< La carbonaria
Questo testo è stato riletto e controllato.
Personaggi Atto II

ATTO I.

SCENA I.

Pirino innamorato, Forca suo servo.

Pirino. Avea inteso dir mille volte che i seguaci d’amore erano il riso, il diletto, il gioco e tutte insieme le compite dolcezze. Misero me, che provo tutto il contrario; ché le malenconie, i noiosi pensieri, le fatiche, i disagi, i sospetti e le gelosie sono i suoi perpetui compagni: e veramente, chi le pruova conosce che queste sono vere e l’altre imagini di dolori.

Forca. Buon dí, padrone.

Pirino. O Dio, che amara compagnia m’han tenuto questi tutta la notte! ho desiato il giorno per ragionar con Forca, il mio servo, d’un mio sospetto, né posso ritrovarlo; oh, sei tu qui? t’ho chiamato tutta questa mattina.

Forca. Anzi v’ho risposto prima che voi mi chiamaste. Ma or con chi ragionate?

Pirino. Con meco.

Forca. Chi è questo meco? guardatevi che non sia qualche mal uomo.

Pirino. Dico: «meco», con me medesimo.

Forca. Dunque voi e meco son due persone?

Pirino. Non t’ho detto tante volte che l’anima mia non è dove ella abita, ma dove ama? avendo io l’animo fisso nell’amato oggetto, resto col corpo abbandonato senza anima; or ch’era ritornata al suo luogo, ragionava con lei.

Forca. Conosco che siate innamorato e malamente, perché sempre avete in bocca l’amato oggetto, andate parlando solo e raccontando i vostri difetti a chi non ve li dimanda. Ma, di grazia, voi di che ragionavate con voi?

Pirino. Apunto di te che pur un tempo eri mio scorporato, non lasciavi mai far cosa per compiacermi; non ho seguitato piacer in mia vita, di cui tu non sia stato il mezano. In somma, io era tutto il tuo bene, or non so come son divenuto tuo figliastro: o fingi o t’infingi non accorgerti de’ miei affanni, e sai che solo sei segretario de’ miei pensieri: non t’amo da servo ma da fratello, e ti dono sempre.

Forca. È vero che mi donate sempre, ma una intrata di cinquanta bastonate il giorno: ché servendovi o disservendovi, senza mirar dove date, alla luce, all’oscuro, con ogni cosa che vi trovate in mano, mi fate piovere adosso una tempesta di bastonate traditore, che non è ora che non abbia da stridere sotto le vostre mani.

Pirino. Tu ben t’accorgi, tristarello, quanto t’ami e quanto vaglio senza te.

Forca. Non mi mirate negli occhi, che non vi paia che ci manchi un pugno; non il mustaccio, che non vi stia bene uno sgrugnone; non nello stomaco, che non vi disegniate un calcio; non le spalle, che non desiate misurarle con un legno. In somma, non avete pelo sovra la persona, che non mi volesse scacciare le mosche da dosso con un querciuolo. E piacesse a Dio che vi contentaste de dieci o venti; ma quando cominciate, non lasciate mai, se prima non fate prova qual sia piú duro o la schena o il bastone: talché le mie carni son diventate come carni d’asino.

Pirino. E se pur ogni mille anni ti dessi qualche colpicciuolo, lo fo da scherzo: non sai, Forca mio caro, che chi ti vuol bene, ti fa piangere? Accadono ben spesso fra gli innamorati delle questioni e delle bòtte, e pur non lasciano d’amarsi: son segni d’amore.

Forca. Se i segni d’amor che devo aspettar da voi saranno di darme bòtte e di farmi piangere, da or vi disgrazio di quanto amore sète per portarmi giamai. I vostri scherzi a me non piacciono: gli asini soli, quando scherzano, si dán morsi che si stracciano la pelle, e calci che si rompono l’ossa.

Pirino. È cosí gran cosa soffrir due bòtte per un amico?

Forca. Cancaro! non è parte in me che non mi doglia, e mi fate portar le carni sempre di piú colori de’ panni d’arazzi. Se l’innamorata vi fa alcun favore, le consolazioni son le vostre; se mala ciera, con una finta occasione — ché son l’armi de’ padroni contro i poveri servi — sfogate la rabbia contra di me, che non ci ho né colpa né peccato: talché ho da patir la penitenza per me e per voi.

Pirino. Te ne cerco perdono, dammi il castigo e non se ne parli piú.

Forca. Ve lo darei per certo volontieri; ma dubito che or togliendolo da scherzo, quando poi vi saltasse la mosca non me lo rendessi da senno e con l’usura ancora.

Pirino. Ti giuro su la mia fé di non toccarti piú mai.

Forca. Avete giurato cosí mille volte; ma montandovi quel maladetto ghiribizzo, tornate come prima e peggio. Un giorno ne farò le mie vendette. Ma perché usate meco sí piacevoli parole? devete aver bisogno di me. Tutta la notte v’ho inteso suspirare, non so se da amore o da umore. Ditemi, che avete?

Pirino. All’infermo dá piú noia l’aver a raccontare a ciascun la sua infirmitá, che l’istessa febre. Se lo sai meglio di me, perché farmelo dire? Sappi, fratellino mio caro, che non vive uomo piú scontento di me sovra la terra; e se non lo credi, mirami in faccia, vera ambasciatrice dell’angoscie dell’anima. Non passava mai ora che la mia carissima Melitea non mi avesse mostrato segni di corrispondenza di amore e datami commoditá di ragionarle o di vederla almeno, conoscendo bene che viveva in lei e per lei. Or son otto giorni, anzi otto mesi, anzi otto lunghissimi anni che non compar né per usci né per fenestre: io dalla mia parte non l’ho dato occasione di sdegnarse meco, onde dubito che altro fuoco la scaldi. Ella è di bellezza tale che né per l’addietro s’è mai veduta né per l’innanzi fia per vedersi: però sollecitata e presentata da molti. È la donna piena di varie voglie, non si sazia mai, facile a piegarsi; e la loro costanza è l’essere mobili e incostanti.

Forca. O poveri innamorati, che ferneticano senza febre! E perché non v’imaginate che abbia rotto lo scudellino del belletto, o che abbia i suoi mesi e che i cerchi degli occhi li stieno lividi, o che abbia il ranno troppo forte che l’abbia scorticato la fronte, e però non si lasci vedere?

Pirino. In somma, ella ará mutato voglia.

Forca. Mutatela ancor voi.

Pirino. Subito dái consiglio, perché non ti duole come duole a me. Io non posso.

Forca. Forzatevi.

Pirino. Ogni cosa può essere, ma che muti pensiero non mai. Ami qualunque li piace, facciami quante offese ella puote, non sará mai che quei disgusti e quelle offese non mi sien piú dolci di quante dolcezze potessi aver in questa vita.

Forca. O padrone, è caduta una lettera dalla sua fenestra: eccola, mirate se viene a voi.

Pirino. Conosco la sua mano. La sottoscritta dice: «La vostra viva e morta Melitea». O anima mia, so che non vuoi che viva vita cosí disperata senza darmi novella di te. Ma che cosa mai potrai tu avisarmi che non mi sia di affanno e di cordoglio? o mia dolce morte, o mia amara vita!

Forca. Leggetela liberamente.

Pirino. «Caro mio bene, poiché non posso dirvelo a bocca, ve lo scrivo in questa carta con speranza che vi venghi in mano. Mi dispiace darvi cosí amara novella, ma soffritela con pacienza. Mangone mi ha venduta al dottore per cinquecento ducati; e comandandomi che mi fusse adobbata per andar a lui, un dolor cosí forte mi spinse il core, che cadei tramortita. Egli a cui sono noti i nostri amori, per stizza m’ha chiusa in una camera e serrati gli usci e fenestre con chiavistelli: e son tre giorni che non mi dá cibo, e vuol o che vada al dottore o muoia cosí di fame. Sapete bene come è dispettoso e vuol vincer ogni cosa, e io son risoluta e ostinata. Onde pria che la fame m’uccida, m’ucciderá il dolore in pensar solo che non abbia ad esser vostra. Talché fra poco darò il corpo vile alla terra, e a voi resterá lo spirito immacolato e bello per la fede...». Non posso intender piú, sono intenerito di sorte che mi dissolvo tutto in lacrime.

Forca. Le donne sono di natura tanto dolci che, per duro stia un uomo, l’inteneriscono e lo risolvono in lacrime.

Pirino. «... Quando sarò portata in chiesa morta, il che fia presto, venite a vedermi; e quando son partite le genti, baciatemi e non abbiate a schivo e in orrore quel corpo ch’è stato albergo d’un’anima vostra divota. Ponetemi le mani al petto, che troverete certe coselline d’oro, parte donatemi da voi e parte mie, segnali infelici per trovar il mio misero padre: vi priego a ripigliarvele e tenerle appresso di voi, accioché vi rinfreschino la memoria de’ nostri amori. Vi chiedo combiato per questa, ché moro senza vedervi: se vi avessi fatto qualche dispetto, perdonatemi, ché non lo feci mai per propria volontá, ma per pietá che avea della vostra vita e per moderar le vostre passioni, quando scorgeva ch’erano in voi nel maggior colmo; e pregate Iddio per me, ché, avendo tanto patito nella vita, mi dia pace in Cielo doppo la morte». O occhi miei, voi sète di pietra, poiché parole cosí miserabili non ponno cavar da voi vivi fonti di lacrime. Ahi, che moro per non poter morire! O morte, tu vinci tutte le cose e non puoi vincer me! Senza ragione ti chiamano amara, poiché per te si finisce ogni amaritudine. Io sto in vita assai piú amara della morte. Ahi, ruffian rustico, incolto, nemico delle cose belle, hai fatto un gran furto al mondo, celando le sue bellezze. E come resterá il mondo senza lei? Dunque morrá di fame chi potrá dar pastura a mille occhi affamati della sua vista? Sta dunque prigione la vindice della mia libertá e che può carcerar mill’anime con la sua bellezza? tu serrata in tenebre, di cui gli occhi luceno piú d’ogni sole? e dove tu non sei, ivi son oscurissime tenebre? Morrá Melitea, e io resterò vivo? Tu per non essere d’altri hai voluto piú tosto esser della morte; e io che son cagion della tua morte voglio restar in vita? io restar in vita, per la cui vita tu sei morta? orsú, convien morire, e morrò. Ma dove sono? Forca, dove sei? cosí ti dogli delle miserie mie?

Forca. Taci, la casa di Mangone apre la gola e lo vomita fuori.

Pirino. Un cibo di cosí cattiva digestione non può digerirlo.

Forca. Nascondiamoci e ascoltiamo, che da’ suoi maneggi ne caveremo principio di qualche garbuglio: ogni suo trattamento ne potrebbe giovare.

SCENA II.

Mangone ruffiano, Filace servo, Pirino, Forca.

Mangone. Filace, olá, non odi? cala qua giú presto.

Filace. Eccomi.

Mangone. Ho inteso che da Ragugia sia venuta una nave carica di schiavi: vo’ andare infino al molo per veder se vi sia cosa da vendere o barattare. Tu resta alla guardia de’ schiavi; ché levandogli gli occhi da sovra, chi nasconde, chi rubba, chi s’empie il ventre e chi machina di fuggire.

Filace. Andate sicuro, ché non mi smenticherò del mio ufficio.

Mangone. Se venisse quel di Calabria per la Gobba, digli che non ne chiedo meno di dugento ducati.

Filace. Voi dovreste pagar chi ve la togliesse di casa: ella è brutta di volto e bruttissima della persona, col mento fitto nel petto, con le reni inarcate, con le groppe uscite fuori, che par che d’ora in ora aspetti la soma.

Mangone. Non mi mancherá il mio prezzo: conosco l’umore. Quando il martello di amor lavora, batte e cava piú scudi d’ogni martello.

Filace. Che dirò a quel genovese della Macrina?

Mangone. Daglila per quel prezzo che vuole: mangia per diece e sta piú magra d’una gatta che mangia lucertole. Ogniun che la vede cosí asciutta stima che in casa mia non si mangi se non biscotto e vi si digiunino tutte le vigilie. Mi ha fatto spendere piú che non vale, per darle tartarughe boglite, suppe la mattina e vuova fresche la sera, quando va a dormire, per ingrassarla; e se la poni nuda incontro al lume, traspare come una lanterna, che se le ponno annoverar l’ossa dentro. Son risoluto farle un buco sotto le reni fra cuoio e pelle e farla gonfiar con un mantice, come si fa a’ buoi vecchi per fargli parer grassi, quando si portano a vendere.

Filace. Che faremo di Demonica?

Mangone. Perché è tanto leggiera che con quattro carezzine si lascia volgere come l’uom vòle, lasciamola per quei di bassa mano, per dir che abbiamo una bottega generale ove son mercanzie d’ogni sorte. Io non arei pensato mai che il dottore, essendo vecchio, avesse pagato cinquecento ducati per Melitea: conobbi che l’amava non come quei ch’hanno cervello, ma come quei che ne son privi.

Filace. I legni vecchi ardono piú volentieri e senza fumo.

Pirino. (Ascolta, Forca).

Forca. (Ascolto).

Mangone. Sia benedetto Iddio, ché son uscito da quel fastidio: mi facea spender un tesoro per comprar muschio, zibetto e profumi. Tutta è ricci e belletti e abbigliamenti e attillature, e tutta cerimonie, però cosí amata da quel napolitano che non è altro che fumo, schiuma, neglia e vento: vivono di nebbia e si pascono di fumo, e chi se impaccia con loro si trova con le mani piene d’aria.

Filace. Se venisse Forca o Pirino, che dirogli?

Pirino. (Forca, ascolta bene).

Forca. (Il vostro dir: «ascolta», non mi fa ascoltar bene: tacete voi e ascoltate).

Mangone. Guardatevi da loro come dalle serpi! Quando entrano nella strada, non gli levar gli occhi da dosso: se caminano e tu camina, se si fermano e tu ti ferma. Volgi gli occhi dove si volgono, e mira dove mirano: se s’accostano alla casa, sgombra, fuggi, chiudi le porte, serra le fenestre, puntella dietro, tura i buchi, sbalestra gli occhi per ogni cantone, poni tutti gli occhi della casa in agguato: ché di niuno ho tanta paura quanto di loro. Conosco che ne sta innamorato e non ha danari; e non potendola avere con legittimi modi, ordisce furbarie, tenta ogni via, ardisce ogni impresa, non teme rischio o periglio, sta esso in travagli e dá travaglio agli altri: però sta’ in cervello, ché per ogni scappata te la rapisce. Ha quel suo Forca che, se ben spende l’autoritá sua per quel che vale, prosume saper piú di tutti i tristi del mondo.

Forca. (Fa’ quanto sai, ché ti ingannerò).

Mangone. In somma, guárdati, perché ho molti inimici.

Forca. (Perché sei solo amico di te stesso).

Filace. Morendo smorberá il mondo.

Mangone. Però vive, che l’inferno l’abborrisce. Ma faccia quanto può, differirla può ben, ma non fuggir la forca che gli sta apparecchiata.

Forca. (Ed a te il fuoco).

Mangone. O come campeggiarebbe bene una forca in mezo due forche!

Forca. (E tu appresso me, che sei un ladro).

Mangone. Se venisse alcuna vecchia con qualche scusa, mandala subito via: ché fa piú una ruffiana in una ora, ch’un innamorato in cento anni.

Filace. Riposatevi nella mia diligenza.

Mangone. Io vo al molo, al raguseo: entra e sèrrati dietro.

Filace. Entro e mi serro dietro.

Forca. (Andiamcene ancor noi).

SCENA III.

Dottore, Mangone.

Dottore. M’hai tolto la fatica di venire a casa tua. Io non so perché non m’abbi mandata Melitea, se non lo fai ché cosí straziandomi, me la facci ricever piú caramente.

Mangone. Certo non per mancamento di voluntá o di diligenza; se non che, ordinandole che si ponesse in ordine per venir a trovarvi, sovrapresa da un strano accidente, cascò morta; e se non che m’accorsi che sotto le vesti cosí pian piano le palpitava il cuore, io la mandavo a sepelire.

Dottore. L’altro giorno la viddi bellissima.

Mangone. Se la vedeste adesso, non la riconoscereste, cosí son gli occhi scoloriti e le labra smorte e sparito il fior delle guancie. Io son furbo e conosco al naso le sue infirmitá. Ella sta martellata di Pirino; e quando intese ch’era stata compra da voi, trafitta dalla disperazione, le venne quello accidente. La sua infirmitá è piú finta che vera: vorrebbe esser venduta a suo gusto, ma s’inganna, ché io uso ostinazione con gli ostinati, e con ostinata perfidia vincerò la sua perfidia. Son tre giorni che non le do da mangiare; e se non si risolve di far a mio modo, io perderò i cinquecento ducati, voi l’innamorata ed ella la vita.

Dottore. Dio me ne guardi; vorrei piú tosto perder quante robbe ho al mondo! Ma Pirino che t’offerisce?

Mangone. Pirino è un giovane attillato, pulito, che non ha che fare se non l’amor con le fenestre, non ha altro in bocca che «occhi», «vita», «speranza», «spirito» e «anima»; e pensa con le sue levate di barretta, inchini e parole profumate tormela di mano; ma erra, ch’io vo’ danari, danari.

Dottore. Perché Melitea ama piú tosto costui che me?

Mangone. Non altro ch’una maladetta usanza delle donne, che quando sono pregate, ancorché se ne morissero di voglia, se ne stanno in contegno e ci vogliono straziare. Ma le bastonate alfin le fanno far quello per forza, che di sua volontá non vogliono fare.

Dottore. Essendo in mio potere, non volendomi per amante, mi ará per padrone. Ma toltone che sia un poco di tempo, del resto non sono io meglio di lui in tutti i conti?

Mangone. Dite il vero.

Dottore. Che ha un giovane piú di me? In quel fatto proprio, in cambio di far carezze alle povere donne, tutte le dimenano e le strappazzano senza rispetto; noi vecchi abbiam un natural piú rispettoso, sempre le comparemo innanzi col capo chino e le trattiamo con piú creanza. A’ giovani quel fatto è fin de’ loro amori, e spento in lor quel disordinato appetito, è spento l’amor loro; a noi per contrario, non potendo saziarcene, l’amore è sempre nuovo. Ma io vo’ scoprirti il mio pensiero, Mangone mio. So ben che in questa etá non devrei cader in simil colpa, ma con fortezza e costanza resistere alle passioni, e devria far un guadagno della mia vergogna, tacere e soffrire: ché se è cattivo il fare, è peggio il palesarlo; ma lo fo non per fin di diletto, ma per desiderio di successione. Quando morí, mia moglie Brianna mi lasciò una fanciulla chiamata Alcesia; e volse la mia disgrazia che, fuggendosene la balia per certi rispetti, se la menò seco molti anni sono in Ragugia: mandai e non potei trarne nulla di costrutto, restai sola e infelice reliquia del mio legnaggio, del che son vissuto e vivo da disperato; e trovandomi da quarantamila ducati di facoltá, non avendo a chi lasciarla, mi par assai duro... .

Mangone. Lasciatela a me, che ve ne arò assai obligo.

Dottore. ... Tanto piú che ho una dozzina di parenti larghi che mi fanno il córso adosso degli anni che vivo, e pregano Iddio che muoia presto, per aversegli a godere. La tua Melitea mi sta molto a cuore: a lei sono drizzati tutti i miei pensieri, e sento tirarmi da una viva forza ad amarla. Poi è tenerina, poco fa levata dalla balia, come un capretto di latte; assai, per me che son vecchio, con lei mi pareria ringiovenire; e se piacesse a Dio che ne avesse un figlio, me la torrei per moglie e coprirei il fallo con nome di matrimonio; e sarebbe la sua, la mia e la tua ventura insiememente: ch’io sarei sodisfatto, ella ricca e tu padron della mia casa, ché nello avanzo della mia vita sarebbe fra noi commune la stanza, le facoltá e le mie cose piú care. Però non vorrei che fussi cosí austero con lei; vorrei che il suo carcere fusse tanto che bastasse a farmi amare, non a tormentarla. E come potresti tu batter quel corpo, che non battessi il mio cuore? però vo’ che le porti alcun presentuccio da mia parte, ché i doni sono di valore inestimabile a farsi amare dalle donne.

Mangone. Ella è vivanda riserbata per la tua bocca.

Dottore. Mangone, sai che vorrei dire?

Mangone. T’intendo: che Pirino non mi faccia qualche burla. Ti rispondo che le burle sono bene ad inventarle e ordinarle, ma a far che riescano, eh ci vuol altro che parole!

Dottore. Intendo che ha un servo molto astuto e sottile...

Mangone. Come quello uccello che porta il grano al molino.

Dottore. ... «e che non ha tanti peli in testa, quante lingue che gridano:» forche e capestri; però prego Iddio, ché tosto gli succeda.

Mangone. Non bisogna pregarne Iddio, ché a questo fine ce lo condurranno le sue buone opre: ha mal vissuto e mal morirá; e il padron non è meglio di lui, servo degno di tal padrone.

Dottore. Mi vo’ partire; il presto ti raccommando.

Mangone. Ed io vo’ al molo a trovare il raguseo.

SCENA IV.

Pirino, Forca.

Pirino. Comporterai, o Forca, che tu e io siamo scherniti e vilipesi da un furfante ruffianello? Diménati, risvégliati, dimostra che sei vivo e non dormi: ove è l’ingegno, ove sono le tue grandezze, ove i tuoi gran fatti che fur tutti prigionieri delle tue astuzie?

Forca. Molte girandole mi vanno per la testa: mi stillo il cervello e ordisco gran matasse, ma non mi sono ancor rissoluto ad alcun partito.

Pirino. Aiutami.

Forca. Mi uccidete.

Pirino. Il breve termine che Mangone ha dato a Melitea di gir al dottore, è il termine della mia vita: intanto io sto nel mezzo delle fiamme ardenti. Rispondemi.

Forca. Io sono cosí internato ne’ pensieri, che sono fuora di me: il desidero piú di voi per vendicarmi di quel manigoldo. Penso e ripenso, e tuttavia non mi riesce nel cervello. Ma quel non aver danari mi fa venir il sudor della morte.

Pirino. Se avessimo danari, non sarebbono necessari gli inganni.

Forca. Io non dico cinquecento scudi, ma alcuni dinari maneschi per spendere e intricare. Ditemi, sète voi deliberato di averla?

Pirino. Sí.

Forca. Per ogni via?

Pirino. Sí.

Forca. E non lasciar l’impresa?

Pirino. Lascieranno piú tosto i cieli di muoversi, il sol di splendere, mancherá l’aria, si risolverá il mondo, che possa lasciar Melitea. L’amor nostro è invecchiato, non può scordarsi: ella è cosí tenacemente scolpita nel mio core, che tanto sarebbe levarmela dal core quanto svellerne l’istesso core.

Forca. Orsú, poiché il vostro cuore è fondato piú tosto in maturo consiglio che in leggiera volontá, che come fusse indebolita si risolverebbe in nulla, mano a’ fatti, animo da imperadore: risoluzione, animo e danari fanno tutte l’imprese e sono il nervo e l’anima de’ negozi.

Pirino. Se mai verrò al frutto dell’amor mio, beato te.

Forca. Almeno ne guadagnasse le scorze di quel frutto che sarebbe una veste.

Pirino. Altro che veste arai. Una buona somma di danari.

Forca. Pur che non si risolva in qualche buona somma di bastonate. Ma ditemi, come state in credito con li banchi?

Pirino. Benissimo: tutti credono che non ho un quatrino.

Forca. Bisogna dunque farvi una poliza falsa.

Pirino. Troppo pericolo: ci va la vita.

Forca. Non si può aver il mèle senza le mosche, né si ponno far le grandi imprese senza pericoli; e quando si vuol far un gran fatto, non bisogna nominar pericoli, perché l’animo si raffredda e si fa pauroso. Bisogna por mano a cambi, interessi, scrocchi, usure e rubberie.

Pirino. Chi me li dará, se non è sensal ne’ banchi che non m’abbia in lista; e quando mi sentono nominare: «O che ditta, o che mercadante da tor ad occhi chiusi!». Poi, non sai che è fatta una pragmatica, che non si dia robba in credito a figli di famiglia?

Forca. Dunque questa pragmatica vieta ancora a me, che non t’abbi credito di quella somma di danari che m’hai promessa. Cerchiamola in presto da alcun amico.

Pirino. Cercali tu da parte mia.

Forca. Se non han credito a voi, come l’aranno a me?

Pirino. Come cerchi danari in presto ad un amico, subito ti risponde che non gli ha e ti diventa inimico.

Forca. Pigliamoli ad usura.

Pirino. Non mi piace.

Forca. A chi vuol dormir con l’innamorata, bisogna trovar la pecunia, padrone.

Pirino. Non è giorno che non discorra col cervello per tutti i banchi del mondo. O che cosa infelice è il non aver danari!

Forca. Massime a voi, povero di danari e ricco d’appetito.

Pirino. Non so che fare.

Forca. Anzi bisogna disfare.

Pirino. Chi vogliamo disfare?

Forca. Tuo padre. Avemo il ben in casa e lo vogliamo cercare altrove.

Pirino. Lo caricheremo di troppo peso di dolore.

Forca. Lo scaricheremo di peso di argento.

Pirino. Non sará possibil mai, perché sta tanto sospetto di noi, che, nol facendo stima che lo facciamo; poi se lo saprá, che fia di noi?

Forca. Ti fo la sicurtá con le mie spalle.

Pirino. Tu sai che in casa non mancano legne, e quando ce ne fusse carestia, abbiamo la villa vicina.

Forca. Ho buone spalle per la villa e per la casa: tra le bastonate e le mie spalle ci è una antica amicizia, un invecchiato parentado: ci ho fatto il callo, non mi son cose nuove, mi son fatte naturali.

Pirino. Come faremo che non se ne accorga?

Forca. Aprimogli il scrittorio con il grimaldello; poi, quando gli aremo gli li restituiremo.

Pirino. Buon’arte m’insegni.

Forca. Non è usanza di servi forse?

Pirino. E quando lo saprá, che faremo?

Forca. Che so io? qualche mala cosa.

Pirino. E questo è l’amor e la riverenza paterna?

Forca. E voi coricatevi la notte con questa riverenza, abbracciatevela e baciatela, e lasciate star Melitea. Questo modo è precipitoso, questo non è buono; qua ci va la conscienza, qui la riverenza: voi quello che potete, non volete, e quello che non potete, volete. Ne avete poca voglia. A dio.

Pirino. Oh, come sei colerico! stammi allegro, ché ad un ammalato è gran refrigerio aver un medico allegro.

Forca. Voi sète un ammalato troppo pusillanimo e disobediente; non volete sorbir le medicine.

Pirino. Queste tue medicine son troppo violenti per lo pericolo della vita, troppo nauseabonde per l’infamia e troppo amare per l’anima: e se ben la polvere del delitto mi accieca l’occhio della ragione, pur non son tanto cieco che non conoschi l’errore.

Forca. Perdo il tempo, mi vo’ partire.

Pirino. Aspetta, fermati un poco. Ahi, traditora fortuna, a che mi conduci? Eccomi in una grandissima lite tra il padre e l’amore: il padre mi cerca la riverenza, amor non ascolta ragioni, è giudice e parte, mi spaventa con le saette e col fuoco e con la morte. Padre mio, vorrei ubbidirvi, amor non lascia dispor di me: o anima mia, bilanciata da tanti mali e agitata da tante onde di tempeste, come determinerai questa lite? Padre mio caro, abbi pazienza per questa volta: amor che vince ogni cosa, vince ancor me: perda il tutto e acquisti Melitea. Forca, ti do in mano il freno d’ogni mia volontá.

Forca. Bisogna far un inganno a vostro padre.

Pirino. Se non basta a mio padre, fallo a mia madre, fallo a me ancora.

Forca. Conosco che sète un di quei che bisogna fargli ben per forza: bisogna aver animo per me e per voi. Vi vo’ far conoscere che vaglio tanto oro quanto peso: son rissoluto d’ingannarlo.

Pirino. Come? dove? dimmi.

Forca. Non so il come né il dove: levo di qua, pono di lá; sconcia di qua, poni di lá, andrò tanto girando col cervello, che qualche cosa sará. Ma ecco tuo padre, conosco negli occhi il fuoco della còlera: scòstati da me, che non ci veggia insieme.

Pirino. Starò a veder quel che fará costui: alcuna solenne astuzia gli uscirá di mano.

SCENA V.

Filigenio vecchio, Forca, Pirino.

Filigenio. Fu giudicata sempre la buona educazione il fonte e l’origine degli abiti virtuosi e il fondamento delle umane felicitá, e tanto necessaria al buon vivere quanto l’anima al vivere. Perché, introducendosi a poco a poco ne’ teneri intelletti il zelo della santa religione, con quella si viene a dar l’imperio alla ragione, freno agli affetti e termine alla volontá.

Forca. (Oh, gran pedagogo sarebbe stato il mio padrone!).

Filigenio. Cosí, al contrario, la cattiva educazione è la fucina dove si fabricano gli strumenti della ruina della misera gioventú; perché, mancando per l’immatura etá la virtú moderatrice dei temerari desidèri della strabocchevol concupiscenza, corre sfrenata ad ogni precipitoso consiglio, e le buone qualitá della natura vengono atterrate e tiranneggiate da’ vizi e difetti del tempo. Ecco l’essempio in Pirino mio figliuolo: ché bisognando per alcuni miei affari partirmi di Napoli, le mie occupazioni fur cagione del suo ozio, restando in tutela di un servo ribaldissimo, furfante della cappellina, capo de tutti i furbi del mondo.

Forca. (Giá è entrato nelle mie lodi, racconta il catalogo delle mie virtú).

Filigenio. Ma a che mi affatico a dir tanto? basta che è servo. Cosí tutte quelle virtú e buone qualitá che gli erano state largamente dotate dalla natura, da cosí cattiva educazione sono state spente e atterrate. Onde poco stima Dio, manco il padre, sprezza ogni buon ricordo; e fattosi idol quel suo servo, corre precipitoso dietro a quello che gli vien additato da costui. Onde appena sono in piazza, che le genti mi sono adosso, dicendomi che Pirino sta innamorato di una puttana; e che quelle ricchezze che con tanto risparmio e lunghe fatiche sono state raunate in casa mia, vanno in essilio in casa di un ruffiano e si consumano in un viver lussurioso; e che allettato dagli artefici di costei, cerca rubbarmi cinquecento ducati per riscattarla.

Forca. (Fa’ e di’ quanto sai, ché con i tuoi dinari la riscattaremo).

Filigenio. E se non fusse che veggio persone di maggior etá e condizione, anzi di quei che governano al mondo, inviluppati in simili materie, mi dispererei; ma con l’essempio di persone cosí degne allevio gli affanni miei. Ma eccolo: Forca, Forca; mi son accorto di te ben, sí!

Forca. Vengo, padrone.

Filigenio. Come serpe all’incanto. Giá sleghi lo sacco delle bugie per vomitarmele adosso. Fa’ che a quanto ti dimando mi risponda subito, accioché non abbi tempo a pensare e colorir menzogne.

Forca. Se stimate che quanto dico sia bugia, a voi soverchio il dimandare, a me il rispondere.

Filigenio. Ben, che si fa?

Forca. Si sta in piedi, con la beretta in mano, aspettando se mi comandate alcuna cosa.

Filigenio. Dove è Pirino?

Forca. Stando qua, non posso saper dove sia.

Filigenio. Dove l’hai condotto?

Forca. Egli conduce me dietro a lui, perché li son servo.

Filigenio. Dove l’hai lasciato?

Forca. Egli ha lasciato me.

Filigenio. Parli cosí poco, come avessi a pagar la gabella delle parole. Furfante, furfante, ben sai che ci conosciamo insieme: se non mi dici il vero, farò che muti nome, e da Forca che sei diventerai un appiccato.

Forca. Se dicessi la bugia, voi lo conosceresti in aprir la bocca.

Filigenio. Quanto tempo è che mio figlio non ha visto la...?

Forca. La che?

Filigenio. Quella.

Forca. Chi quella?

Filigenio. Quella vostra...

Forca. Chi quella vostra?

Filigenio. Quella cosa vostra che voi sapete.

Forca. Ah, ah, ah: sí, sí.

Filigenio. Vedi pur che la conscienza accusatrice dell’animo tuo ti fa accertar il vero, ancorché non vogli?

Forca. La vede ogni ora, ogni momento.

Filigenio. Come ne sta innamorato?

Forca. Innamoratissimo.

Pirino. (Questo forfante par che discuopra i miei secreti).

Filigenio. E segue tuttavia la prattica?

Forca. La segue con tutto il suo studio.

Filigenio. Quando pensa lasciarla?

Forca. Quando lasciará la vita.

Filigenio. Come lo sai?

Forca. Ce l’ho inteso dir mille volte.

Filigenio. Tanto è ostinato?

Forca. Ostinatissimo.

Filigenio. Perché tu non lo togli da questo proposito?

Forca. Se non ubbidisce a voi, perché vuol ubbidir me?

Filigenio. Quando va a casa sua, che fa?

Forca. Gionto in casa sua, si butta sul letto supino, se la toglie in braccio e se la squinterna sul ventre e se l’accomoda innanzi: volta di qua, volta di lá, non la fa star mai ferma per tre o quattro ore, finché stracco non va tutto in acqua.

Pirino. (Oh, che ti cadano i denti e quella lingua traditora!).

Filigenio. E ti par questa buon’opra?

Forca. Buonissima, eccellentissima.

Filigenio. E tu sei quello che lo guidi e aiuti?

Forca. Io, quando lo vedo tiepido e disamorato, l’aguzzo l’appetito.

Filigenio. Talché tu sei il maestro.

Forca. Maestro io? signor no, è il maestro del Studio.

Filigenio. Che Studio? che signor no? Di che parli tu?

Forca. E voi di che parlate?

Filigenio. Io parlo della sua puttana.

Forca. Ah, io non pensava che voi parlaste di cose triste, ma della sua Legge; e tutto il giorno si trastulla con la sua libraria, la strapazza e se la tiene aperta innanzi.

Pirino. (O buon Forca, come l’hai ben salvata!).

Filigenio. Cosí mi burli, eh?

Forca. Io non burlo altrimente; rispondo alle vostre dimande.

Filigenio. O Dio, che avessi un bastone! ché avendo tu la pelle delle spalle piú indurita di quella degli asini, se ti do con le mani, offenderò piú me che te. O che unguento di cancheri! Traditorissimo, se non ti disponi a dirmi la veritá, proverai lo sdegno di un padron irato e schernito da te. Ti darò tante bòtte che amboduo restaremo stracchi, io di dar, tu di ricevere.

Forca. Dico il vero, a voi sta il creder quel che volete.

Filigenio. Non mi hai risposto a quello che ti dimandava. Vuoi tu negarmi che Pirino non stia innamorato di una puttana, chiamata Melitea, che l’ha in poter un ruffiano che ne chiede cinquecento ducati?

Forca. Signor no, signor sí, eh, padrone.

Filigenio. Che «signor sí», «signor no» cerchi in nasconder la veritá? ed è tanta la sua forza che a tuo dispetto ti muove la lingua a dirla.

Forca. Eh, padron mio.

Pirino. (Sta’ saldo, Forca, che il padron non ti scalza).

Filigenio. Che padrone? mi fai del balordo; che balbezzare è il tuo?

Forca. Io non so nulla; ma... .

Filigenio. Che ma?

Forca. Direi alcuna cosa, se stessi sicuro che egli non l’avessi a sapere.

Filigenio. T’impegno la fede mia che non sará per saperlo giamai.

Forca. Dubito che voi lo scoprirete un giorno, ed egli mi salterá adosso con un bastone; e non sapete che tremo in sentirlo nominare?

Filigenio. Non dubitar, dico, ché quando io non bastassi a difenderti, sarei uomo da farti franco e mandarti via.

Pirino. (Questa bestia mi fa entrare in suspetto).

Forca. So che lo risaprá, e le spalle ne patiranno la penitenza. Ma alfin voi sète il padrone, vo’ piú per voi che per lui.

Filigenio. Cosí mi par di ragione.

Forca. Quanto avete detto, tutto è vero: che sta innamorato di una cortegiana, detta Melitea, che sta in poter di un ruffiano che l’ha venduta ad un dottore per cinquecento ducati; e però ne arrabbia di dolore.

Filigenio. Dove pensa avergli?

Forca. Rubbargli a voi come meglio potrá.

Pirino. (Ecco che fa l’affratellarsi con i servidori: pensava aver un servo fidele e ho una spia secreta di mio padre).

Filigenio. Come volete rubbarmi, se sto in cervello e mi guardo piú di voi che di tutti i ladri del mondo?

Forca. È deliberato scassar lo scrittorio, se non lo può aprir col grimaldello.

Pirino. (Merito questo e peggio. Or non sapevo io che i maggiori inimici che abbiamo sono i servidori?).

Filigenio. Ma come mi accorgeva del fatto, come andava il fatto per voi?

Forca. V’attossicavamo.

Pirino. (O Dio, che ascolto? non posso contenermi, mi risolvo lasciar il rispetto da parte, passargli questa spada per i fianchi, e accadane quel che si voglia).

Filigenio. Al suo padre questo? ahi, figli iniqui! or non dovea cosí scelerato pensiero indurgli terrore?

Forca. Ma tutto ciò è nulla: ci è di peggio assai.

Filigenio. Che ci può esser peggio?

Forca. Quel dottore è un cervello bizaro, straordinario, ha molti bravi che lo seguono, per un pelo se la torrebbe col diavolo; ne sta geloso e ha deliberato farlo ammazzare e li tiene le spie sovra.

Pirino. (Non gli basta quanto ha detto: ci vuol aggionger del suo ancora).

Filigenio. Se ben per i continui inganni che m’ave usato costui, non gli devo prestar fede, pur la vita di un figlio importa molto. Forca, tu che conosci costoro e sai questi maneggi, ricorro a te, mi pongo nelle tue mani; vorrei che rimediassi, che non si procedesse piú oltre.

Forca. Non è cosa da ragionarsene in piazza: potrebbe egli sovragiongere e stimarebbe che il tutto fusse uscito da me, e non si potrebbe piú rimediare: vi mostrerò modo di salvarlo.

SCENA VI.

Pirino solo.

Pirino. Ah, Forca traditore, che tradimento m’hai tu fatto? farmi suspetto e reo appo mio padre! Ti arai voluto vendicare di quelle bastonate de quali poco anzi ti dolevi di me. Come arò animo di comparir piú mai dove il mio padre sia? manderò me stesso in essiglio. Perderò in uno istesso tempo il padre, la patria e l’innamorata, che è peggio assai che perder la propria vita. O come accetterei volentieri alcuna sorte di morte per liberarmi da vita cosí nemica. Uh, uh! Possa esser fatto in mille pezzi, se la scappi: vo’ morire, ma prima che muoia farò vendetta della cagion della mia morte. Mi tratterrò da qui intorno finché venghi, per passargli la spada mille volte per i fianchi.



Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.