e la verde Platea doman co’ solchi;
e Peteone, e quei che ’l nostro Euripo
con eterne tempeste intorno scorre,
e tu, Antedone estrema: ove dal lido
500umiderboso ne’ bramosi flutti
si lanciò Glauco, e già ceruleo il crine
fatto e le gote, inorridì in mirarsi
dal mezzo in giuso trasformato in pesce.
Ruotan le frombe, e con piombati globi
505fendon i venti, e lancian le zagaglie
veloci più di cretiche saette.
Tu pur, Cefisso a noi mandato avresti
il tuo Narciso; ma ne’ tespii campi
langue il giovin feroce, e con sue linfe
510lo sconsolato padre il fior ne irrora.
Chi le schiere di Febo e de l’antica
Focida potrà mai narrarti a pieno?
Daulida, Ciparisso e Panopea,
e Lambadia vallosa, e sopra un scoglio
515Hiampoli fondata, e quei che manda
l’uno e l’altro Parnasso, e quei che Cirra
hanno per stanza, e Anemoro pendente,
e di Coricia i boschi, e di Cefisso
Lilea che preme la gelata fonte;
520là ’ve solea Piton l’immensa sete
portando, il fiume divertir dal mare.
Mira come ciascun su l’elmo ha il lauro,
e portan nello scudo o Tizio o Delo,
o le faretre che votò sovente
525Febo, facendo innumerabil strage.
Ifito è il duce loro, a cui poc’anzi
Naubolo padre, d’Hipaso disceso,
rapì la morte. Naubolo, o buon Laio,
un tempo tuo fedel ospite e auriga,
530che guidava il tuo carro il giorno acerbo
in cui cadesti indegnamente esangue
de’ tuoi destrier tra le ferrate zampe.
Deh foss’io pur teco rimaso estinto! -
Qui impallidì Forbante, e da’ singulti
535gli fur tronchi gli accenti. Il freddo veglio
si stringe allor la verginella al seno,
e lo consola. Ei con tremante voce
ripiglia, e segue: - O Antigone, o mia sola
illustre cura ed ultimo piacere,
540per cui di gire alle ciech’ombre io tardo,
e mi serbo a veder forse le avite
stragi e le stesse sceleranze antiche,
tanto che te consegni intatta e pura
a legittime nozze: ah presto sia!
545ed Atropo il mio fil tronchi dal fuso.
Ma mentre il tempo io perdo, o quanti veggio
duci trascorsi! e Ctonio tacqui e i figli
d’Abante, a cui scendon le chiome a tergo;
non Caristo pietrosa a te mostrai,
550non Ega umíle e Cafarea sublime;
e già stanca la vista agli occhi nega
discerner gli altri, e già son tutti fermi,
e ’l tuo fratello a lor silenzio indice. -
Avea finito il suo parlare appena
555da la torre Forbante, allor che d’alto
in cotal guisa favellò il tiranno:
- O magnanimi Regi, al cui comando
io duce vostro d’ubbidir non sdegno,
e privato guerrier difender Tebe;
560già non imprendo a’ generosi cuori
aggiunger sproni: volontari a l’armi
correste, e volontari a me giuraste
i giusti sdegni e le magnanim’ire.
Nè men poss’io rendervi grazie o lodi
565al benefizio eguali: a voi mercede
daranno i Numi e vostre destre invitte,
debellati i nemici. Una vicina
ed amica città voi difendete,
contro di cui non da lontani climi
570viene il nemico, o in altra terra nato;
ma un nostro cittadino a’ nostri danni
muove e conduce esercito straniero:
e pure ha qui fra noi ne’ nostri muri
la madre, il padre e le sorelle afflitte.
575Anche un fratel tu avevi: or mira, iniquo,
tu che a gli avi minacci e stragi e morte,
tutta l’Aonia in mio favor s’è mossa,
nè sono al tuo furor lasciato solo.
Sai tu che voglion queste squadre? Il regno
580vogliono ch’io ti neghi; - e qui si tacque.
Indi gli ordin dispone, e chi le mura
difender debba, e chi pugnare in campo,
quai schiere in fronte e quali por nel centro.
Così qualor nel rusticale albergo
585l’alba penétra e ancor son l’erbe molli,
apre le chiuse stalle il buon pastore,
e fuor ne tragge il gregge: escono i primi
i robusti montoni, e insiem ristrette
seguon le pecorelle; egli con mano
590sostien le pregne e le pendenti poppe,
e pone al latte le cadenti agnelle.
Vengono intanto senz’aver mai posa
nè dì, nè notte furibondi i Greci
spinti da l’ira: appena il cibo o il sonno
595li tarda alquanto, e van con quella fretta
l’inimico a cercar ch’altri lo fugge;
nè li arrestan gli augurii e i tristi segni,
che la sorte presaga a lor dimostra
molti e funesti messagger di morte.
600Perchè di lor sciagura annunzio certo
diedero augelli e fiere, ed astri, e fiumi
indietro volti; tuonò Giove irato,
strisciaro infesti lampi; orribil voci
da’ sotterranei usciro, e i chiusi tempii
605volontari s’aprîr de’ numi eterni;
or piovve sangue, or pietre, ed improvvise
apparver ombre, ed a’ nipoti e a’ figli
flebili si mostraro i padri e gli avi;
gli oracoli febei Cirra allor tacque,
610e la notturna Eleusi in non usati
tempi urlar si sentì; Sparta presaga,
aprendo il tempio, gli amiclei fratelli
(o sceleranza!) pugnar vide insieme:
gli Arcadi udiro infra gli orror notturni
615Licaone latrar, correr di nuovo
Enomao vider nell’infame campo
attoniti i Pisani, e quei d’Acarne
scorsero l’Acheloo dell’altro corno
scemo e deforme; di Perseo l’immago
620mesta vide Micene, e di Giunone
turbato il simulacro, e mercè chiese:
udîr gli agricoltori il procelloso
Inaco dar muggiti: ambedue i mari
udîr suonar di Palemone a’ pianti
625gli sbigottiti abitator dell’Istmo.
Tali avvisi de’ Numi ode e non cura
la pelasga falange, e ’l furor cieco
di timore la spoglia e di consiglio.
Erano giunti di Beozia a’ fiumi
630e dell’altero Asopo in su le sponde,
e non ardiano il periglioso guado
tentar le schiere del nemico flutto.
Perocchè allor con ridondante piena
facea terrore a’ campi, o la piovosa
635Iride a lui le forze accrebbe o i nembi
alpestri, o che pur tal fosse sua mente,
del terreno natio chiudere il varco
al campo ostile. Ippomedonte allora
il destriero restio spinse d’un salto
640nel fiume, e dietro si tirò la sponda,
e in mezzo a’ gorghi alto tenendo il freno
e l’armi, volto a gli altri duci grida:
- Or me seguite, o valorosi; io scorta
primo sarovvi a le nemiche mura,
645io primo a Tebe spezzerò le porte. -
Tutti lanciârsi allor nell’onde a gara
vergognando gli estremi. In cotal guisa
se dal pastor guidato a fiume ignoto
giunge l’armento, timido s’arretra:
650lontana pargli la contraria ripa,
ed in mezzo ha ’l terror; ma se precede
il toro condottiero e ’l guado tenta,
allor facile il salto, allor vicino
il lido, allor più mite l’onda appare.
655 Vider non lungi un rilevato colle
cinto da’ campi, ove spiegar le tende
potean sicuri i capitani argivi,
e donde si scoprian le torri ostili
tutte d’intorno e le tebane mura.
660Piacque la sede ed il fedel ricetto,
perocchè il monte dolcemente sale
e signoreggia il piano, e non lo copre
altro monte vicino, e non fa d’uopo
di gran sudore a metterlo in difesa;
665forte natura il fe’: le rupi in vallo
ergeansi, e in fossi era cavato il piano,
e quattro sassi gli cingeano i fianchi
fatti dal caso di bastioni in guisa;
il rimanente terminâr le schiere,
670finchè il sol cadde e diè riposo all’opre.
Ma chi ’l terror può mai ridir di Tebe,
città che attende gli ultimi perigli,
cui turba l’atra notte e ’l dì vicino!
Corrono per le mura, e in quel terrore
675nulla lor sembra esser sicuro assai;
nè fidan più nelle anfionie rocche.
Ferve il tumulto, ed il timore accresce
degl’inimici il numero e il valore:
veggonsi a fronte i padiglioni ostili
680e splender su’ lor monti estrani fuochi:
chi a’ tempii corre e a’ Numi, e chi le spade
e i dardi affina, e de’ destrier fa prova:
altri si stringe al sen la moglie e i figli,
e chiede lor l’estreme esequie e ’l rogo:
685se alcun le luci in momentaneo sonno
chiude, in sogno guerreggia; or la dimora
lor sembra avanzo, or han la vita a schivo,
ed odian l’ombre ed han timor del giorno.
Scorre per ambo i campi ebbra e baccante
690Tesifone, ed ha in man gemino serpe:
mostra un fratello all’altro, e ad ambi il padre.
E questi urlando da sue oscure grotte,
le Furie invoca e ridomanda il lume.
Di già ecclissato avea l’umido corno
695l’algente luna, e già sparian le stelle
a lo spuntar della novella luce,
e bollia l’Oceàno al nuovo fuoco
del vicin Sole, e quanto vasto è il mare,
a’ rai cedendo de’ destrieri ardenti,
700spianava i flutti e rosseggiava intorno:
ed ecco uscir da le tebane porte
Giocasta, il guardo torva, e ’l bianco crine
sparsa e incomposta, e pallida le gote,
e livida di colpi i bracci e ’l petto,
705quasi Furia antichissima d’inferno,
portando in man cinto di nera benda
un ramuscel d’oliva, e accompagnata
da la gran maestà di sue sciagure.
Le due figlie, più quieto e miglior sesso,
710le fan di qua, di là debil sostegno,
mentr’ella sforza le senili membra
e sopra il suo potere i passi affretta.
Giunta a’ nemici, urta col petto ignuda
le sbarre, e chiede con tremante voce
715interrotta da gli urli essere ammessa;
e, - Aprite (grida) il varco, io quella sono
dal cui ventre tanta guerra uscío:
io son quell’empia, ed ho nel vostro campo
anch’io ragione ed esecrabil parte. -
720 Inorridîr le guardie al solo aspetto,
molto più a le parole, e di già un messo
torna, che fu spedito al Rege Adrasto
con ordine che venga: apron le porte,
e la fanno passar tra l’armi ignude.
725Ma come pria de’ principi lernei
giunse al cospetto, in suo dolor feroce
furïosa gridò: - Deh chi mi mostra
quel ch’io mi partorii fiero nemico?
Qual elmo il cela, o principi? - A tal voce
730corre di Cadmo il figlio, e fra le braccia
l’accoglie, e ’l seno di gioioso pianto
le bagna, e la consola, e, - O madre, o madre, -
tra’ singulti ripete; e le sorelle
alternamente or si restringe al seno,
735or alla madre torna. Allor fra’ pianti
la fiera vecchia vie più l’ira inaspra.
- Che lagrime, o crudel? Quai nomi fingi,
Argivo Re? Perchè m’abbracci, e offendi
col ferreo petto l’odïosa madre?
740Tu quell’esule sei? Tu quel meschino
che mendicava albergo? E chi pietade
non avrebbe di te? Lassa! ma quante
schiere da’ cenni tuoi pender vegg’io?
Da quante guardie ti rimiro cinto?
745Misere madri! or qual ti veggio? E pure
io piangeva il tuo esilio i dì e le notti.
Ma se de’ tuoi la voce udir ti degni,
se ne ascolti i consigli, or che le trombe
taccion ancora, e la pietà sospesa
750sta in mezzo a l’armi e l’empia guerra aborre,
io, genitrice tua prego e comando:
vien meco, e i Dei paterni e i patrii tetti
mira pria che gl’incenda, e col fratello
(che, torci il guardo?), col fratel ragiona,
755ed il regno gli chiedi, ed io fra voi
giudice sederò: che se lo nega,
potrai con più ragione usare il brando.
Temi tu forse che la madre ancora
a le frodi consenta e che t’inganni?
760Non uscì già da l’infelice casa
ogni pietade: il tuo sospetto appena
giusto saria se ti guidasse Edippo.
Sposa fui, lo confesso, e le mie nozze
ahimè fur empie, e fu nefando il parto;
765pur tali io v’amo, e i furor vostri io scuso;
che se ancor tu resisti, ecco io t’appresto
volontario trionfo: a tergo lega
le pie sorelle, ed incatena e stringi
la genitrice afflitta; e se non basta,
770da le sue grotte ti si meni il padre.
Or i miei pianti e le querele io volgo
a voi, principi achivi. In abbandono
lasciaste pur le dolci spose e i figli,
e i vecchi padri, e questi stessi pianti,
775ch’io spargo, allor versaste. A me rendete,
principi, le mie viscere e ’l mio sangue.
Se tanto caro nel suo breve esilio
a voi si rese (e siavi prego ancora)
quale a me sarà poscia e a questo seno?
780Non dagli Odrisii regi o dagl’Ircani
sariano escluse mie preghiere oneste;
o s’altri v’ha, che vinca i furor nostri:
o ’l concedete, o duci, o fra le braccia
spirar io voglio de l’ingrato figlio,
785pria di veder le scelerate guerre. -
Il flebile parlar mosse a pietade
avea le irate schiere, e già d’intorno
si vedean vacillar elmi e cimieri,
e di lagrime pie l’armi cosperse.
790 Quai feroci leon che con il petto
hanno atterrati i cacciatori e l’aste:
placano l’ira, e sopra i corpi vinti
van passeggiando, e certi già del cibo
godon di prolungar l’ingorda fame:
795Così ne’ Greci s’ammolliano i cuori
e l’insano furor d’armi e di morte,
e Polinice stesso ora fra i baci
de la canuta madre, or fra gli amplessi
de la semplice Ismene, ed or nel seno
800d’Antigone piangente e che lo prega,
sta in sè dubbio e confuso, e ’l regno oblia.
Già già d’andar non nega, e non gliel vieta
placido Adrasto; ma s’oppon Tideo,
che si rimembra il ricevuto scorno.
805 - Me (grida), me piuttosto al fier tiranno,
che sì fido provai, prenci, opponete
(e non gli era fratello), ancor ne porto
la finta pace e l’empia fe’ nel petto.
Arbitra della fede e della pace,
810ov’eri, madre allor ch’una sol notte
mi diè fra voi così benigno albergo?
Ad un sì reo commercio il figlio meni?
Menalo prima a quell’infame campo
che fuma ancor del vostro sangue e mio.
815E tu indur vi ti lasci? O troppo mite!
Qual sia il furor de’ tuoi più non rimembri?
Quando sarai da mille spade cinto,
basterà forse che la madre pianga,
e cesseranno l’armi? Una sol volta
820ch’ei t’abbia in suo poter, e che ti chiuda
in quelle mura a le sue furie esposto,
puoi tu sperar che ti rimandi al campo?
Prima vedrai quest’asta, il ferro scosso,
rifiorire di frondi e di verdura;
825l’Inaco prima e l’Acheloo vedremo
retrogradi tornare a’ loro fonti.
Ma sol si cerca d’abboccarli insieme,
e, se possibil fia, compor le risse:
questo campo gli è aperto ed è sicuro.
830Forse di me si teme? Ecco mi parto,
e dono al comun ben le mie ferite.
Venga egli pure a le sorelle in mezzo,
e ’l riconduca qui la stessa madre.
Quindi che speri? Fa che ’l regno ei ceda
835vinto da’ patti: il renderai tu poi? -
Dal feroce parlar mosse le schiere
mutan consigli, qual se d’improvviso
turbasi il cielo, e l’Austro procelloso
toglie a Borea del mar tutto l’impero.
840Si risvegliano l’ire, e pur di nuovo
piacciono l’armi ed i furor primieri.
Vede Megera il tempo, e pronta il coglie,
e sparge a le battaglie il primo seme.
Su la sponda dircea givano errando
845due mansuete tigri, ed eran quelle
che ’l carro trionfal da’ lidi Eoi
trasser di Bacco, ed ei le avea dal giogo
libere fatte negli aonii campi,
A queste ancor spiranti arabi odori,
850e che oblïata han la natia fierezza,
solevan le Baccanti e la più antica
sacerdotessa ornare il collo e ’l petto
di pampinosi serti, e ’l maculoso
vello intrecciar di fiori e fregiar d’ostro;
855e di già care erano a’ campi e a’ colli,
e care ancor (chi ’l crederia!) a l’armento;
e le giovenche intorno a lor muggendo
ardian pascere i prati: ingorda fame
non le spinse a le prede, e di chi ’l cibo
860porgeva lor, lambivano le destre,
e aprian le fauci e distendeano i colli
a l’infusion del dolce umor di Bacco.
Per le selve dormian; ma se talora
con pacifico passo entrano in Tebe,
865fumano in ogni casa, in ogni tempio
i sacrifici, e par che Bacco torni.
Queste tre volte con viperea sferza
batte la Furia, e le rivolge in ira
e al furor primo, e dietro sè le mena
870contro gli Argivi, che non san che sacre
sieno ad un Nume: da diverse parti
scendon così due folgori dal cielo,
solcando l’aria con il crine ardente;
non altrimenti rapide e veloci
875fremendo orribilmente a corso, a salti
passano i campi, e l’infelice auriga
sbranan d’Anfiarao (presagio infausto
al suo signor, di cui guidava al fiume
i candidi destrieri), ed Ida appresso
880di Tenaro, e Acamanta il forte Etólo.
Fuggon pei campi e gli uomini e i cavalli;
ma Aconteo nel veder cotanta strage
(er’Arcade costui e cacciatore)
acceso d’ira collo strale in cocca
885le segue, e scaglia, e replicando i colpi
le impiaga nella schiena e nelle coste.
Quelle fuggendo, e di sanguigna riga
segnando il suol, su le tebane soglie
portano le saette, e moribonde
890gemono in suon di pianto, e a cader vanno
dell’amata città sotto le mura.
Sembra che i tempii e la cittade a sacco
Vada, e sossopra, e le sidonie case
ardan le fiamme: tanto e tal s’inalza
895rumor per tutto: avrian minor dolore,
se le cune d’Alcide, o di Semele
il talamo fumante, o d’Ermione
fossero i tetti in cenere disciolti.
Ma del nume ministro il buon Tegeo
900col brando ignudo Aconteo inerme assale,
ch’era già senza dardi, e che godea
de la doppia vittoria: il suo periglio
miran gli Arcadi, e corrono al soccorso;
ma giungon tardi: su le uccise fiere
905giace a Bacco il meschin pronta vendetta.
Dassi a l’armi nel campo, ed il concilio
resta disciolto: fra le armate schiere
fugge Giocasta, e più non prega, e seco
fuggon le figlie, e chi le udì pietoso
910or le respinge irato e le discaccia.
Coglie Tideo l’occasïone, e grida:
- Or ite dunque, e fe’ sperate e pace;
forse ha potuto il perfido tiranno
differire il misfatto in fin che torni
915da noi partendo la canuta madre? -
Sì dice, e tratto il brando, i suoi compagni
eccita a l’armi. Un rumor fiero e orrendo
s’alza d’urli e di strida, e crescon l’ire.
Senz’ordin ferve aspra tenzone, e ’l vulgo
920va insiem co’ duci, e non ne cura i cenni,
e corron misti i cavalieri e i fanti
ed i rapidi carri armati in guerra.
Infelice colui che inciampa e cade,
chè la turba indistinta il calca e preme:
925non di sè pon far mostra, o del nemico
riconoscer le forze; un furor cieco,
una rabbia improvvisa ha di già spinte
la greca gioventude e la tebana
a meschiarsi co’ brandi: insegne e trombe
930restaro a tergo, e quando diero il segno
di guerreggiar, già la battaglia ardea.
Da poco sangue tanta guerra uscío?
Così ’l vento da prima infra le nubi
sue forze accoglie, e lievemente scuote
935le frondi e i rami; indi robusto e fiero
svelle le selve, e d’ombre spoglia i monti.
Alme Pierie Dee, le vostre schiere
a noi cantate con più gravi carmi,
e di Beozia vostra i casi atroci.
940Non vi chieggiam cose straniere e ignote.
Voi le miraste d’Elicona, e mute
restâr le vostre cetre, e inorridiro
al rimbombo di Marte e delle trombe.
Venía Pterela, un giovane tebano,
945rapito dal destrier, che sprezza il freno,
e di sè donno fra le schiere e l’armi
a suo talento il porta: ecco Tideo
l’astra gli vibra nel sinistro arcione,
e ’l cavalier, ch’è per cader di sella,
950nell’anguinaglia al palafreno inchioda:
fugge il caval col suo signor sul dorso,
che non più ritien l’armi o regge il freno,
come Centauro, che d’un’alma privo,
sulla schiena abbandona il busto umano.
955Ferve la crudel pugna, ed a vicenda
Ippomedonte Sibari distende;
e Perifanto è da Meneceo ucciso,
e da Partenopeo Iti trafitto:
un di colpo di spada, un di saetta.
960Dell’inachio Ceneo l’alta cervice
tronca Emone feroce: il capo cade,
e ad occhi aperti il tronco busto cerca,
e cerca il capo l’alma intorno errante.
Abante corre ad ispogliarlo, e un dardo
965vien d’arco greco, e glie lo stende a canto,
e ’l suo gli fa lasciare e l’altrui scudo.
Qual consiglio fu il tuo, semplice Euneo,
lasciar di Bacco il culto e i sacri boschi,
onde uscir è vietato al sacerdote?
970Chi di Lieo ’l furore in quel di Marte
ti fe’ cangiar? Chi d’atterrir presumi?
Porta lo scudo fral d’edera intesto,
e di frondi di vite: il pampinoso
tirso candida fascia intorno cinge;
975ondeggia il crin sul tergo, e ’l primo pelo
adombra il viso, e la lorica imbelle
copre un manto di porpora di Tiro.
Fra le maniche i bracci, ed i calzari
fregiati e pinti, e sottil velo il seno
980copre, e s’allaccia la tenaria veste
con fibbie aurate e con smeraldi ardenti:
suonangli a tergo l’arco e cento strali
dentro lo spoglio di dorata lince.
Costui dal Nume invaso infra le schiere
985venía gridando: - Omai cessate l’armi:
con lieti auspici queste nostre mura
col misterioso Bue mostronne Apollo.
Cessate, dico; volontari i marmi
ne cinsero d’intorno. E noi siam gente
990a’ Numi sacra, e della nostra Tebe
genero è Giove e suocero Gradivo,
ed esser nostro cittadin si degna
il gran Libero padre e il grande Alcide. -
Mentr’ei così ragiona, a lui s’oppone
995crollando l’asta Capaneo feroce.
Qual digiuno leon cui sul mattino
sveglia la fame, se da l’antro scorge
timida cerva o tenero giovenco
mal atto ancor a guerreggiar col corno,
1000lieto corre fremendo, e non curante
lo stuol de’ cacciatori e l’aste e i dardi,
vede la preda, e le ferite sprezza,
tal Capaneo nell’inegual cimento
vien baldanzoso alta brandendo l’asta.
1005Ma pria lo sgrida: - O tu che a morte corri,
perchè vuoi spaventar l’alme guerriere
con femminili strida? Oh qui pur fosse
teco quel Dio del cui furor sei pieno!
Or va, racconta a le tebane madri
1010coteste fole: - dice, e l’asta scaglia,
che, quasi nulla la ritenga, appena
tocca lo scudo, che gli passa a tergo.
Cadongli di man l’armi, e ’l manto d’oro
che ’l sen gli cinge; ne’ singulti estremi
1015ondeggia e geme, e fuor ne sbocca il sangue.
Tu cadi, audace giovanetto, un tempo
dolce cura di Bacco, ora dolore:
te l’Ismaro ognor ebbro, infranti i tirsi,
e te pianse il Timòlo, e la ferace
1020Nisa, e cara a Teseo l’ondosa Nasso,
e ’l Gange, che per tema a gli orgii sacri
di Bacco sottopose i flutti altieri.
Non men feroce le lernee falangi
Eteocle distrugge; assai più lento
1025vien Polinice, e ’l civil sangue abborre.
Ma sopra gli altri Anfiarao si mostra
sul carro eccelso, e a tutto corso spinge
i suoi destrier presaghi e paurosi
per l’infame terren, ch’omai ricusa
1030portarlo in mezzo a un turbine di polve.
L’assiste Apollo, e al suo fedele appresta
un vano grido, e a la vicina morte
intesse fregi di caduco onore.
Ei risplender gli fe’ lo scudo e l’elmo
1035di nuova luce, di cometa in guisa.
Nè tu, Gradivo, al tuo fratel contendi
che da mani terrene il suo ministro
illeso resti. Venerabil ombra
ed ostia intatta si riserba a Dite:
1040ed ei, che certo il suo morir prevede,
va più feroce infra le squadre ostili,
e la disperazion forza gli accresce.
Già più che d’uom son le sue membra e ’l volto;
nè mai più lieto giorno a lui rifulse,
1045nè mai più certa ebbe del Ciel contezza:
se la virtù, che già s’appressa al fine,
tutto a sè nol chiamasse. Avvampa ed arde
tutto di Marte, e del suo braccio gode,
e va de’ colpi suoi l’alma superba.
1050Questi, che a raddolcir le umane cure
era dianzi sì pronto, e che sovente
solea scemar di lor ragione i Fati,
quanto or diverso appar da quel che i lauri
seguia d’Apollo e i tripodi loquaci,
1055e che, invocato il Nume, in ogni nube
de’ volanti intendea volo e favella.
Non tanta strage apporta il Sirio ardente
ed il pestifer anno e l’aria grave,
quante vite egli miete e manda all’Orco
1060vittime uccise alla sua nobil ombra.
Col dardo Flegia, e con il dardo uccide
il superbo Fileo; quinci col carro
di falci armato a le ginocchia tronca
Cromi, e Cremetaon fermo e vicino;
1065indi coll’asta uccide Ifinoo e Sage,
e Gía chiomato, e Licoréo, che a Febo
è sacerdote; e con dolor mirollo
il buon augure argivo, allor che l’asta
vibrata contro lui gli spinse a terra
1070il cimiero, e la sacra infula apparve.
Indi Alcatoo d’un sasso in capo fere,
che lungo i stagni di Caristo avea
la moglie, il patrio albergo e i dolci figli
usi a scherzar su le palustri sponde.
1075Povero pescator visse contento;
ma l’ingannò la terra: egli morendo
s’augura i flutti e l’onde ed i perigli
delle tempeste, che provò men fiere.
Vede d’Asòpo il figlio, il grande Ipseo,
1080cotanta strage e fuga, ed in sè brama
con generoso ardir volger la pugna.
Non men feroce anch’ei venía sul carro
strage facendo delle squadre greche;
ma visto il paragon d’Anfiarao,
1085sdegna ignobil trofeo di sangue umíle.
A lui coll’armi e colla mente aspira,
lui solo cerca; ma s’oppon la turba,
e l’impedisce: ond’ei sdegnoso allora
un’asta svelta dal paterno fiume
1090impugna, e prega: - O delle aonie linfe
copioso donator, che ancor superbo
vai de’ fulmini stessi e delle fiamme
che uccisero i Giganti; o Asopo, o padre,
tuo nume ispira a questa destra: il figlio
1095è che ten prega, e l’asta istessa un tempo
germe delle tue sponde; e se tu osasti
pugnar con Giove, al figlio almen concedi
svenar il vate e non temer d’Apollo,
e le vedove bende e l’armi vuote
1100giuro dar in tributo al tuo gran fiume. -
Udillo il padre, e consentì; ma Febo
s’oppose, e torse il colpo, e l’asta il petto
d’Herse trafisse condottier del carro.
Cade morto il meschin; ma il Nume stesso,
1105sotto sembianza di Aliamone, il freno
prende e succede a l’infelice auriga.
Al vivo sfolgorar del Nume ardente
fuggon confusi i cavalieri e i fanti;
il sol timor li caccia, e senza piaghe
1110muoion d’imbelle morte i fuggitivi.
Dubbio rimane se più aggravi il carro
il divin peso, o a’ corridor dia lena.
Come qualor precipitosa cade
svelta da gli anni, o da rio nembo scossa
1115d’alpestre monte discoscesa parte;
per diversi sentier uomini, alberghi,
selve ed armenti in sua ruina involge,
sinchè cessando l’impeto, si spiana
in cupa valle, o il corso arresta a’ fiumi:
1120non altrimenti il formidabil carro,
che porta il grand’eroe, porta il gran Nume,
ferve nel sangue. Delio stesso i dardi
vibra, e guida i destrieri, ed egli al vate
dirizza i colpi, e in altra parte volge
1125e rende vane l’aste e i dardi ostili.
Cadono a terra Menala pedone,
e dal gran corsier coperto invano
Antifo, ed Etïon, che d’una ninfa
d’Elicona era nato: e per l’ucciso
1130fratel Polite infame, e Lampo audace,
ch’osò tentar la purità di Manto
diletta a Febo e di sue bende cinta.
Contro il profano le saette sante
scoccò egli stesso, e vendicò l’oltraggio.
1135 Ma già su’ corpi estinti e su’ mal vivi
gli anelanti destrier cercano indarno
il coperto terreno, e duro solco
s’apron su membra lacerate e infrante,
e ne rosseggian le girevol ruote.
1140Calca il carro crudel gli esangui busti
e già di senso privi; e chi ferito,
languendo giace, sul suo capo il vede
ratto venir, nè di schivarlo ha speme.
E già lordo il timon, lubrici i freni
1145son di putrido sangue; un denso limo
di teschi infranti e di midolle invischia
le ruote sì, che le fa lente al moto,
e l’ossa de’ cadaveri insepolti
a’ già stanchi destrier servon d’inciampo.
1150Il vate ognor più fiero i dardi svelle
nelle ferite infissi, e li rilancia,
e fa nuove ferite e nuove morti,
e gemon l’alme sciolte al carro intorno.
Alfine il Nume al servo suo fedele
1155si scopre, e dice: - Usa tua forza, e lascia
d’immortal fama il tuo gran nome eterno,
or ch’io son teco, e l’implacabil Morte
sospende ancor l’irrevocabil punto.
Omai siam vinti, e la severa Parca
1160sai ben che a nullo unqua ritorse il filo.
Vanne, o promesso, ed aspettato un tempo,
gioia ed onore degli Elisii campi;
vanne senza temer del reo Creonte
le dure leggi, e di mancar d’avello. -
1165Egli da l’armi respirando, al Nume
così risponde: - O gran Padre Cirreo,
io te dianzi conobbi, e men diè segno
l’asse sotto il maggior peso tremante;
ma perchè tant’onore a un infelice,
1170che tu ne regga il periglioso carro
destinato a l’Inferno? E sino a quando
terrai sospeso il mio destin maturo?
Già sento l’onda rapida di Stige,
e i neri fiumi dell’orrenda Dite,
1175e l’orrido latrar delle tre gole
del tartareo custode; omai ripiglia
l’a me commesso onor delle tue bende,
e ’l sacro allòr, cui profanar non lice,
portandolo nell’Erebo profondo.
1180Ma se pur del tuo vate udir l’estreme
voci non sdegni, e i giusti voti suoi;
io ti ricordo l’ingannata casa,
ed il castigo dell’infame moglie,
e del mio figlio il nobile furore. -
1185Mesto allor scese Apollo, e celò il pianto,
e restò afflitto il carro, e i buon destrieri
si dolser privi del celeste auriga.
Così vede sicuro il suo naufragio
nave agitata da notturno Coro,
1190cui lo splendor della maligna stella
d’Elena infesta minaccioso guarda,
posti già in fuga Castore e Polluce.
Il suol, che tosto s’aprirà in vorago,
a vacillar comincia, e scuote il dorso,
1195e s’alza maggior turbine di polve:
mugge sotto l’Inferno; i combattenti
credon che sia il rumor della battaglia,
e si spingono innanzi: il tremor cresce,
e fa l’armi ondeggiare ed i guerrieri
1200e i trepidi cavalli. I colli intorno
piegan le cime ombrose, e l’alte mura
già crollano di Tebe. Inalza i flutti
gonfio l’Ismeno, e le campagne inonda.
Cessano l’ire: ogni guerriero i dardi
1205in terra affigge, e a l’aste vacillanti
il corpo appoggia, e nel pallore alterno
conoscendo il reciproco timore,
confuso si ritira a le sue insegne.
Qual se talor sprezzando il mar profondo
1210a stretta pugna le gran navi accozza
Bellona irata, fervon l’ire e l’armi;
ma se opportuna alta tempesta sorge,
ciascun pensa al suo scampo, e nuovo aspetto
di nuova morte fa deporre i brandi,
1215ed il timor fa germogliar la pace:
tal l’ondeggiante guerra era in quel campo.
O che la terra, un turbine concetto,
affaticata sprigionò de’ venti
la chiusa rabbia e ’l prigionier furore:
1220o che dall’onde sotterranee rôsa
in quella parte ruinando cadde;
o quivi in suo girar con l’ampia mole
si posò il cielo, o col fatal tridente
Nettun la scosse, e con più gravi flutti
1225appoggiò il mar sovra l’estreme sponde:
o il suolo istesso minacciò i fratelli;
ecco aprirsi voragine profonda.
Vider l’ombre la luce, e gli astri l’ombre,
ed ebber vicendevole timore.
1230L’immane speco nell’immenso vôto
assorbì l’Indovino e i suoi corsieri,
che per passarlo avean già preso il salto.
Non lasciò il sacerdote o l’armi o i freni,
ma qual era sul carro al cupo fondo
1235ritto discese riguardando il cielo.
E gemè quando riserrarsi il suolo
sopra si vide, e un più legger tremore
rimarginar i fessi campi, e ’l giorno
celar di nuovo al tenebroso Averno.