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ATTO II.
SCENA I.
Panfago parasito, Pirino.
Panfago. Par che questa mattina nell’uscir di casa abbia cantato la civetta, cosí ogni cosa mi va a traverso. Vo al dottore per desinar con lui, e mi dice che sta colerico, perché la sua innamorata ama altri e sta inferma. Vo in casa di un altro, e trovo la casa piena di pianto, ché vi si facea il mortorio. Fui forzato andare ad un certo che avea abbandonato, perché non avea piú succo — perché noi siamo come i pidocchi: quando non avemo piú sangue da succhiare, l’abbandoniamo; — e disse che mangiava altrove. Alla taverna non mi posso accostare, che devo all’oste, e mi dice che ave cavato l’essecutorio, talché sto fra duo capitali inimici, la fame e l’oste: all’una non posso rimediare, all’altro non ho che dare. Pur, di lontano, ho fatto l’amor con una porchetta grassa che si rostiva; si burlava di me, perché mi mirava con certi occhi stralunati e con la lingua pendente fuori tra’ denti: ci ho lasciati gli occhi sopra, e mi ha cavato il cuor di martello, la traditora. Vommene ora a trovar Pirino; e se la speranza mi fallisce, arrabbiarò di fame.
Pirino. Misero me, qual si trova pena maggiore, che paragonandola alla mia non sia una gioia! non è misero stato che non abbia qualche speranza; sola la mia è priva d’ogni futura allegrezza.
Panfago. (Ecco a tempo chi desiava). Buon augurio, Pirino caro, amato e riverito da tutte le belle donne del mondo.
Pirino. Non merito esser burlato da te.
Panfago. Ben sai che son piú tosto avaro delle tue lodi, che prodigo in adularti. Che si fa?
Pirino. Se sta combattendo con la rabbia e con l’ira; e ne ho tanta nel petto, che bastarebbe a riempirne tutte le fère del mondo.
Panfago. Che colpa ci ho io? Volete voi con la vostra rabbia uccidere voi e me in un colpo? Se col mostrarti rabbioso e iracondo pensi che io non abbia a desinar teco, l’erri in grosso. Son gionto al porto: scacciami quanto vuoi, che la tempesta della fame mi vi riconduce.
Pirino. Troppo pungente e pien di spine è il mio cibo per ora.
Panfago. Verrò a mangiar con voi con denti calzati di buoni stivali.
Pirino. Mi pasco di veleno di vipre e di serpenti.
Panfago. Verrò con la pietra di san Paolo, o mi farò incantare da un ciurmatore. Mi negarai almeno due bicchieretti di quel tuo vino garbo?
Pirino. E che non è garbo quel che bevo, Iddio tei dica per me: la mia bevanda è di amarissime lacrime.
Panfago. Di lacrima dolcissima di Somma? Vorrei che sempre si piangesse in casa tua, e non ne mancassero mai le bótte piene di quella lacrima: ché quel color di sangue mi fa rallegrar tutto il sangue; fresco e brillante, mi fa brillare il core; ponendolo in bocca, quel suavissimo odore mi conforta il naso e il cervello e il gusto. E quando lo sento calar nel petto, porta seco un mar di piacere e un foco tacito che tutto mi riscalda. Non posso saper io la cagion della tua rabbia? sbuffi, e mordi l’ugne: hai meco alcuna cosa?
Pirino. (Non posso levarmi da dosso questa mosca canina). Se tu sapessi da quanta angoscia e tribulazione è afflitta l’anima mia, n’avessi compassione; però di giá vattene, ch’io me la torrei con le mosche. Ma ecco quel traditore!SCENA II.
Forca, Pirino, Panfago.
Forca. Fermate, padrone: che volete fare?
Pirino. Romperti la testa.
Forca. Romper la testa a chi se la rompe ogni ora per pensar trappole per vostro serviggio? fermatevi, vi dico.
Pirino. Non mi fermarò, se prima non ti arò cavato il core.
Forca. Volete cavar il cuore a chi ha cavato i danari dal cuor di vostro padre? Cancaro, io l’ho scappata bene, aiutami tu, Panfago!
Panfago. Or ora torno.
Pirino. Assassin cane, ti voglio aprire il petto!
Forca. Questo è il premio di chi ave aperto la cassa e la borsa di vostro padre, e or ve le porto?
Pirino. Che borsa? che ci è ivi dentro?
Forca. Cento scudi che son il cuor di vostro padre.
Pirino. Come ce l’hai cavati dalle mani?
Forca. Basta l’avemo, a che bisogna saper il modo?
Pirino. Che ave a far cavargli i dinari dalle mani e scoprirgli i miei secreti? non potevi dargli ad intendere alcuna altra cosa?
Forca. No, che fusse verisimile e credibile come quella, perché giá mezza la credeva, e v’era l’amor suo; e che sia vero, la riuscita ave approvato il mio consiglio.
Pirino. Che gli hai dato ad intendere?
Forca. Che per salvar voi dal pericolo del dottore bisognava pagargli cento scudi che li mancavano per lo riscatto di Melitea; e la menava seco fuor di Napoli e, come era lontana dagli occhi vostri, ve s’allontanava dal core. Se l’ha bevuta, datomi i danari e restituito voi nella sua grazia.
Pirino. Se è cosí, ho il torto.
Forca. Mille torti, non ch’uno.
Pirino. Perdonami.
Forca. Canchero! pormi a pericolo d’una perpetua galea e prepararmi un seminario continuo di buone bastonate: per sodisfare a’ vostri capricci, cado in pericolo maggiore di essere ammazzato dalla vostra furia.
Pirino. Perdonami, per amor di Dio.
Forca. Meglio sará per me che non m’impacci con i vostri amori. Poco anzi mi promettesti con giuramenti non volermi piú maltrattare, e or mi volevi uccidere: questo è altro che bastonate: sempre sète l’istesso e ogni giorno siamo al medesimo. Sará meglio per me tornare i danari al padrone.
Pirino. Perché farmi stentare a saperlo? non me lo potevi dir subito? Perdonami, fratello, fratellino mio dolce.
Forca. No, no: non mi ci correte piú: tornerò i danari a vostro padre, dirò che ho voluto scherzar seco.
Pirino. Forca mio, m’ingenocchiarò a’ tuoi piedi.
Forca. No, no: non ci è ordine piú.
Pirino. Forca, non afforcar ancor me; conosco l’errore: s’un cuor pentito merita la perdonanza, dammela. Si placa Iddio, pentendosi l’uomo; non vuoi tu placarti?
Forca. Non è cosa che piú mitighi l’animo d’un offeso, che l’umiltá del nemico; però non solo vo’ perdonarvi, ma procurar la sodisfazion di chi mi ha offeso. Vo’ esser di animo piú generoso verso voi, che voi non sète con me.
Pirino. Orsú, poiché avemo i danari, che faremo?
Forca. Dove è Panfago? ché abbiamo bisogno di lui.
Pirino. È scampato via. Ma non bisogna trattar con lui, perché è un ciarlone; ed è peccato a non esser trombetta.
Forca. È a nostro proposito, perché è astutissimo.
Pirino. Non sa far altro che spirar i fatti nostri e riferirgli al dottore.
Forca. Serve ancora a spirare i fatti del dottore e riferirgli a noi.
Pirino. Ha detto molti nostri secreti a lui.
Forca. Ha detto molti de’ suoi secreti a noi.
Pirino. È piú tristo con noi che con lui.
Forca. Ce ne guarderemo. Ma io con quattro palmi di salciccia — comprati il giovedí mattina prima ch’esca il sole, e pagandole al bottegaro quanto ne chiede, e arrostite a fuoco di legne di lauro senza parlare e con certe polveri di sopra, — ne fo un capestro, ce lo pongo in gola, e non potrá piú parlare.
Pirino. Questo secreto l’ho provato molte volte e non mi è riuscito.
Forca. Perché non sai tutte le cerimonie che vi si convengono; overo farò esperienza di una certa onzione.
Pirino. Che onzione?
Forca. Medolle di ossa di bue cotte in certi pasticci, grasso di caponi in suppa, e la domenica mattina a digiuno li ongerò la gola.
Pirino. Questi grassi lo faranno vomitar piú tosto quanto saprá di noi.
Forca. Anzi è contro il vomito, e l’ho esperimentata con voi piú volte.
Pirino. Fa’ come vuoi, non ti vo’ contrariare in questo; dimmi, che hai disegnato di fare?
Forca. Ascolta: io so far una polvere di carboni che, meschiata con olio e ongendone la faccia, la fará nera come un schiavo, d’un nero assai naturale.
Pirino. A che servono i carboni?
Forca. In simili carboni sta tutto l’inganno e la furberia: questi trarranno i danari di man di vostro padre, inganneranno Mangone e vi faranno posseder Melitea. Questa polvere la buona memoria di mio padre usava spesso ne’ suoi ladroneggi, con questa scappò mille volte da prigionia, dalla galea e dalla forca — ché era la piú reverenda persona del mondo; — io che camino per le paterne vestigia, imitator della sua virtú, me ne sono servito in molti casi importantissimi.
Pirino. Che abbiamo a far con la polvere?
Forca. Con quella polvere ti ungerò le mani e la faccia, che parerai un schiavo naturalissimo.
Pirino. Poi?
Forca. Poi pregaremo Alessandro vostro amicissimo, che preghi vostro padre, che compri da Mangone un schiavo di buon garbo, giovane di diciassette overo di diciotto anni, dell’etá tua e di Melitea che sète poco differenti di etá e di persona; e che gli ne dia quanto ne vuole per un suo disegno molto importante, e gli dia i cento scudi per caparra.
Pirino. Appresso?
Forca. Appresso vestiremo Panfago, che non è conosciuto da Mangone, da raguseo — perché avemo inteso da lui, questa mattina, che voleva andar al molo a comprar schiavi, — ché dica esser fattor del raguseo e gli venda voi per schiavo, per quello prezzo ch’egli vuole, perché vi meni a casa. Esso, perché spera guadagnarvi con Filigenio vostro padre, da cui n’è stato pregato, vi comprará sicuramente. Come sarete dentro, arete agio da trattar con Melitea: e portando con voi un cartoccino della medesima polvere, tingerete la faccia e le mani a Melitea e la vestirete delle vostre vesti; e voi lavandovi mezanamente le mani e la faccia, vi vestirete delle sue e vi chiuderete in camera.
Pirino. Che n’averrá per questo?
Forca. Verrá vostro padre per lo schiavo. Mangone, pensandosi vendere lo schiavo che ha comprato, gli venderá Melitea; e cosí vostro padre se la menará a casa. Ecco fin ora Melitea in casa vostra.
Pirino. Giá comincio ad intendere. O bello inganno! e il meglio che abbia, è che ha del verisimile e del naturale; e chi non ci restarebbe ingannato? Ma come caverai me di casa sua?
Forca. Se avete pazienza di ascoltare, lo saprete. Vo’ che quando il parasito vende lo schiavo a Mangone, gli prometta mandar un presente di cose della nave per far amicizia seco e tener ragione insieme, accioché, sempre che verrá in Napoli, gli riempia la casa di schiavi e poi partire il guadagno. Trovaremo quattro fachini giovanetti del vostro tempo, li vestiremo da bratti da navi, mezo nudi e mezo impeciati, neri, con un cesto in spalla, carichi di provature e di bariletti di vino o malvagia e cose simili; e quando verran dentro, e voi starete su l’aviso e spogliarete uno di quelli e vi vestirete de’ suoi panni e vestirete colui de’ panni di Melitea e scamparete fuora con gli altri, e il parasito e i bratti vi aiuteranno a questo. Ecco amboduo sbalzati fuora della casa del ruffiano e condotti in casa vostra: cosí il giorno l’arete nera in casa, e la notte bianca in letto, lavandole la faccia.
Pirino. Ogni cosa va bene, eccetto che come Mangone troverá quello in casa vestito de’ panni di Melitea, lo porrá in mano della giustizia, e la corda li fará confessare il furto usato da noi.
Forca. A questo ci penseremo poi; e quello che non riesce per una via, il faremo riuscir per un’altra. Ma eccola senza lambiccarmi molto il cervello. Una bugia tra l’altre. Alessandro vostro amico ha quel servo sbarbato che conduce le legna dalla villa a casa, che è sordo, muto e un pezzo di pazzo, né molto dissimile dalle vostre persone, si lascia spogliare, vestire e tingere a nostro modo; e se Mangone li domandará, non saprá che rispondergli; e perché è molto gagliardo, se sará stuzzicato, dará mazzate da cieco.
Pirino. L’inganno è pensato con tanta arte e ingegno, che come avanza tutti gli altri che sono stati per addietro fatti, cosí per l’innanzi non potrá ritrovarsene un altro simile.
Forca. Avertite che, quando la trappola è ben inventata e consertata, se vi s’usa diligenza in esseguirsi, ha buona riuscita; ma esseguita malamente, non può aver se non pessimo fine.
Pirino. Ella è tanto bene imaginata che, a dispetto di tutte le negligenze e intoppi della fortuna, ará ottimo fine; ma ancorché fusse per succederne qualche pericolo, animo grande, e succedane quel che si vuole: vada la robba, la vita e l’onore, per non dir l’anima, pur ch’abbia Melitea. Né meno sará l’allegrezza dell’acquisto di lei, che della beffa fatta a Mangone.
Forca. Or poiché cosí rissoluto l’abbiamo, pensiamo a’ mezi.
Pirino. Poiché hai mostrato tanto ingegno in questa fizione, di’ ancora i mezi de’ quali abbiamo a servirci.
Forca. Dove troveremo noi Panfago?SCENA III.
Panfago, Forca, Pirino.
Panfago. Come stai, Forca mio?
Forca. Per appicarti.
Panfago. Perché tanto male?
Forca. Perché non m’aiutavi.
Panfago. Son ito per aiutarti.
Forca. Con quel veloce córso?
Panfago. Con quel córso per darti soccorso.
Forca. Nel bisogno fuggi; dopo il pericolo vieni ad aiutarmi.
Panfago. Correa per tor armi e aiuto.
Forca. Non potevi senz’armi menar le mani?
Panfago. Non so menar le mani se non sovra i piatti.
Forca. Giurerei che hai bisogno di fregarti i polsi e le tempie di teriaca per i vermi per la paura.
Panfago. N’arei bisogno, ma non per la paura.
Forca. E di che cosa?
Panfago. Crepo della traditora fame.
Forca. Dio ti ci mantegna.
Pirino. Panfago, abbiamo bisogno di te; e se ci aiuti, te ne aremo obligo.
Panfago. Per acquistarmi la vostra grazia andrei nel fuoco.
Pirino. Se, non avendomi mai fatto servigio, la casa mia t’è stata sempre aperta, pensa che sará se ricevo da te cosí segnalato servigio.
Panfago. Ditemi, in che volete adoprarmi?
Pirino. Ma avèrti che bisogna che tu sia secreto: ci va la vita!
Panfago. Ce ne andassero mille!
Pirino. Però ti priego non farne motto ad alcuno.
Panfago. Mi fate torto a pregarmi di quello che è mio debito di fare.
Forca. Lo ci dirá, padrone.
Panfago. Perché cosí faresti tu.
Pirino. Mi vo’ fidar della tua fede, che non manchi di fede a chi si fida nella tua fede.
Panfago. Eccovi la mia fede di osservarvi fedelmente la mia fede.
Pirino. Fa’ che non t’esca di bocca.
Panfago. Prego Iddio che non ci entri né pane né vino, mi cadano i denti, e il palato non gusti piú sapor de’ cibi, ma diventi come quello degli infermi — che ogni cosa lor pare amara, — né la lingua assaggi e rivolga boccon per la bocca, se di ciò rivelerò mai cosa alcuna.
Forca. Per conoscer se sarai buono a quello che vogliamo servirci di te, vo’ prima essaminarti un poco.
Panfago. Ché! sei tu mio giudice?
Forca. Dimmi: come sei destro?
Panfago. Destrissimo.
Forca. Non dico ad arrobbare, io.
Panfago. Né manco dico questo, io, ma al negoziare.
Forca. Di che razza sei?
Panfago. Di giudei.
Forca. I tuoi quarti?
Panfago. L’un di birro, l’altro di boia, il terzo di cerretano.
Forca. Come sei reale?
Panfago. Come zingano.
Forca. Bene. Come sopportaresti le corna?
Panfago. Cosí sopportassi la fame!
Forca. Come le bastonate?
Panfago. Cosí cosí.
Forca. Batteresti tuo padre?
Panfago. Mia madre ancora, e s’altro se può dir peggio.
Forca. Come sei amico della veritá?
Panfago. Come il can delle sassate.
Forca. Orsú, hai dato al segno del mio vóto: sei mille volte peggio di quel che vogliamo.
Panfago. Adesso vo’ essaminar io te: che cosa ho da fare?
Forca. Finger un raguseo e vender Pirino per schiavo.
Panfago. Che pericolo ci è?
Forca. Nullo; perché non ci è cosa dove tu possa giocar di mano, e come tu non puoi rubbare, non ci è pericolo.
Panfago. Perché fingere un raguseo?
Forca. Se d’ogni cosa ti vogliamo dire il perché, non finiremo tutto oggi.
Panfago. Se volete che serva bene, bisogna che sia ben informato.
Forca. T’informaremo meglio di una scarpa. Su, finiamola.
Panfago. Non ho ancor finito di essaminarti; che avete apparecchiato da desinare?
Forca. È troppo buon’ora per desinare.
Panfago. Chi non desina a buon’ora, desina a malora.
Forca. Dico: è troppo presto.
Panfago. S’è presto a te, è tardo a me: che vuoi misurar il mio appetito dal tuo ventre?
Forca. E tu vuoi che accomodiamo il nostro ventre al tuo appetito? Fa’ prima l’effetto, ché poi mangierai.
Panfago. No no; fatta la festa non è chi spazza la sala: chi ave avuto il suo intento, non si cura piú d’altro.
Forca. E tu, come hai mangiato e bevuto stai imbriaco, ti poni a dormire, e qui bisogna star in cervello; ché una parola che non dicessi a proposito, scompigliaresti in un punto quanto s’è consertato in un anno.
Panfago. Insegni a chi sa: attendi a quello che tocca a te e lascia il pensiero a me di quello che mi tocca.
Forca. Non ti mancherá da mangiare.
Panfago. Almeno una collazionetta leggiera.
Forca. Non abbiamo bombace né penne.
Panfago. Non bevendo, non farò cosa allegramente: duo becchieretti, non piú, starò allegro, fuor di paura, mi riporrá l’anima in corpo; come ho buon vino su lo stomaco, non può contro me il malanno. Porti l’oro su’ diti, le gioie al collo, chi vuol rallegrare il core; la mia tenace e il mio allegracore è il vino.
Forca. Mangierai e beverai assai bene.
Panfago. Chi me n’assicura?
Forca. Stanne sopra di me.
Panfago. Tu non sei buono a star sopra né sotto: dico che bisogna bere.
Pirino. Panfago, per dirti il vero sto col pensiero cosí su l’effetto, che se mangiassi prima, non mangiarai boccone che sapesse del suo sapore; se hai fretta di mangiare, affréttati alla promessa.
Panfago. Avertite che, se non mangio ben poi, scoprirò ogni cosa.
Pirino. Fa’ quanto sai di peggio.
Panfago. Orsú, che tardiamo?
Pirino. Forca, spediamola, ch’ogni picciolo indugio me par una gran lunghezza di tempo.
Forca. Le cose grandi han bisogno di grande apparecchio.
Pirino. Restisi qui per parlar con Alessandro e vadisi per le vesti e per lo presente.
Forca. S’io resto, chi va; se vo, chi resta?
Pirino. Io andrò ad Alessandro, l’informarò e lo disporrò che vadi a mio padre, e gli darò i danari.
Forca. Ed io e Panfago andremo per le vesti, per gli bratti e per lo presente; e l’informerò per la strada dell’effetto che ará da fare, e ci troveremo in casa di Alessandro.
Panfago. Ma mentre ci avviamo colá, fate voi che la tavola sia apprestata.
Pirino. Cosí si faccia. Ecco Alessandro. Voi proprio desiava incontrare, caro Alessandro.
SCENA IV.
Alessandro, Pirino.
Alessandro. Che comandate, carissimo Pirino?
Pirino. Vengo a ricever grazia e favor da voi.
Alessandro. Grazia e favor sará mio grandissimo, se mi darete occasione onde io possa servirvi: non mi son smenticato, padron degno, di tante grazie e favori ricevuti da voi; onde se non v’ho servito come dovea, tuttavolta la prontezza dell’animo ha sopplito dove han mancato l’occasioni.
Pirino. Di picciol fonte non può nascer gran fiume: non l’ho servito come desiderava, atteso il mio poco valore.
Alessandro. Tra buoni amici si disconvengono le cerimonie: quel poco ch’io vaglio, spendetelo a vostri commodi.
Pirino. Però vengo alla libera con voi, e perdonatemi del fastidio.
Alessandro. Allor ricevo fastidio e noia, quando non mi vien comandato da voi cosa alcuna, ch’è mio debito servirvi; venghiamo al tronco.
Pirino. Non so se sapete la mia disgrazia, che Mangone ruffiano ha venduto al dottore la mia Melitea.
Alessandro. Non n’ho inteso cosa alcuna, ché se n’avessi saputo un cenno non averei aspettato che me l’avessi domandato.
Pirino. Mi complisce — per cagion de’ miei amori che mi premono piú assai della robba e della vita, — che andiate a mio padre e lo preghiate che compri in vostro nome da Mangone un schiavo nero di diciassette over diciotto anni, ben fatto, che abbia del nobile, e non avendolo, che lo cerchi; e li diate per lo prezzo cento scudi che sono in questo fazzoletto, e se non bastano, almeno per arra; e comprato che l’averá, menilo a casa sua ben custodito, insin che andate o mandate per lui.
Alessandro. Non altro di questo?
Pirino. Non altro.
Alessandro. Perché tanti scongiuri?
Pirino. Con questo verrò a rubar la mia Melitea dalle mani del ruffiano, come poi vi dirò piú a lungo in casa vostra. Aiutatemi, amico caro, a cosí onesto e onorato furto; e se mi potrete scambiar questi danari in altri, me ne farete piacere, perché son di mio padre, ché non venisse a riconoscergli.
Alessandro. Andrò or ora a servirvi; ho da scambiar questi e altri a vostro servigio; a dio.
Pirino. A dio.SCENA V.
Filigenio, Alessandro.
Filigenio. (Son uscito fuori, se posso veder Forca per saper che cosa ha fatto col dottore: m’ha lasciato certi bisbigli in testa i quali, se non me li ritoglie, non mi lascieranno mai riposare. Il Forca è cattivissimo, conosce gli umori delle persone, e non è altro che sappi meglio di lui i negozi di mio figlio, ed è buon mezo a questo effetto: il suo consiglio mi piace: volendo servirmi, come dice, non è dubbio ch’io non sia ben servito).
Alessandro. (Chi è costui che ragiona?).
Filigenio. (Chi è costui che vien verso me?).
Alessandro. (È Filigenio, quel che cerco).
Filigenio. (E Alessandro mio vicino).
Alessandro. (L’andrò ad incontrare). O Filigenio, Iddio vi conceda ogni vostro desiderio.
Filigenio. Non è altro il mio desiderio che servir voi, caro Alessandro.
Alessandro. Or veniva insino a casa vostra, per pregarvi d’un segnalato favore.
Filigenio. Eccomi ad ogni vostro comando: ché colui che non servisse voi volentieri, non meritarebbe esser servito da niuna persona del mondo, perché voi potete e sapete servir gli amici vostri.
Alessandro. Se avessi saputo imaginarmi persona sufficiente piú di voi nel maneggio di questo mio negozio, arei fuggito darvi fastidio; non potendo altrimente, m’è forza a valermi del suo favore.
Filigenio. V’offerisco la prontezza dell’animo.
Alessandro. Vi ringrazio di tanta cortesia. Iersera mi venne un corriero a posta da alcuni miei amici; e mi mandano un fascio di lettere, avisandomi con replicati ricordi l’importanza del negozio. Le lettere potrete vedere ad ogni vostro agio.
Filigenio. Non mi curo altrimente; venghiamo al tronco.
Alessandro. Pregandomi come di cosa dove ci va l’onore e la vita; e mi vennero, insieme con l’altre, molte lettere di cambio, se mi bisognassero come di danari.
Filigenio. Danari non sarebbono mancati a me in vostro servigio.
Alessandro. Replicandomi: non essendo serviti da me come si richiede, rimarrebbono ruinati. Son uomini veramente di sommo valore e degni d’esser serviti.
Filigenio. Dite pure in che posso servirvi.
Alessandro. Vorrebbono un schiavo di diciassette over diciotto anni, negro, di bel garbo e di acconcie maniere, che avesse del nobile; e che nel comprarlo non si avesse a risparmiar danari. Intendo che Mangone, qui appresso, n’abbia o ne soglia aver de buoni e belli; però vorrei che in mio nome ne compraste uno, e non avendolo, gli deste cura di ritrovarlo fra poco.
Filigenio. Tanto importa un schiavo?
Alessandro. Come saprete il negocio, conoscerete l’importanza: eglino confidano in me molto; non vorrei che restassero ingannati di tanta speranza. Io per certi rispetti non posso mostrarmi con lui, per esser accadute alcune parole sconcie fra noi; e chiedendolo io, mi vorrebbe appicar per la gola. Eccovi nella borsa cento scudi, dateli per lo prezzo o almeno per caparra: dateli sin tanto che basti a saziar la ingordigia.
Filigenio. Vi servirò molto volentieri. Scudi non bisognano, che ne ho le migliaia per vostro commodo.
Alessandro. Se non togliete i danari per arra, non vo’ che mi favoriate nel negozio.
Filigenio. Per non trattenermi vanamente in cerimonie, che ho fretta di servirvi, li torrò, e or m’invio verso la sua casa.
Alessandro. Ed io per non dargli occasione che mi veggia con voi, mi partirò e verrò da qui ad un poco per saper quello che abbiate trattato.
Filigenio. In buon’ora, non vo’ perder tempo in servirlo! ché chi serve tardi, mostra che sia pentito della promessa, e chi serve presto, raddoppia la promessa. Eccolo che torna a casa.SCENA VI.
Mangone, Filigenio.
Mangone. Ho speso i passi indarno: son ito al Molo, e mi dicono che il padron della nave ragusea con un suo amico passaggiero non era ancora tornato a desinare. Ho lasciato detto che desiava parlargli, e insegnatali la casa mia. Ma io vi tornerò, come arò fatta stima che abbia desinato.
Filigenio. O Mangone, o Mangone!
Mangone. Chi mi chiama?
Filigenio. Chi t’apporta guadagno: vòlgeti.
Mangone. Non è cosa al mondo a cui mi volga piú volentieri. Ditemi, che guadagno mi apportate?
Filigenio. Vorrei un schiavo nero di diciassette in diciotto anni, di garbo e di fattezze signorili, per farne un presente ad un signor principale.
Mangone. Per ora non potrei servirvi, che ho venduti quasi tutti i miei schiavi; ma spero accommodarvene fra poche ore, ché lo torrò da certi amici.
Filigenio. Giá l’hai trovata. Dici che vuoi tòrlo da certi amici per venderlo piú caro.
Mangone. Dico il vero, a fé di uomo da bene.
Filigenio. Giuri la fé di un altro, non la tua, ché tu non sei uomo da bene.
Mangone. Quanti giurano a fé di gentiluomo, che non ci sono? Ma se non lo credete, potrete venir infin a casa e vederlo: dopo pranso ne arò la casa piena e potrete eleggerlo vi come vi piace.
Filigenio. Che ho a far io, ché ti ricordassi di me?
Mangone. Sapete bene che la caparra porta seco tal obligo, che obliga il venditore a ricordarsi piú di lui che di ogni altro; e se non facessi torto alla vicinanza e alla vostra autoritá, ve la chiederei.
Filigenio. T’intendo, eccolati.
Mangone. Avrete manco fatica a darmi il resto.
Filigenio. Prendi, potrai annoverargli con piú agio in casa tua: son cinquanta scudi.
Mangone. Or sí che avete voglia di schiavi: farete che non desini questa mattina per star sollecito al vostro fatto. Vedrò che si fa in casa, e poi tornerò al Molo.
SCENA VII.
Forca, Panfago.
Forca. Noi avemo il bisogno: ecco le vesti per vestirsi da raguseo; ecco quelle per lo schiavo, son ricche e pompose: almeno, se non per la persona, lo torrá per le vesti. Ecco i barilotti, i formaggi e i confetti.
Panfago. Sai tu che a proposito ho comprato le vesiche e i budelli?
Forca. Non so.
Panfago. Ho fatto il tutto a vostro modo; in questo solo vo’ che voi secondiate il mio: ho tolto il barilotto e gli altri intrighi per empirli di varie furfanterie, e ti farò veder salciciotti, provature e mille altre galanterie; ché avendogli a far una burla, non ci vogliamo perdere il presente, e noi restassimo i burlati. Ma avèrti, accioché non abbiamo a far questione poi, che, ingannandolo con i falsi, mi arò guadagnato i buoni.
Forca. Hai ragione, lo credo, che accompagnando la tua presenza con vesti riccamente addobbate, che farai miracoli.
Panfago. Quando vedrai l’architettura ch’usarò in contrafar i salciciotti e le provature e i confetti, resterai stupito; e sará non men gloria averlo beffeggiato nello schiavo che nel presente.
Forca. Entriamo, perché non abbiamo a far altro; ché Pirino deve struggersi di desiderio di far presto.
Panfago. Avèrti che, subito che ritorno, ritrovi la tavola apparecchiata, ché io crepo dalla fame, e sovra tutto buona lacrima, ch’io ne diluviarò un fiasco ad un tratto, per capace e grande che sia, per lacrimar poi fino a notte.
Forca. Ricòrdati di usar buone parole — ché non è il miglior instrumento per ingannare — e a far l’ufficio tuo di buon animo; ché dalla nostra parte non mancheremo noi di quanto ti abbiamo promesso.
Panfago. Entriamo, ché mi par mille anni di esseguir l’opera e far poi un guasto mirabile di vivande.