< La clemenza di Tito
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Atto secondo Licenza

ATTO TERZO

SCENA I

Camera chiusa con porte, sedia e tavolino, con sopra da scrivere.

Tito e Publio.

Publio. Giá de’ pubblici giuochi,

signor, l’ora trascorre. Il dí solenne
sai che non soffre il trascurarli. È tutto
colá, d’intorno alla festiva arena,
il popolo raccolto, e non si attende
che la presenza tua. Ciascun sospira,
dopo il noto periglio,
di rivederti salvo. Alla tua Roma
non differir sí bel contento.
Tito.   Andremo,
Publio, fra poco. Io non avrei riposo,
se di Sesto il destino
pria non sapessi. Avrá il senato ormai
le sue discolpe udite; avrá scoperto,
vedrai, ch’egli è innocente; e non dovrebbe
tardar molto l’avviso.
Publio.   Ah! troppo chiaro
Lentulo favellò.
Tito.   Lentulo forse
cerca al fallo un compagno,
per averlo al perdono. Ei non ignora
quanto Sesto m’è caro. Arte comune

questa è de’ rei. Pur dal senato ancora

non torna alcun! Che mai sará? Va’, chiedi
che si fa, che s’attende. Io tutto voglio
saper pria di partir.
Publio.   Vado: ma temo
di non tornar nunzio felice.
Tito.   E puoi
creder Sesto infedele? Io dal mio core
il suo misuro; e un impossibil parmi
ch’egli m’abbia tradito.
Publio. Ma, signor, non han tutti il cor di Tito.
               Tardi s’avvede
          d’un tradimento
          chi mai di fede
          mancar non sa.
               Un cor verace,
          pieno d’onore,
          non è portento,
          se ogni altro core
          crede incapace
          d’infedeltá. (parte)

SCENA II

Tito e poi Annio.

Tito. No, cosí scellerato

il mio Sesto non credo. Io l’ho veduto
non sol fido ed amico,
ma tenero per me. Tanto cambiarsi
un’alma non potrebbe. Annio, che rechi?
L’innocenza di Sesto,
come la tua, di’, si svelò? Che dice?
Consolami.
Annio.   Ah! signor, pietá per lui
io vengo ad implorar.

Tito.   Pietá! Ma dunque

sicuramente è reo?
Annio.   Quel manto, ond’io
parvi infedele, egli mi die’. Da lui
sai che seppesi il cambio. A Sesto in faccia,
esser da lui sedotto
Lentulo afferma, e l’accusato tace.
Che sperar si può mai?
Tito.   Speriamo, amico,
speriamo ancora. Agl’infelici è spesso
colpa la sorte; e quel, che vero appare,
sempre vero non è. Tu ne hai le prove:
con la divisa infame
mi vieni innanzi; ognun t’accusa: io chiedo
degl’indizi ragion; tu non rispondi,
palpiti, ti confondi... A tutti vera
non parea la tua colpa? E pur non era.
Chi sa? Di Sesto a danno
può il caso unir le circostanze istesse,
o somiglianti a quelle.
Annio.   Il ciel volesse!
Ma se poi fosse reo?
Tito. Ma, se poi fosse reo, dopo sí grandi
prove dell’amor mio; se poi di tanta
enorme ingratitudine è capace,
saprò scordarmi appieno
anch’io... Ma non sará: lo spero almeno.

SCENA III

Publio con foglio, e detti.

Publio. Cesare, nol diss’io? Sesto è l’autore

della trama crudel.
Tito.   Publio, ed è vero?

Publio. Pur troppo ei di sua bocca

tutto affermò. Coi complici il senato
alle fiere il condanna. Ecco il decreto
terribile, ma giusto; (dá il foglio a Tito)
né vi manca, o signor, che il nome augusto.
Tito. Onnipotenti dèi! (si getta a sedere)
Annio. Ah! pietoso monarca... (inginocchiandosi)
Tito.   Annio, per ora
lasciami in pace. (Annio si leva)
Publio.   Alla gran pompa unite
sai che le genti ormai...
Tito.   Lo so. Partite.
  (Publio si ritira)
Annio.   Pietá, signor, di lui!
          So che il rigore è giusto;
          ma norma i falli altrui
          non son del tuo rigor.
               Se a’ prieghi miei non vuoi,
          se all’error suo non puoi,
          donalo al cor d’Augusto,
          donalo a te, signor. (parte)

SCENA IV

Tito solo a sedere.

Che orror! che tradimento!

che nera infedeltá! Fingersi amico,
essermi sempre al fianco, ogni momento
esiger dal mio core
qualche prova d’amore; e starmi intanto
preparando la morte! Ed io sospendo
ancor la pena? e la sentenza ancora
non segno?... Ah! sí, lo scellerato mora.
  (prende la penna per sottoscrivere, e poi s’arresta)

Mora!... Ma senza udirlo

mando Sesto a morir?... Sí, giá l’intese
abbastanza il senato. E s’egli avesse
qualche arcano a svelarmi? Olá! (depone la penna
intanto esce una guardia).  (S’ascolti,
e poi vada al supplizio.) A me si guidi
Sesto (parte la guardia). È pur di chi regna
infelice il destino! (s’alza) A noi si niega
ciò che a’ piú bassi è dato. In mezzo al bosco
quel villanel mendico, a cui circonda
ruvida lana il rozzo fianco, a cui
è malfido riparo
dall’ingiurie del ciel tugurio informe,
placido i sonni dorme,
passa tranquillo i dí, molto non brama,
sa chi l’odia e chi l’ama, unito o solo
torna sicuro alla foresta, al monte,
e vede il core a ciascheduno in fronte.
Noi, fra tante grandezze,
sempre incerti viviam; ché in faccia a noi
la speranza o il timore
su la fronte d’ognun trasforma il core.
Chi dall’infido amico... Olá!... chi mai
questo temer dovea?

SCENA V

Publio e Tito.

Tito.   Ma, Publio, ancora

Sesto non viene.
Publio.   Ad eseguire il cenno
giá volâro i custodi.
Tito.   Io non comprendo
un sí lungo tardar.

Publio.   Pochi momenti

sono scorsi, o signor.
Tito.   Vanne tu stesso;
affrettalo.
Publio.   Ubbidisco. (nel partire) I tuoi littori
veggonsi comparir: Sesto dovrebbe
non molto esser lontano. Eccolo.
Tito.   Ingrato!
All’udir che s’appressa,
giá mi parla a suo pro l’affetto antico.
Ma no; trovi il suo prence e non l’amico.
  (siede e si compone in atto di maestá)

SCENA VI

Tito, Publio, Sesto e custodi. Sesto, entrato appena, si ferma.

Sesto. (Numi! è quello, ch’io miro, (guardando Tito)

di Tito il volto? Ah! la dolcezza usata
piú non ritrovo in lui. Come divenne
terribile per me!)
Tito.   (Stelle! ed è questo
il sembiante di Sesto? Il suo delitto
come lo trasformò! Porta sul volto
la vergogna, il rimorso e lo spavento.)
Publio. (Mille affetti diversi ecco a cimento.)
Tito. Avvicinati. (a Sesto con maestá)
Sesto.   (Oh voce
che mi piomba sul cor!)
Tito. (a Sesto con maestá)  Non odi?
Sesto. (s’avanza due passi e si ferma)  (Oh Dio!
mi trema il piè; sento bagnarmi il volto
da gelido sudore;
l’angoscia del morir non è maggiore.)

Tito. (Palpita l’infedel.)

Publio.   (Dubbio mi sembra,
se il pensar che ha fallito
piú dolga a Sesto, o se il punirlo a Tito.)
Tito. (E pur mi fa pietá.) Publio, custodi,
lasciatemi con lui. (parte Publio e le guardie)
Sesto.   (No, di quel volto
non ho costanza a sostener l’impero.)
Tito. (rimasto solo con Sesto, depone l’aria maestosa)
Ah! Sesto, è dunque vero?
Dunque vuoi la mia morte? E in che t’offese
il tuo prence, il tuo padre,
il tuo benefattor? Se Tito Augusto
hai potuto obbliar, di Tito amico
come non ti sovvenne? Il premio è questo
della tenera cura
ch’ebbe sempre di te? Di chi fidarmi
in avvenir potrò, se giunse, oh dèi!
anche Sesto a tradirmi? E lo potesti?
e il cor te lo sofferse?
Sesto. (prorompe in un dirottissimo pianto e se gli getta a’ piedi)
  Ah, Tito! ah, mio
clementissimo prence!
non piú, non piú. Se tu veder potessi
questo misero cor, spergiuro, ingrato,
pur ti farei pietá. Tutte ho sugli occhi
tutte le colpe mie; tutti rammento
i benefizi tuoi: soffrir non posso
né l’idea di me stesso,
né la presenza tua. Quel sacro volto,
la voce tua, la tua clemenza istessa
diventò mio supplizio. Affretta almeno,
affretta il mio morir. Toglimi presto
questa vita infedel; lascia ch’io versi,
se pietoso esser vuoi,
questo perfido sangue a’ piedi tuoi.

Tito. Sorgi, infelice! (Sesto si leva) (Il contenersi è pena

a quel tenero pianto.) Or vedi a quale
lagrimevole stato
un delitto riduce, una sfrenata
aviditá d’impero! E che sperasti
di trovar mai nel trono? il sommo forse
d’ogni contento? Ah! sconsigliato, osserva
quai frutti io ne raccolgo;
e bramalo, se puoi.
Sesto.   No, questa brama
non fu che mi sedusse.
Tito. Dunque che fu?
Sesto.   La debolezza mia,
la mia fatalitá.
Tito.   Piú chiaro almeno
spiègati.
Sesto.   Oh Dio! non posso.
Tito.   Odimi, o Sesto:
siam soli; il tuo sovrano
non è presente. Apri il tuo core a Tito,
confidati all’amico; io ti prometto
che Augusto nol saprá. Del tuo delitto
di’ la prima cagion. Cerchiamo insieme
una via di scusarti. Io ne sarei
forse di te piú lieto.
Sesto.   Ah! la mia colpa
non ha difesa.
Tito.   In contraccambio almeno
d’amicizia lo chiedo. Io non celai
alla tua fede i piú gelosi arcani;
merito ben che Sesto
mi fidi un suo segreto.
Sesto.   (Ecco una nuova
specie di pena! o dispiacere a Tito,
o Vitellia accusar.)
Tito.   Dubiti ancora? (comincia a turbarsi)

Ma, Sesto, mi ferisci

nel piú vivo del cor. Vedi che troppo
tu l’amicizia oltraggi
con questo diffidar. Pensaci. Appaga
il mio giusto desio. (con impazienza)
Sesto. (Ma qual astro splendeva al nascer mio!)
  (con impeto di disperazione)
Tito. E taci? e non rispondi? Ah! giá che puoi
tanto abusar di mia pietá...
Sesto.   Signore....
sappi dunque... (Che fo?)
Tito.   Siegui.
Sesto.   (Ma quando
finirò di penar?)
Tito.   Parla una volta:
che mi volevi dir?
Sesto.   Ch’io son l’oggetto
dell’ira degli dèi; che la mia sorte
non ho piú forza a tollerar; ch’io stesso
traditor mi confesso, empio mi chiamo;
ch’io merito la morte e ch’io la bramo.
Tito. (ripiglia l’aria di maestá)
Sconoscente! e l’avrai! Custodi! il reo
toglietemi dinanzi. (alle guardie, che saranno uscite)
Sesto.   Il bacio estremo
su quella invitta man...
Tito. (nol concede)  Parti.
Sesto.   Fia questo
l’ultimo don. Per questo solo istante
ricòrdati, signor, l’amor primiero.
Tito. Parti; non è piú tempo. (senza guardarlo)
Sesto.   È vero, è vero!
          Vo disperato a morte;
     né perdo giá costanza
     a vista del morir.

          Funesta la mia sorte

     la sola rimembranza
     ch’io ti potei tradir. (parte con le guardie)

SCENA VII

Tito solo.

E dove mai s’intese

piú contumace infedeltá! Poteva
il piú tenero padre un figlio reo
trattar con piú dolcezza? Anche innocente
d’ogni altro error, saria di vita indegno
per questo sol. Deggio alla mia negletta
disprezzata clemenza una vendetta.
  (va con isdegno verso il tavolino, e s’arresta)
Vendetta! Ah! Tito, e tu sarai capace
d’un sí basso desio, che rende eguale
l’offeso all’offensor? Merita invero
gran lode una vendetta, ove non costi
piú che il volerla. Il tôrre altrui la vita
è facoltá comune
al piú vil della terra: il darla è solo
de’ numi e de’regnanti. Eh! viva... Invano
parlan dunque le leggi? io lor custode
le eseguisco cosí? di Sesto amico
non sa Tito scordarsi? Han pur saputo
obbliar d’esser padri e Manlio e Bruto.
Sieguansi i grandi esempi. (siede) Ogni altro affetto
d’amicizia e pietá taccia per ora.
Sesto è reo: Sesto mora!... (sottoscrive)
  Eccoci alfine
su le vie del rigore: (s’alza) eccoci aspersi
di cittadino sangue, e s’incomincia
dal sangue d’un amico. Or che diranno

i posteri di noi? Diran che in Tito

si stancò la clemenza,
come in Siila e in Augusto
la crudeltá. Forse diran che troppo
rigido io fui; ch’eran difese al reo
i natali e l’etá; che un primo errore
punir non si dovea; che un ramo infermo
subito non recide
saggio cultor, se a risanarlo invano
molto pria non sudò; che Tito alfine
era l’offeso, e che le proprie offese,
senza ingiuria del giusto,
ben poteva obbliar... Ma dunque io faccio
sí gran forza al mio cor? Né almen sicuro
sarò ch’altri m’approvi? Ah! non si lasci
il solito cammin. Viva l’amico, (lacera il foglio)
benché infedele; e, se accusarmi il mondo
vuol pur di qualche errore,
m’accusi di pietá, non di rigore. (getta il foglio lacerato)
Publio!

SCENA VIII

Tito e Publio.

Publio.   Cesare.

Tito.   Andiamo
al popolo che attende.
Publio.   E Sesto?
Tito.   E Sesto
venga all’arena ancor.
Publio.   Dunque il suo fato...
Tito. Sí, Publio, è giá deciso.
Publio.   (Oh sventurato!)

Tito.   Se all’impero, amici dèi,

     necessario è un cor severo,
     o togliete a me l’impero,
     o a me date un altro cor.
          Se la fé de’ regni miei
     con l’amor non assicuro,
     d’una fede io non mi curo
     che sia frutto del timor. (parte)

SCENA IX

Vitellia, uscendo dalla porta opposta, richiama Publio, che seguiva Tito.

Vitellia. Publio, ascolta.

Publio. (in atto di partire) Perdona;
deggio a Cesare appresso
andar...
Vitellia.   Dove?
Publio. (come sopra)  All’arena.
Vitellia.   E Sesto?
Publio.   Anch’esso.
Vitellia. Dunque morrá?
Publio. (come sopra)  Pur troppo.
Vitellia.   (Aimè!) Con Tito
Sesto ha parlato?
Publio.   E lungamente.
Vitellia.   E sai
quel ch’ei dicesse?
Publio.   No. Solo con lui
restar Cesare volle: escluso io fui. (parte)

SCENA X

Vitellia, e poi Annio e Servilia da diverse parti.

Vitellia. Non giova lusingarsi;

Sesto giá mi scoperse: a Publio istesso
si conosce sul volto. Ei non fu mai
con me sí ritenuto; ei fugge; ei teme
di restar meco. Ah! secondato avessi
gl’impulsi del mio cor. Per tempo a Tito
dovea svelarmi e confessar l’errore.
Sempre in bocca d’un reo, che la detesta,
scema d’orror la colpa. Or questo ancora
tardi saria. Seppe il delitto Augusto,
e non da me. Questa ragione istessa
fa piú grave...
Servilia.   Ah, Vitellia!
Annio.   Ah, principessa!
Servilia. Il misero germano...
Annio.   Il caro amico...
Servilia. ...è condotto a morir.
Annio.   ...fra poco, in faccia
di Roma spettatrice,
delle fiere sará pasto infelice.
Vitellia. Ma che posso per lui?
Servilia.   Tutto. A’ tuoi prieghi
Tito lo donerá.
Annio.   Non può negarlo
alla novella Augusta.
Vitellia.   Annio, non sono
Augusta ancor.
Annio.   Pria che tramonti il sole
Tito sará tuo sposo. Or, me presente,
per le pompe festive il cenno ei diede.
Vitellia. (Dunque Sesto ha taciuto! Oh amore! oh fede!)
Annio, Servilia, andiam. (Ma dove corro

cosí, senza pensar?) Partite, amici:

vi seguirò.
Annio.   Ma, se d’un tardo aiuto
Sesto fidar si dee, Sesto è perduto. (parte)
Vitellia. Precedimi tu ancor. (a Servilia) Un breve istante
sola restar desio.
Servilia.   Deh! non lasciarlo
nel piú bel fior degli anni
perir cosí. Sai che finor di Roma
fu la speme e l’amore. Al fiero eccesso
chi sa chi l’ha sedotto. In te sarebbe
obbligo la pietá. Quell’infelice
t’amò piú di se stesso; avea fra’ labbri
sempre il tuo nome; impallidia qualora
si parlava di te. Tu piangi!
Vitellia.   Ah! parti.
Servilia. Ma tu perché restar? Vitellia, ah! parmi...
Vitellia. Oh dèi! parti, verrò: non tormentarmi!
Servilia.   Se altro che lagrime
          per lui non tenti,
          tutto il tuo piangere
          non gioverá.
               A questa inutile
          pietá che senti,
          oh, quanto è simile
          la crudeltá! (parte)

SCENA XI

Vitellia sola.

Ecco il punto, o Vitellia,

d’esaminar la tua costanza. Avrai
valor che basti a rimirare esangue
il tuo Sesto fedel? Sesto, che t’ama
piú della vita sua? che per tua colpa
divenne reo? che t’ubbidí crudele?

che ingiusta t’adorò? che in faccia a morte

sí gran fede ti serba? E tu fra tanto,
non ignota a te stessa, andrai tranquilla
al talamo d’Augusto? Ah! mi vedrei
sempre Sesto d’intorno; e l’aure e i sassi
temerei che loquaci
mi scoprissero a Tito. A’ piedi suoi
vadasi il tutto a palesar. Si scemi
il delitto di Sesto,
se scusar non si può. Speranze, addio,
d’impero e d’imenei! nutrirvi adesso
stupiditá saria. Ma, pur che sempre
questa smania crudel non mi tormenti,
si gettin pur l’altre speranze a’ venti.
          Getta il nocchier talora
     pur que’ tesori all’onde,
     che da remote sponde
     per tanto mar portò;
          e, giunto al lido amico,
     gli dèi ringrazia ancora,
     che ritornò mendico,
     ma salvo ritornò. (parte)

SCENA XII

Luogo magnifico, che introduce a vasto anfiteatro, di cui per diversi archi scopresi la parte interna. Si vedranno giá nell’arena i complici della congiura, condannati alle fiere.

Nel tempo che si canta il coro, esce Tito, preceduto da’ littori, circondato da’ senatori e patrizi romani, e seguito da’ pretoriani; indi Annio e Servilia da diverse parti.

Coro.   Che del ciel, che degli dèi

          tu il pensier, l’amor tu sei,
          grand’eroe, nel giro angusto
          si mostrò di questo dí.

               Ma cagion di meraviglia

          non è giá, felice augusto,
          che gli dèi chi lor somiglia
          custodiscano cosí.
Tito. Pria che principio a’ lieti
spettacoli si dia, custodi, innanzi
conducetemi il reo. (Piú di perdono
speme ei non ha: quanto aspettato meno,
piú caro esser gli dee.)
Annio.   Pietá, signore!
Servilia. Signor, pietá!
Tito.   Se a chiederla venite
per Sesto, è tardi. È il suo destin deciso.
Annio. E sí tranquillo in viso
lo condanni a morir?
Servilia.   Di Tito il core
come il dolce perdé costume antico?
Tito. Ei s’appressa: tacete!
Servilia.   Oh Sesto!
Annio.   Oh amico!

SCENA ULTIMA

Publio e Sesto fra’ littori, poi Vitellia, e detti.

Tito. Sesto, de’ tuoi delitti

tu sai la serie, e sai
qual pena ti si dee. Roma sconvolta,
l’offesa maestá, le leggi offese,
l’amicizia tradita, il mondo, il cielo
voglion la morte tua. De’ tradimenti
sai pur ch’io son l’unico oggetto. Or senti.
Vitellia. Eccoti, eccelso Augusto, (s’inginocchia)
eccoti al piè la piú confusa...

Tito.   Ah! sorgi:

che fai? che brami?
Vitellia.   Io ti conduco innanzi
l’autor dell’empia trama.
Tito.   Ov’è? chi mai
preparò tante insidie al viver mio?
Vitellia. Nol crederai.
Tito.   Perché?
Vitellia.   Perché son io.
Tito. Tu ancora!
Sesto e Servilia.   Oh stelle!
Annio e Publio.   Oh numi!
Tito.   E quanti mai,
quanti siete a tradirmi?
Vitellia.   Io la piú rea
son di ciascuno; io meditai la trama;
il piú fedele amico
io ti sedussi; io del suo cieco amore
a tuo danno abusai.
Tito.   Ma del tuo sdegno
chi fu cagion?
Vitellia.   La tua bontá. Credei
che questa fosse amor. La destra e il trono
da te sperava in dono; e poi negletta
restai due volte, e procurai vendetta.
Tito. Ma che giorno è mai questo! Al punto istesso
che assolvo un reo, ne scopro un altro! E quando
troverò, giusti numi!
un’anima fedel? Congiuran gli astri,
cred’io, per obbligarmi, a mio dispetto,
a diventar crudel. No! non avranno
questo trionfo. A sostener la gara
giá s’impegnò la mia virtú. Vediamo
se piú costante sia
l’altrui perfidia o la clemenza mia.
Olá! Sesto si sciolga: abbian di nuovo

Lentulo e i suoi seguaci

e vita e libertá. Sia noto a Roma
ch’io son l’istesso, e ch’io
tutto so, tutti assolvo e tutto obblio.
Annio e Publio.   Oh generoso!
Servilia.   E chi mai giunse a tanto?
Sesto. Io son di sasso!
Vitellia.   Io non trattengo il pianto!
Tito. Vitellia, a te promisi
la destra mia; ma...
Vitellia.   Lo conosco, Augusto:
non è per me. Dopo un tal fallo, il nodo
mostruoso saria.
Tito.   Ti bramo in parte
contenta almeno. Una rival sul trono
non vedrai, tel prometto. Altra io non voglio
sposa che Roma: i figli miei saranno
i popoli soggetti;
serbo indivisi a lor tutti gli affetti.
Tu d’Annio e di Servilia
agl’imenei felici unisci i tuoi,
principessa, se vuoi. Concedi pure
la destra a Sesto: il sospirato acquisto
giá gli costa abbastanza.
Vitellia.   Infin ch’io viva,
fia sempre il tuo voler legge al mio core.
Sesto. Ah, Cesare! ah, signore! e poi non soffri
che t’adori la terra e che destini
tempii il Tebro al tuo nume? E come, e quando
sperar potrò che la memoria amara
de’ falli miei...
Tiro.   Sesto, non piú: torniamo
di nuovo amici, e de’ trascorsi tuoi
non si parli piú mai. Dal cor di Tito
giá cancellati sono:
me gli scordo, t’abbraccio e ti perdono.

Coro.   Che del ciel, che degli dèi

     tu il pensier, l’amor tu sei,
     grand’eroe, nel giro angusto
     si mostrò di questo dí.
          Ma cagion di meraviglia
     non è giá, felice Augusto,
     che gli dèi chi lor somiglia
     custodiscano cosí.

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