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Traduzione dal latino di Cornelio Bentivoglio d'Aragona (1729)
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ARGO CONTRO TEBE
Ma ’l fier tiranno de l’aonia corte,
de l’inquïeta notte entro gli orrori,
sebben ancor molto di spazio avanzi
infra l’umide stelle e la vermiglia
5Aurora, gli occhi suoi non chiude al sonno.
Gli tengon l’alma perturbata e desta
l’ordite frodi, e le noiose cure
gli anticipan la pena; indi ’l timore,
augure infausto de’ vicini danni,
10gli sconvolge la mente. - E donde mai
(dice) tanta dimora? - Egli si crede
a tant’armi Tideo facile impresa,
nè col valore il numero compensa.
- Forse mutò cammin? Forse a lui venne
15soccorso d’Argo? O le vicine genti
mosse la fama del crudel mio fatto?
O furon pochi, o padre Marte, e imbelli
quei, ch’io scelsi, guerrieri? E pur fra loro
v’eran Dorila e Cromio, e i due robusti
20figli di Tespio a torri eccelse eguali,
che basterebber soli a sveller Argo.
Già non mi sembra che di bronzo il petto
o le braccia di ferro avesse, quando
altiero a me sen venne, ond’egli possa
25essere impenetrabile a tant’armi.
O miei vili guerrier, se non valete
con tante forze ad atterrare un solo! -
Così torbido ondeggia in gran tempesta
di contrari pensieri, ed or si duole
30che di sua man non gli trafisse il petto
a la scoperta in mezzo a’ suoi baroni,
quando orator gli richiedeva il regno;
ed or si pente, e n’ha rimorso, e brama
de l’orribil misfatto esser digiuno.
35 Qual calabro nocchier, che ’l mar tranquillo
mirando, e balenar d’olenia stella,
sciolse dal lido, e ne l’Ionio mare
volse la prora, se improvviso sente
fremere in alto la procella, e il mondo
40quasi schiantarsi da’ suoi Poli, e ’l cielo
dal torbido Orïon scosso e tremante;
esser vorrebbe a terra, e forza ed arte
usa per ritornar onde partio;
ma gliel contende impetuoso Noto;
45ond’egli allora s’abbandona e geme,
e si dà in preda a’ ciechi flutti insani:
tal l’agenoreo Re rinfaccia e sgrida
Lucifero di pigro e l’alma Aurora.
Ed ecco intanto a lo sparir de l’ombre
50e al tramontar de gli astri, allora quando
Teti affretta ad uscir dal mare Eoo
Febo ancor sonnacchioso: ecco dal centro
predire i mali, e vacillare il suolo.
Scosso Citero mandò giù le nevi:
55parvero alzarsi i tetti, e i monti e ’l piano
tutto intorno scoprir da sette porte.
Nè lungi è la cagion: sul mattutino
gelo torna Meon sdegnoso e mesto
che gl’invidiasse il fato orrevol morte.
60Non bene ancor si riconosce al volto,
ma sospirando e percuotendo il petto,
d’immense stragi dà sicuri pegni.
Già pianto avea, ma ’l suo dolore estremo
gli avea su gli occhi rasciugati i pianti.
65Così pastor esce dal bosco afflitto,
ove la pioggia e ’l procelloso nembo
disperse il gregge, e ’l lasciò in preda a’ lupi:
scopre il giorno la strage: al suo signore
non osa egli portar l’annunzio infausto;
70e ’l crin sparge d’arena, e di lamenti
tutta intorno suonar fa la foresta:
odia ’l silenzio de le vuote stalle,
e stride, i tori suoi chiamando a nome.
Le madri intanto e le dolenti spose,
75che su le porte aspettano il ritorno
de’ mariti e de’ figli, e ’l vedon mesto
solo tornar, senza i compagni al fianco,
e i magnanimi duci, alzano il grido:
siccome avvien, quand’entran vincitrici
80in ostile città le armate schiere;
o come suol la disperata ciurma
nel punto che la nave in mar s’affonda.
Ma come prima ei giunge al fier cospetto
del tiranno odïato: - Ecco ti dona
85(grida) il fiero Tideo questa infelice
anima sola di cotanta schiera;
o ciò disposto abbiano i numi o il caso,
o che ’l valor (benchè malgrado il dico)
de l’invitto campion potuto ha tanto.
90Io ’l vidi, io ’l narro, e pur lo credo appena:
tutti per la sua man giacciono estinti.
Voi che girate in ciel, astri notturni,
voi pallid’ombre de’ compagni uccisi,
e tu che mi conduci, augurio infausto,
95voi chiamo in testimon, che ’l mio crudele
perdono non mercai con un vil pianto;
nè con la fuga, o con la frode ottenni
di prolungare senza onore i giorni.
Ma tal de’ Numi era il decreto, e tale
100era il voler de l’immutabil Parca,
nè ’l mio fatal momento era ancor giunto.
E perchè veda ognun che de la vita
a me non cale, e non pavento morte,
tiranno, ascolta i miei veraci detti:
105tu, iniquo, tu, per conculcar le leggi
ed usurpar de l’esule fratello
l’alterno trono, i tuoi guerrier mandasti
sotto auspici infelici a guerra infame:
te assorderan continuo e gli urli e i pianti
110de le vedove afflitte e de’ pupilli
di tante case per tua colpa estinte;
a te s’aggireran con tetre larve
cinquant’ombre sdegnose ognor d’intorno,
ch’io già le seguo e il lor numero adempio. -
115Mentr’ei ragiona, in Eteócle ferve
l’ira, e ’l dimostra fuor l’acceso volto;
e già Labdaco e Flegia, a cui commessa
è la cura de l’armi, impetuosi
contro ’l saggio indovin stringevan l’aste:
120ma quegli il brando tratto, ora il tiranno,
ed ora il ferro minaccioso guarda;
e, - Addietro, (grida) in me ragione alcuna
non hai, crudele; e questo sangue e questo
petto, che Tideo rispettò, non mai
125a te fia dato di ferir. Io vado
a morte lieto, il mio destin seguendo,
e de’ compagni miei m’unisco a l’ombre.
Tu resta a’ numi irati e al tuo fratello. -
Tal parlava Meon, quando gettossi
130sulla spada di fianco insino a l’elsa,
e morío con la voce infra le labbia
contrastando al dolore, ed a vicenda
versando or da la bocca, or da la piaga
l’irato sangue ne’ singulti estremi.
135A sì fiero spettacolo ed atroce
tutti intorno restâr stupidi e muti.
Ei benchè morto ancor in volto serba
le feroci minacce e le giust’ire.
Intanto lui la sua consorte e i cari
140parenti, lieti invan del suo ritorno,
riportano dolenti in su ’l ferétro.
Ma ’l reo tiranno ne la mente volge
nuovo furor, e al busto esangue nega
l’onor del rogo, e imperïoso vieta
145a l’ombra non curante il freddo avello.
Saggio indovin, che co’ tuoi fatti egregi
e con la tua virtude hai vinto e domo
il cieco oblio, che del crudel tiranno
sprezzasti l’ire, e francheggiasti al vero
150e libero parlar sì larga strada;
quali potrò trovar voci ne’ carmi,
che adeguin la tua gloria e le tue lodi?
Non a te invano i suoi celesti arcani
Febo dischiuse, e ’l crin cinse d’allori.
155Per lo tuo fato resteranno mute
le fatidiche piante di Dodona,
e alla vergin cirrea negherà Apollo
presagir del futuro i vari casi.
Vanne felice pur, anima grande,
160lungi dal nero Averno a’ fortunati
Elisii campi, ove ognor splende il sole,
ove non entrò mai ombra tebana,
nè giunge d’Eteócle il crudo impero.
Ei giace intanto sovra ’l duro suolo
165a cielo aperto, e non v’è augello o fiera
rapace sì, che di toccarlo ardisca:
tanta esce maestà dal morto aspetto!
Ma le vedove afflitte e gli orbi figli,
e i padri e gli avi da l’ogigie porte
170escono a gara, e per cammini alpestri
e disastrosi forsennati vanno
ciascuno a ricercare il proprio pianto,
e li segue d’amici immensa turba.
Molti han desio di rimirar l’impresa
175d’un braccio solo, e d’una notte l’opra.
Bagnan la via di lagrime, e di strida
suonan d’intorno le campagne e i monti.
Ma come giunti furo afflitti e lassi
al sasso infame e a la crudel foresta,
180rinforzâr gli urli e ’l batter palma a palma,
e da più larga vena usciro i pianti.
Alzano tutti a un tempo un fiero strido,
ed a l’aspetto de l’orribil strage
la turba di furor smania e s’accende.
185Assiste a gl’infelici il Lutto atroce,
squallido il volto e lacerato il manto,
e ’l petto percuotendosi, a le madri
di far lo stesso orribilmente ispira.
Ricercan gli elmi e i pallidi sembianti,
190rivolgono i cadaveri confusi,
e si lascian cader dal dolor vinte
su i corpi or de’ congiunti, or degli estrani:
altre nel sangue putrido e gelato
lordan le chiome: de’ guerrieri estinti
195altre chiudon le luci, e di pietose
lagrime lavan le profonde piaghe;
altre ne svellon l’aste e i fieri dardi:
chi raccogliendo va le sparse membra,
chi braccia e teste a’ tronchi busti adatta.
200Ma Ida intanto, già felice madre
de’ due gemelli, or di due corpi esangui,
corre baccante per roveti e dumi,
e cercando ne va per tutto il campo.
Porta ella il crine rabbuffato e sciolto,
205ed il pallido viso e semivivo
squarcia con l’ugne; nè più sembra oggetto
di pietà ’l suo dolor, ma di spavento.
Già per disperazion fatta sicura
passa su l’armi e su i guerrieri uccisi,
210e nel terren volgendosi, d’arena
si copre il volto ed il canuto crine:
chiama i suoi figli a nome; ed urla e geme
sovra ogni corpo, mentre i suoi ricerca.
Così tessala maga, a cui son note
215l’arti native e i spaventosi carmi
per richiamare dal profondo Averno
l’alme già spente a rivedere il giorno,
fuor se n’esce notturna e scapigliata,
dopo la strage di crudel battaglia
220con face in man di fesso cedro accesa,
e rivolge i cadaveri, e spiando
va di quale lo spirto al mondo torni.
Freme intanto laggiù de l’ombre il vulgo,
e Pluton se ne sdegna, e d’ira avvampa
225che se gli sforzi mal suo grado il regno.
Non lungi i due fratei giaceano insieme
a piè del monte, in questo almen felici,
che un giorno stesso ed una stessa mano,
una stess’asta li congiunse in morte.
230Ma come prima a lei diè triegua il pianto,
e li scoperse: - Ahi tali (grida) ahi tali
sono, o miei figli, i vostri amplessi e i baci?
Dunque la cruda ed ingegnosa morte
così v’ha uniti ne’ sospiri estremi?
235Deh quali prima tratterò ferite?
Qual prima bacerò de’ cari volti?
Voi mia fortezza un tempo e mio decoro,
per cui credea d’esser eguale a’ numi
e tutte superar le ogigie madri:
240quali, o figli, or vi veggio? Oh mille volte
fortunata colei che in maritale
nodo sterile gode eterna pace,
nè Lucina chiamò mai nel suo parto!
Ah che da mia fecondità penosa
245a me vien la cagion d’ogni dolore!
Aveste almeno in onorata impresa
degna d’eterna fama il sangue sparso,
e potesse le nobili ferite
con gloria numerar l’afflitta madre.
250Ma voi cadeste in tenebroso assalto
ed in opra furtiva, ed or giacete
miseri senza vita e senza onore.
Io già non scioglierò questo che veggio
del vostro amore indissolubil nodo:
255ite, figli, concordi, ite sotterra
lungamente indivisi, e un solo avello
confonda insieme le vostr’ombre e l’ossa. -
Intanto l’altre avean trovato i cari
congiunti loro, e ne facean lamenti.
260Chiama il suo Cromio la consorte, e chiama
Penteo il figliuolo Astioche dolente:
e te, Fedimo, ancor bagnan di pianto
gli orfani figli e le tue figlie afflitte:
sovra Filleo a lei promesso duolsi
265Marpissa, e d’Acamante le ferite
lavan le sconsolate e pie sorelle.
Altri intanto col ferro e con le scuri
recidon la gran selva, e ’l faggio e l’olmo,
che fean chioma e corona al vicin colle,
270al colle che del gran fatto notturno
fu testimonio, ed i singulti estremi
accolse de’ guerrieri moribondi.
Già son disposti i roghi, e già la fiamma
ratto in essi s’appiglia, e già ciascuna
275dal proprio funerale immota pende:
quando per consolar la turba mesta
il vecchio Alete favellò in tal guisa:
- Sin da quel dì che ne l’aonie zolle
giunse il fenice pellegrino, e i campi
280sparse di guerrier seme, e inusitati
parti fuori ne uscîr, onde tremendi
a gli stessi cultor fur resi i solchi,
ha il popol nostro del destino avverso
provate aspre vicende e duri casi.
285Ma non già quando il folgore celeste
Semele incenerì, credula troppo
a la mentita vecchia, e vinse Giuno;
nè quando furibondo ebbro Atamante
sparse per sassi e macchie il suo Learco,
290fu tanto danno in Tebe e sì gran lutto;
nè di tanti clamor le tirie case
suonaro allor che l’infelice Agave
al pianto altrui del suo furor s’accorse.
Ma ben al nostro fu quel duolo eguale,
295allor che osò con temerari detti
l’orgogliosa di Tantalo figliuola
muovere i numi ad ira, onde si vide
di qua, di là di differente sesso
spenta la prole, per cui gía superba,
300e andar tanti cadaveri sotterra,
e tanti roghi fiammeggiar d’intorno.
Tale anche allor era la nostra plebe:
così lasciate in abbandon le mura
gli uomini più maturi e le dolenti
305donne, accusando i troppo fieri Numi,
due feretri seguian per l’ampie porte.
Io era ancora (e men rimembra) in quella
età che di dolor non è capace;
e perchè il padre mio struggeasi in pianto,
310senza saper perchè, piangeva anch’io.
Così vollero i Dei; nè più mi duole,
Cintia, che il miserabile Atteone,
perchè spiò del tuo pudico fonte
i sacri arcani, fu mutato in fiera,
315e i suoi stessi molossi il laceraro;
nè perchè Dirce già regina nostra
divenne fonte, e cangiò il sangue in onda:
cotal destin filato avean le Parche,
e tal era il voler del sommo Giove.
320Or noi per colpa del crudel tiranno
siam di tanti guerrier vedovi e privi,
ch’eran difesa de la patria e scudo.
La fama ancora non n’è giunta in Argo,
e già provato abbiamo i danni estremi
325del bellico furore. Oh quanto io veggio
sparger sudor in militare arena
a gli uomini e a’ destrieri! Oh di qual sangue
correran tinti i nostri patrii fiumi!
Veggano pure i giovani feroci
330cotanta guerra: me canuto e bianco
arda il mio rogo, e la mia terra copra. -
Così ragiona, e al Re debite pene
predice, e ’l chiama scelerato ed empio.
Ma donde nasce in lui tanta baldanza?
335Già de l’etade sua passato ha il meglio;
poco a viver gli resta, e poco teme,
e d’onor brama coronar sua morte.
Da l’alto intanto il sommo Re del mondo
mirato avea la prima pugna, e ad ira
340di già disposte l’emule nazioni;
e fa tosto chiamar l’orribil Marte.
Appunto da l’aver di stragi sparse
le città e i campi de’ Biston feroci
e de’ Geti crudeli, ei furibondo
345tornav’al cielo in su ’l sanguigno carro:
sembra folgore accesa il gran cimiero,
e porta l’armi orribilmente sculte
d’immagini funeste in pallid’oro.
Al fragor de le ruote e de’ destrieri
350rimbomba il Polo; ed il rotondo scudo
fiammeggia sì, che par che avvampi ed arda,
e con l’emulo globo al Sol fa scorno.
Giove, che ’l vede ancor ansante e caldo
di sarmatiche stragi, e che nel petto
355del bellico furor dura il tumulto,
- Tal, figlio, (dice), tal discendi in Argo
terribile in sembianza e minaccioso
col ferro in man di sangue ancor stillante.
Rompan gl’indugi, e d’ozio impazïenti
360te chiamin tutti, e al tuo guerriero nume
consacrin l’armi e l’alme: a guerra muovi
i più feroci, e ’l tuo furor rapisca
i vili e i lenti; e quella tregua rompi,
ch’abbiam sin or concessa: i Dei del cielo
365tu sai turbare, e la mia stessa pace.
De la discordia ho di già sparso il seme.
Tideo scritte a caratteri di sangue
riporta in Argo del crudel tiranno,
primizie de la guerra, il fier delitto,
370e le notturne insidie e l’empie frodi,
e ’l tradimento infame, che con l’armi
ei vendicò: tu aggiungi fede al vero.
E voi, progenie mia, Numi superni,
state fra voi concordi, e nissun tenti
375il mio volere di mutar pregando.
Cotal ordin di cose a me le dure
Parche filaro, e le prescrive il Fato.
Fin da quel dì che da l’informe nulla
io trassi ’l mondo, a’ popoli feroci
380fu questo giorno a guerreggiar prefisso.
Che se v’ha alcun che d’impedirmi ardisca
il gastigar ne gli ultimi nipoti
le colpe e sceleraggini de gli avi,
giuro per queste stelle e questo Polo,
385e per i sacri a me fiumi d’Inferno,
io colle proprie man spianterò Tebe
da le radici, e spargerò le torri
d’Inaco su la reggia, e le cittadi
cangerò in laghi, aprendo il corso a l’acque;
390nè se Giunone mia stesse abbracciata
al tempio suo, si placherà il mio sdegno. -
Così diss’egli; e timidi e tremanti
stettero i Numi riverenti e cheti.
Non altrimenti avvien, quando riposa
395tranquillo il mar, ed ha co’ venti pace,
e dormon ozïosi i lidi intorno,
e de le selve i rami; e senza moto
stansi le nubi al calor lento estivo:
scemano allor gli stagni ed i sonori
400laghi, e dal Sole rasciugati i fiumi
giaccion nel letto loro umili e bassi.
S’allegra Marte al fier comando; e tosto
gli anelanti cavalli e ’l ferreo carro
e le fervide ruote ad Argo volge.
405E già era giunto in su’ confini estremi
del Polo, onde convien scender volando,
quando Venere apparve, e coraggiosa
fermossi a fronte de’ destrier: la Dea
conobber essi, e soffermaro il corso,
410e ’l svolazzante crin steser sul collo.
Essa al carro appoggiata, e le vermiglie
gote di belle lagrime rigando,
così parlò: gli adamantini freni
rodeano intanto gli accoppiati cigni.
415 - Tu dunque ancora Tebe mia dal fondo,
suocero ingrato, d’atterrare hai cuore?
Tu muovi guerra a Tebe? E i tuoi nipoti
colle tue proprie man di spegner tenti?
Nè ti ritarda (e pur è nostro sangue)
420Harmonia tua, nè le festive nozze
che ne fur fatte in ciel, nè il pianto mio?
Tal dài mercede a gli amorosi falli?
La mia fama, l’onor, che vilipesi,
e le catene fabbricate in Lenno
425tale mertan da te premio crudele?
Vanne barbaro pure: il mio Vulcano,
quantunque offeso, a me più facil riede;
e s’io vorrò che fra’ camini ardenti
sudi per farmi nuovi fregi, e intere
430vegli le notti nel lavoro, ei pronto
tutto farà per compiacermi; e tanto
ho poter sovra lui, ch’anche a te stesso
l’armi fabbricherà: ma tu... ahimè lassa,
ch’io prego un duro scoglio, un cor di bronzo!
435Deh questo almen, pria di partire, ascolta:
perchè mi festi a genero tebano
sotto infausto imeneo sposar la figlia?
Tu mi dicevi pur che i Tirii scesi
dal serpentino seme invitti e forti
440saranno in guerra, e che d’Harmonia nostra
nasceria di nipoti al sommo Giove
una progenie bellicosa e grande.
Ah ch’io vorrei sotto il gelato Arturo,
dove Borea mantien perpetue nevi,
445fra i Traci tuoi, la sfortunata prole
congiunta aver a barbaro marito.
Forse poco ti par che di Ciprigna
solchi la figlia, tramutata in serpe,
d’Illiria i campi, vomitando il tosco?
450Ed or la gente mia... - Ma ’l dio guerriero
più non sofferse di vederne il pianto.
Passa ne la sinistra il cerro acuto,
balza dal carro, e fra lo scudo e ’l seno
l’accoglie, e così dolce a lei favella:
455 - Oh amabil mio piacere, e da le pugne
caro riposo e mia gradita pace,
e sola a cui impunemente lice
mirar quest’armi, e nel maggior conflitto
frenar a mezzo il corso i miei destrieri,
460e far a me cader di mano il brando.
Non a me Cadmo e la tua cara fede
di mente uscîr: perchè mi accusi a torto?
Ah pria del zio nel tenebroso regno
Giove mi cacci, e disarmato e imbelle
465mi condanni fra l’ombre. Ora mi sforza
il paterno voler e ’l Fato avverso;
(nè al tuo Vulcan tal converrebbe impresa)
e come ripugnare al suo decreto?
Tu pur vedesti di sue voci al tuono
470tremar le sfere e ’l suolo, e fin dal fondo
turbarsi l’Oceàno, e sbigottiti
velar le facce gl’immortali Numi.
Tu pon modo al timor, e a quel t’accheta
che mutar non si può; ma quando a Tebe
475verranno a pugna i popoli feroci,
aiuterò le nostre amiche schiere,
e mi vedrai ne la feroce pugna
di cadaveri argivi empiere i campi.
Questo è in mia man, nè può vietarlo il Fato. -
480Sì disse; e i suoi destrier giù spinse a volo.
Non così presto il fulmine trisulco
scaglia da nubi accese irato Giove,
qualor ferma le piante in su ’l nevoso
Otri, o su ’l gelid’Ossa in mezzo a’ nembi:
485vola l’ardente folgore fendendo
con lunga striscia il cielo, e seco porta
i decreti del Nume, e già minaccia
le feconde campagne e i naviganti.
Ma di già Tideo ritornando in Argo,
490di Danao i campi e di Prosinna i colli
passati aveva orribile in sembianza:
il crin sparso ha di polve; e un sudor misto
al sangue a lui da tutto il corpo scorre
per le illustri ferite infino al piede:
495ha per troppo vegliar gli occhi sanguigni,
e per soverchia sete i labbri asciutti,
onde anelante può trar fiato appena;
ma lo spirito invitto e l’alta impresa
d’onor lo cinge, e gli dà forza al passo.
500Siccome toro nel crudel conflitto,
dal nemico squarciato il petto e ’l fianco,
a la sua mandra vincitor ritorna
altero sì, che le sue piaghe sprezza;
mugge vilmente il suo rival su l’erba,
505e men gravi a lui fa le sue ferite:
tale Tideo ritorna, e ovunque passa,
dal fiume Asopo a la città d’Argia,
muove i popoli a sdegno, e sparge e narra
ch’ito era a Tebe messagger; che ’l regno
510per Polinice avea richiesto; e quindi
le occulte insidie ed il notturno assalto,
le frodi, il tradimento e ’l fier delitto:
tal essere la fe’ del reo tiranno:
ch’ei nega il patto a l’esule fratello:
515che non si de’ soffrir. Marte a’ suoi detti
dà forza, ed il terror la fama accresce.
Ma poi che giunge in Argo (Adrasto appunto
stava a consiglio co’ maggiori duci)
- A l’armi (grida da le porte), a l’armi,
520generosi guerrieri; e tu, di Lerna
buon Re, se ferve in te de gli avi il sangue,
l’armi prepara. Non v’è fede in terra,
non riverenza de le genti al dritto,
non v’è tema di Giove. Io più sicuro
525ito sarei a’ Saurómati crudeli,
o del bebrizio bosco a l’inumano
Amico difensor: nè già mi duole
l’essere andato, anzi mi piace, e godo
del tebano valor fatta aver prova.
530Io non aggiungo al ver; come s’espugna
munita torre, o di ripari cinta
forte città, me disarmato e solo,
e del cammino ignaro insidïosi,
e di tutt’arme cinti, e ne l’oscuro
535di buia notte i perfidi assaliro.
Cinquanta furo: or su l’infami porte
de l’orfana città giacciono estinti.
Andiamo: il tempo è questo, ora che sono
timidi, esangui e nel dolore immersi,
540in bruna veste a’ lor ferétri intorno.
Io sebben de l’aver donato a Pluto
tant’ombre, torni sanguinoso e lasso,
e col sangue gelato in su le piaghe,
io vi precorrerò. - Ma di già sorti
545da’ scanni stavan tutti a Tideo intorno;
e primier Polinice il volto a terra
fisso tenendo: - Ah dunque (grida) io sono
colpevol tanto, e tanto in ira a’ Numi,
che te veggio, Tideo, da le ferite
550versar il sangue, e me pur anco illeso?
Tal dunque preparavi a me il ritorno,
fratello iniquo? Eran per me tant’armi?
Ah vile amor di vita! Io qui rimasi,
misero! E tolsi a te sì gran delitto!
555Restino omai le vostre mura in pace,
Argivi, nè per me straniero afflitto
turbisi l’ozio vostro: a me non tanto
fortuna arride, ch’io non senta e provi
qual sia dolor esser da’ dolci letti
560e da gli amati figli a forza tolto,
e la patria lasciar. Cessino pure
le private querele; e con oscuro
guardo non mirin me le afflitte madri.
Io vado volontario a certa morte;
565nè riterrammi la diletta sposa,
nè col suo impero il suocero temuto.
Io deggio a Tebe questo capo, e ’l deggio
a te, fratello, e a te, gran Tideo, il deggio. -
Così con arte varïando i detti,
570tenta gli animi e i cuori; e già commossi
gli ha tutti, e lor cade dagli occhi ’l pianto,
pianto di sdegno più che di pietade.
Non i giovani sol, ma i vecchi infermi
e con membra tremanti un stesso ardore
575infiamma tutti; e corron tutti a l’armi.
Vogliono unire le vicine schiere,
romper tutti gl’indugi e andar a Tebe.
Ma Adrasto, a cui la molta etade il senno
accrebbe, e tutte del regnar sa l’arti,
580frena gli animi ardenti: e, - A’ Numi (dice)
lasciate questa impresa, e a la mia cura;
nè il regno tuo ti riterrà il fratello
senza vendetta; e voi non così pronti
a la guerra correte. Il gran Tideo
585di nobil sangue sparso e trionfante
lieto intanto s’accolga; e a lui ristoro
dal lungo faticar diasi e riposo.
Noi tempreremo col consiglio l’ira. -
Ma la pallida moglie e i fidi amici
590erano accorsi intanto, e lui già lasso
da la lunga battaglia e dal cammino
riconducevan mesti. Egli in sembiante
magnanimo e sereno il dorso appoggia
ad eccelsa colonna; e mentre Imone,
595d’Epidauro natio le sue ferite
or asterge coll’onda, ora col ferro
tratta, or con erbe n’ammollisce il duolo:
comecch’ei nulla senta, ardito narra
de le risse il principio, e quel che disse
600ad Eteócle, e qual crudel risposta
ne riportò; quale a l’insidie il loco,
quale fu il tempo: quali e quanti duci
gli furon contro; ove maggior contrasto
trovò; come Meon serbato avea
605per testimon del memorabil fatto.
Pendon da lui il suocero e la corte.
E d’ira avvampa l’esule di Tiro.
Già il Sol avendo negli esperii lidi
i focosi destrier sciolti dal giogo,
610tuffava il biondo crin ne l’Oceàno:
lo accolgon le Nereidi, e le veloci
Ore corrono pronte: altra le briglie
di man gli toglie; lo splendente cerchio
dal capo altra gli leva; il rosso manto
615altra dal petto di sudor stillante
discioglie ratta; chi ripone il carro,
chi de’ destrieri cura prende, e il fieno
ad essi appresta e le celesti biade.
Sopraggiunge la notte, e de’ mortali
620le cure e de le belve i vari moti
tutti ripone in calma, e il cielo adombra.
Non però trovan nel comun riposo
Adrasto e Polinice ora quïeta;
ma Tideo sì, di cui lusinga il sonno
625con fantasmi di onor la sua virtude.
Intanto Marte infra i notturni orrori
di guerriero rimbombo empie d’intorno
i confini d’Arcadia e le nemee
campagne, ed i tenarii eccelsi gioghi,
630e la sacra Terapni al biondo Nume;
e gli attoniti cuor di sè rïempie.
Gli assettano le piume in su ’l cimiero
l’Ira e ’l Furore, e il bellico Spavento
conduce il carro. Lo precorre alata
635la Fama, intenta ad ogni suono e piena
di torbide novelle, e perchè a tergo
ha l’anelar de’ rapidi destrieri,
timida affretta al volo i tardi vanni,
e ognor l’incalza con flagel sanguigno
640il fiero auriga, e vuol che intorno spanda
il falso e il ver, e con la scitic’asta
le batte il capo e le scompiglia il crine.
Così Nettun gli scatenati venti
da l’eolia prigion si caccia innanzi
645tal volta, e a tutto volo entro l’Egeo
gli spinge e mesce: stanno a lui d’intorno
e nubi e nembi e grandini gelate,
e la sozza tempesta, che dal fondo
solleva al cielo i procellosi flutti.
650Al grande urtar le Cicladi vaganti
stan salde appena, e Delo istessa teme
da Giano e da Micone esser divisa,
e de l’allievo suo la fede invoca.
Già sette volte la vermiglia Aurora
655di chiarissima luce avea d’intorno
acceso il cielo e serenato il mondo,
dal dì che in Argo ritornò Tideo:
quando di Perseo il successor canuto
lasciò le interne stanze al primo albore.
660Molto pensa alla guerra, e molto il turba
de’ generi novelli il troppo ardire.
Sta irresoluto ancor, se ceda a l’armi
libero il freno e a’ popoli feroci
stimoli aggiunga; o se rattempri l’ire,
665e scinga lor con miglior senno i brandi.
Quinci amore di pace, e quindi il turba
lo scorno, e ’l non saper por modo a questo
nuovo e primier di guerreggiar furore.
Risolve alfin che si ricorra a’ vati
670per ispiar da’ sacrifici il vero.
Anfiarao de l’avvenir presago
fu scelto a l’opra, e seco iva Melampo
d’Anfitaone già canuto figlio,
ma di mente vivace e pien del Nume.
675Dubbio è fra lor chi più de la cirrea
onda bevesse, e a chi più de’ suoi doni
Febo dispensi. Ne l’uccise fiere
ricercan pria de’ sommi Dei la mente.
Ma i cuor macchiati e le corrotte fibre
680dan funesti presagi. A cielo aperto
risolvono tentar novelli auspici.
Sorge confine al cielo eccelso monte
sacro a gli Argivi, che i lernei bifolchi
Afesanto chiamâr: quindi si narra
685che il gran Perseo giù si calasse a volo
a l’alte imprese, e la dolente madre,
del figlio in rimirar l’orribil salto,
appena di seguirlo si ritenne.
Quivi gli auguri il crin cinto d’olivo
690e di candide bende ambe le tempie,
giunsero, allor che in Orïente il Sole
con i tepidi raggi i molli campi
rasciuga intorno e le notturne brine.
E prima d’Ocleo il figlio amico rende
695a l’opra il Nume coll’usate preci.
- Noi ben sappiam, sommo e possente Giove,
che virtù desti a li veloci augelli
di mostrarci ’l futuro, e co’ lor voli
svelar a noi l’alto voler de’ fati.
700Non più sicuro a noi Febo da l’antro
parla di Cirra, nè i loquaci abeti
dal fatidico bosco di Dodona;
benchè l’arido Hamon d’invidia avvampi,
ed osin contrastar le licie sorti;
705e il bue del Nilo, e l’apollineo Branco
pari al padre d’onore, e il Licaone
bifolco, che da Pan sente il futuro.
Quegli più scorge il ver, Nume Ditteo,
cui tu felici augei mandi da l’alto.
710Ma donde in lor tanta virtù scendesse,
di maraviglia è oggetto e di contesa.
Forse che allor, che da l’informe Caos
fur tratti i semi, e fur distinti in forme,
lor toccò in sorte aver menti presaghe:
715o che fur pria di nostra specie, e poi
vestendo piume e sorvolando i venti,
serbano ancor de la ragione il lume:
o che il loro volar vicini al cielo,
e ’l respirar aura più pura, lungi
720dal nostro fango, e il posar raro in terra,
de gli arcani de’ Dei degni li renda.
Come ciò sia, tu, che ’l facesti, il sai,
primo Autor de’ celesti e de’ mortali.
Ora il principio e ’l fin de l’aspra guerra
725deh per lor mezzo a noi mostrar ti piaccia.
E se la Parca l’echionia Tebe
concede in preda a le lernee falangi,
daccene il segno, e da sinistra tuona;
e i fausti augei con misteriosi canti
730ci annuncino quel ben che a noi destini:
ma s’altrimenti hai pur disposto, tardi
vengan gli augurii, e da la destra il cielo
adombrino co’ vanni i tristi augelli.
Così dic’egli, e sovra un sasso siede,
735ed altri invoca sconosciuti Numi;
e sgombra di caligine la mente
discopre il ver, per quanto è vasto il mondo.
Parton fra loro il campo; e ’l ciel diviso,
tengon la mente, e con la mente il guardo,
740attenti ad osservar ne l’aria i segni.
Stetter così gran pezza: alfin Melampo
parlò primiero: - Anfiarao, non vedi,
com’ogni augel, che spiega a l’aura i vanni,
dà tristi indizi con l’infausto volo?
745Ve’ com’altri si libra in su le penne?
Ve’ com’altri sen fugge, e co’ lamenti
un infelice augurio a noi ne lascia?
Nè v’è fra lor de’ tripodi seguace
il nero corvo, nè il reale e grande
750portatore de’ fulmini di Giove,
nè quel sacro a Minerva: alcun migliore
del falcon non vegg’io, e questi ancora
da superiori augei spiumato e vinto.
Io non scorgo volar ch’orridi mostri,
755nè sento altri gracchiar che gufi e strigi,
e darne segno di futuri danni.
E con tali portenti andremo a Tebe?
A tali mostri si concede il Polo?
Mira come con l’ugne i petti e i rostri
760squarciansi insieme, e dibattendo i vanni
mandan fuori un fragor simile a pianto. -
Così diss’egli, e Anfiarao rispose:
- Molti ho già intesi oracoli febei,
padre, fin da quel dì che in fresca etade
765da’ semidei guerrieri io fui raccolto
su la tessala nave: essi m’udiro
spesse volte predir co’ sacri carmi
quello che in terra e in mar lor poscia avvenne;
e ben sovente ne le dubbie cose,
770più che a Mopso, a me fede ebbe Giasone.
Ma non mai tanto di futuri mali
ebbi timor, nè più maligne stelle
vidi giammai, e peggio ancor m’aspetto.
Or volgi gli occhi attento: immenso stuolo
775mira venir da la serena parte
de l’etere profondo a noi di cigni;
o dal tracio Strimon Borea gelato
li cacci, o cerchin più benigno clima
de l’ubertoso Nilo in su le sponde:
780eccoli fermi, eccoli accolti in giro
taciti star come rinchiusi in vallo;
or questo a noi finga il tebano campo.
Ma venir veggio da l’opposto lato
maggior schiera d’alati, e a lei davanti
785sette d’immensi vanni aquile invitte;
or queste a noi sieno gl’inachii duci.
Già dan l’assalto al bianco gregge, e i rostri
spalancan a le prede, e con gli artigli
già stan lor sopra. Ahi quanto sangue piove!
790Quante cadon dal ciel divelte penne!
Ma qual d’avverso Giove ira improvvisa
distrugge i vincitori e manda a morte?
Ecco il primier come dal Sole acceso
cade, e l’alma e l’orgoglio a un tempo spira.
795L’altro, che ardisce de’ maggiori augelli
tentar le imprese, a mezzo il volo manca,
e lo lascian cader le imbelli piume.
Questi insiem col nemico a terra cade.
Il quarto in rimirar de’ suoi compagni
800l’immensa strage, spaventato fugge.
Quegli fra’ nembi soffocato more;
questi morendo del nemico vivo
fiero si pasce: le volanti nubi
tutte in sangue son tinte. E perchè il pianto
805tenti celar, Melampo? Anch’io conosco
colui che cade ne la gran vorago. -
Così de l’avvenir sotto il gran peso
gemono i vati, e già soffrono i danni
veduti in ombra, come fosser veri.
810Dolgonsi de’ volanti il moto e i voli
spiato aver, ed i vietati arcani
del cielo; ed esauditi, odiano i Numi.
Ma donde mai questo sì folle amore
d’antiveder le cose entro le menti
815de’ miseri mortali origin ebbe?
Forse è dono de’ numi? O pur noi stessi
non siam di ciò, che possediam, contenti?
Noi vogliamo saper qual ne sovrasti
dal nascer nostro sino al giorno estremo
820lieto o infausto destino, e ciò che Giove
benigno o l’empia Cloto a noi prepari.
Quindi è che si ricercano le fibre,
e ’l garrir degli augelli entro le nubi,
e i moti de le stelle, e de la luna
825i vari giri, e alfin le magic’arti.
Ma non mai tanto osâr ne l’aurea etade
gli avoli nostri e quelle dure genti
uscite fuor da roveri e macigni.
Era lor sola ed innocente cura
830amar le selve e coltivare i campi:
il cercar oggi quel che ’l dì venturo
prometta, era fra lor non picciol fallo.
Noi, gente iniqua e vana, i sacri arcani
osiam cercar de’ Numi: e quindi poi
835nascon la tema e l’ira e ’l reo delitto,
e le insidie e le frodi; e i nostri voti
son privi di modestia e di pietade.
Ma Anfiarao scinte dal crin le bende
con dispettosa mano, e il sacro serto
840gettando lungi inonorato e vile,
scendea dal monte. Egli ha sì fissi in mente
gl’infausti augurii, che già sente e vede
le trombe e l’armi e la lontana Tebe.
Dolente e mesto entro segreta cella
845si chiude, e nega rivelare i fati:
fugge il vulgo importuno, e del Re amico
schiva le inchieste e de’ maggior guerrieri.
Melampo anch’ei si cela, e per le ville
esercitando va la medic’arte.
850 E già sei volte e sei de l’Orïente
schiuse aveva le porte al dì l’Aurora,
dacchè stavan sospesi e duci e plebe.
Di Giove intanto il gran comando preme,
e corron tutti a l’armi, e lascian vuoti
855i vasti campi e le cittadi antiche.
Dietro si tragge il bellicoso Dio
mille squadre d’armati: in abbandono
si lasciano le case e i dolci figli,
e le consorti misere e piangenti:
860tanto nel petto lor s’infonde il Nume!
Spiccan l’armi da’ tetti, e fuor de’ tempii
traggono i carri sacri un tempo a’ Dei.
Chi a lo girar de la volubil cote
affila i dardi, e i rugginosi brandi
865aguzza e terge e luminosi rende:
chi tratta gli elmi lievi, e le corazze
a’ petti adatta e le ferrate maglie.
Già i vomeri, gli aratri e gli altri arnesi,
sì cari un tempo a la sicana Dea,
870miransi rosseggiar dentro le ardenti
fornaci; e a l’alternar di più martelli
mutar l’uso pacifico in guerriero.
Tagliano i sacri boschi, e ne fann’aste,
e al bue già vecchio non si ha più pietade,
875per coprir col suo cuoio e targhe e scudi.
Corrono in Argo, e su le regie soglie
gridano guerra; e ’l ciel rimbomba intorno.
Non con tanto fragore il procelloso
Tirreno freme, nè sì forte scuote
880Encelado il gran monte, allor che il fianco
tenta mutar sotto l’immenso peso:
da le profonde sue caverne mugge
Etna, e vomita fiamme; in sè ritira
Peloro i flutti, e la Sicilia unirsi
885teme al terren onde fu pria divisa.
Ma Capaneo del bellicoso Nume
più d’altri acceso, di superbo cuore,
e d’ozio impazïente e di riposo,
s’era qui tratto al suon di tanta impresa.
890Scendeva egli per lung’ordine e certo
d’avi reali, ma le illustri imprese
de’ suoi maggiori avea oscurate e vinte
col braccio invitto e col terribil brando
sprezzator d’ogni Nume e d’ogni dritto,
895e prodigo di vita, ov’ira il muova.
Un de’ biformi abitator de’ boschi
di Foloe sembra, e con gli etnei Ciclopi
gareggiar può di mole e di fierezza.
Ora costui su le rinchiuse soglie
900d’Anfiarao, ove fremendo stanno
la plebe e i duci, minacciando grida:
- Che viltà è questa, Argivi, e voi di sangue
congiunti Achei? Oh nostra infamia e scorno!
Dunque su ’l limitar d’un uom del vulgo
905ozïosi staran tanti guerrieri?
Tant’alme pronte a generose imprese?
Non io, se Apollo (e siasi pur qual finge
l’altrui timore) sotto il cirreo giogo
muggir udissi dal profondo speco,
910tanto aspettar potrei, che le tremende
ambagi sue la Vergine scoprisse:
a me la spada e ’l mio valor è Dio.
Esca omai fuor con le mentite frodi,
figlie del suo timore, il sacerdote,
915o ch’io farò veder quanto sia vano
il volar degli augelli. - Ei così parla,
e il volgo militar con gridi applaude.
Ma d’Ocleo il figlio d’altre cure pieno
esce costretto alfin dal chiuso ostello.
920- Me non muove (dic’ei) l’alto clamore
del giovane profano, o i fieri detti,
benchè minaccin morte. Il mio fatale
giorno ancor non è giunto, e questo petto
scopo non sarà mai d’armi mortali.
925Ma l’amore di voi, ma il troppo Nume
mi spinge e sforza, e vuol ch’io sveli i fati.
Io le cose future, e s’oltre ancora
scoprir si può, dolente a voi paleso;
nè teco parlo, o giovane feroce,
930chè per te solo è muto il nostro Apollo.
Dove, miseri, andate? A che rapite
l’armi in onta de’ Numi e del Destino?
Qual Furia vi flagella? In sì vil pregio
l’alme vi sono? Argo v’è dunque a schivo?
935Nè vi son dolci le paterne case?
Nè degli augurii alcun pensier vi prende?
A che mandarmi a l’inaccesso giogo
de l’alato guerrier, l’eterne menti
ad ispiar de’ Numi entro il concilio?
940Ed or che giova che a me sieno noti
gli acerbi casi ed il funesto giorno?
Qual crudel fato a voi sovrasti? e quale
me stesso aspetti? In testimonio io chiamo
de l’ampio suol le investigate cose,
945le voci de gli augelli, e te, o Timbreo,
che mai sì fiero a me parlasti: unquanco
vidi sì tristi segni e sì palesi
indizi di certissima ruina.
Vidi le sceleraggini fatali
950de gli uomini e de’ Numi, e festeggiante
vidi Megera, e l’inflessibil Parca
vuotare interi i secoli dal fuso.
Lungi scagliate l’armi. Ah forsennati!
Ecco il Nume, ecco il Nume a voi lo vieta.
955Miseri! Che follia del vostro sangue
gir a impinguar de la Beozia i campi,
e del reo Cadmo le profane zolle.
Ma perchè parlo indarno, e ’l già prefisso
momento io tardo? Noi pur troppo andremo. -
960Qui troncò i detti, e sospirando tacque.
Ma Capaneo: - Questo furor sia teco,
augure infausto; e giovi a tua viltade,
sicchè tu in Argo inonorato resti,
nè turbi i sonni tuoi guerriera tromba.
965Ma non tardar con queste ciance e fole
l’impeto de’ magnanimi guerrieri.
Certo, perchè ozïoso i canti e i voli
tu osservi de gli augelli, e in molli piume
ti goda la consorte, e i cari figli
970ti scherzino d’intorno, il gran Tideo
noi lasceremo inulto, e de le genti
le sacre leggi vïolate e infrante.
Ma se non vuoi che muovan l’armi i Greci,
vanne tu stesso a Tebe, e questo serto
975t’assicuri le strade; a te del Cielo
noti son dunque i più segreti arcani
e le prime cagioni? O qual mi prende
pietà de’ Numi, se le preci e i carmi
di noi ponno turbare il lor riposo!
980Perch’empi di terror l’anime sciocche?
La viltade e il timor fecero i Numi.
Pur per or ti si passi, e senza tema
sfoga il vano furor; ma ben t’avviso,
che al primo suon de’ concavi oricalchi,
985quando noi beverem dentro gli elmetti
Dirce e l’Ismeno, e ch’io correrò a l’armi
e a la battaglia, non venirmi innanzi
co’ tuoi augelli a ritardar la pugna;
non questo Febo tuo, non queste bende
990ti gioveriano allor: tutte in quel loco
io vo’ predir le sorti, e saran meco
auguri e vati li più audaci e forti. -
Suonan d’intorno nuovi applausi e gridi,
e l’immenso rumor giunge a le stelle.
995Qual rapido torrente, a cui più rivi
portan tributo, e le disciolte nevi
rendon gonfio e superbo; ogni riparo
soverchia, e inonda i campi, e seco tragge
ne’ vortici spumosi a un tempo stesso
1000e le zolle e le case ed i pastori,
e le mandre e le greggi, insin che rompe
l’impeto a un colle, e ’l suo furor raffrena:
così garrían fra lor; ma l’ombre stese
la buia notte, e separò le risse.
1005 Intanto Argia, che del consorte amato
in sè risente il duolo, e le querele
non ne può piú soffrir con cuor tranquillo;
come si trova, co’ capelli sparsi,
e gli occhi pregni di pietoso pianto,
1010tra ’l confin de la notte e de l’aurora,
quando scendendo in mar le vaghe stelle
si duol Boote di restar addietro,
sen va notturna al padre, e al bianco seno
appeso il suo Tersandro a l’avo porta.
1015Ma poi ch’entrò, fermossi al letto, e disse:
- Perchè piangente, intempestiva e sola
senza ’l mesto consorte a te ne venga,
padre, tu ’l sai, benchè io me ’l taccia: io chiamo
in testimon de’ genïali letti
1020i tutelari numi, e per te stesso
io giuro, o padre, ei non mi manda. Io sono
mossa dal mio dolor, che di riposo
mi priva da quel dì che infausta Giuno
con la sinistra man le nuzïali
1025tede m’accese: i vicini pianti
non mi lascian godere ora di sonno.
Non se di tigre avessi ’l petto, o il core
duro al par d’uno scoglio, i suoi lamenti
senza pietà soffrir potrei. Tu solo
1030puoi consolarne, ed è in tua man riposta
l’unica medicina a’ nostri mali.
Dacci la guerra, o padre, e de l’abbietto
genero tuo mira lo stato, e mira
questo d’un infelice esule figlio.
1035Non patir tanto scorno al proprio sangue.
Deh ti sovvenga il giuramento dato
nel primo ospizio, e gl’invocati Numi,
e le congiunte destre. Il mio consorte
è quello pure che indicaro i Fati,
1040e che Apollo prescrisse: io già non arsi
d’amor furtivo e di colpevol face.
Tu me lo desti, e al tuo volere ancella
io fui, e ubbidïente: or con qual cuore
ne soffrirò i lamenti? Ah tu non sai
1045quanto accresca l’amor misero sposo!
Ahi lassa! Io veggio ben ch’ora ti chiedo
dono odïoso e infausto, e che di pianto
cagion mi fia. Ma quando il fatal giorno
romperà i nostri baci, e che le trombe
1050daranno il segno di partire, e i cari
visi chiudrete ne’ dorati elmetti,
padre, allor ti farò contrari voti. -
Così diss’ella; e il genitor co’ baci
libonne i pianti, e placido rispose:
1055 - Già, figlia, non temer che i tuoi lamenti
biasmi o condanni: cose giuste chiedi,
e negarle io non so. Ma ancor sospeso
tengonmi i Numi, e ragionevol tema,
e del mio regno le diverse cure.
1060Non diffidar però, figlia; anche a questo
si darà fin; nè ti dorrai che ’nvano
pregato m’abbi. Tu ’l consorte afflitto
consola intanto; e non gl’incresca il nostro
maturo differir. Le grand’imprese
1065chieggon grandi apparati; e la tardanza
giova a la guerra. - Così dice, e lascia
le molli piume a lo spuntar del giorno
da’ suoi gravi pensier chiamato a l’opre.