< La Tebaide
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Publio Papinio Stazio - La Tebaide (92)
Traduzione dal latino di Cornelio Bentivoglio d'Aragona (1729)
Libro quarto
Libro terzo Libro quinto


L’ESERCITO DEI SETTE RE.
IL VATICINIO DI TIRESIA A TEBE.
LA SICCITÀ NELLA VALLE NEMEA.


 
E già il terz’anno sciolte avea da’ monti
col tepido spirar le bianche nevi
zeffiro portator di primavera,
e Febo a’ giorni iva aggiungendo l’ore,
5quando ruppero i Fati ogni consiglio,
e a’ miseri fu data alfin la guerra.
Dal giogo larisseo con la sinistra
Bellona alzò la face, e a tutta forza
colla destra scagliò l’asta tremenda,
10che per lo vano ciel stridendo cadde,
e andò a ferir ne gli argini dircei;
scend’essa poi nel campo, e fra i guerrieri
d’oro e ferro splendenti ella si mesce,
e freme in suon di militar tumulto.
15Porge l’armi a chi parte, e applaude, e ispira
lena a’ destrieri, e da la porta affretta
i pigri e i lenti; e non che muova i forti,
breve virtude ispira anche a’ codardi.
Giunto era il dì prefisso: a Giove e a Marte
20cadon vittime scelte: il sacerdote
teme l’infauste fibre e nol dimostra,
e finge speme, e ne’ guerrier l’infonde.
Ma già i padri, i fanciulli e le innocenti
vergini, e le dolenti e caste spose
25stan su le soglie, e a’ lor congiunti fanno
con gli amplessi al partir dolce ritegno.
Non ha più freno il pianto; e di chi resta
e di chi va molli son l’armi e i manti:
pende da ciascun elmo una famiglia;
30e a le chiuse visiere i dolci baci
rinnovar giova, e a gli amorosi amplessi
inchinano i guerrier gli alti cimieri.
Già quel primo furor d’armi e di morte
scemando vassi in ogni petto e langue,
35e nel partir si raddolciscon l’ire.
Non altrimenti avvien, quando s’accinge
a solcar lungo e periglioso mare
stuolo di naviganti, e già le vele
spiegansi al vento, e l’àncora ritorta
40dal fondo si ritira: a lor d’intorno
stassi turba d’amici, e a lor le braccia
stendon al collo, e non han gli occhi asciutti;
ma poi che alfin sciolta è la prora, stanno
immobili sul lido, e la volante
45nave seguon con gli occhi, e in odio il vento
han che lungi la porta, e da lo scoglio
salutano co’ cenni i naviganti.
  Fama, o tu, che conservi a’ giorni estremi
la rimembranza de’ famosi eroi,
50e vivere li fai dopo la morte;
e tu, Regina de’ sonori boschi
Calliope, a me con più sublime canto
Narra, quali movesse invitte schiere,
quai duci, e quai città vuote lasciasse
55d’abitatori il formidabil Marte.
Chi più di te bevve al Castalio fonte
sacro furore, e n’ha la mente piena?
  Primo ne viene Adrasto, e nel sembiante
molto palesa le sue interne cure;
60rotto da gli anni e in quell’età che pende
inver l’occaso, tratto, anzi rapito
da le preghiere altrui, si cinge il brando.
Portangli l’armi dietro i suoi scudieri:
cento destrier l’attendono a le porte,
65ed Arïon fra gli altri e freme e sbuffa,
batte con l’unghia il suol, nè trova loco.
Seguono armate la reale insegna
e Prosinna e Larissa; e la d’armenti
Midea nutrice; e d’ampie greggi ricca
70Fillo; e Neri, che teme il suo Caradro
gonfio e spumante; e Cleone turrita;
e Tire, che vedrà l’atro trïonfo
scritto col sangue de’ Spartani uccisi;
e quelli ancor che diero il rege ad Argo,
75abitator di Drépano, e con loro
Sicïone fruttifera d’olive
mandan le loro schiere, e quei che stanno
de la pigra Langía lungo le sponde,
ed i vicini al tortuoso Elisso.
80Immondo è il fiume e infame, e ne’ suoi flutti
sozzi soglion lavar le Furie inferne
i ceffi, e dissetar gli angui del crine,
lasciando illeso Flegetonte; o sia
che da tracie stragi, o che da’ tetti
85empii tornin di Cadmo o da Micene,
fuggon l’onde sdegnose al fiero nuoto,
e corron tinte di mortal veneno.
  Poi viene Effira, che i solenni giochi
fa a Palemone, e le cencree falangi,
90ove al ferir del Pegaseo cavallo
nacque Ippocrene a’ sacri ingegni amica;
e quei ch’abitan l’Istmo, che raffrena
gli opposti mari e ne difende il suolo.
Tremila in tutto son quelli che Adrasto
95seguono in guerra baldanzosi, e sono
di varie genti e di varie armi instrutti.
Altri impugnano i dardi; altri le aduste
aguzze travi; altri le lievi fionde
ruotan per l’aria con robusti giri.
100Per anni e per impero ei venerando
tutta precede la feroce schiera.
  Toro così, benchè per molta etade
alta non porti più la fronte, e muova
per le campagne sue più tardi i passi,
105guida però l’armento: i più feroci
giovenchi a lui non osan muover guerra,
e rispettan le vaste cicatrici
nel largo petto impresse, e le robuste
per molti colpi rintuzzate corna.
110 Il genero dirceo, per cui la guerra
si muove e per cui sol milita il campo,
la propria insegna dopo il Re dispiega.
Molti da Tebe a lui venner guerrieri,
chi del suo esiglio per pietà; chi mosso
115da fe’, che spesso ne’ disastri cresce;
chi per mutar signore; ed altri infine,
a cui più giusta la sua causa sembra.
A questi aggiunge il suocero le schiere
d’Arena, d’Egïone e di Trezene
120superba per Teséo: così provvede
ch’egli non resti senza pompa, e senta
meno il dolor degli usurpati onori.
Altiero ei va con le stess’armi e ’l manto
con cui già venne in Argo; e ’l tergo copre
125del teumessio leone; e al fianco appende
il fiero brando, ch’ha nel pomo impressa
l’orrenda Sfinge, e porta in man due dardi.
Già il regno, già la madre e già le suore
possiede con la speme; e pur lo frena
130d’Argia l’amore, e gli occhi in lei volgendo
sovente, la rimira afflitta e mesta,
che tutta infuori da una torre pende,
e con gli occhi lo siegue: egli a tal vista
s’intenerisce, e quasi Tebe oblia.
135 Ecco il fiero Tideo le olenie genti
armate guida risanato e franco
al primo suon de la guerriera tromba.
Qual angue che sotterra ha già lasciata
l’antica spoglia, e rinnovati gli anni,
140fuor se n’esce al tepor de’ nuovi Soli
di primavera, e si rabbella e striscia,
e minaccioso per l’erbetta serpe:
misero quel pastor che a lui vicino
passa, e ’l primier veleno in sè riceve!
145 Appena divulgò la fama il grido
de l’alta impresa, che d’Etolia tutta
la gioventù feroce a lui sen corse.
Vengono da Pilene e da Pleurone
per lo suo Meleagro ancor dolente;
150manda i suoi Calidone; e la di Giove
nutrice Oleno, che nol cede a l’Ida;
e Calcide, che il mare in sè ricetta;
e l’Acheloo scornato, e che non osa
erger la fronte offesa, e mesto giace
155ne l’umide caverne, e le sue sponde
restano asciutte e squallide d’arena.
Tutti sen van di ferro armati i petti
co’ pili in mano, e sopra gli elmi splende
de’ loro Re progenitor Gradivo.
160I più robusti e audaci al duce intorno
forman corona, ed ei va lieto e noto
per le belle ferite, e già non cede
di sdegno a Polinice, e dubbio pende
in favore di cui si muova il campo.
165 Le doriche falangi in maggior stuolo
spiegan l’insegne, e quei, Lirceo, che i tuoi
campi soglion solcar con molti aratri;
ed i cultori de’ tuoi vasti campi,
Inaco Rege degli achivi fiumi:
170nè già di te più procelloso alcuno
scorre il greco terreno, allor che ’l Tauro
gonfio ti rende e l’Iadi piovose,
e di sè t’empie il genero Tonante.
Poi vengon quei che Asterïon veloce
175cinge co’ flutti, e quei cui l’Erasino
inonda i prati e le mature spiche;
e quei che d’Epidauro arano i campi:
Bacco a’ suoi colli è amico, ma la Dea
Sicana a lui è de’ suoi doni avara.
180E Dimo ancor manda soccorsi; e Pilo
di cavalieri grosse squadre invia.
Non era allor Pilo famosa, e ’l suo
Nestore ancor de la seconda etade
era sul fiore, e gir non volle a Tebe.
185Quindi le genti guida il grande e forte
Ippomedonte, e con l’esempio accende
di gloria e di virtude in lor l’amore.
Sul rilucente elmetto alto egli porta
tripartito cimier di bianche penne:
190veste d’acciaio il duro usbergo, e copre
col fiammeggiante scudo il largo petto,
in cui di Danao la terribil notte
ne l’oro è impressa: le crudeli Erinni
fan con le nere lor funeste faci
195splender cinquanta talami nuziali;
su le sanguigne porte il fiero padre
si ferma, e tenta i brandi, ed al delitto
le incerte figlie minacciando esorta.
Lo porta giù dalla Palladia rocca
200destrier Nemeo precipitoso e lieve,
e non avvezzo a l’armi, e in mezzo a un nembo
di polvere commossa, e quasi a volo
per lo gran campo un’ombra immensa stende.
Non altrimenti a precipizio cala
205da le montane cave Illeo biforme
squarciando con due petti e doppie spalle
al rapido suo piè quanto s’oppone:
Ossa il paventa, e per timore a terra
si piegano le fiere e si nascondono,
210e i Centauri minor n’hanno spavento:
finchè d’un salto nel Peneo si lancia,
e solo opponsi, e spinge indietro il fiume.
Ma qual potria ridir lingua mortale
il numero de’ fanti e de’ cavalli
215che lui sieguono in guerra? Alcide i suoi
de l’antica Tirintia abitatori
eccita a l’armi; e non è scarso il luogo
d’uomini forti, e del feroce Alunno
vive in essi la fama ed il valore.
220Ma al volgersi de gli anni il prisco aspetto
de la patria mutossi, e non ritiene
più la prima fortuna e le ricchezze.
Raro è l’agricoltor che al passaggero
le rocche additi, che i Ciclopi alzaro.
225Pur trecento guerrieri in guerra manda
prodi così, che nel valor dell’armi
rassembrano essi soli un campo intero:
nè già di ferro armano il petto, o al fianco
cingon l’orribil brando; il capo e il dorso
230copron col cuoio de’ leoni, e in giro
ruotan nodosa clava, e ne’ turcassi
portan cento infallibili saette.
Cantan inni ad Alcide, e le da’ mostri
purgate terre; ed ei dall’alta cima
235d’Eta li sente, e ne gradisce i canti.
Manda Nemea soccorsi, e da le sacre
del cleoneo Molorco ospiti vigne
vengon gli agresti abitatori. È noto
come Molorco ne l’angusto albergo
240accolse Alcide: e ne le rozze porte
scolpite sono ancor l’armi del Nume;
e nel picciolo campo al pellegrino
s’addita ov’ei posava l’arco, e dove
la mazza, e ’l sito ov’ei talor giacea,
245che ne conserva le grand’orme impresse.
  Siegue poi Capaneo di sì gran mole,
che quantunque pedon, quasi da colle
tutto sotto di sè rimira il campo.
A quattro doppi a lui cingon lo scudo
250di fuor coperto di ferrata piastra
di quattro buoi le diseccate cuoia.
L’Idra in esso si vede in tre gran giri
ravviluppata, e già vicina a morte:
tre de’ suoi capi semivivi ancora
255splendono ne l’argento, e gli altri cela
con maestrevol arte il fulgid’oro
imitante la fiamma; e Lerna intorno
ristagna l’acque, e le ritira indietro
livide e infette dal crudel veleno.
260Poi s’arma i fianchi e lo spazioso petto
di ferree squamme, orribile lavoro,
e non già de la madre; in cima a l’elmo
porta un gigante; e de le frondi nudo
un gran cipresso in vece d’asta impugna.
265Sieguon sì fiero duce Anfigenía;
e la piana Messene, e la scoscesa
Itome; e posta sovra un alto monte
Epi, e Trione e Pteleone ed Hello;
e Dorion, che ’l suo poeta piange.
270Tamiro fu costui, che osò nel canto
contender colle Muse. Oh sempre folle,
temerario garrir co’ numi eterni!
E ne fu in pena de la vista privo,
e condannato a viver muti gli anni.
275Misero! A lui erano forse ignote
le vittorie d’Apollo, e lo scuoiato
Marsia, per cui famosa è ancor Cellene?
  Ma di già vinta e ottenebrata in parte
d’Anfiarao la mente, egli pur viene;
280e ben sapea quali funesti segni
veduti avesse; ma la fiera Parca
in lui soffoca il Nume, e l’armi in mano
gli pone, e dietro se ’l rapisce a forza:
nè senza colpa è l’infedel consorte,
285che d’Harmonia il monile empio possiede.
All’indovino esser fatal quest’oro
prescritto aveano i Fati; e l’empia frode
non gli era occulta; ma la moglie avara
cambiò il marito ne l’infame dono,
290e de le spoglie altrui n’andò pomposa.
Argia, che vede star incerti ancora
i consigli de’ duci, e che dal vate
tutta la mole de la guerra pende,
volentieri lo cede, e al caro sposo
295lieta lo rende, e a lui così ragiona:
  - Di vani fregi non è questo il tempo
per me, o signore, nè da te lontana
far pompa d’una misera bellezza.
Poco non mi parrà fra amiche ancelle
300temprare il mio dolore, e i sacri altari
sovente circondar col crin disciolto.
Deh cessi Dio, che mentre tu di ferro
suonerai cinto, e che la bionda chioma
ti premerà l’elmetto, al collo io porti
305il dotale d’Harmonia aureo monile.
Forse daranci più felici giorni
placati i Numi, e di pompose vesti
tutte allor vincerò le argive spose,
chè di Re moglie, e baldanzosa e lieta
310di tua salute, fra festivi cori
andrò divota a scioglier voti al tempio.
Abbiasi l’oro pur colei che ’l brama,
e può mirare con sereno volto
di Marte infra i perigli il suo marito. -
315 Così passò d’Erifile ne’ tetti
il monile fatale, e iniqui semi
vi sparse d’odio; e l’avvenir scorgendo
Tesifone ne rise. Anfiarao
dunque sen viene sovra eccelso carro
320da’ tenarei destrier tirato, e figli
di Cillaro immortale e di mortali
giumente: e il furto a Castore fu ignoto.
Le sacre bende e l’apollineo culto
lo palesan per vate; e su l’elmetto
325porta i rami d’oliva, e intesse e fregia
l’infula bianca di purpuree penne.
Ei sostiene lo scudo, in cui risplende
il fier Pitone ucciso, e regge il freno
de’ focosi destrieri. Al carro intorno
330vengon squadre d’arcieri, e sotto il peso
trema la selva. Egli sta in alto assiso
terribile in sembiante, e l’asta impugna.
Sieguon il carro in numerose schiere
Pilo e Amicle apollinea, e per naufragii
335Mallea famosa; e Caria, che risuona
d’inni a Cintia festivi; e Fari e Messe
di colombe nudrice, e di Taigeto
vien la falange; e turb’alpestre manda
l’Eurota, fiera ed instancabil gente.
340Mercurio stesso a nude guerre e a risse
finte l’indura in militar palestra:
quinci in lor spirti generosi infonde,
e bel desio d’una onorata morte:
esortano a morir le madri i figli;
345e mentre piange a’ funerali intorno
la turba, godon le feroci madri
in veder coronati i lor ferétri.
San stringere, allentar, girare i freni;
insiem legati portano due dardi;
350coprono il dorso di ferine pelli,
e portan tremolanti in su l’elmetto
le bianche penne dell’augel di Leda.
Nè già son questi sol che il tuo stendardo
sieguono, Anfiarao; ma la declive
355Eli manda guerrieri; e la depressa
Pisa; e color che ne’ sicani campi
beon dell’ospite Alfeo: d’Alfeo, che l’onde
intatte porta per sì lungo mare.
Guerreggiano su i carri, e tutti a Marte
360doman i loro armenti: un cotal uso
dura fra lor fin da quel dì che infranse
Enomao il cocchio, e cadde su l’arena:
mordono il freno i fervidi destrieri,
e di spuma e sudor bagnano il campo.
365 Tu pur, Partenopeo, dietro ti meni
(nè ’l sa la madre) le parrasie schiere,
troppo tenero ancora e mal esperto,
per soverchio desio di nuova lode.
Ah se Atalanta il risapea, tu certo,
370tu non andavi; ma la forte donna
a suon di corno da le crude fiere
de l’opposto Liceo purgava i boschi.
Fra tanti eroi di più leggiadro aspetto
alcun non v’ha; nè già gli manca ardire,
375purchè l’età più forte in lui maturi.
Arsero al balenar del vago ciglio
le Driadi, l’Amadriadi e le Napee.
Dicesi che Dïana un dì che ’l vide
di Menalo fra l’ombre in su l’erbetta
380pargoleggiar, e girsen sì leggiero,
che nel terreno appena l’orme imprime,
se n’invaghisse, e l’amoroso fallo
perdonasse a la madre, e di sua mano
gli desse i dardi, e la real faretra
385gli appendesse a le spalle. Egli sen viene
ripieno il cuor di marzïal desio;
e anela l’armi; e i bellici oricalchi
brama sentir; e in militare arena
lordare il biondo crin di molta polve;
390scavalcare un nemico; ed in trionfo
riportarne un destrier: già in odio ha i boschi,
e si vergogna che d’umano sangue
ne la faretra ancor asciutti ha i dardi.
Ei risplende ne l’oro, e d’ostro il manto
395scende ondeggiante, e si restringe al collo
con nodi iberi in vaghe crespe accolto.
Nel rilucente scudo impresse porta
de la madre l’imprese, e di sua mano
il fier cinghial di Calidonia estinto.
400Pende al sinistro fianco il nobil arco,
ed il turcasso di lucente elettro
di gemme adorno gli risuona a tergo,
tutto ripien di cretiche saette;
e di minute maglie il petto copre.
405Regge un corsier che vince i cervi al corso,
coperto il dorso e l’uno e l’altro fianco
di doppia pelle di macchiata lince,
e che in sentir del suo signore armato
più grave il peso, maraviglia prende.
410Egli dolce rosseggia, ed innamora
col leggiadro sembiante e co’ freschi anni.
Gli Arcadi, che fur pria che fosse in cielo
la luna e gli astri, a lui danno le schiere.
Di lor si dice che da dure piante
415fosser prodotti, e che stupì la Terra
al primo calpestio de’ piedi umani.
Non s’aravano ancora i campi: ancora
non v’erano città, principi e leggi;
nè v’eran maritaggi. Il faggio e il lauro
420concepivano i figli, e dagli ombrosi
frassini nacquer popoli; e i fanciulli
verdi uscian fuor dal rovere e da l’olmo.
Costoro il primo dì che usciro in luce,
a l’alternar del giorno e della notte
425stupiro, e nel veder cadere il Sole,
gli corser dietro per fermarlo; e tema
ebbero di restar sempre fra l’ombre.
Già di Menalo i colli e le partenie
selve d’abitator rimangon vuote;
430e Strazia e Rife e la ventosa Enispe
mandâr schiere feroci al gran cimento.
Non Tegea si rimane, e non Cillene
de l’aligero Dio madre felice;
nè il rapido Clitone; o quel che Apollo
435bramò suocero aver, chiaro Ladone;
e non Lampía nevosa; o il Feneo lago,
ond’è fama che Stige origin abbia.
Vengon gli agresti abitator dell’Azza,
Azza ch’è in ulular emulo all’Ida;
440ed i parrasii duci, e di Nonacri
la gente, che si rise de gli amori
del faretrato Giove; ed Orcomene
ricca di greggi; e Cinosura albergo
di molte fiere; ed Epito; e la celsa
445Psofida; e noto per l’erculee imprese
l’Erimanto; e lo Stinfalo sonoro.
Arcadi tutti son, tutti una gente,
ma di culto diversa e di costume.
Altri de’ Pafii mirti a sè fan clave:
450altri s’arman di rustici bastoni:
altri tendono gli archi e avventan dardi.
Chi copre il crin d’arcadico cappello;
e chi de’ Licaon l’uso seguendo,
porta vuoto d’un’orsa il capo in fronte.
455Queste le schiere fur che seguîr Marte.
Non armossi Micene ancor turbata
per le nefande mense, e per la fuga
dell’attonito Sole, e per le guerre
di due altri non meno empii fratelli.
460 Ma non sì tosto ad Atalanta giunse
il tristo avviso che partiva il figlio,
e dietro si traea l’Arcadia in guerra,
che sotto si sentì tremar le piante,
e i dardi si lasciò cader di mano.
465Abbandona le selve, e al par del vento,
qual si ritrova con il crin disciolto,
in abito succinto il corso affretta;
nè le arrestano il piè rupi o torrenti;
e sembra lieve e inferocita tigre
470che corra dietro al predator de’ figli.
Giunge infine e l’arresta, e sovra il petto
al rapido destrier respinge il freno.
Impallidisce il giovane: essa allora:
  - E qual nuovo furor, figlio, t’accende?
475Qual non matura ancor virtù ti muove?
Tu le schiere ordinar? Tu fra i perigli
correr di Marte tra le spade e l’aste?
Deh fosse in te vigor pari al desio!
Non ti vid’io testè pallido in viso,
480mentre un fiero cinghial coll’asta premi,
le ginocchia piegar, e resupino
quasi cader? E se men pronto allora
era questo mio dardo: ove le guerre?
Ove saresti or tu? Nelle battaglie
485non gioveranti questi strali; e invano
ne’ tuoi confidi, e in questo tuo di nere
macchie segnato fervido destriero.
Tu tenti imprese oltre l’etade, e sei
acerbo ancora a’ talami e a gli amori
490de le leggiadre Ninfe d’Erimanto.
Ahi fur veri i presagi! Io vidi il tempio
tremar di Cintia, e mesta esser la Dea,
e le spoglie cader da’ sacri altari;
quindi più lento l’arco, e meno pronte
495mie mani al saettar, e incerti i colpi.
Aspetta almeno di acquistar maggiore
forza con gli anni più maturi; aspetta
che ’l vago viso il nuovo pel t’adombri,
e meno a me somigli; allora il brando,
500e le bramate guerre a te fien date;
nè riterratti de la madre il pianto.
E voi, Arcadi, dunque il signor vostro
ir lascerete? O veramente dura
gente nata da roveri e macigni! -
505Volea più dir; ma sono a lei d’intorno,
confortandola tutti a non temere,
il figlio e i duci; e già le trombe il segno
dan di partir: ella non sa disciorsi
dal figlio; e al buon Adrasto alfin l’affida.
510 Ma la plebe cadmea da l’altra parte
mesta, non già per lo vicin periglio,
ma per le furie del crudel tiranno
(poi ch’ode esser già mosso il campo argivo),
vergognosa del Rege e dell’ingiusta
515guerra, lenta e restia l’armi ripiglia;
ma pur si muove mal suo grado alfine.
Non han piacer, qual de’ guerrieri è stile,
in rapir aste e brandi: a nissun giova
vestir l’armi paterne, o de’ destrieri
520prendersi cura; ma senz’ira e pigri
sol promettono al Re le mani imbelli.
Chi si duol di lasciare il padre infermo;
chi la consorte giovanetta e i figli,
che lieti a lui scherzavano d’intorno.
525In ogni petto intiepidisce Marte.
Le mura istesse da l’età corrose,
e l’anfionie rocche il lato aperto
mostrano rovinose, e un lavor muto
quelle ripara, che già furo al cielo
530alzate al suon dell’armoniosa cetra.
Ma ’l guerriero furor, che in essi langue,
le città di Beozia all’armi accende,
sol per soccorrer la cittade amica,
non già per favorir l’empio tiranno.
535Ei sembra un lupo distruttor del pingue
vicino armento, allor che, carco il ventre
del crudo pasto, coll’irsute aperte
fauci ancor lorde di sanguigna lana,
da l’ovil si discosta, e i biechi sguardi
540memore di sua strage intorno gira,
mirando se de’ ruvidi pastori
gli sovrasti lo sdegno; indi tra l’anche
la coda asconde, e timido s’inselva.
Cresce il terror la fama. Altri rapporta
545che già i lernei corsier bevon l’Asopo:
altri, che sono sul Citero; ed altri
che accampan sul Teumesso; ed altri infine
vide gli ostili fuochi entro Platea.
Ognun portenti accresce; e i Tirii Lari
550chi sudar giura; e correr sangue Dirce;
ed esser nati mostruosi parti;
la Sfinge urlar di nuovo; e quel che appena
saper certo si può, dice che il vide.
Ma novello timor turba la plebe.
555La conduttrice de’ Baccanti Cori,
disciolti i crini e dal suo nume invasa,
furiosa scende dall’Ogigio monte,
e la di pino tripartita face
ruotando in giro, e rosseggianti i lumi,
560l’attonita cittade empie di strida.
  - Oh gran padre Niseo, che dell’avita
gente il primiero amor doni all’obblio,
tu sotto il pigro Arturo a guerra muovi
con ferreo tirso l’Ismaro feroce,
565e le tue viti di Licurgo in onta
pianti ov’ei proibille; o lungo il Gange
tu scorri furibondo e trionfante
per la purpurea Teti a’ regni Eoi;
od esci fuor per gli aurei fonti d’Ermo.
570Ma la progenie tua, l’armi deposte
sacre al tuo culto, or qual può farti onore,
fuor che di guerra, di timor, di pianto,
di domestiche risse empie e nefande,
premii d’ingiusto Re? Portami, o Bacco,
575portami sotto ad un perpetuo gelo,
e fin là dove il Caucaso risuona
dell’armi femminili, anzi ch’io scopra
gli error de’ duci e della stirpe infame.
Ma tu mi sforzi: io cedo; altri furori
580a te, Bacco, giurai. Io veggio, io veggio
due fieri tori d’uno stesso sangue
e d’onor pari insieme urtarsi, e quindi
unir le fronti, e le ritorte corna
scambievolmente avviticchiar fra loro,
585e feroci morire in mezzo all’ira.
Tu pria cedi, o peggior, tu che contendi
il comun pasco al tuo compagno, e vuoi
solo tiranneggiar la piaggia e il monte.
Oh infelici costumi! Ambi nel vostro
590sangue cadrete, e sarà d’altri il regno. -
  Tacque, ciò detto; e abbandonolla il Nume,
e fredda cadde e tramortita al suolo.
  Ma da cotanti mostri il Re commosso
si dà per vinto, e (come suol chi teme)
595a Tiresia ricorre, e le sagaci
tenebre ne consulta; e quegli afferma,
che non sì certo il gran voler de’ Numi
dall’ostie si ritragge, o dall’incise
viscere, o dagli augelli, o dagli oscuri
600tripodi, o dal fumar de’ sacri altari,
o da’ moti numerici degli astri:
come da’ spirti del profondo Averno
richiamati alla luce. E già i letei
sacrifici prepara innanzi al Rege,
605colà, dove l’Ismeno entra nel mare.
Ma prima colle viscere lo purga
di nere agnelle, e col sulfureo fumo
e con fresca verbena, e con un lungo
magico mormorar d’ignoti carmi.
610In questo luogo antica selva sorge
di robusta vecchiezza, a cui mai ramo
tronco non fu, nè vi penétra il Sole:
nulla in lei puote il vento, e di sue frondi
Noto non la privò, nè Borea spinto
615co’ freddi fiati dalla getic’Orsa:
un opaco riposo entro vi regna,
e il placido silenzio un ozïoso
orror vi serba, e dell’esclusa luce
appena v’entra un tremolo barlume.
620Nè senza Nume è il bosco: e di Latona
sacro è alla figlia, e la celeste immago
in ogni pino, in ogni cedro è impressa,
e in ogni pianta; e la nasconde e cela
tra le sant’ombre sue la selva annosa.
625Spesso suonare non veduti strali
de la gran Dea s’udiro, ed i notturni
latrati de’ molossi; allor che fugge
le oscure case del gran zio, e risplende
tra noi serena e con più vago volto.
630Ma quando stanca di cacciar le fiere,
il più fitto meriggio a dolce sonno
l’invita, i dardi intorno intorno appende,
e ’l capo appoggia a la faretra e dorme,
s’apre fuori del bosco immenso campo
635a Marte sacro, ove il cultor fenice
sparse guerriero seme. Oh troppo audace
colui che dopo le fraterne schiere
osò d’aprire nel terreno infame
novelli solchi, e rivoltar le zolle
640d’atro sangue cosperse! Il suolo infausto
spira tumulto a mezzo giorno, e freme
della notte fra l’ombre, allor che i figli
della Terra risorgono, e fra loro
rinnovar sembran le passate stragi.
645Lascian gli agricoltori i campi inculti,
ed a le stalle lor fuggon gli armenti
spaventati e confusi. In questo luogo
proprio a gl’inferni sacrifici, e grato
a li tartarei Numi, a cui più in grado
650son quei terren che pingui son di sangue,
il vecchio sacerdote ordina e vuole
che le pecore oscure e i neri armenti
si radunino, e scelgansi fra loro
le cervici più elette e più superbe.
655Mesta Dirce restò vuota d’armenti,
ed il Citero; e si stupîr le valli,
che risuonavan pria d’alti muggiti,
del silenzio improvviso. Ei pria le corna
dell’ostie adorna di ceruleo serto,
660e di sua man le palpa; indi il terreno
nove volte scavato, entro vi versa
attico mele, e ’l buon liquor di Bacco,
e fresco latte, ed in gran copia il sangue
delle vittime uccise, a cui più pronte
665sogliono correr l’ombre, e non rifina
per fin che il suol non è imbevuto appieno.
Poi fa troncar la selva, e tre gran pire
erge ad Ecate inferna, ed altrettante
a l’orribili figlie d’Acheronte.
670A te, gran Re del tenebroso regno,
s’erge di pino un sotterraneo altare,
che però colla cima all’aria sorge;
ed un altro minore alla profonda
Proserpina; e li cinge intorno intorno
675l’ombra funesta del feral cipresso.
E già segnate l’ardue fronti, e ’l farro
sparsovi sopra, in su l’opposto ferro
cadon tremanti le scannate greggi.
Allor la vergin Manto in tazze accoglie
680il fresco sangue; e come il padre insegna,
prima ne liba, indi circonda i roghi
tre volte intorno con veloci passi;
e a lui descrive quali sien le fibre
e gl’intestini palpitanti ancora:
685nè più ritarda il sottopor le faci
a l’alte pire, e in esse il fuoco accende.
Ma poi che il Cieco udì strider la fiamma
nell’ardenti cataste, onde al suo volto
giunse il calore, ed aggirossi il fumo
690per entro i vani della vuota fronte,
alto esclamò; della gran voce al suono
tremaro i roghi, e preser forza e lena
gli oscuri fuochi: - O voi, tartaree sedi,
o fiero regno d’insaziabil morte;
695e tu, de’ tuoi fratelli il più crudele,
a cui fu dato di regnar su l’ombre,
e a’ colpevoli impor eterne pene,
e comandare al sotterraneo mondo:
aprite al batter mio le porte inferne,
700e i luoghi oscuri e muti, e ’l vano regno
di Persefone, e ’l vulgo a me mandate
laggiù sepolto in un profondo orrore;
e l’infernal nocchiero a me ’l riporti
di qua da Stige in su la nera barca.
705Ombre insieme venite al gridar nostro,
ma del vostro venir sien vari i modi.
Ecate, quelle, tu, che negli Elisi
godono eterne paci, alme innocenti
da’ rei dividi; indi Mercurio ombroso
710colla potente verga a noi le meni.
Quelle che stan fra le perdute genti
in numero maggior, e la più parte
scese da Cadmo, pria tre volte scosso
un angue, a noi Tesifone conduca,
715e lor mostri il cammin col tasso ardente;
nè Cerbero crudel le spinga indietro. -
  Posto fine a’ scongiuri, egli e la figlia
attenti stanno, e pieni già del Nume
non conoscon timor; ma ’l Re tremante
720e sbigottito al suon de’ detti orrendi,
gli si accosta alle spalle, e per la mano
ora lo piglia, ora le sacre bende
afferra, e ’l preme, e non vorria l’incanto
tentato avere, o tralasciarlo a mezzo.
725Qual ne’ getuli boschi un fier leone
attende al varco il cacciator dubbioso,
che sè stesso conforta, e ’l grave dardo
sostien con man sudante, e al suo periglio
in ripensar, e quale e quanto attenda
730nemico, impallidisce, e gli vacilla
il passo, e lungi il gran ruggito udendo,
ne misura le forze e n’ha terrore.
  Ma poi che tardi a lui vengono l’ombre,
grida Tiresia con più fiera voce:
735- Io vi protesto, orride Erinni, a cui
arsi le pire e con sinistra mano
versai sanguigne tazze; io vi protesto,
che del vostro indugiar ira mi prende.
Inutil dunque sacerdote e vano
740a voi rassembro? Ma se infami carmi
udrete susurrar tessala Maga,
andrete pronte; o se possente Circe
vi sforzerà con scitici veleni,
vedrem tremante impallidir l’Inferno.
745Forse a scherno io vi son perchè dall’urne
non traggo a vita i corpi, e non rivolgo
l’ossa già stritolate, e riverente
non turbo i Dei dell’Erebo e del Cielo?
O perchè non vogl’io con empio ferro
750tagliar gli esangui volti, e da gli estinti
strappar le meste fibre? Ah non sprezzate
questa cadente etade e dell’opaca
fronte le oscure tenebre: anche a noi
lice l’incrudelir. Sappiam, sappiamo
755ciò ch’è orribile a dir, ciò che temete,
ed Ecate turbar, se per te, o Apollo,
la gran germana tua prezzassi meno.
So del triplice mondo il maggior Nume
anch’io invocar, cui proferir non lice:
760ma in questa mia cadente età lo taccio.
Ben vi farò... - Ma l’interruppe allora
la fatidica Manto; e: - O padre, (grida)
t’udîr gli abissi, e s’avvicinan l’ombre:
s’apre l’infernal Caos, e si dilegua
765la caligin che copre il basso mondo.
Veggio l’orride selve e i neri fiumi,
e d’Acheronte vomitar le arene
livide su le sponde; e Flegetonte
versar onde di fiamme; e Stige oscura,
770che il popolo dell’ombre in due diparte.
Lo stesso Re veggio sedere in trono
squallido in volto, e a lui le Furie intorno
stanno di sceleraggini ministre:
e le funeste stanze e dell’inferna
775Giunone io scorgo i talami severi.
Veggio a un verone pallida la Morte,
che numera al tiranno il popol muto,
e la parte maggiore a contar resta.
Il cretense Minosse indi li pone
780nella terribil urna, e con minacce
n’esprime il vero, e li costringe e sforza
a palesar fin da’ più teneri anni
l’opre buone o nefande, e qual si deggia
a’ lor merti o al fallir pena o mercede.
785Dell’Erebo degg’io dir tutti i mostri?
E le Scille e i Centauri invan frementi?
E i ceppi adamantini de’ Giganti?
O del gran Briareo la picciol’ombra? -
- Vano è (dic’egli), o della mia vecchiezza
790solo sostegno, il perder tempo in questo.
E chi non sa l’irrevocabil sasso?
E l’ingannevol lago? E Tizio in cibo
dato a’ rapaci augelli? E d’Issione
la volubile ruota e i giri eterni?
795Ecate a me la regïon profonda
tutta mostrò negli anni miei più verdi,
prima che il nume a me il veder togliesse
da gli occhi, e ’l respingesse entro la mente.
Piuttosto i Grechi Spirti ed i Tebani
800invita e chiama; e gli altri indietro spingi
di bianco latte quattro volte aspersi,
e via li manda dal funesto bosco.
Poi di ciascuno e l’abito e l’aspetto,
qual più beva del sangue, e qual più altiero
805de’ due popoli venga a me fedele,
descrivi, e le mie tenebre rischiara. -
  Essa allor mormorò magico carme,
con cui l’alme disperge a suo talento,
e a suo talento le disperse aduna.
810Tali fur già (se l’empietà ne togli)
Medea crudele e l’ingannevol Circe;
e al sacerdote genitor ragiona:
  - Il primo a bere nel sanguigno lago
è Cadmo; e Harmonia il suo marito siegue,
815e l’uno e l’altro porta un serpe in fronte.
Intorno a loro sta la fiera gente,
popol di Marte della Terra figlio,
a cui fu vita un giorno: ognun la mano
tiene su l’elsa, ognuno l’armi impugna:
820si assalgon, si respingon, si feriscono,
come se fosser vivi; a lor non cale
ber del sanguigno gorgo, ed a quel solo
aspiran de’ fratelli. Ecco appo loro
le cadmee figlie e l’infelice seme
825de’ compianti nipoti: Autonoe viene
orba ed afflitta; ed Ino ansia, anelante,
che gli archi mira, e si restringe al petto
il caro pegno; e Semele, che copre
dal fatal fuoco con le braccia il ventre;
830e Agave ancor, che libera dal Nume,
infranti i tirsi e lacerata il seno,
sè stessa accusa, e Penteo siegue e plora:
quei per l’inferne vie sdegnoso fugge,
e per gli stigii e pe’ superni laghi,
835ove Echïon lo piange e ne raccoglie
le lacerate membra. Io ben conosco
Lico infelice, e d’Eolo la prole,
che ’l figlio ucciso su le spalle porta.
Ecco Atteon, che va cangiando aspetto
840per lo suo fallo, e non però del tutto
mutato è ancor: aspra ha la fronte e dura
per l’ardue corna, e tuttavia la mano
ritiene i dardi, e de’ rabbiosi cani
ripugna a’ morsi, e li respinge indietro.
845Dagl’invidiati figli accompagnata
di Tantalo la prole ecco sen viene,
e con altiero lutto i funerali
va numerando, e nelle sue sciagure
anch’è superba; e poi ch’a lei non resta
850più che temer de’ Dei, più audace parla. -
  Mentre così la vergine favella,
ecco arricciarsi le canute chiome
al genitor, tremar le sacre bende,
e leggermente rosseggiare il volto.
855Scaglia lungi il baston, nè più s’appoggia
alla vergine, e s’alza e, - Taci, o figlia,
(dice) assai da me veggio, e le mie pigre
squamme cadder dagli occhi e la mia lunga
notte si dileguò. Ma donde viene
860lo spirto che di sè tutto m’ingombra?
Mi viene ei dall’Inferno, o pur da Apollo?
Ecco già scorgo il tutto; e l’Ombre Argive
meste abbassare i lumi; e il torvo Abante,
e ’l colpevole Preto, e Foroneo
865placido e mite, e Pelope squarciato,
e nella sozza polve Enomao intriso
avidamente ber lo sparso sangue:
quindi la miglior sorte auguro a Tebe.
Ma chi sono costoro insieme uniti?
870A l’armi, a le ferite a me rassembra
che sieno alme guerriere. E perchè mai
ci minaccian col volto, e con il sangue
e con le mani e con la vana voce?
M’inganno, o Re? O quei cinquanta sono
875che tu mandasti? Vedi Cromio e Cromi
e ’l gran Fegea, e della nostra fronda
il buon Meone ornato. Ah, duci invitti,
deponete lo sdegno: il morir vostro
opra non fu d’uman consiglio: a voi
880questo fine la Parca avea prefisso:
voi siete fuor d’ogni vicenda; a noi
restano guerre orribili, e Tideo. -
Sì dice; e indietro colla sacra fronda
di bende cinta le respinge, e addita
885a loro il sangue, ove saziar la sete.
  Sovra le sponde di Cocito solo
stavasi Laio e abbandonato. Il Nume
già l’avea ricondotto al nero Averno.
Mirava torvo il reo nipote (e il volto
890ben ne conosce): egli non corre al sangue
col vulgo in folla, e non apprezza il latte,
e sta ritroso e immortal odio spira.
Ma l’aonio Indovin con dolci note
a sè l’invita: - O della tiria plebe
895inclito duce, al cui morir spariro
i giorni lieti dell’Ogigie mura:
è la tua morte vendicata assai;
e di pena minor, di minor scempio
la tua grand’ombra esser potea contenta.
900Da chi misero fuggi? In lungo duolo
giace colui che abborri, e già i confini
tocca di morte squallido ed asciutto,
pien di lordure il viso e senza lume;
credilo a me: è della stessa morte
905la sua vita peggior. Ma del nipote
perchè schivi l’aspetto? A noi rivolgi
placato il guardo, e ti disseta in questo
sanguigno umor già consacrato a Dite;
indi a noi scopri dell’orribil guerra
910le future vicende, o sia che infausto
a’ tuoi ti mostri, o che pietà ten prenda.
Ti farò allor co’ sacrifici miei
passar l’onda vietata, e ’l tuo insepolto
busto ricoprirò di sacra terra;
915e ti farò propizi i Dei d’Inferno. -
Placossi Laio alle promesse, e il labbro
nel sangue immerse; indi così rispose:
  - Deh perchè, mentre co’ possenti carmi
turbi l’Inferno, me fra cotant’alme,
920buon sacerdote, al vaticinio scegli?
Forse il migliore le future cose
a discoprir ti sembro? A me bastante
è il rimembrarmi le passate. E voi,
degni nipoti, a che cercar da l’avo
925le risposte e gli oracoli? Colui,
colui s’impieghi ne’ misteri orrendi
che lieto uccise il padre, e l’innocente
madre compresse, e fratei n’ebbe e figli.
Ed or costui fatiga i Numi, e invoca
930de le Furie il concilio, e le nostr’ombre
eccita a l’armi; ma se pur vi piace
che in tempi sì funesti augure io parli,
quello dirò che a me sarà permesso
da Lachesi e da l’orrida Megera:
935Guerra, gran guerra; innumerabil gente
veggio venir da Lerna; e Marte a tergo
con sanguigno flagel l’istiga e spinge.
Aspettano costor oneste morti:
il suol vacilla: fulmina il Tonante;
940e a’ cadaveri lor tardansi i roghi.
Vincerà Tebe, non temer; nè il regno
per questo riterrà l’empio germano;
ma regneran le Furie e il doppio eccesso;
e per le vostre infami spade (ahi lasso!)
945resterà vincitor l’iniquo padre. -
Ciò detto sparve, e li lasciò confusi
nel dubbio senso de le oscure ambagi.
  Erano intanto le pelasghe schiere
sparse e attendate nell’ombrosa valle
950di Neme, nota per l’erculee prove.
Tutti aspirano a Tebe, ed a far preda
de’ sidonii tesori, arder le case
e l’alte rocche, ed appianar le mura.
Ma chi frenògli a mezzo il corso, e l’ire
955ne fe’ più miti, e in vani error gl’involse?
Tu che lo sai, Febo, ce ’l narra: a noi
ne giunge incerta e non concorde fama.
  Domato l’Emo e i bellicosi Geti
avvezzi al suon degli orgii suoi festivi
960per ben due verni, e il Rodope nevoso
e l’Otri fatto verdeggiar di viti,
tornava Bacco, e ’l pampinoso carro
indirizzava a le materne case.
Nel vino intinti van lambendo i freni
965le tigri, e molte maculate linci
seguono il Nume; le Baccanti in schiera
portan le spoglie de gli armenti uccisi,
di lupi semivivi e d’orse lacere.
L’Ira, il furore, la virtù, la tema
970gli fan corteggio, e ’l non mai sobrio ardore,
e capi vacillanti e incerti passi,
di cotal duce esercito ben degno.
Ei poi che vede polverosa nube
da Neme alzarsi, e Febo trar da l’armi
975lampi e fiammelle, e Tebe ancor non pronta
a le difese, attonito nel volto,
e nel cuor tristo fa cessar le tibie,
e i cembali ed i timpani, e lo strepito
vario e discorde, che rimbomba intorno;
980e così parla: - Contro me si muove
quest’oste immensa e contro il popol mio.
Vien d’antica radice il furor nuovo:
il crudel Argo è che mi muove guerra,
e l’ira dell’indomita matrigna.
985Forse non basta l’infelice madre
in cenere ridotta? E ’l nascer mio
tratto da’ roghi? E che lambîr me ancora
le folgori paterne? Anche l’avello
de l’accesa rival l’empia persegue,
990e stragi porta a la tranquilla Tebe?
Ma so ben io come fermarli: al campo,
ite a quel campo, o miei compagni: Euhoè! -
Al noto cenno le accoppiate tigri
scuoton le giube, e in un balen vel portano.
995 Era ne l’ora che ’n meriggio il Sole
rende il dì più affannoso, e gli arsi campi
bramano i nembi, ed i più folti boschi
più non fan schermo a’ penetranti raggi.
Ei chiama allor le Dee de l’acque, e attente
1000poi che le vede star, così favella:
  - Agresti Ninfe de le limpid’onde,
parte miglior del mio seguace stuolo,
deh non v’incresca per me far quell’opra
ch’io vi commetto; deh, cortesi Dee,
1005per poco tempo ritraete a’ fonti
l’acque vostre da’ laghi, e i gonfi fiumi
scoprano il fondo polveroso e asciutto.
Ma più d’ogn’altro d’ogn’umor sia privo
Neme, per cui l’ostile campo or passa.
1010Pur che ’l vogliate, a voi da mezzo il cielo
il Sole arride, e vi secondan gli astri,
e d’Erigone mia l’estivo Cane.
Ite, Ninfe gentili, ite sotterra.
Io stesso poi vi chiamerò di sopra,
1015e ricche vi farò di maggior onda:
voi de le offerte e de’ miei doni a parte
sarete sempre; ed i notturni furti
de’ semicapri Numi e le rapine
de’ Fauni ognor da voi terrò lontane. -
1020Sì disse, e tosto impallidîr le Dee,
e su l’umide fronti inaridiro
le frondi e le ghirlande, e i campi d’Argo
privi del natio umor arser di sete:
fuggono l’acque, e più non stilla il fonte;
1025nè ondeggia il lago, e vergognoso il fiume
mostra del fondo l’indurato letto;
arido è il suolo, e gli arbori e l’erbette
in pallido color mutano il verde;
stassi il gregge deluso in su le sponde,
1030e cerca l’acque ove pria giva a nuoto.
  Non altrimenti avvien qualora il Nilo
chiude ne gli antri l’acque sue feconde,
che da l’umido verno ei già raccolse;
fuman d’intorno le seccate valli,
1035e del suo padre e Dio l’arida Egitto
aspetta e brama il corso strepitoso;
finch’egli a’ voti arride, e i Farii campi
rende ubertosi e carichi di messe.
  Lirceo seccossi, e la nocente Lerna,
1040e l’Inaco, che dianzi era sì grande,
e ’l sassoso Caradro, ed il tranquillo
Asterïone; e l’Erasino audace,
che non soffre le sponde, e col fragore
rompe da lunge a li pastori il sonno.
1045Sola fra tanti (per voler de’ Numi)
Langía ritien tacite l’onde all’ombra
di recondita selva. Ancor famosa
Langía non era per l’acerbo fato
d’Archemoro, nè fama avea di Dea:
1050ma pur, qual era, conservava intatte
e l’onde e ’l bosco; in guiderdon s’appresta
grande alla Ninfa e memorando onore,
quando li giuochi, che li duci achei
d’Isifile dolente in rimembranza
1055celebrâr ivi e dell’estinto Ofelte,
rinnoveransi poscia ogni terz’anno.
  Da sì cocente ardor vinto ed oppresso
non può il soldato sostener lo scudo,
e i lacci scioglie del lucente usbergo.
1060Nè sol l’aride fauci arde la sete,
ma ’l sangue asciuga entro le vene, e ’l cuore
con aspro palpitare anela e langue.
S’alza da terra un vapor tetro e denso
di polve e di caligine; i destrieri
1065non bagnano di spuma i freni aurati,
ma portan le cervici a terra chine,
e mostran fuori l’assetata lingua:
più non temon lo spron, nè de la mano
senton la legge, ma furiosi e insani
1070scorron pe’ campi e van cercando l’acque.
Adrasto manda ad ispiar d’intorno,
se qualche umore l’Amimon conservi,
o pur Licinnia, od altro fonte o fiume;
ma fonti e fiumi altro non dan che arena;
1075nè di piogge o di nembi a gl’infelici
riman speranza: quasi i campi adusti
calchin di Libia, o l’Affrica arenosa,
o la sempre serena aspra Sïene.
Pur mentre vanno per le selve errando,
1080(così Bacco volea) bella nel pianto
e nel suo duolo Isifile trovaro.
A lei pendea dal seno il non suo figlio
Ofelte, di Licurgo infausta prole:
scompigliata le chiome e in rozze spoglie
1085ritiene ancor nel nobile sembiante
la maestà regale e ’l primo onore.
Adrasto allora attonito e conquiso
supplichevole a lei così ragiona:
  - O de’ boschi possente o Ninfa o Dea
1090(chè non somigli tu cosa terrena)
che siedi lieta, e sotto il Sirio ardente
l’onde non cerchi: a queste genti amiche
aita porgi; o te la faretrata
Dïana scelta dal suo casto coro
1095abbia ella stessa in imeneo congiunta;
o te feconda di sì vaga prole
Giove abbia resa (e non è nuovo a lui
scendere in Argo agli amorosi furti),
pietà ti prenda dell’afflitte schiere.
1100A Tebe andiamo, a la colpevol Tebe;
ma l’aspra sete ogni vigor ne frange,
ritienci in ozio e gli animi deprime.
Tu ci soccorri; e a noi addita o fiume,
o torbida palude: a’ casi estremi
1105ogni rimedio giova, e nulla a schivo
aver si de’: noi t’invochiamo invece
e de’ nembi e di Giove; e tu rinfranca
in noi le forze, e gli arsi petti inonda:
così questo gentil tuo caro pegno
1110cresca felice. Ed oh, se a noi fia dato
vincitori tornar, di quanti doni
ti renderem mercede! A te svenati
tanti capi cadran del vinto gregge
che di costoro il numero compensi
1115che tu salvasti; ed ergerò un altare
in questo bosco in rimembranza eterna
del tuo gran dono, o mia propizia Dea. -
Così parlò; ma l’affannata lena
più volte gl’interruppe i mesti accenti,
1120e senza spirto titubò sovente
tra l’arse fauci l’assetata lingua.
Uno stesso pallor si scopre in tutti
e uno stesso anelar. Ma gli occhi abbassa
la gran donna di Lenno, e sì risponde:
1125 - Quale scorgete in me segno di Dea?
Mortal son io, benchè da’ Numi scenda
il sangue mio: ed oh così non fossi
d’ogni mortal la più infelice ancora!
Io d’altri figli madre, a l’altrui figlio
1130il latte porgo; e sallo Dio, se i nostri
altre poppe allattâr, od altro seno
accolse. E pur Regina io sono, e un Nume
è l’avo mio; ma che ragiono invano,
e dal torvi la sete io vi trattengo?
1135Andiam; forse Langía daravvi l’acque.
Ella suol conservarle ognor perenni,
e sotto il Cancro e sotto il Sirio ardente. -
Disse; e per farsi più spedita e pronta
guida de’ Greci, il misero bambino
1140adagiò sovra tenero cespuglio,
(così volean le Parche) e lui piangente
rasserenò con dolce mormorio,
e gli fe’ letto di fioretti ed erbe.
  Così già intorno al pargoletto Giove
1145Cibele pose i Coribanti suoi:
fan co’ strumenti lor vari frastuoni,
ma del Nume al vagire Ida rimbomba.
  L’innocente bambin, che riman solo,
or va carpone per la molle erbetta,
1150or piange e chiama la nudrice e ’l latte,
or s’allegra e sorride, e balbettante
cerca voci formar cui nega il labbro;
ora i rumori e ’l mormorar del bosco
attento ascolta; or con l’aperta bocca
1155le dolci aure respira, e de le selve
non conosce i perigli, e di sua vita.
Marte così sovra le Odrisie nevi;
del Menalo così sovra la cima
Mercurio; e su gli Ortigii lidi Apollo
1160pargoleggiaro un tempo. I Greci intanto
per selve ascose e per ignote vie
colla fedele lor scorta sen vanno,
ed altri la precede, altri la segue.
Ella per mezzo a l’assetato stuolo
1165va nobilmente accelerando il passo:
e già si sente risuonar la valle
per lo fiume vicino, e di sue linfe
rotto fra’ picciol sassi un correr lento.
Prima l’alfier de’ cavalieri argivi
1170l’acque scoperse, e da le prime file
lieto gridò: - Compagni, eccovi l’acque: -
ed acque ed acque replicar si sente
da’ primieri a’ sezzai di voce in voce.
Alza così tutto ad un tempo il grido
1175la ciurma allor che il capitan dà il segno,
e tempio eccelso su la spiaggia addita:
salutan essi il Nume, e ne rimbomba
il lido, e l’eco ne rimanda il suono.
Lanciansi a gara negli ondosi vadi
1180e duci e plebe: la rabbiosa sete
nulla distingue: li cavalli e i carri
co’ lor signori, e di tutt’arme carchi
saltan nell’onde; altri ne porta il fiume,
altri inciampa ne’ sassi, e vanne al fondo.
1185Non s’ha rispetto a’ Regi; e sovra loro
passa la turba, ed il caduto amico
l’amico calca: ne gorgoglia il fiume,
e l’assetate squadre insino al fonte
l’han quasi asciutto; e n’è corrotta e lorda
1190l’acqua, che pria correa limpida e pura
tra verdi sponde; e benchè fatta un lezzo
e già spenta la sete, ancor si bee.
Diresti quivi imperversar le schiere
in aspra guerra, o saccheggiar già vinta
1195ed afflitta città per ogni parte.
Ma grato uno de’ Re di mezzo al fiume
alzò le mani, e così orando disse:
  - O Neme, o de le verdi ombrose selve
Regina, o grata sede al sommo Giove,
1200non faticosa tanto al forte Alcide,
quant’ora a noi, quand’egli al fiero mostro
colle robuste braccia il collo strinse,
e lo spirto gli chiuse entro le fauci:
bastiti aver sin qui de’ Greci tuoi
1205ritardate le imprese e i giusti sdegni.
E tu cortese, avventuroso fiume,
dator d’acque perenni, e non mai domo
dal più cocente Sol, corri felice.
Tu, per qualunque de’ celesti segni
1210Febo s’aggiri, sempre hai colmo il seno:
a te non danno le brumali nevi
soccorso d’acque, o l’Iride piovosa,
o i nembi pregni di tempeste e tuoni;
ma di te stesso ricco eterno corri.
1215L’apollineo Ladone a te d’onore
non si pareggia; o l’uno o l’altro Xanto;
o Sperchio minaccevole; o Licormo
guardato un tempo dal biforme Nesso.
Te dopo Giove, e in mezzo all’armi e in pace,
1220e a liete mense invocherò qual Nume;
pur che fastosi e vincitor ne accolga
anche al ritorno, e le ospitali linfe
lieto ci porga, e riconosca e accetti
queste da te salvate amiche schiere. -

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