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LA VILLA VALENTI
POEMETTO
DEL PADRE
SAVERIO BETTINELLI
Alfin pur ti trovai, o meco nata
Musa sempre a me cara, o troppo a lungo
Da me lontana omai; poichè dal giorno
Ch’io Taro e Parma abbandonai, non ebbi
De l’estro usato, e de l’amica voce
Mai più senso, e favor. Certo io temea
Che il cammin aspro e lungo, i soli ardenti
E le noiose magistrali cure
Del mio destin compagne, e a te nodrita
Ne la quiete e libertà di Pindo
Troppo nimiche, il natio suol Lombardo
T’avesser fatto preferir a Roma.
Invan però tra tanti novi obbietti
Di canto e d’onor degni io ti chiamai,
Invan di Flacco, invan l’ombre di Maro,
E le ceneri sacre, e i sacri alberghi
Di Tullio mio, di Mecenate, e Augusto,
Reliquie del Romano antico onore,
Mi fer di carme, e di poema invito;
Che tu nascosa ed al pregar mio sorda,
La sospirata a me sempre negasti,
Qual non negasti mai, Febea risposta.
Ma questa alfin del tuo Parnaso amica
Non men ch’emula piaggia, almo soggiorne
Che agli utili ozi suoi Silvio trascelse,
E con quel genio ornò, con quell’acuto
Senso del bello e del gentil costrusse,
Con cui tornato da la dotta Atene
Pieno di greche idee, pieno del fiore
De le bell’arti a l’ozio suo l’avrebbe
Attico stesso disegnata un giorno.
Si quest’aer beato e questo albergo
Ti fece, o Mufa, un così dolce inganno,
Che di tenerti occulta omai ti spiacque.
Io ti riveggio alfin, sento il tuo nume
Agitator de l’anima. Tu fai
Scacciarne il tetro umor, scuoter l’ingegno
Dal letargo crudele, onde l’ingombra
La spiacevol d’altrui cura e pensiero.
La poetica vena arida un tempo,
Il digiuno finor estro impedito,
Innanzi a Silvio innanzi a te si desta.
Prendo fuoco dal ciel Prometeo novo
A ranimar le inanimate cose
Con nova vita, sì che quanto in terra
O stampa l’orme o le radici affonda,
Le fere, i tronchi, e quest’erbe, e quest’acque
Abbiano abitatori, abbiano Numi.
Per te già scorgo in un momento nate
Dal poetico mio celabro acceso
Mille forme vivaci e mille idee
Al fiato, al soffio, ed al poter del forte
Tuo spirto creator. Come al possente
Alitar de’ robusti ignudi petti
Che di Muran ne le fornaci ardenti
S’adopran notte e di d’intorno a un lago
Di liquida ripien pasta infocata;
Una gocciola sola, onde s’intinge
L’estremità de le forate canne,
Tanto si stende a poco a poco, e gonfia
Per l’artifizio del polmon ventoso,
Che un ampio globo fassi, indi si schiaccia
Docil nei lati, e su la liscia pietra
Formasi in quadro, o si bislunga, e torce
In sottil callo, infin che bocca e labbri,
Cui la tagliente forbice pareggia,
Apre a versarne in genial convito
I soavi licor, che s’hanno in pregio.
Tal veggio, o Diva, al cenno tuo ne l’alma
Nascermi fantasie, forme, e sembianti;
E figurarsi, e crescere, e divino
Prender aspetto, io non so come, e volto:
Veggio veggio i sentier, l’ombre, i boschetti
Le stanze, e gli atrii de l’ornato albergo
Già popolarsi di presenti Numi
Al vulgo ignoti, al vate sol palesi.
Verdi frondi, acque pure, aer sereno
Voi v’abbellite per valor del canto,
Come per l’alba, che dal mar v’indora.
O quanta gente, o quale! Ecco in un coro
L’arti belle appressar. Ecco non lunge
L’altro venir de le scienze gravi,
Che s’accolgon qui tutte: io le conosco
Ai certi segni, ai non ignoti volti.
Quel che le guida altero Nume, a cui
Fan festa intorno, e da cui cenni ognuna
Pende qual da maestro, egli è pur questi,
Se mal non lo ravviso a l’andar cheto,
Al mansueto riso, ai modi umani,
A la bellezza naturale, al guardo
Penetrator, a la mediocre, e in tutto
Perfetta forma, onde ogni, membro a giusta
Proporzion risponde, e spira ogni atto
Grazia, vigor, mirabile armonia,
Questi è il buon Gusto. Egli per man mi prende,
O me beato, è già ver me soavi
Da la bocca rosata escon parole
Che oltre l’ufo mortal levanmi seco.
Qui vedi, ei dice, e nel suo dir sorride,
Qui vedi il regno mio, dove mi piace
Non pur albergo aver, ma reggia e corte.
Quanti qui vanno eletti spirti, io nudro
Del mio favor; io nel lor petto ispiro
Tutta la mia divinità, nè nullo
Ricuso loro o di saper tesauro,
O d’ingegno valor. A me si deve
Quel che vedi fiorir famo de l’arti
Amor qui dentro, ed a me quel, che quanti
Disperde il ciel qua e là nobili ingegni,
Nel sen di Roma a ben formarsi aduna:
O piaccia a lei simili trar sembianti
A i veri volti degli eroi dal marmo,
O a diversi color ami lo spirto
Infonder con la vita, o su lisciate
Tavolette di bronzo incida argute
Tenui figure, onde la carta impressa
Le multiplichi a mille, e le diffonda;
Oppur con varie di color di vena
Pietruzze intenta al degradar de l’ombre,
Intenta a lo spiccar de’ vivi tratti,
Or questo or quel giusta le tinte e i nicchi
Sassolin scelga, e li congiunga in modo,
Che facciano un sol piano, onde locato
Lontan l’obbietto, e vivo e vero il creda.
Vedi quanta virtù! Sorgon di mille
Piccole e ad arte ben disposte pietre
Or torri eccelse, ed or marmorei alberghi,
Or di mura ricinte ampie cittadi:
La gonfia il mar l’ondoso grembo, e increspa
Le spumose de’ flutti argentee cime,
Qui verdeggia la riva, e a poco a poco
Per su la schiena del colle imminente
Cresce in virgulti, in alberi, e fa bosco;
Ove intravedi tra le frondi e l’ombra
Errar pascendo le panciute vacche,
E il pastorel sotto l’ombrose frondi
Intrecciar danze, ed animar sampogne.
Qual già Cadmo stupì, quando un’armata
Dai seminati al suol viperei denti
Vide assediarlo intorno, e pria le punte
Spuntar de l’aste dal terren, poi gli elmi
Con le creste agitabili, poi ciuffi
Arruffati, indi fronti, indi visaggi
Torvi apparir, che traean seco unite
Le riquadrate spalle, i ferrei petti,
E via via tutto il corpo, ecco ad un punto
Fermo su piè, le lance in resta, ei vede
Un esercito a fronte, un popol starsi;
Tal vedresti apparir di que’ minuti
Ben sparsi quadri le sembianze vive
D’uomini, d’animai, d’erbe, di piante,
Da far che al secol nostro invidia porti
L’antica etade, e che non vantin sole
Quelle colombe lor Plinio e Furienti.
Ma il ragionar che val, dove petrai
Meco e con Silvio in un albergo accolte
Le glorie nostre, e il santo stuol de’ Numi
Dappresso rimirar? Entra pur dunque,
E pria d’entrar, mira colà in disparte
La Botanica industre il grembo piena
Di germi oltramarini e di semente,
Ch’ella trasceglie, e in ripartiti vasi
Mollemente dispone, onde poi frutte
In qualunque stagion spuntino, e fiori
D’indole tale e di sapor, che Roma,
Roma che tutto fa, chiedane il nome.
Vedi più presso affaccendata intorno
A quel fonte l’Idraulica, al cui piede
E stantuffi, e chiavette, e tubi, e cento
Giacciono ordigni, ond’ella faccia a l’acqua
Prender vie non usate, e salir dove,
Stupendo Belidor non che Jerone,
Per natura o per arte unqua non salse.
Or ve’ dentro a la foglia incontro uscirne
La sorella di iei, quella che altrove
Polverosa tra macchine e tra leve de
Vedesti ognor, qui più leggiadra e monda
La Meccanica vedi; e vedi come
Gentil t’invita a l’apprestata mensa,
Da cui vengono e van cibi e bevande
Per invisibil man pronte ad un cenno,
Talchè sedere a l’incantate cene
O con Armida, o con Merlin ti sembri.
Se quinci in alto sali, ambe vedrai
Armate l’occhio di cristalli e tubi
Ottica e Astronomia: questa degli astri
Discopre ogni sentier, conta ogni macchia;
Quella avvicina i più lontani obbietti,
Sì, che lui nol sapendo, entro di Roma
Il Tiburtino, e il Tusculan vien tratto;
E de’ tacenti Cenobiti il core
L’arcane penitenze ed i digiuni
Al Camaldoli suo confida indarno,
Quelle tre vedi? A le congiunte destre,
A l’abito, al decoro, al gentil atto
Tre grazie le diresti; ma la festa,
Lo scalpello, il pennel, che le distingue,
Ti fa certo di lor. Gode ciascuna
Contemplar suoi lavori, e spesso gode
Udir di quelli or lodator straniero,
Or buon critico accorto, e più sovente
Porge di Silvio ai fin giudicj orecchio.
Quand’egli meco il passo intorno e il guarde
Discernitor fu l’opra sua sospende.
Esse pronte a’ suoi detti ingegno e mani
Hanno a l’ornato, hanno a l’emenda intente,
Eccole andar verso l’amica stanza
A cui cento genietti intorno ammiri
Tornare e gir destri su l’ale: oh come
Qui ben ti sta maravigliar, se sai!
Oh qual tesoro ivi si serba, oh quanto
In angusto alvear mele febeo!
Quei son qual api in folto sciame accolti
D’ogni genio e saper d’ogni linguaggio
Spiritei dotti, che a quaranta ornate
Ronzan cellette intorno, ove ben mille
Quasi favi in ognuna alme operette
Raccolsi io stesso. Ferve l’opra, ed altri
Vengono genj, e vanno, altri gli eletti
Versan volumi: ogni dottrina, ogni arte,
Ed ogni Musa ha il suo ministro alato,
Onde in sì lieta compagnia beate
Poser tutte in obblio Pindo e Parnaso.
Ma tu stesso de l’altre omai ricerca,
Ch’io tacer l’opre mie più non sostengo;
Gira il guardo d’intorno, e mentre il velo,
Che gl’infermi occhi tuoi copre, ne tolgo;
T’ergi sovra te stesso, e riconosci
Che non per Marte, ma per me la terra
A la gran Roma ancor tutta s’inchina.
Non vedi quante a porgermi tributo
Qui movon genti? ben conosci al ricco
Turbante il Turco, a le pelliccie il Russo,
E tra’l simo Cinese e il pingue Armeno
L’Etiope al bruno, ed a la barba ii Greco;
Nè men distingui ai molli vezzi il Gallo,
Nè men l’Inglese al taciturno aspetto,
E col Batavo a moversi pesante
L’Ispano agli atti ed all’andar superbo.
Odi le varie lingue, ammira i tanti
Frutti e lavor, che ad ornamento a onore
Del bel soggiorno ognun mi reca a gara.
Altri di paravento indico carco,
Di cinese magot altri fa mostra,
E chi perso soffà, chi giapponese
Candida come latte o a color mille
Tazza dipinta, entro di cui mi versa
Di Pecchinese tè caldo ristoro.
Qual de le fave di Caracca, e delle
Di Brasil canne, e di Ceilano esprime
Tre sostanze salubri, a cui sposando
La bellicosa il Messican vainiglia
Per non vulgari stomachi febei
Balsamo e vita ogni mattina appressi.
E non ti par tra tante genti accolto
D’esser qui fatto cittadin del mondo?
Chi l’Adriane ville, e chi rammenti
Di Neron gli orti, e di Lucullo il vasto
Sdegnoso lusso, iniqua spoglia e peso
Di popol tanti, e a lui medesimo ingombro?
Io di poco m’appago, io l’util amo
De l’arti belle, e il più bel fior ne colgo.
Ne le Molucche ho il mio giardino eletto,
L’orto al Borneo, la vigna dolce al Capo.
Per me fa drappi il tessitor Persiano,
Il Cinese vasaio urne e pagode,
Nè raro viene a la mia mensa un frutto
Sotto i tropici nato, e senza fasto
D’indico padiglion copro i miei sonni.
Non felice è colui, che in ferrate arche
L’oro nasconde, o quel che l’uom mendico,
Eppur eguale a lui, preme ed isfulta.
Felice è quei, che del suo ricco censo
Al comodo provvede, e fa con seco
Di sua felicità gli altri felici.
Ma tenerti più a lungo omai mi grava,
E del meglio privarti, onde s’adorna
Quest’alma fede; a Silvio vanne, e quando
Udrai suoi detti, e suoi modi vedrai,
Fia che d’ogni altra cosa obblio ti prenda.
Così dicendo a me si tolse. Io vidi
Il gran Silvio e l’udii; pieno di lui
L’anima, e i sensi, e la memoria piena
Ancor ne porto; ma chi stile e voce,
Chi color mi darà, chi tocco ardito,
Che il disceso dal ciel spirto dipinga?
Io te chiamo, Pagnin, tu che sì presso
La grand’alma conosci, e che sovente
Apelle novo di ritrarne impetri
L’alta sembianza, ed i pensier; tu vieni,
Dotto Pittor, che del celeste dono
Voglio dal tuo pennel fatta memoria,
Mentre il consegno a l’avvenir coi versi.
Su via stendi gran tela, e ’l treppiè lascia
Disugual troppo a l’argomento grande:
Qui diversi color, vasi, tabelle;
Là s’ingombri il terren di mille forme,
E capi, e busti, e di scoltura avanzi
Dissotterrati da le gran ruine,
Onde l’opre miglior de’ mastri antichi
Giacquer gran tempo in lungo obblio sepolte.
Di Giove imita la serena fronte,
D’Ercol le braccia, e di Mercurio il ciglio::
Ma fuor traspiri dai divini tratti
L’umano liberal mite pensiero,
E va temprando in un’immago fola
La doppia idea di Mecenate e Agrippa,
Utili anch’essi e cari a un altro Augusto.
In mezzo al quadro incoronato sieda
Per man de la virtù l’amica fronte
Il mio signor, che la man stenda in atte
Dolce e cortese a sollevar di terra
I timidi talenti, il merto occulto,
L’anti neglette, e la virtude oppressa.
Intorno sparsi in bell’ordin confuso
Le Grazie i Giochi faccian cerchio insieme
Le man giugnendo, e in liete danze e in vaghi
Error movano a tondo. Alta e superba
Grandeggi la giustizia, e fotto al piede
Il colpevole prema invan fremente,
E contro lei rivolto invan coi torvi
Sguardi sanguigni, e con la spuma al labbro,
Roma da fianco gli s’affida in atto
Pien d’allegrezza, e Mantova da lunge
Col dito, e quasi ringraziando accenni.
Abbia ella scettro in man, abbia su’l crine
Aureo diadema, intorno a cui s’aggiri
Con l’alloro intrecciato il verde ulivo.
Da lato spunti, e verso lui si mova,
Con fior diversi, e con incensi, e bende
L’alma religion cinta d’un manto
Candido tutto, è di modesto velo
Ombrata il volto, ma da cui trapeli
La bellezza divina, e il vivo foco
Degli occhi ardenti. In giusto spazio alloga
Sì che a lontan tra l’una e l’altra appaja
Sovra l’urna inclinato il Tebro amico
Cinto di canne il crin, largo versando
D’onde spumanti al suol tesoro, e molta
Tela irrorando de lo spruzzo acquoso.
Da l’alta parte faccian coro insieme
Con l’arti e con gli studj i chiari ingegni
Che qui sì bella soglion far corona,
Quasi lor guida e di lor degno innanzi
Tragga il nipote, a cui pallida il manto
Mammola tinga, e l’ingegnoso il segua
Husse gentil, l’infaticabil mio
Lombardi, il culto almo Scarfelli, il dotto
Elegante Benaglio, il Bonamico
Tullian, l’onesto lucreziano Stay,
E’l mio diletto Boscovich, che largo
Di saper versi, e d’eloquenza fiume,
Tal che mi sembri udirlo, e udire a un tempo
Livio, e Virgilio, ed Archimede, e Plato.
Dietro di lor sfumata tinta ombreggi
Con teso orecchio Pagliarin, che tutto
Curvo s’affretti di chi scrive in atto,
E raccolga i lor detti, i quai con forme
De’ Giunti degne e de’ Manuzi al torchio
Consegni poi per le venture etadi.
Or quando del contorno ultimo, e delle
Finite parti adorna l’opra avrai,
Sì che invidia non trovi ove l’emende
Al pubblico l’esponi, onde ne pasca
La curiosa Roma i cupidi occhi,
E la vedrai tra ’l popolare applauso
Quasi in trionfo al campidoglio trarsi,
Ov’oggi con l’antiche opre immortali
Di pennel e scalpel la fama eterna
Del Palatino insieme e del Tarpeo
Il supremo Pastor emula, e vince.