< La conquista di Roma
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Parte prima
La conquista di Roma Parte seconda

PARTE PRIMA

I.

Il treno si fermò.

— Capua; Capua. — gridarono tre o quattro voci, monotonamente, nella notte.

S’udì uno strepito di sciabole trascinate e un vivo parlottare fra lombardo e piemontese: un gruppo di ufficialetti, tanto per finire la serata, era venuto a vedere il passaggio del treno notturno Napoli-Roma. Mentre il conduttore chiacchierava, sommesso, col capo-stazione, che gli dava una commissione per Caianiello, e il postino tendeva un sacco di tela pieno di lettere all’impiegato postale ambulante, gli ufficiali, discorrendo fra loro e facendo, per abitudine, risonare i loro speroni, guardavano se qualcuno salisse o scendesse, sbirciavano dagli sportelli aperti se apparisse qualche bel visetto di donna o la faccia di qualche amico. Ma molti sportelli restavano chiusi, con le tendine oscure tese sui vetri, da cui una luce fioca di lampada velata traspariva, quasi uscendo da un’alcova dove già il sonno avesse vinto i viaggiatori: da quelli aperti si scorgevano, nella penombra, dei corpi sdraiati, in un ammasso bruno di coperte, di mantelli e di scialli.

«Dormono tutti», disse un ufficiale: «sarebbe meglio andare a letto».

«Questi saranno due sposini», soggiunse un altro, leggendo sopra uno sportello: riservato.

E poichè le tendine non erano abbassate, l’ufficiale che ardeva di curiosità giovanile saltò sul predellino, e accostò il volto al cristallo: ma discese subito, deluso, stringendosi nelle spalle.

«È un uomo solo», mormorò: «un deputato, certo; dorme anche lui».

Ma l’uomo solo non dormiva. Era lungo disteso sul divano, con la testa appoggiata al bracciale di mezzo, un braccio dietro la nuca e la mano nei capelli: l’altra mano si perdeva nello sparato dell’abito: gli occhi chiusi. Pure, il viso non aveva quella espressione molle dei muscoli che riposano, quella quietezza grave dei lineamenti umani nel sonno: invece, in tutte le linee, vi era la contrazione del pensiero. Quando il treno in partenza ebbe passato il ponte sul Volturno, e s’internò nella campagna deserta, nera, l’uomo riaprì gli occhi, cercò di mutar posizione per potersi addormentare più facilmente. Ma il rumore del treno, sempre uguale e continuo, gli martellava nella testa. Ogni tanto, nell’ombra, una casa colonica, un villino, una casetta cantoniera, sorgevano, oscurissime sul fondo oscuro: un filo sottile di luce trapelava dalle fessure, una lanternina accesa faceva come un circolo danzante di fiammelle, dinnanzi al treno che passava.

Egli pensò fosse il freddo che gl’impediva di dormire. Assuefatto alla mitezza delle notti meridionali, non avendo l’abitudine di viaggiare, era partito con un semplice e leggiero soprabito, senza coperta, senza sciallo, con una piccola valigia e un baule che lo seguiva, al bagagliaio. L’importante, per lui, non erano le vesti, nè le carte, nè i libri, nè la biancheria: era quella medaglina d’oro, prezioso amuleto, che gli pendeva dalla catenella dell’orologio. Dal giorno che l’aveva avuta, richiesta dalla provincia, per una eccezione, al questore della Camera, le dita correvano a toccarla, leggiermente, come per una macchinale carezza; e nei momenti in cui si trovava solo, la stringeva nella palma della mano, sino a farne restare il rosso sulla pelle. Per avere il vagone riservato, l’aveva mostrata al capo-stazione, chinando gli occhi, stringendo le labbra quasi a reprimere uno sguardo di trionfo e un sorriso di compiacenza: e dal principio del viaggio la teneva in mano, come se temesse di perderla, comunicandole il calore della sua epidermide che bruciava. Ed era così acuto il senso di piacere che gli dava quel contatto e quella possessione, che sentiva, delicatamente, tutte le asperità e le concavità del metallo — e sentiva, sotto le dita, la cifra e la parola:

XIV Legislatura

Sul rovescio, un nome, un cognome, la presa di possesso:

FRANCESCO SANGIORGIO

Con le mani calde, rabbrividiva di freddo.

Si levò e andò verso lo sportello, Ora il treno sfilava in aperta campagna, ma il suo rumore era più sordo: pareva che le ruote fossero state unte di olio, e scivolassero chetamente sulle rotaie, per accompagnare, senza turbarlo, il sonno dei viaggiatori. Dirimpetto, sopra un’alta proda nera, si stampavano, fuggendo, gli sportelli luminosi: non un’ombra dietro i cristalli. La grande casa dormiente correva nella notte, come mossa da una volontà ferrea, ardente, che trasportasse seco tutte quelle volontà inerti nel sonno.

— Dormiamo, — pensò l’onorevole Sangiorgio.

Sdraiatosi di nuovo, cercò di assopirsi. Ma il nome di Sparanise, detto sottovoce, due o tre volte, alla fermata, gli rammentò il piccolo e povero paese di Basilicata, onde veniva, che insieme con venti altri poverissimi villaggi, gli aveva dato tutti i suoi voti per crearlo deputato. Il piccolo paese, distante tre ore da una stazione ignota della linea ferroviaria Eboli Reggio, dove il capo stazione aveva le febbri, parea molto lontano all’onorevole Sangiorgio; lontano e abbandonato in una valle paludosa, tra le nebbie malsane che salgono, nell’autunno, dai torrenti, il cui letto scoperto, resta, nell’estate, pietroso, arido e giallo. Venendo dal paesello alla stazione, nella solitudine di quella deserta campagna di Basilicata, era passato accanto al cimitero, un grande orto quadrato, con le croci nere, dove sorgevano due pini alti, eleganti. Ivi giaceva, sotto la terra, sotto l’unica lapide di marmo, il suo antico avversario, il vecchio deputato che veniva sempre rieletto per tradizione patriottica, e che egli aveva combattuto con la improntitudine del giovane ambizioso, che non conosce ostacoli. Nè avrebbe mai vinto, il giovane presuntuoso, nato troppo tardi, com’egli diceva, per poter fare la patria; ma la morte, compiacente alleata, gli aveva procurata facile e piena la vittoria: egli avea trionfato, rendendo omaggio al vecchio patriota defunto. E passando presso al camposanto, non provò nel cuore nè pietà, nè invidia pel vecchio milite stanco, che era disceso nella grande serenità della morte. Tutto questo scompariva alle sue spalle, insieme col lungo decennio volgare di avvocatura provinciale, col lavoro meschino e quotidiano nelle preture, nei tribunali, raramente in Corte d’Assisie, per liti di terreni, per qualche eredità di trecento lire, per un colpo di roncola: tutto un mondo piccolo, gretto, di vili interessi, di furfanterie contadinesche, di raggiri finissimi per uno scopo volgare, in cui il cliente diffidava dell’avvocato, e costui guardava il cliente, come un nemico disarmato. Dieci anni: il contatto con una gente di tribunale, misera, ignorante, o tranquillamente triviale, o severamente fredda — un mondo glaciale, repulsivo, in continuo movimento da un capo all’altro d’Italia, una fantasmagoria di facce sempre nuove, incapaci di cordialità, o timide da non poterla tentare — e davanti a questo mondo, il giovane avvocato si sentiva morire nell’anima ogni ardore di passione; anche la parola gli moriva nella gola. E poichè la causa che doveva difendere era di una trivialità aridissima, e la gente a cui doveva parlare lo guardava, indifferente, con la faccia pacata di chi non pensa più, egli finiva con sbrigarsi in poche parole, seccamente, del suo dovere di difensore: non aveva perciò grande riputazione di avvocato. Non egli poteva intenerirsi più, lasciando la casa paterna e i vecchi parenti che, vedendolo partire, piangevano come tutta la gente antica d’anni, quando qualcuno parte, per quel gran senso di egoismo che è nella vecchiaia: molte tempeste segrete e caldissime, eruzioni interne senza sfogo, avevano disseccate le sorgenti di tenerezza del suo cuore. Nel viaggio, ora, egli ricordava tutto, lucidamente, ma senza provarne emozione, come uno spettatore disinteressato. Chiudeva gli occhi per dormire: non poteva.

Nel treno, invece, pareva dormissero tutti, in sonno profondo. Attraverso il rumore del treno, sempre più cullante, l’onorevole Sangiorgio credeva quasi di udire un lungo respirare calmo, gli pareva quasi di vedere un grande petto sollevarsi e abbassarsi lentamente, nel felice alternarsi meccanico della respirazione. Alla stazione di Cassino, dove il treno si ferma per cinque minuti, all’una dopo mezzanotte, non discese alcuno; e il garzone del caffè che dormiva sotto la lampada a petrolio, con le braccia sul marmo del tavolino e la testa sulle braccia, non si mosse. I guardafreni, avvolti nel cappotto nero, col cappuccio calato sugli occhi e una lanternetta in mano, andavano tentando i freni, che mandavano uno squillo metallico, di un’intonazione purissima, come cristallo. Anche il fischio della vaporiera, partendo, era dolcemente rauco, voce grossa e acuta, che si smorzava, per delicatezza. Riprendendo il cammino, il movimento del treno era come un dondolìo molle, senza stridori, senza urti, senza scatti, un andare rapido come sul velluto, con un rombo sordissimo che pareva il russare di un forte gigante addormentato, nella pienezza del suo riposo. Francesco Sangiorgio pensò a tutta quella gente che viaggiava con lui: gente addolorata per la partenza o allegra pel paese dove si recava; gente innamorata senza speranza, innamorata tragicamente, o felicemente innamorata; gente preoccupata dal lavoro, dagli affari, dalle angustie, dall’ozio; gente oppressa dall’età, dalle infermità, dalla gioventù, dalla felicità; gente che sapeva di camminare a un drammatico destino, o che ci si avviava, inconscia. Eppure, tutti costoro, dopo mezz’ora, a uno a uno, avevano ceduto lentamente al sonno, tutto, l’anima e il corpo, obliando. Il benefizio amoroso, profondo, risanatore del riposo era disceso su quegli ardori, e li aveva mitigati, si era allargato su quella tribolata parte dell’umanità, troppo felice o troppo infelice, placandola nel sonno. Nervi irritati, collere, disprezzi, desiderii, morbosità, vigliaccherie, mestizie incurabili, tutte le miserie e tutte le grandezze umane, viaggianti in quel treno notturno, posavano, nella grande dolcezza dell’addormentamento. Il treno si portava via, alla loro sorte, triste, buona, mediocre, quegli spiriti sognanti e quelle forme abbattute nella quiete: quegli esseri godevano la profonda voluttà dell’annichilimento senza dolore, lasciando a una forza, fuor di loro, il trasportarli lontano.

— Ma perchè non posso dormire anch’io? — pensava Francesco Sangiorgio.

E un momento, ritto, nel suo vagone deserto, sotto la vacillante luce della fiammella a olio, con la campagna nerissima che fuggiva dietro i cristalli, con la leggera brina che appannava quei cristalli, col freddo della notte che si faceva più frizzante, gli parve d’essere solo, irrimediabilmente, abbandonato, perduto, nella debolezza della solitudine. Si pentì di avere per orgoglio richiesto un compartimento riservato, desiderò la compagnia di un uomo, quella di una persona qualunque, un suo simile, il più umile. Si sentì smarrito e pauroso come un bimbo, in quella gabbia donde non poteva uscire, che la macchina portava via, quella macchina che egli era impotente a fermare nella sua corsa: era spaventato, come una miserabile creatura che veglia, solitaria, in una casa dove tutti dormano. Una soffocazione lo assalse alla gola, se no, avrebbe gridato per chiedere aiuto: uno sfinimento lo prese alle gambe, e lo abbattè, di nuovo, sul sedile.

Ma questo durò pochissimo: la coscienza del coraggio rinacque subito in lui, e l’abitudine di una vita deserta di soccorsi morali, tutta chiusa in sè stessa, tutta appoggiata sulle proprie forze, vinse quel minuto di terrore. A un pensiero che per molto tempo era rimasto latente, e che ora si presentava nella sua forma concreta, con un nome di quattro lettere, egli balzò di scatto dal divano, e si diede a passeggiare, nervosamente, su e giù nella carrozza.

— È Roma, è Roma... — mormorava.

Sì, era Roma. Adesso quelle quattro lettere, rotonde, chiarissime, squillanti come le trombe di un esercito in marcia, si disegnavano nella sua fantasia, con un’ostinazione d’idea fissa. Il nome era breve e soavissimo, come uno di quei flessuosi e incantevoli nomi di donna che sono un segreto di seduzione; e gli si avvolgeva nella mente in attorcigliamenti bizzarri, in meandri di fascino. Non poteva, non sapeva formarsi l’idea che quelle quattro lettere, come scolpite nel granito, rappresentavano. Il senso che quello fosse un nome di una città, di un grande agglomeramento di case e di popolo, gli sfuggiva: Roma gli era ignota. Per mancanza di tempo, per non sciupare del denaro, ragione di tutte più forte, avvocatuccio ignoto, individuo insignificante, egli non era mai stato a Roma. E non avendola vista, non poteva rappresentarla che astrattamente, come una grande cosa fluttuante, come un grande pensiero, come una grande visione singolare, come un’apparizione femminile ma ideale, come un immensa figura dai contorni indistinti. Così, tutto quello che egli si figurava di Roma era grandioso, ma indeciso, indefinito: paragoni strani, finzioni che diventano idee, un tumulto nella fantasia, un miscuglio d’immagini e di concetti che si sovrapponevano. Dentro quella maschera glaciale di meridionale pensieroso, ardeva il fuoco di una immaginativa abituata a contemplazioni egoistiche e solitarie: e Roma vi metteva il subbuglio.

Oh! egli la sentiva, Roma: la vedeva, come una colossale ombra umana, tendergli le immense braccia materne, per chiuderselo al seno, in un abbraccio potente, come quello che Anteo riceveva dalla terra, e ne usciva ringagliardito: gli pareva di udire, nella notte, la soavità irresistibile di una voce femminile che pronunziasse il suo nome, ogni tanto, dandogli un brivido di voluttà. La città lo aspettava, da un pezzo, come un figlio amato e lontano; e lo magnetizzava col desiderio della madre, profondo, che evoca il figliuolo.

Da tempo egli sentiva questa seduzione di amore, questo appello di amore, intorno a sè: si rodeva d’impazienza, fermo al suo posto, avvinghiato da mille difficoltà materiali e morali, non potendo sciogliersi, con un tormento inferiore che gli faceva pallido il viso e torbido l’occhio. Quante volte, da terrazzino coperto, ad arcate, della sua casa, nel suo paese di Basilicata, egli aveva guardato l’orizzonte chiarissimo dietro la collina, pensando che dietro quell’arco di cielo che si piegava, grandioso, era Roma che lo aspettava! Come i fedeli e pietosi amatori che hanno la loro donna lontana, e si struggono nel desiderio di raggiungerla, egli considerava malinconicamente tutta la distanza che lo separava da Roma, e come, nell’amore contrastato, fra lui e la sua donna si frapponevano uomini, cose, avvenimenti. Di che odio profondo, segreto, tutto concentrato nel suo cuore, egli detestava tutti coloro che si mettevano fra lui e la città che lo chiamava! Come gli amatori, nel mondo intero, egli non aveva che la visione deliziosa della persona che egli amava, che lo amava: tutte queste ombre nere che si interrompevano fra lui e la lucentezza del suo sogno, gli davano lo spasimo. Un’amarezza gl’inondava le vene: nel suo spirito era un grande serbatoio di rancori, di collere, di disprezzi, di desiderii, come in quello degli amatori.

Dieci anni di battaglie, tenendo Roma nel cuore, lo avevano trasformato. Una diffidenza, nascosta degli altri e una soverchia stima di sè: un raccoglimento continuo, talvolta dannoso; uno studio incessante di freddezza, mentre, dentro, l’anima gli ribolliva; un disprezzo profondo di tutte le altre forze umane, che non fossero l’ambizione; uno squilibrio crescente fra il desiderio e la realtà; segreta, ma acutissima la conseguente delusione; l’amore del successo, niente altro che il successo. Questo era accaduto, nella oscurità della sua coscienza; ma talvolta, nelle ore bieche della disfatta, egli si abbatteva in una debolezza infinita; una umiliazione soverchiava tutto il suo orgoglio, egli si sentiva un povero essere, limitato, miserrimo. Come gli amatori, quando li sopravvince la cattiva fortuna, egli si sentiva indegno di Roma. Oh! bisognava domarsi nella pazienza, rafforzarsi nella perseveranza, temprarsi le forze nell’avversità, purificarsi lo spirito nel fuoco consumatore, come un penitente antico, per essere degno di Roma. Figura ieratica di sacerdotessa, di madre, di amante, Roma vuole espiazioni e sacrifici, vuole un cuore puro e una volontà di ferro...

— Ceprano, Ceprano, dieci minuti di fermata, — si gridò fuori.

L’onorevole Francesco Sangiorgio si guardava attorno, ascoltava, come un trasognato: egli aveva la febbre.

Prima una sbarra di un verdino pallidissimo, che saliva, parallela, all’orizzonte: poi un chiarore livido, freddo, di cui sembrava potersi vedere la lentissima dilatazione sull’alto del cielo. In quella glacialità di notte spirante, la campagna romana si apriva, vastissima. Dallo sportello presso cui stava ritto, Francesco Sangiorgio la guardava. Era un’ampiezza di pianura il cui colore ancora non si scorgeva, ma che, qua e là ondulava, come le dune d’un mare poco lontano; e la penombra fitta, con quella scialba irradiazione che ancora non arrivava a vincerla, dava alla campagna romana uno sconfinamento di deserto. Non un albero: solo, di tratto in tratto, una siepe alta e fitta, nera, che pareva facesse una riverenza circolare e fuggisse.

Le stazioni cominciavano ad apparire bigie, tutte umide ancora della brina notturna, con le finestre sbarrate e le persiane verdi che avevano presa una tinta rugginora, i magri alberetti di oleandri coi rami pendenti e i fiori tutti stillanti, pioventi al suolo, come se piangessero; con l’orologio dal largo disco biancastro che macchie di umidità deturpavano, e le cui brune lancette, dalla testa grossa, sembravano un ragno nero, a due gambe. Il capo-stazione, tutto imbacuccato nel pastrano, con una sciarpa che gli fasciava le mascelle, andava e veniva, tra i facchini, col capo abbassato: e nella freddissima aria mattinale, un sottile odore di terra bagnata, odore acre, feriva il cervello. Un grosso paese, eretto sopra una collina, fortificato da un giro di mura e da due torri, comparve, tutto bigio, tutto vecchio, con un’aria medievale: era Velletri.

Ora, nel treno avveniva un certo risveglio; nel vagone accanto si sentiva scricchiolare il pavimento, due persone parlavano. Da uno sportello di prima classe, la testa d’un prete spagnuolo, molto bruno, dalle guance dure e rase, che avevano un’ombra azzurrina, si sporgeva, fumando alacremente un sigaro. Ma come l’alba s’irradiava in tutto il cielo, bianchissima, gelata, tutta la nudità della campagna romana apparve, nella sua grandezza. Su quei prati a perdita di vista, smarriti in una luce mite, un’erba rada e piccola cresceva, di un verde tutto molle di acquitrino; qua e là grandi appezzamenti giallastri, macchiati di marrone, una terra grossa e rude, pietrosa, fangosa, incoltivabile. Era un imperial deserto che nessun albero allietava, che nessuna ombra d’uomo animava, che non attraversava alcun volo d’uccelli; era una desolazione immensa, solenne.

Contemplando questo paesaggio, che a nulla rassomiglia, Francesco Sangiorgio era preso da un senso crescente di sorpresa, in cui tutti i suoi sogni personali si dileguavano. Stava a guardare, muto, immobile, rannicchiato nell’angolo della carrozza, tremando di freddo, sentendo calmarsi il battito delle tempie. Indi a poco una pesantezza gli scendeva sulle palpebre, un rilassamento gli distendeva tutta la persona, egli provava tutta la stanchezza della notte trascorsa vegliando. Avrebbe voluto sdraiarsi nella carrozza, con un bel raggio di sole, che entrasse dal finestrino aperto, per dormire, una buona ora, sino a Roma; invidiava quelli che avevano passato quelle lunghe ore notturne a ristorarsi le forze, nel riposo.

Ora il viaggio gli sembrava interminabilmente lungo, e lo spettacolo della campagna romana, quello squallore maestoso, l’opprimeva. Non finiva dunque mai? Non sarebbe dunque mai a Roma? Aveva sonno: un intorpidimento gli si dilatava dalla nuca a tutte le membra, la sua bocca era pastosa e amara, come se uscisse da una malattia; e la sua impazienza diventava pena, un piccolo tormento; egli si lamentava con se stesso, come se gli facessero un’ingiustizia. I treni notturni erano troppo lenti; aveva fatto male a partire con quello, fidando di poter dormire, nella notte; questa ultima ora gli era insopportabile. La realtà de’ suoi sogni gli era dappresso, vicinissima, e con la sua vicinanza gli dava una palpitazione di gioia. Sentiva l’appressarsi di Roma, come quello di una donna amata: cercava di esser calmo, vergognandosi innanzi a sè stesso: ma gli ultimi venti minuti furono un vero spasimo. Col capo fuori del finestrino, ricevendo in faccia il fumo umido del vapore, senza più guardare la campagna, senza un’occhiata per gli eleganti acquedotti che si prolungavano nella pianura, egli guardava verso 1a mèta, credendo e temendo ad ogni tratto di veder apparire Roma, compreso da un vago senso di terrore. Spariva la campagna, dietro, come se si inabissasse, portando con sè i prati umidi, gli acquedotti giallastri e le bianche casette cantoniere. La macchina pareva accrescesse la sua velocità, e ogni tanto dava in un fischio lungo lungo, stridulo, a due, a tre riprese. A quasi tutti i finestrini vi erano delle teste sporgenti.

Dov’era Roma, dunque? Nulla si vedeva. E la inquietudine era così forte, che quando il treno cominciò a rallentare, l’onorevole Francesco Sangiorgio ricadde sul sedile: il cuore gli batteva sotto la gola, come se gli si fosse allargato per tutto il petto. Passando sul pavimento ferreo degli scambi, quelle scosse forti gli si ripercuotevano dentro, gli davano sul capo come tanti colpi di martello. Gl’impiegati non dicevano neppure: Roma. Ma egli, scendendo, fu preso da un lieve tremito nelle gambe; la folla lo circondava, lo urtava, lo spingeva, senza badare a lui: in due correnti, per i treni che arrivavano, in coincidenza, da Napoli e da Firenze. L’onorevole Sangiorgio era smarrito tra la gente, addossato ai muro, come se non si reggesse, avendo ai piedi la sua valigetta; e con l’occhio vagante guardava tra la folla, come se vi cercasse qualcuno.

La stazione era ancora tutta umida, un pò scura, con quel nauseante puzzo di carbon fossile, di olio, di ferro sfregato, che vi è sempre, piena di vagoni neri, di grandi casse d’imballaggio ammonticchiate; e le faccie erano tutte stanche, assonnate, annoiate, in uno sbadiglio che stirava le bocche: la sola espressione era l’indifferenza, un’indifferenza non ostile, ma invincibile. Nessuno gli badava, al deputato Sangiorgio, fermo presso il muro: viaggiatori, impiegati, facchini andavano e venivano, senza curarsi di lui. Egli aveva sbottonato il soprabito, con un moto infantile, per mostrare la medaglina, aveva chiamato un facchino, due volte, ma quello era scomparso, senza dargli retta.

Invece la gente di servizio si affaccendava intorno a un gruppo di signori in tuba, dall’aria pallidamente burocratica, che avevano l’abito nero e la cravatta bianca sotto i soprabiti abbottonati, dai baveri rialzati, con la faccia smorta di chi ha poco dormito e il contegno di persone distinte, che compiono un alto dovere di convenienza. Quando da un vagone del treno di Firenze era discesa una signora, alta, svelta, elegante, tutti si erano scappellati: poi un signore, magro, alto e vecchio, discese: il gruppo si strinse, il signore scarno salutava, la signora odorava, sorridendo, un mazzo di fiori che le avevano offerto. Dai soprabiti aperti, adesso, era una gala di sparati bianchi: un sorriso fioriva sulle facce d’un tratto colorite: a certe catenelle d’orologio, le medagline erano quattro, cinque.

— Sua Eccellenza, — fu mormorato intorno.

Poi il gruppo si avviò, la delicata signora dando il braccio al vecchio magro, i deputati e gli alti funzionari, dietro. L’onorevole Sangiorgio tenne anch’esso dietro, macchinalmente, essendo rimasto solo.

Sulla Piazza Margherita egli vide il governo mettersi in carrozza, in mezzo alla fila degli amici che si era schierata, salutando: la signora chinava il capo dallo sportello, sorridendo: vide tutti andarsene, in carrozza, dopo. Egli era solo, sulla vasta piazza. Per terra un umidore come se avesse piovuto: tutte le finestre dell’Albergo Continentale chiuse. A sinistra, il corso Margherita ancora in costruzione: mucchi di tavoloni, di travi e calcinacci. Gli omnibus degli alberghi voltavano per andarsene. Tre o quattro carrozze restavano, per indolenza dei cocchieri, che fumavano, aspettando ancora. A dritta, un carosello deserto, sbarrato e sopra un grande muro grezzo, un’accecante reclame del Popolo Romano. Su tutto questo un’aria bassa e molle, una nebbiuzza penetrante, un lieve sentore cattivo, l’aspetto nauseato e nauseante di una città che appena si sveglia, nella gravezza flaccida delle mattinate d’autunno, con quel fiato di febbre che pare aliti dalle case.

L’onorevole Francesco Sangiorgio era molto pallido, e aveva freddo — nel cuore.

II.

Quel giorno bisognava resistere e non andare a Montecitorio. Non pioveva più, come per stanchezza di quella settimana di pioggia: un fiato molle di acqua fluttuava ancora nell’aria, le strade erano fangose, il cielo tutto bianco di nuvole: una gente smorta, chiusa nei soprabiti, coi calzoni arrovesciati sul collo del piede e col viso incerto di chi non si fida, girava per le vie. Da una finestra dell’Albergo Milano, l’onorevole Sangiorgio guardava il palazzo del Parlamento, dipinto in color legno chiaro, su cui la pioggia autunnale aveva impresso certe larghe macchie più oscure, e cercava di raffermarsi nel suo proponimento di non entrarvi in quel giorno.

Per sei giorni di pioggia, egli era stato lì dentro, la mattina, nel pomeriggio, di sera. Come schiudeva la finestra, al mattino, scorgeva, attraverso il velo fitto della pioggia, il grande palazzone panciuto, che pareva volesse sbuzzar fuori per l’umidità. E si vestiva macchinalmente, tenendovi gli occhi addosso, facendo conto di andarsene per Roma, a vedere la città, a cercare un quartierino mobiliato, non potendo durare alla vita di albergo; ma sulla porta dell’albergo, aprendo il paracqua, una subita indolenza lo vinceva; la strada che inclinava a Piazza Colonna, gli pareva sdrucciolevole e pericolosa: egli dava una scrollata di spalle, ed entrava direttamente, sotto la pioggia che incalzava, nel palazzone di Montecitorio. Ne riusciva solo per far colazione, all’albergo, nel salone a terreno che fa angolo, dietro una delle porte-finestre, dai grandi cristalli di un sol pezzo; e mangiando lo stufatino di vitella alla romana, egli si voltava, ogni tanto, a vedere chi entrasse in Parlamento.

Mangiava rapidamente, con la distrazione di un cervello che non è sensibile al piacere dello stomaco. Sempre qualcuno che entrava lo interessava. Ora gli sembrava che fosse il Sella, con la sua forte persona, un po’ quadrata, come se fosse tagliata con l’ascia, e la barba ispida, di un nero opaco, che si brizzolava presto: e Sangiorgio si levava su, come per corrergli dietro, a raggiungerlo. Ora gli sembrava che fosse il Crispi dal grosso mustacchio bianco, dal viso colorito, simile più a un vecchio generale brontolone, che a un focoso avvocato. L’onorevole Sangiorgio finiva presto di mangiare, ròso dalla impazienza di vedere davvicino questi uomini politici, questi capi parte, e scappava di nuovo a Montecitorio. Ma lì una crescente delusione lo attendeva.

Egli girava dapertutto, cercando il Sella o il Crispi: ma l’aula era vuota e fredda, sotto il lucernario, co’ suoi banchi ancora coperti delle fodere di tela estive, coi suoi tappeti di un color polvere, orlati di azzurro, avendo l’aria di un pozzo profondo e umido, con una luce altissima che vi pioveva, quasi filtrando attraverso un velo d’acqua. Distrattamente egli saliva i cinque scalini che portano al seggio presidenziale, e si fermava un momento, dietro il seggiolone, a guardare i banchi, che stretti, giù, ascendevano verso le tribune, allargandosi; gli veniva una voglia infantile di mettersi a baloccarsi coi bottoni bianchi della soneria elettrica: per non cedervi, ridiscendeva subito dall’altra parte e usciva dall’aula, portando seco un po’ della malinconia di quel grande cono rovesciato giallastro, così tetro nella solitudine. Non trovava il Sella o il Crispi in nessun posto, nè nel buio corridoio lungo e stretto, dove i deputati hanno i loro cassetti per i progetti di legge e per le relazioni. Egli non trovava il suo uomo politico nè alla buvette, nè al grande salone dei passi perduti, nè alle stanze degli Uffici che dànno sulla piazza: un silenzio, una solitudine, dappertutto, con qualche usciere che gironzava, in uniforme, ma senza medaglia e con l’aria stanca delle persone disoccupate. Or qua, or là, l’onorevole Sangiorgio incontrava il questore della Camera che, era venuto a dare il cambio all’altro questore, un patrizio che si godeva l’ottobre nel fasto della sua villa magnatizia sul Lago Maggiore: e quest’altro, un barone abruzzese, dalla serena aria signorile, dalla fluente barba bionda, dalla compostezza mite, senza severità, del gentiluomo fedele alla consegna, se ne andava invigilando, senza far mostra di nulla. Ogni volta che il barone questore incontrava l’onorevole Sangiorgio, gli faceva un piccolo saluto col capo: e mormorava:

«Onorevole».

E non diceva altro, passando. Da questa cortesia continua e da questa continua riserva, l’onorevole Sangiorgio era come imbarazzato e intimidito: avrebbe preferito o non esser salutato, come un estraneo, o discorrere come un collega. Quella correttezza, amabile ma fredda, lo sconcertava, cosicchè, incapo a una settimana, di questi saluti compiti, senza lo scambio di una parola, l’onorevole Sangiorgio aveva finito per arrossire, lievemente quando incontrava il questore, come se costui lo sorprendesse in fallo. Poi, preso da una sfiducia di trovare chi cercava, egli si rifugiava nella sala di lettura, intorno alla grande tavola ovale, dove erano sparsi i giornali quotidiani. Lì, trovava sempre un paio di deputati: un socialista, di Romagna, dalla barbetta biondacastana e dall’occhio mobilissimo dietro gli occhiali, che scriveva continuamente sopra un tavolinetto, lettere sopra lettere, proclami focosi, forse; un deputato vecchio, col pizzo bianco e la faccia rossa, che dormiva sempre, quietamente, in una poltrona, coi piedi sopra una sedia, le mani in grembo e un giornale spiegato sul petto.

Francesco Sangiorgio, vinto da quella quiete, da quell’aria calda, dalla mollezza della grande poltrona di velluto azzurro-cupo, appoggiava la testa a una mano, tenendo sempre sollevato il numero del Diritto o dell’Opinione che stava leggendo. Un sopore gli scendeva su tutti i nervi, come rilassati in quell’ambiente caldo e silenzioso; ma nel sopore, dietro la mano che gli copriva gli occhi, egli ascoltava. Se il deputato socialista voltava il foglio, se il vecchio faceva gemere una molla del suo seggiolone, Sangiorgio trasaliva: il timore di essere sorpreso dormendo, lo scuoteva, come quell’antico deputato che non aveva vergogna di distendere la sua senilità sfiaccolata e inattiva nella sala, dormendo della grossa, con un respiro roco di vecchio catarroso. Allora egli si alzava e in punta di piedi traversava la sala.

Il deputato socialista levava il capo, guardandolo fissamente coi suoi occhi maliziosi di apostolo troppo furbo: forse cercava di indovinare la stoffa di un discepolo, in quel deputato novellino e giovane; ma lo sguardo freddo, la fronte bassa dove i capelli erano piantati duramente, come una spazzola, tutta la fisonomia energica di Francesco Sangiorgio, indicavano un carattere già formato, incapace di subire influenze, su cui non avrebbe avuto presa il misticismo sociale. Sicchè Lamarca, il deputato socialista, riabbassava il capo a scrivere.

L’onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca. Nel corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sul lucernario dell’aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno, scrivevano in certi libroni, un catalogo generale delle opere che si conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante: essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava, sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse una opera introvabile: piccolino, ritto sopra uno sgabello per arrivare all’altezza del leggio, con un par d’occhi miopi che gli facevano mettere il naso sulla carta per leggere, pareva sempre che dovesse scomparire dentro il librone e restarvi schiacciato, come un segnacarte. Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l’onorevole Sangiorgio non trovava alcuno: i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai, di matite, per gli studiosi, erano deserti.

In qualche angolo di stanza, innanzi a uno scaffale semivuoto, arrampicato sopra una scala, l’erudito deputato bibliotecario, il dantofilo paziente dalle sopracciglia nere, che sembravano tracciate da un colpo di carbone troppo forte, rovistava fra i libri, furiosamente, con la passione per quella biblioteca, che egli aveva tratta dal disordine in cui giaceva. Nemmeno si voltava, l’onorevole deputato bibliotecario, al passo cauo dell’onorevole Sangiorgio: o, accorgendosene, si voltava e lo guardava con un paio d’occhi nerissimi e vivi, ancora sbalorditi e pregni della ricerca letteraria che stava facendo.

Francesco Sangiorgio, di nuovo imbarazzato, come un disturbatore, messo in soggezione da quel silenzio e da quello sguardo stralunato del bibliotecario, camminava anche più adagio, e nell’ultima stanza si metteva a leggere i titoli delle nuove opere, a uno a uno, sbalordendosi di tutta quella scienza amministrativa, economica, politica, che era accumulata in quelle scansie. Poi, per non parere, prendeva un volume del Buckle, Storia della civilizzazione in Inghilterra, il secondo e leggeva.

Come gli amanti che non possono staccarsi dalla donna che amano, subendone il fascino dolcissimo, cercano dei piccoli pretesti, per poter restare accanto a lei, così egli si tratteneva nei corridoi a guardare le carte geografiche in rilievo, nell’aula a studiare la distribuzione dei posti, in sala di lettura a leggere i giornali, in biblioteca a leggere un libro qualunque, di cui poco o nulla gli importava.

Con la naturale salvatichezza del suo spirito e la timidità del provinciale, egli temeva, in cor suo, che quel questore che lo salutava così compostamente, ma senza mai dirgli niente, che quegli uscieri così indifferenti che lo vedevano passare, che quel bibliotecario così amoroso della sua biblioteca, non lo giudicassero quello che realmente era; un provinciale, un novellino, stordito dalla sua prima fortuna politica, che fremeva di piacere a distendersi nei seggioloni parlamentari e che non sapeva staccarsi da quel posto. Gli pareva che, come agli amanti, gli si dovesse leggere, sulla faccia, la passione unica.

Quel giorno non voleva metterci piede, a Montecitorio, non voleva per nulla occuparsi del mondo parlamentare: aveva bisogno di veder Roma, di trovar casa. Egli s’indugiava alla finestra, volendo mettersi in giro, dopo colazione. Si era svegliato di buon’ora, desto da un frastuono di voci e di risate, nella camera accanto. Una voce sonante, virile, tutta scoppii, che pronunziava con un fortissimo accento napoletano, che parlava un dialetto napoletano schiettissimo, frammezzato da grosse risa, dalla mattina strepitava, esclamando, con due persone in visita che erano poi sostituite da altre due, una sfilata di amici, di sollecitatori che chiedevano, si raccomandavano, ripetevano infinitamente la loro domanda, in dialetto napoletano, con quella ostinazione verbosa partenopea, a cui l’on. Bulgaro, deputato per Chiaia, secondo quartiere di Napoli, rispondeva con forti dinieghi. Si udiva tutto attraverso la porta divisoria: l’onor. Sangiorgio, involontariamente, ascoltava — Non poteva, no, proprio non poteva, l’on. Bulgaro: che era forse il Padre Eterno da far grazia a tutti? Lo lasciassero in pace, una buona volta! — E passeggiava per la stanza, col suo pesante passo di biondone grasso che la vita borghese ha intorpidito, togliendogli l’elasticità del bell’ufficialone vigoroso che aveva sedotto tante belle creature, nel tempo buono. Ma quelli che volevano qualche cosa, insistevano, supplicavano, esponevano i loro fatti di famiglia, narravano i loro guai, ricominciando sempre, tanto che l’onorevole Bulgaro, con la facile bonarietà napoletana, cedeva, stanco, e diceva:

«Va bene, va bene: mo’ vediamo, se si puol fare qualche cosa».

Quelli se ne andavano, soddisfatti, come se già avessero quello che desideravano, e l’on. Bulgaro, rimasto solo, un minuto, sbuffava e mormorava:

— Gesù, Gesù, che schiattamento! —

L’onorevole Sangiorgio si vergognò di aver tanto ascoltato, e scese a colazione, tutto pensieroso. Si armava di forza per resistere alla seduzione di Montecitorio: pensava che forse erano giunti molti deputati, mancando solo venti giorni all’apertura della decimaquarta legislatura; e già cedeva alla curiosità, un pretesto della sua debolezza. Ma, per caso, una carrozza che passava, lentamente, sul selciato bagnato, gli sbarrò la vista del portone: egli salì in quella carrozza con un atto decisivo.

«Dove comanda?» chiese il cocchiere a quel passeggiero distratto, che non gli dava l’indirizzo.

«A... san Pietro... sì, portami a San Pietro,» rispose Francesco Sangiorgio.

Il tragitto fu lungo: le tre vie consecutive, Fontanella di Borghese, Monte Brianzo, Tordinona, erano ingombre di veicoli e di pedoni, strettissime, contorte, con quelle nere botteghe di ferravecchi, di cartoleria, tutte sporche e polverose, con quei portoncini angusti, con quegli angiporti paurosi. A Castel Sant’Angelo si respirava; ma sul torbido e quasi immobile fiume giallastro, era una fittezza di casupole brune, di casamenti bigi, dalle mille piccole finestre, dalle chiazze di verde umido, sulle facciate, come se una schifosa lebbra li deturpasse, dalle fondamenta nerastre di ruggine, che l’acqua bassa lasciava scoperte: quel gomito di fiume, verso Trastevere, era ignobile, in Via Borgo la quiete profonda clericale cominciava, coi palazzi bigiognoli silenziosi, con le botteghe di oggetti sacri, statuette, immagini oleografie, rosari, crocifissi, su cui era pomposamente messa la leggenda: Oggetti di arte.

Nella vastità della piazza, solitaria, deserta, che ascende verso la chiesa, le due fontane zampillanti, sembravano due pennacchi bianchi, e l’obelisco di mezzo un bastoncello; e intorno intorno era tutta una bagnatura lieve, un umidiccio di acque quasi trapelanti a fior di suolo, un silenzio di luogo disabitato. La carrozza girò intorno all’obelisco e si fermò innanzi alla grande scalea. L’onorevole Sangiorgio guardava la facciata di San Pietro, sembrandogli molto piccola e molto schiacciata.

«Non vole andare in chiesa?» domandò il cocchiere.

«.... Sì,» disse il deputato, scotendosi dalla sua distrazione.

Quando fu sulla soglia, si voltò a guardare la piazza, macchinalmente. Aveva letto che un uomo sembrava una formica, a quella distanza; ma nessun uomo comparve, e la piazza vuota, grandissima, cosparsa di acqua, sotto il cielo biancastro, gli parve simile alla campagna romana, una vastità di campagna brulla. Nella chiesa non provò nessuna impressione mistica: egli era un indifferente in fatto di religione, non parlandone mai, discutendo il Papato come una grande questione politica, lasciando la fede e le pratiche religiose alle femmine. L’architettura di San Pietro lo lasciò freddo. Avanzandosi, vedeva che la chiesa, s’ingrandiva sempre più, ma questo inganno dell’armonia gli sembrava senza scopo, dannoso. Alcuni tedeschi giravano, guardandosi attorno con una certa severità, come se il loro rigido luteranesimo disdegnasse quella pompa cristiana. Non una sedia, non un banco, non un prete, non un sagrestano, spirito familiare, che spegnesse le candele o rifornisse d’acqua benedetta le grosse pile vuote; i confessionali bruni, su cui leggevasi a caratteri dorati: Pro hispanica lingua, Pro gallica lingua, Pro germanica lingua, erano vuoti; per inginocchiarsi, solo lo scalino della Confessione o quello dell’altare maggiore; se no, il freddo pavimento.

Francesco Sangiorgio non capiva nulla ai monumenti dei pontefici: li guardava senza intenderne la bellezza o la bruttezza. Aveva idee vaghe e meschine in fatto di arte. Quello del Canova, coi leoni dormienti, gli parve mediocre: quello di papa della Rovere, a terra, tutto di bronzo, gli parve superbo e bello: quello del Bernini, la Morte di oro, il tappeto di marmo rosso venato, il papa di marmo bianco, non gli urtò i nervi, gli sembrò semplicemente bizzarro. Non sapeva se i quadri dipinti sulle pale degli altari fossero di buoni autori o no, se fossero copie od originali. Andava attorno, trattenendosi, quasi per obbligo, distraendosi, pensando ad altro, non interessandosi a quella massa enorme di pietra, glaciale, abbandonata, dove altre tre o quattro ombre vagolavano. Infine, uscendo, il monumento ai due ultimi Stuart gli sembrò una miseria.

«Andiamo al Colosseo,» disse risolutamente al cocchiere, buttandosi a sedere sui cuscini.

Il cocchiere, ad allungare la corsa, poichè era preso a ora, e per evitare la via per cui erano venuti, abbastanza disastrosa, lo portò per le vecchie strade scure di Borgo Santo Spirito e del Governo Vecchio, dove sta la popolazione vera romanesca, incapace di abbandonare i suoi quartieri antichi e le sue case anguste e piene di scarafaggi. Il cocchiere faceva andare il cavallo al piccolo passo di animale stanco, avendo capito di portare un forestiero senza volontà. Anzi, al Foro Traiano, egli allentò sempre più l’andatura del cavallo, e Sangiorgio finse di ammirare quella larghezza di campo più basso del suolo, dove fanno da tronchi d’albero le colonnette mozzate, grande camposanto di gatti morti, grande vivaio di gatte selvagge, a cui le serve pietose di via Magnanapoli e di Macel de’ Corvi vengono a dare gli avanzi del loro pranzo. Egli non potette vedere nè la rude facciata del Campidoglio, nè l’arco di Settimio Severo, nè la Grecostasi, nè il tempio della Pace; nè tutto il grande Foro Romano: si scavava continuamente da quelle parti: non si poteva passare, nè andare sul Colle Palatino. Così spiegava il cocchiere, passando per la via di Tor de’ Conti. A un tratto la carrozza si trovò sotto il Colosseo, senza che egli, il visitatore, l’avesse visto da lontano, per la via che aveva dovuto prendere.

L’onorevole Sangiorgio sentì che doveva scendere e penetrò sotto l’arco di entrata, affondando nel terreno fangoso. Una pozza di acqua piovana, larga, con gli orli verdicci di vegetazione, era sulla soglia dell’Anfiteatro Flavio: nelle cavità delle pietre bianche sparse qua e là, nelle scanalature degli scalini, perfino nella mano di un tronco di statua, vi era dell’acqua piovana.

Francesco Sangiorgio, maravigliato di quella immensità di mura, cercava di orientarsi: dov’era, dunque, il podio imperiale dove erano la tribuna delle vestali e quella dei sacerdoti? Arrivò nel centro, ma non capì che fossero quelle costruzioni del sottosuolo. Sì, era maestoso il Colosseo, ma la luce sporca di una giornata piovosa gli toglieva una parte della maestà, mostrandone il lato sudicio e tutto lo sgretolamento del tempo. La campagna attorno, fuori, era vastissima: una vegetazione ricca di campagna umida: ma non un canto d’uccello, non una voce di animale, non la voce di un uomo.

Sotto l’arco di una porta, una guardia municipale comparve, lenta, indifferente, senza nemmanco accorgersi del visitatore. L’onorevole Sangiorgio girò coscienziosamente pel corridoio circolare, un po’ scuro. Pensava che forse era più bello di notte, il Colosseo, con la luna che dà un aspetto magico alle rovine e le fa sembrare più grandi, più meste. Aveva fatto male a venirci di giorno, adesso la prima impressione era irrimediabile: il Colosseo gli pareva una gran cosa immensa e inutile; una costruzione di gente orgogliosa e folle. Un signore e una signora, giovane e delicata lei, alto e robusto lui, giravano anch’essi pel corridoio circolare dove si respira l’aria molle e fresca, come in un sotterraneo: andavano lentamente, senza guardarsi, discorrendo sottovoce, con le dita intrecciate. Ella chinò gli occhi, incontrando quelli di Francesco Sangiorgio, e l’uomo si guardò come meravigliato e importunato.

— Figuriamoci che sarà di sera, con la luna! — pensò l’onorevole Sangiorgio. — I romani antichi hanno fatto il Colosseo, perchè gli amanti moderni ci vengano a tubare.

E si strinse nelle spalle, nel suo segreto disprezzo dell’amore; il disdegno del provinciale cui mancò il tempo, l’occasione, la voglia di amare, il disdegno dell’uomo profondamente assorto in un altro desiderio, che non era l’amore.

«Andiamo a Sangiovanni in Laterano?» chiese il cocchiere, pigliando lui l’iniziativa.

«Andiamo pure»,

E lo condusse prima a San Giovanni Laterano poi a Santamaria Maggiore, deponendolo fedelmente alla porta. Ma quelle chiese erano più piccole di San Pietro: non lo maravigliarono neppure per la loro grandezza: erano più mistiche, forse, ma la sua anima era chiusa ai dolci misteri della pietà religiosa: egli andava su e giù, come un sonnambulo. All’uscire, il cocchiere, senza neppure più chiedergli nulla, lo portò, al piccolo passo del suo ronzino, rifacendo la via già percorsa, e passando sotto l’arco di Tito, alle colossali terme di Caracalla. Il deputato Sangiorgio non si fermò a vedere le fotografie sulla porta: entrò subito, come preso da un’impazienza.

Le mura salivano, altissime, coperte di cespugli d’erba e di spini, con la solidità che sfida i secoli. Nel mezzo degli stanzoni vastissimi, il suolo aveva ceduto, era diventato concavo, come quello di una vasca, e vi si accoglieva un pantanello di acqua nerastra. Nel fondo della sala dei giuochi e della ricreazione, era una statua seduta, decapitata, una statua di donna pudicamente velata: Igea, forse. Sul lamentevole cielo di novembre si disegnava un altissimo pezzo di muro sgretolato, uno scoglio irto, a picco, che pareva salisse su, su, nella regione delle nubi. Laggiù, nella campagna, restava ancora ritto, elegante, piccolino, un tempio rotondo: a Venere, forse.

L’onorevole Sangiorgio, in quell’ampiezza di ambiente, provava un malessere, aveva un freddo per le ossa, si sentiva piccolo, meschino, e tutto questo lo mortificava, lo umiliava, lo faceva soffrire.

«No,» disse risolutamente al cocchiere, che gli offriva di condurlo sulla Via Appia antica. «Andiamo in città».

Rientrando in Roma, s’abbrividiva. S’imbruniva quella molle giornata di autunno, e a lui pareva di averne addosso tutto l’umidore filtrante, tutto il colore biancastro e sporco, tutto il sottile strato di fango: e parevagli anche di portare in sè tutta la mestizia, tutta la solitudine, tutta la tetraggine di quelle rovine, piccole o grandi, meschine o immani, tutta la vuotaggine, l’indifferentismo di quelle chiese inutili, di quei grandi santi di pietra, che sembravano figure ieratiche senza viscere, di quegli altari, glaciali, di marmi preziosi.

Che gli facevano a lui tutte le memorie del passato, tutti quei ricordi ingombranti? Chi se ne curava del passato? Egli apparteneva al presente, molto moderno, innamorato del suo tempo innamorato della vita, che deve giungere, non di quella che è fuggita, capace di lotta quotidiana, capace dei più forti sforzi per conquistare l’avvenire. Egli non s’indeboliva coi rimpianti, non trovava che le cose andassero meglio prima: egli amava la sua epoca, e la vedeva grande, ecco tutto, più pensierosa, più attiva, più individuale. In quel crepuscolo che saliva al cielo torbido di nuvole, egli si sentiva rimpicciolito, perduto dalla pericolosa, snervante contemplazione del passato; un’oppressione profonda gli scendeva sul petto, sull’anima; certo aveva preso le febbri nell’acquitrino del Colosseo e delle Terme, nell’alito tepido e umido delle chiese.

Ma a Piazza Sciarra i primi lumi a gas lo rianimarono. Un venditore di giornali strillava il Fanfulla e il Bersagliere.

Gruppi di gente erano fermi sui marciapiedi. Una vivezza di vita cominciò a riscaldargli il sangue. Un signore, in un crocchio, davanti a Ronzi e Singer, diceva forte che l’apertura del Parlamento era stabilita pel venti novembre. Le trattorie del Fagiano e delle Colonne, sotto il portico di Veio, erano riboccanti di luce. Attraverso i vetri, parve all’onorevole Sangiorgio di discernere, nella trattoria delle Colonne, l’onorevole Zanardelli, di cui conosceva un ritratto. Invece di scendere all’Albergo Milano, entrò nella trattoria delle Colonne, e si mise a sedere, solo, a un tavolino, rimpetto all’onorevole intransigente di Brescia. E mentre mangiava, l’onorevole Sangiorgio contemplava quel lungo corpo dinoccolato e slogato, quella piccola testa nervosa e piena di un’indomita volontà, quegli scatti convulsi, quell’armeggìo tutto meridionale: l’onorevole di Brescia pranzava con tre altri commensali. In un altro angolo pranzavano tre altri deputati, e i camerieri si affaccendavano intorno a quei due tavolini di avventori conosciuti, dimenticando l’onorevole Sangiorgio, tutto solo, ignoto. E in quell’ambiente fittizio si sentiva rinascere, rinfrancare, riprendeva forza pel combattimento: quando, nella sera che si avanzava, risalì a piazza Montecitorio, nel vedere il palazzo del Parlamento, grande nell’ombra, egli trasalì in tutto il suo essere sconvolto. Era là il suo cuore.

III.

Nella bottega della guantaia, in via di Pietra, vi era ressa: la bella padrona bionda e alta, una milanese allegra, le due commesse, le due giovanettine magre, dagli occhi stanchi, non facevano che rivoltarsi indietro, ogni minuto, con le braccia tese, a prendere un cassetto di guanti dagli scaffali: esse curvavano il capo a scegliere con le dita lunghe e agili, fra le paia, quel paio che cercavano. Tutti quelli che entravano, chiusi nel paletot, sotto cui s’indovinava la marsina, col bavero alzato e il cappello a staio, lucidissimo, chiedevano dei guanti chiari o bianchi; un signore elegante, dalla tuba di raso, dal nastro rosso e bianco sotto il goletto, un commendatore, infine, precisò quello che voleva, li chiese color grigio tortorella. Una signora provinciale, vestita di raso granato, con un cappellino bianco che l’affogava, sceglieva lungamente un paio di guanti, discutendo, facendo impazientire i tre o quattro che aspettavano, in un cantuccio: cercava il guanto stretto, non le piaceva che facesse pieghe; poi blaterò contro la debolezza dei bottoni, attaccati con un punto solo, che saltavano via dopo un minuto. Quando le dissero il prezzo, sei lire, si scandalizzò, assunse un contegno serio, disse che era cattiva la pelle per quel prezzo così caro e uscì, senza guanti, con le labbra strette, portando in mano il suo biglietto d’invito per una tribuna.

Un onorevole, forte, giovane, bruno, dai grossi mustacchi neri, un meridionale, raccontava a un suo cliente che si trascinava dietro, come all’ultimo momento si era trovato senza guanti, che questo padrone di casa mandano tutto alla malora: e il cliente povero ascoltava, col vago sorriso paziente dei confidenti, senza guanti, lui, non avendo forse il denaro da comperarli.

Intanto era entrata una signora, scendendo da una carrozza: era alta, con un bel viso tutto dipinto di carminio, di antimonio e di bianco, le labbra sanguinanti, le sopracciglia azzurre a furia di esser nere, i capelli di un biondo giallissimo. Tutta vestita di bianco, di raso, con un cappello coperto di piume bianche, con un ombrellino di merletto bianco, ella cercava un paio di guanti bianchi, a diciotto bottoni, e i suoi braccialettini tintinnavano, salendo e scendendo sul braccio nudo: ella esalava un acuto profumo di white-rose.

Un deputatino, piccolo e grasso, quasi rotondo, con una corona di barba nera e un par d’occhietti vividi, piccini, rotondi, la guardava di sotto in su, e si lagnava, con un collega, un bel signore alto, dal mustacchio biondastro brizzolato, dall’aria grande di sciocco decoroso, che la Corte glielo faceva per dispetto: deputato democratico, dell’estrema sinistra, veniva sempre fuori nel sorteggio dei deputati che dovevano ricevere il Re e la Regina alla porta del Parlamento. Capite, lui, deputato democratico, dover fare il saluto, la riverenza, offrire il braccio ad una dama di Corte che non si conosce, che non vi parla, a cui non si sa che cosa dire.

«Le donne eleganti mi piacciono», mormorò il deputato, col suo contegno di stupido soddisfatto.

«Sarà; ma quando si pensa che quel vestito è fatto coi denari dei contribuenti...» ribattè l’onorevole grassotto repubblicano.

E uscirono, guardando salire in carrozza la bella femmina dipinta: fra le sfioccature di trina della sua cravatta, ella portava un bigliettino roseo: andava a un’altra tribuna, ella, a una tribuna distinta.

«La vendetta del proletariato», disse il deputato democratico, tutto compiaciuto.

Ora, nella bottega di guanti, la gente si accalcava. Erano facce d’impiegati, dalla barba rasa di fresco, dalle cravatte bianche stirate in casa, dai soprabiti pepe e sale, fumo di cannone, carbonella, sotto cui i calzoni neri avevano un luccicore di panno conservato: erano facce scialbe di alti funzionari, a cui il nastro verde dei SS. Maurizio e Lazzaro dava un colorito anche più cadaverico: erano ogni sorta di tube antiquate, a cui un colpo di ferro aveva dato un aspetto giovanile.

La guantaia bionda e ridente non si stancava, non perdeva mai la testa, si chinava sempre amabilmente, rispondeva con una cortesia di venditrice signorile settentrionale. Aveva consumata la sua provvisione di cravatte bianche, e quando arrivò l’onorevole di Santamarta, un siciliano biondo, dall’aria mefistofelica, a chiederne una, ella si desolò: il marchese di Santamarta era un cliente di tutto l’anno. Proprio in quel momento aveva finite le cravatte bianche: ma il Salvi, qui, in Piazza di Sciarra, ne doveva avere. Il marchesino biondo ascoltava, un po’ indolente, con gli occhi azzurri femminili un po’ smorti fra le palpebre, e il sorrisetto scettico.

«E la signora marchesa era in Roma, si recava naturalmente al Parlamento?».

«Sì..., credo», rispondeva l’onorevole marchese, «credo che vi andrà con sua sorella. Sono uscito presto di casa, per questa cravatta. Che fastidio, sempre, queste rappresentazioni...».

E stracco, come se avesse compiuta una gran fatica, e un’altra insopportabile gliene restasse da fare, se ne andò.

«Da questo Salvi, dite?» domandò dalla porta, con una voce seccata.

«Salvi, in Piazza Sciarra».

Per un momento, la bottega restò vuota. Le giovanette si riposavano, in piedi, con un pallore sul volto, fra le scatole aperte dei guanti e i fasci ammucchiati sul marmo; la stessa padrona era presa da un minuto di lassezza, immobile, appoggiata con le mani al banco. Le pareva di essere in una di quelle ardenti sere di carnevale, delle ultime, in cui Roma ha tre balli aristocratici, quattro veglioni pubblici e otto o dieci ricevimenti; e nella bottega è un affollarsi di giovanotti, di modiste, di servitori, di cameriere, di mariti disperati, di amanti frettolosi. Ma una famiglia di salernitani, padre, madre e figliuola, il padre impiegato all’Interno, entrarono, e chiesero un paio di guanti per la ragazza. Essi spiegarono subito che andavano alla Camera, che i biglietti li avevano avuti, uno dal loro deputato barone Nicotera, il barone, diceva semplicemente la madre; un altro lo avevano avuto da don Filippo Leale, l’onorevole Leale, quello con la barba nera, che era stato segretario generale, e il terzo biglietto lo aveva procurato un usciere della Camera, del loro paese, un brav’uomo, con cinque medaglie: oh! i biglietti non si avevano facilmente, ve n’era una caccia! una signora, zia di un deputato, che essi conoscevano, non aveva potuto averlo. Erano un po’ preoccupati, visto il colore diverso dei tre biglietti, tre tribune diverse: ma via, non si sarebbero perduti nel Parlamento.

«Credo che bisognerà che vadano per tre vie diverse,» osservò placidamente la guantaia, a quel profluvio di parole, calzando a stento la mano rossa e paffuta della ragazza. Il papà guardò sua moglie, con una cera turbata.

Adesso, la bottega si empiva di nuovo, di gente frettolosa, nervosa, che non poteva aspettare, che batteva i piedi dall’impazienza, che lacerava i guanti per metterli presto. Davanti al banco era una doppia fila di avventori, che si accalcavano gli uni sugli altri: sul banco una grande confusione di scatole aperte, uno sfasciamento di mucchi di guanti: un odore forte di pelle, quell’acuto odore tutto femminile che ubbriaca.


Il gaio sole autunnale, in quella mattinata tutta gioconda, saliva sulle case di via della Colonna, sulle case di via degli Orfanelli, e illuminava di traverso Piazza Colonna: la colonna Antonina pareva nera e vecchia in quello spolverio di luce bionda che la circondava, e si delineava, tutta raggricchiata, come gobba, sulla facciata rossa del palazzo di Piombino.

Nell’aria limpida era come uno scintillio di atomi dorati. Non spirava un’aura di vento: una dolcezza immobile avvolgeva le strade e le case, un ambiente letificato di sole. Dal liquorista Ronzi e Singer, al Club delle Cacce, al grande balcone di donna Teresa Boncompagni, principessa di Venosa e dama della Regina, al Circolo Nazionale, le bandiere tricolori pendevano spiegate: all’angolo del palazzo Chigi, sul balcone dell’ambasciata austriaca, le due bandiere si univano, fraternamente. Nella nitidizza della luce, in cui tutto pareva vibrasse, a contorni precisi e taglienti, i tre colori, vividi, gittavano una nota acuta, allegrissima: e il tono giallo del sabbione sparso per il Corso e per la salita di Piazza Colonna sino al Palazzo Montecitorio, si rinforzava. Sulla terrazza del Circolo Nazionale, era una fittezza di ombrellini rossi, bianchi, azzurri, come imbionditi dal sole. Dai due lati del Corso, da Via Cacciabove, da Via della Missione, da Via Bergamaschi, era un accorrere continuo di gente, a frotte, a gruppi un luccicare di tube nere, uno scintillio di spalline dorate, un movimento ondeggiante di piume bianche e rosee, sui cappelli femminili.

Alle nove e mezzo il cordone militare era già a tutti gli sbocchi, e salendo verso Montecitorio, si arrotondava attorno all’obelisco sino agli Uffici del Vicario. A ogni sbocco era un continuo parlamentare fra gli ufficiali e coloro che volevano passare senza biglietto: ognuno di loro cercava un deputato: eccolo, lo vedeva sotto l’atrio del Parlamento, gli faceva dei cenni, ma che! Quello non si voltava! Dietro il cordone, da tutte le parti, la folla aspettatrice si assiepava, profonda, iridescente nella chiarezza mattinale; qua e là un abito rosso femminile, un abito bianco facevano macchia. Di qua dal cordone era un grande spazio libero, innanzi al portone, tutto cosparso di sabbia: ogni tanto qualche signore dal soprabito aperto, qualche signora in elegante abito di mattina, lo attraversavano, a piedi, lentamente per farsi meglio vedere, discorrendo fra loro, sentendo il piacere di sapersi invidiati dalla folla senza biglietto. Per un momento, vicino ai quattro scalini del portone, vi fu un gruppo di tre signore: una, vestita di nero, brillava tutta, al sole, di perline nere, una corazza lucidissima le imprigionava il busto: l’altra vestita di un bigio delicato, aveva un velo bianco sul viso: la terza era vestita di quell’azzurro ferrigno, allora in moda, elettrico, tutte tre si erano incontrate sulla soglia, si salutavano, si prodigavano le cortesie, ridevano, s’inchinavano, inarcate sui loro stivaletti dorati, sentendosi guardate dalla gente, ammirate, invidiate, prolungando quel minuto di piacere; poi, l’una dopo l’altra, scomparvero dentro Montecitorio. Come l’ora si approssimava, la folla si pigiava da tutte le parti, e aveva come un moto di marea, un flusso e riflusso che andava a battere contro il muro del cordone militare, Tutte le finestre dell’Albergo Milano erano gremite di teste; alle soffitte comparivano le teste arricciate dei camerieri e le cuffie bianche delle cameriere; i grandi finestroni della Pensione dell’Unione, le piccole finestre basse del Fanfulla, le finestre del palazzo Wedekind, avevano tre, quattro file di persone, le une buttate sulle altre: e in tutte le vie adiacenti, la piazzetta degli Orfanelli, la viottola della Guglia, gli Uffici del Vicario, i due capi della Via della Missione, era ancora un brulichìo di persone ai balconi, alle terrazze, alle finestre. Sulle sedie, sui tavolini del liquorista Aragno, delle donne erano salite.

Intanto, come l’ora della solenne apertura si approssimava, una fila di persone, d’invitati, attraversa lo spazio libero, nel sole, facendo scricchiolare il sabbione: ogni tanto, a un occhiello, luccicava una filza di decorazioni. Le carrozze salivano al trotto dal Corso, senza nessun rumore di ruote, giravano attorno all’obelisco, con una curva molle, e si fermavano innanzi al portone: erano le carrozze dei ministri, dei senatori, del corpo diplomatico, qualche vecchione ne scendeva, sorretto da un servitore e da un segretario, qualche uniforme bianca o rossa compariva, per un istante, poi spariva nel portone.

Sulla piccola piattaforma, due giornalisti, in marsina e col cappellino floscio, prendevano delle note, i nomi di coloro che passavano: l’uno piccolo, con la barbetta appuntita, bionda e brizzolata di bianco, le lenti d’oro, l’aria imperturbabile: l’altro, anche piccolo, tarchiato, pallidissimo. con un mustacchietto da collegiale e il sorriso di chi disegna qualche cosa di ridicolo, i direttori dei due maggiori giornali romani, che compivano personalmente il lavoro di quella importante giornata, e se la ridevano fra loro, amichevolmente, di quelle teste strane che si vedevan passare.

Il sole saliva sull’angolo della Pensione dell’Unione, cominciando a conquistare la piazza di Montecitorio e a quella conquista lenta, corrispondeva un moto della gente, come una espansione di contentezza, e ogni tanto la cappa tesa e rotonda di un ombrellino si levava. La processione degli invitati continuava, attraverso il grande circuito libero: ora essi si affrettavano con un principio d’impazienza, spingendosi un poco, sapendo di arrivar troppo tardi, per aver un buon posto. La folla delle strade, dei vicoli, dei balconi, delle finestre, sembrava talvolta come colpita da un’improvvisa immobilità, quasi un incantesimo l’avesse pietrificata, come se una immensa invisibile macchina fotografica stasse fotografandola; e si potevano discernere le facce immote, gli occhi sbarrati, le file ammassate, i bimbi tenuti in collo dalle mamme, una carrozza da nolo, ferma, fra la gente, su cui erano salite venti persone, in piedi. Poi questo incantesimo si infrangeva, la folla aveva quell’agitazione di colori che si muovono, stando sempre allo stesso posto: un movimento circolare, come lo snodamento degli anelli di un lombrico. Un ragazzetto era salito sul piedistallo, alto, dell’obelisco, e di là, attaccato al grosso tronco di pietra, si divertiva a far dei giuochi di equilibrio.

Infine il sole arrivò alla linea dei soldati, pigliandoli di sbieco: prima ne illuminò le ghette bianche, poi il cappotto turchiniccio, poi il kepì di pelle nera e finalmente battè, linea smagliante, sulle canne dei fucili. E di lontano, un rombo lieve, breve, arrivò: l’eco di una cannonata. E dall’uno all’altro di tutti gli astanti, dai balconi alle finestre, dalle strade ai vicoli, fu un fluttuamento, un sospiro enorme di soddisfazione:

— Il corteo, il corteo, il corteo, — diceva, sottovoce, con un clamore crescente, la folla.

Nell’aula fu anche udito il rombo del cannone: per un istante vi regnò un silenzio perfetto. Poi un mormorio crebbe, si elevò, i ventagli ricominciarono ad agitarsi, il chiacchierio sottile e penetrante femminile, il passo di coloro che giravano pel corridoio, cercando invano un posto, il fruscio degli abiti serici, si confusero, si fusero. L’aula era trasformata. Circolarmente, mediante una impalcatura, l’altezza dei settori era stata elevata sin quasi a livello delle tribune, formando così una grande tribuna provvisoria, dove quattro file profonde di pubblico, sedevano proprio dietro le spalle dei deputati dell’ultimo banco; sulle due scale laterali, quelle che gli uscieri conoscono per doverle salire e scendere cento volte al giorno, nelle ore della seduta, erano due falde fittissime di pubblico, due strisce larghe e nutrite che andavano, dall’alto delle tribune, fino giù, nell’aula, le signore sedute sugli scalini, gli uomini che avevano ceduto galantemente il loro posto, addossati al muro.

Attorno attorno, tutte le tribune erano zeppe, sino alle ultime file; quella della stampa, la migliore per udire i discorsi, anch’essa era stata ceduta al pubblico, i giornalisti erano dispersi, giù ai posti migliori; quella destinata alle signore era pienissima, ma sembrava una ironia, tutti ridevano che ci fosse una piccola tribuna speciale per le signore, quando esse avevano invaso tutto, erano dappertutto, alle spalle dei deputati, fin quasi nell’emiciclo, arse dalla indomabile curiosità muliebre; la tribuna dei militari era tutta un brillare di spalline e di galloni; in quella della presidenza era un gran tender di colli, un arretrarsi di gente desolata, delusa nelle sue speranze; le due tribune erano poste sopra il baldacchino reale, vedevano l’aula, non vedevano il Re, nascosto dalla cupola. E le due tribune grandissime degli angoli, quella del corpo diplomatico e quella dei senatori, rimanevano vuote, nella loro ombra profonda che dava il velluto azzurro cupo, sul fondo a legno delle pareti.

Nell’emiciclo era scomparso il banco delle commissioni, l’arco di cerchio parallello ai settori; era scomparso il lungo banco dei ministri, quello che gli oppositori a oltranza chiamano il banco degli imputati: il piccolo scrittoio di mezzo, dove i tre stenografi scrivono, dandosi il cambio ogni cinque minuti, non vi era più. Tutto il palco della presidenza era scomparso. Al suo posto, una piattaforma larga a cui si ascendeva per quattro scalini, coperta da un tappeto rosso, si elevava: e su questa un enorme baldacchino di velluto rosso, frangiato d’oro, diviso in tre scompartimenti. Tutto questo rosso prendeva una grande cupezza dalla cupola che si avanzava molto e in quella penombra sacra di cappella, l’oro della poltrona reale luccicava come un reliquiario. A un livello più basso, fuori del baldacchino, a destra e a sinistra, vi erano due altre poltrone per i membri della famiglia reale.

I deputati stavano aggruppati nell’emiciclo, ritti su per le scalettine dei settori, riuniti presso le due scalee, a discorrere con le signore: alcuni erano saliti all’ultima fila e voltavano le spalle all’aula, discorrendo allegramente con le donne di una grande tribuna di legno, salutando un conoscente, sorridendo a un amico, ammiccando familiarmente a un cliente, a un elettore cui avevano procurato un biglietto. I dialoghi s’incrociavano, leggieri, frivoli, fra quelle donnine piene di frasi puerili, che si meravigliavano di tutto, che rideano di tutto, e quei deputati che cercavano di secondarle. Una signora brunettina, elegantissima, con un cappellino tutto intrecciato d’oro, si faceva indicare i deputati dall’onorevole Rosario Scalìa un deputato siciliano, tutto serio, corretto nel taglio del vestito, con l’aria di ufficiale in borghese, e una piccolissima margherita all’occhiello; e alle spiegazioni tranquille dell’onorevole Scalìa, la brunettina si chinava, guardava con l’occhialetto, appuntando il musetto roseo e ridacchiando. — Oh! era quello l’onorevole Cavalieri, il calabrese, così ingenuamente goffo? — Un patriota? — , capiva bene, ammetteva i suoi meriti, ma aveva troppe decorazioni! — E l’omettino magro, dalla spazzola di capelli biondi tetro e dagli occhi grigi, era quello Guido Dalma, il deputato letterato che parlava alla Camera di Ofelia e alle signore della fondiaria? Perchè non lo facevano Ministro quel Guido Dalma? Ci vuol molto a essere ministro. Ma era veramente una cosa seria, la passione della politica? — E l’onorevole Scalìa, un po’ infastidito da quel rapido vaniloquio, cercava di provare alla signora che la politica poteva sembrare un scherzo a chi non la prendeva sul serio, ma che era una nobile passione: ella scoteva il capo, non convinta, ridendo del suo bel riso frivolo, e l’onorevole Scalìa mostrava sul viso una disattenzione crescente, si stancava di quel cicaleccio, guardando l’aula, trattenendosi ancora, per cortesia.

Il pubblico non s’impazientiva per l’attesa. Le donne erano felici di star sedute, di poter vedere, di poter essere vedute, sarebbero rimaste là fino alla sera, agitando i ventagli crollando il capo per far brillare le perline dei capelli, agitando gli occhialetti da teatro; gli uomini si consolavano, mutuamente, di quella toilette mattinale che avevano dovuto fare e che dava loro un carattere di pura eleganza, qualcuno fingeva l’annoiato, ma gli inviti a colazione circolavano, i convegni al caffè fioccavano, per poter commentare la cerimonia.

La folla che popolava l’aula e le tribune e i corridoietti e tutto lo spazio dove un uomo può stare, era allegra, con una piccola cima di esaltazione nervosa, un principio di ubbriachezza. Molte di quelle persone non avevano mai visto il Parlamento e fingevano di non guardare intorno, ma in realtà quell’ambiente le esaltava. Pure nulla di gaio aveva l’aula: e conservava il suo aspetto solito. Avevano certo lavato i cristalli del lucernario, ma la luce di quella mattinata bionda vi filtrava malinconica, vi si attenuava, come la luce fredda, biancastra e umida che passa attraverso un acquario; e le pareti color legno, coi fregi di un azzurro cupo, erano fatte apposta per non riflettere nulla, per estinguere ogni allegrezza luminosa: quella tinta volgare assorbiva e smorzava tutte le altre, avvolgeva tutti i colori in una gradazione scialba e monotona.

Così avveniva, affacciandosi da una tribuna, quel tale fenomeno ottico, che è la prima delusione di chi visita il Parlamento italiano: tutte le facce avevano un uguale colorito, si assomigliavano, non si potevano riconoscere le persone: era un insieme monotono, senza disegno, senza rilievo, che stancava la vista, per cui uno si tirava indietro, ristucco.

Ma questo ambiente che unificava tanti visi, tante età, tante condizioni e tante acconciature diverse, questa specie di livello che le più ribelli teste subivano, questa impronta comune cui niuno, entrato nell’aula, poteva sfuggire, produceva una impressione immensa: l’aula sembrava un grande luogo sacro che annientava l’individuo, un recinto che domava l’intelligenza, le volontà e i caratteri, in cui per rialzarsi, per essere uno, bisognava avere il profondo e fervido ardore mistico o l’audacia del sacrilega che rovescia l’altare. E il grande baldacchino reale, tutto rosso scuro, con le pieghe diritte e rigide che tendevano il velluto, con la pesante frangia d’oro e l’aquila d’oro che ne riuniva le pieghe sotto gli artigli, con l’ampia poltrona in una penombra mistica, aveva un aspetto ieratico, come il tabernacolo, come il sacrario, dove una potenza sconfinata si nascondeva.

A un tratto solo, tutti i deputati furono al loro posto, in piedi, le tribune caddero in un grande silenzio, mentre fuori le trombe squillanti dei bersaglieri sonavano la fanfara reale. Poi un lunghissimo applauso scoppiò, applauso sordo e prolungato di mani inguantate: le signore, in piedi, applaudivano anche esse, piegandosi sulle spalle dei deputati, per meglio vedere. Ritta nella tribuna diplomatica, circondata dalle sue dame, la Regina salutava in giro: e la bianchezza perlacea del volto vinceva la intonazione legnosa del fondo. Ella appariva fresca e giovane, tutta serena, sotto la falda di paglia dorata del suo cappello, che un piumetto color fragola adornava; e mentre sembrava finita l’acclamazione, e la Regina sedeva, più innanzi del suo squadrone di dame, tutto il pubblico fu ripreso da un riflusso di ammirazione per quella poetica figura, un nuovo applauso strepitoso, assordante, salutò ancora la Regina. E un’agitazione regnava dovunque: sulla scalea a destra, le signore si desolavano, erano sotto la tribuna del corpo diplomatico, non vedevano la Regina; quelle della presidenza, erano felici, non vedevano il Re, è vero, purtroppo, ma vedevano la Regina, a due metri di distanza; quelle della scalea a sinistra perdevano una metà dello spettacolo, tutto il corpo diplomatico, in grande uniforme nella tribuna dei senatori, con le mogli degli ambasciatori e dei ministri italiani — e le tribune del centro, della stampa, del pubblico, dei militari, degli impiegati, vedevano tutto, ma erano lontane; l’armeggìo degli occhialini era continuo. La folla, presa da una nervosità, si agitava, si piegava, a destra, a sinistra; dei dialoghi di giornalisti si udivano sopra le teste: — Vi era l’ambasciatore di Germania? — Sì, eccolo là, con la sua faccia bonaria, dal mustacchio bianco e dagli occhi dolci — Quella dama vestita di violetto, con grandi occhi neri, chi era dunque, dietro donna Vittoria Colonna? — Donna Lavinia Taverna, una Piombino. E tutte le signore erano vinte da un esaltamento, dei nomi femminili erano susurrati, dei brani di descrizione di toilette erano forniti: quelle più in vista cercavano di essere salutate dalle mogli dei ministri, dalle ambasciatrici, dalle dame: e un mormorìo crescente, un chiedere, un rispondere, un discutere sottovoce, facevano come il ronzio di mille mosconi nell’aria dell’aula.

Il Re entrò, improvvisamente: non era giunto il suono della marcia reale. Egli comparve dalla porta di destra, in mezzo alla sua Casa, ai ministri, ai dieci deputati che lo avevano ricevuto, e in tre passi fu sotto al baldacchino, avanti alla poltrona: due o tre volte si voltò a destra, a sinistra, con quei suoi scatti nervosi, di temperamento irrequieto e mal represso. L’assemblea e il pubblico lo salutarono, ed egli rispose, agitando l’elmo dorato dall’alto pennacchio fluente e bianco, tenendo nella mano destra un rotoletto di carta. Sulla giubba di generale aveva solo gli ordini militari stranieri e la medaglia al valor militare. E con l’uniforme stretta e il goletto bianco, i calzoni strettissimi, nell’ombra della cupola rossa, con l’elmo appoggiato sul polso e l’attitudine di un soldato alla posizione, egli sembrava una figura eccezionalmente militare, magra, bruna, robusta, sempre pronta a salire a cavallo, sempre disposta a dormire sotto la tenda: sembrava una di quelle figure degli antichi ritratti di principi soldati, dai fieri occhi aquilini, dal viso pallido che stringono nel pugno una pergamena arrotolata, dove è disegnato il piano di una fortificazione. Il vecchio principe di Savoia-Carignano, zio del re, grasso e calvo, si mise presso la poltrona a destra: appoggiava la persona stracca e floscia al bracciuolo della poltrona, ma non sedeva, per rispetto; il giovane duca di Genova, fratello della Regina e cugino del Re, prese posto, a sinistra: e nell’emiciclo, a destra il gruppo dei ministri; a sinistra la Casa reale.

Nel silenzio universale, si elevò la voce un po’ rauca del re: e certo, molti, fra quegli uomini politici dovettero trasalire, ricordando, in quella assemblea stessa, un’altra voce, un po’ velata, un po’ stridula, la voce fatta per comandare nelle battaglie e che pronunziava le leali parole, con cui egli suggellava il patto nazionale. E tutte le facce dei deputati si erano subitaneamente impensierite, rimanevano immote, con gli occhi fissi in quello del Re: tutto il pubblico femminile taceva, come colpito da un improvviso senso di rispetto. Nel silenzio profondo, in quella immobilità di tutta una folla, si udiva perfino il respiro del Re, fra una frase e un’altra di quel messaggio reale; e la voce in cui pareva vibrasse quella paterna, aveva certi scoppi improvvisi, certi rilievi bizzarri d’intonazione. La Regina, dalla tribuna diplomatica, ascoltava, intensamente, senza sorridere, col bel viso piegato e concentrato nella attenzione: le dame ascoltavano, senza batter palpebra; la tribuna degli ambasciatori, tutta, avea l’aria sorridente di chi già sa; le tribune del pubblico, attorno attorno, ascoltavano e ogni tanto, nell’assemblea, correva come un fremito di soddisfazione: il discorso fu interrotto due volte dagli applausi. A tratti, qualche parola più acuta pareva s’involasse, alata, sotto il lucenario: la pace... l’amministrazione della giustizia... il riscatto finanziario... ma subito la voce si abbassava, come se il Re disdegnasse l’applauso finale che corona le frasi; e in fondo egli si affrettò, come se fosse stanco, le ultime parole furono mormorate, più che lette: egli riprese subito il suo elmo dalla poltrona, ove lo aveva deposto, mentre l’assemblea gridava: Viva il re! Ma quella attenzione aveva teso gli animi e un senso di turbamento li invadeva: l’avvenimento di quella giornata, che prima era sembrato uno spettacolo curioso, ora si ingrandiva di proporzioni: la parola reale, in quella unica volta che il re costituzionale parla in pubblico, dice la sua volontà e le sue intenzioni, diventava una promessa solenne. Qualche signora più sensibile aveva un piccolo sudor freddo alle tempie: altre si davano dei colpettini di ventaglio sulla mano, gli occhi distratti, mormorando: è bello, è bello: e le più romantiche guardavano con gli occhi assorti la Regina, a discernerne la emozione.

Poi il giuramento cominciò. Il vecchio Depretis si era avanzato un poco e aveva letta la formola per i senatori e i deputati, scandendo le parole come se avesse voluto farle imprimere nella mente di coloro che ascoltavano. La massa dei deputati e dei senatori si profilava nera e bianca, dall’alto in basso dei settori: massa di teste energiche e di teste miserabili, di occhi scintillanti e di sguardi di pesce morto, di crani calvi e lucidi e di criniere forti, leonine, massa raggruppata al primo banco, in un semicerchio amplissimo: e sembrava che fosse financo troppo angusto quello spazio per la forza erompente di quelle volontà e di quei cervelli.

Il Re squadrava la rappresentanza nazionale; frattanto, il primo senatore, il duca di Genova, giurò, marinarescamente, con una voce vibrata, con un gesto energico: lo applaudirono. Poi giurarono otto nuovi senatori: e un movimento vi fu solo al giuramento di fedeltà del grande latinista piemontese, un clericale. Quello che interessava era il giuramento dei deputati. Depretis ne diceva il nome e il cognome, e aspettava un momentino; e da un banco una voce fioca o una voce sonora rispondeva: giuro. In quel minuto di attesa, gli animi restavano sospesi; il Re cercava con gli occhi colui che doveva giurare.

I vecchi patrioti giuravano militarmente, mettendo la mano nuda sul petto; la loro fede era provata: gli avvocati giuravano con una voce sottile e un tono acuto. Quando arrivò al proprio nome, Depretis cavò la mano destra di sotto l’uniforme ministeriale, la stese e giurò: l’assemblea rise del vecchio astuto che la dominava. Il ministro continuò a dire i nomi, e nell’attenzione generale, le voci commosse e le voci tranquille si facevano udire: ora come sorgenti dalle viscere della terra, ora come discendenti dal lucernario. I vecchi parlamentari giuravano, stendendo semplicemente la mano e pronunziando sottovoce la parola: i deputati radicali, che si erano lungamente preparati a quel passo difficile, giuravano presto presto, come per sbarazzarsi di un peso. E le signore ascoltavano, tutte commosse, tutte prese da un’invincibile tenerezza, esse che hanno inventato ogni sorta di giuramenti falsi, vinte da una emozione innanzi a quelle promesse così solenni che cinquecento uomini facevano a un solo uomo, e a tutto il paese.

Ma i deputati nuovi erano i più turbati: quell’apparato reale e parlamentare, quel pubblico femminile e maschile, quel messaggio del re, il giuramento degli altri deputati, tutto questo ne scoteva i nervi. E coloro che si erano preparati a farla da persone spiritose, a giurar come se nulla fosse, tremavano d’impazienza, mentre il loro nome si approssimava, e poi cavavano un fil di voce che faceva, sorridere il vicino e che la folla non arrivava a udire. Qualcuno giocava stizzosamente con la catenella dell’orologio, e quando lo chiamavano, si svegliava come da un torpore, gittava un giuro affogato, frettoloso e ricadeva a sedere. Fra l’onorevole Salviati, un duca fiorentino, e il deputato Santini, giurò, con voce strozzata, che niuno intese, l’onorevole Francesco Sangiorgio.


Sulla porta i deputati si assiepavano a veder montare in carrozza la Regina e il Re. Più fitta, più densa, la gente ondeggiava nella Piazza di Montecitorio tutta soleggiata, e quando la carrozza si mosse e la Regina salutò in giro e il Re agitò l’elmo piumato, dalle strade, dalle case, dai balconi, dai terrazzi, dalle soffitte, un’acclamazione frenetica sorse, si confuse, salì nell’aria bionda, nel sole, sino al cielo.

IV.

Il portoncino segnato col numero 50 in via Angelo Custode, era discosto due botteghe da un palazzo magnatizio, bigio, triste, dal portone chiuso. Francesco Sangiorgio esitò un momento: non vi era nessuno cui chiedere informazioni. Uno dei due battenti del portoncino era chiuso, l’altro socchiuso; il deputato si cacciò per un andito semibuio e vi fece sei o sette passi, sino a che arrivò a un principio di scale. Sentì che erano a chiocciola, e per non correre il rischio di rompersi il collo, accese un fiammifero. Ma al primo piano un po’ di luce si fece: al secondo ci si vedeva, quasi. Su quel pianerottolo davano tre porte e sopra quella di mezzo, era attaccato, con due spilli piegati, un sudicio biglietto da visita che portava un nome e un cognome: Alessandro Bertocchini. Sangiorgio consultò il pezzetto di carta che gli aveva dato il sensale delle case: era proprio quel nome. Picchiò.

Per qualche tempo non gli vennero ad aprire: picchiò di nuovo, debolmente. Poi un gran rumore di chiavistelli, di catenacci, di paletti aperti e rinchiusi, s’intese, ma alla porta di destra: e infine, chetamente quella di mezzo, si schiuse un pocolino. Un uomo alto, con un grande naso rosso e due falde di capelli lucidi attaccati alle tempie, comparve: l’onorevole si toccò il cappello e domandò se vi fosse il signor Alessandro Bertocchini. Era appunto lui, l’uomo dal naso peperonico e dal viso scialbo. «Non si affittava un quartino mobiliato, a quel terzo piano?» Il sor Alessandro squadrò l’onorevole Sangiorgio, adocchiò fra lume e lustro la medaglia d’oro e disse: «Sicuro, c’è un quartino da affittare, mobiliato: vado a prendere le chiavi.» E ficcandosi in tasca le mani rovinate dai geloni, piantò il deputato sul panerottolo. Dalla porta aperta un’anticameruccia si vedeva, con una sedia, un tavolino e un lume: e un odore di stantìo, di casa vecchia, di di polvere antica, pizzicava la gola.

«Eccomi qua», mormorò, col suo filo di voce falsa, il sor Alessandro.

E aprì la porta a sinistra. Vi era uno stanzino buio con una sedia: poi una stanza lunga e stretta. Alla lunghezza di una parete era appoggiato un divano di lana cremisi, con la spalliera ed i bracciuoli, di legno tinto e smorto: ai due lati del divano due poltrone di lana cremisi, coperte di pezzi di merletto all’uncinetto: davanti un tappetino consunto. All’altra lunghezza della parete, dirimpetto, era appoggiata una consolida dal marmo bianco, su cui stavano due grandi lampade a petrolio, un orologio fermo e tre fotografie nelle loro cornici. Al muro, uno specchio lungo e stretto, un po’ verdastro, nella cui cornice erano ficcate, come ornamento, certe piccole oleografie, rosse gialle e azzurre, il Re, la Regina, e il principe ereditario: accanto alla consolida, due sedie di legno e di lana cremisi. Dinanzi al balcone un tavolino da scrivere, su cui era disteso un tappeto di lana, lavorato all’uncinetto, a stelle verdi, violette, scarlatte, arancione, indaco, in mezzo alle quali era cucita una figurina scarlatta di scatoletta di fiammiferi. Al balcone da cui penetrava una luce scarsa, erano attaccate due grame tende di merletto, che uscivano da un panneggiamento di lana cremisi. Due altre sedie di legno nero compivano il mobilio.

«Questo è il salotto», disse il sor Alessandro, con la sua voce strascicata ed esile, guardando in aria, con le mani freddolosamente cacciate nelle tasche della giacchetta.

Francesco Sangiorgio si accostò al balcone: dava sopra una corte interna, su cui molti altri balconi e terrazzini, e logge coperte tutte di legno, e finestrini sporgevano. Dietro i tetti di una casa un ramo secco di albero spuntava. Dal fondo del cortile saliva un forte odore di cucina, di rigovernatura e di acqua dove avevano bollito dei cavoli. Il sor Alessandro non diceva nulla, conservava la sua aria indifferente, lasciando che il deputato esaminasse il quartino.

La camera da letto era accanto, lunga e stretta come il salotto. Nel senso della lunghezza vi era il letto. Innanzi al letto un tappetino, come nel salotto, e accanto una poltrona di lana azzurra, con una macchia che aveva corroso il colore, nel fondo. All’altra parete un canterano, con un piano di legno un po’ macchiato, qua e là enfiato, come se vi fossero stati poggiati dei bicchieri bagnati: sopra, due candelieri di ottone, senza candele. La toletta era collocata nel vano del balcone; anche qui le tende di merletto che uscivano da un panneggiamento di tela a stampa, fondo nero a grandi rose azzurre e gialle. E il lusso della stanza era, sul letto, un piumino di cotone di Cava, color tabacco, lavorato all’ago lungo, con sopra tanti arabeschi di lana multicolori. La catinella e la brocca erano nascoste in un angolo fatto dal canterano, senz’asciugamano, senz’acqua.

«E il prezzo?» domandò l’onorevole Sangiorgio.

«Ottanta lire al mese... anticipate», fischiò la flebile del sor Alessandro, mentre si grattava un gelone.

«E il servizio?»

«Vi è la serva: rifà il letto, spazza, spazzola i vestiti e lustra le scarpe. Otto lire al mese..., anticipate», e respirò profondamente, passandosi una mano sui capelli, che sembravano tirati a pulimento di mogano.

«È caro... ottantotto lire».

Il sor Alessendro tacque, non trovandosi forse il fiato necessario a una discussione, o non volendo sciuparlo. Quando stavano per uscire dall’appartamentino, soggiunse soltanto, col naso in aria, come un asino che non può respirare:

«Ingresso libero».

L’onorevole Sangiorgio se ne andò, stringendosi nelle spalle: sarebbe ritornato, forse. Nella strada, presso il Ministero di agricoltura, incontrò la moglie di Sua Eccellenza, quella signora che aveva visto alla stazione. Alta, snella, vestita di nero, chiuso in un mantello di velluto, era tutta rosea e giovanile dietro la veletta nera. Se ne andava con un passo ritmico, con le mani inguantate nascoste nel manicotto, gli occhi chini, come raccolta in un pensiero. Ed era tanta la dignità e la dolcezza di quella figura femminile, che l’onorevole Francesco Sangiorgio, involontariamente, salutò. Ma la moglie di Sua Eccellenza non si accorse di quel saluto e passò avanti, risalendo verso l’Angelo Custode, lungo il marciapiede; e in Francesco Sangiorgio restò un forte dispetto, il pentimento di quel saluto sprecato. Ora, camminava verso la Piazza del Pantheon, verso il secondo indirizzo che il sensale gli aveva dato, e andava per le strade, sempre con quel sintomo di oppressione morale, un peso sul petto, sulle spalle, sul capo, che non arrivava a scuotere dal giorno in cui era in Roma; e nelle vie s’incontrava con gente che aveva anche la medesima espressione di accasciamento.

La casa era alla salita del Pantheon, che va verso Piazza della Minerva: una piccola porta accanto ad un fornaio. Di giù si vedevano due finestre con le tende bianche, fitte. Era al primo piano: tre porte, tutte e tre con nomi femminili, uno di questi scritto con inchiostro violetto e con una calligrafia muliebre, sopra un pezzetto di cartoncino rosa. Alla porta a destra: Virginia Magnani, venne ad aprire una servetta spettinata che guardò in faccia Sangiorgio, senza parlare. Ma dopo un momento sopraggiunse la padrona, una piccolina, con una vestaglia di casimiro azzurro, guarnita di merletto bianco, coi capelli della fronte avvolti nelle cartine, e un profumo grossolano di muschio.

«Il signore viene pel quartierino? Va via, Nanna. Si accomodi, si accomodi pure: sono a sua disposizione. Scusi, sa, il modo come la ricevo, ma la mattina non si finisce mai di vestirsi: si va a teatro, qualche volta, con Toto, a sentir la Marini, si fa tardi, la mattina rincresce, naturalmente, di levarsi su...».

Sangiorgio ascoltava, interdetto dalla loquela di quella piccola femmina che aveva le guance imbiancate di cipria.

«L’ha mandato qui Pochalsky?

«Sissignora».

«Me lo immaginavo: Pochalsky lo sa che questo è un quartierino per deputati: io non affitto ad altri. Ma favorisca: questa è l’anticamera, qui ci è un tavolino con l’occorrente da scrivere, per gli elettori che non trovino in casa il deputato. Ci ho avuto l’onorevole Santinelli: quello lì era assediato dalla mattina alla sera, mai un minuto di riposo, me lo diceva sempre, quando si chiacchierava un po’ insieme, chè era tanto compìto, l’onorevole Santinelli: — Sora Virginia mia, non ne posso più. — Questo qui, come vede, è il salotto, decente ed elegante, questa tappezzeria è tutto lavoro mio, di quando ero più giovane e non avevo tormenti pel capo: basta, non ne parliamo. Qui vi è tutto, tappeto, tende; e il deputato Gagliardi non se ne sarebbe mai più andato, tanto vi si trovava bene, se gli elettori non gli avessero fatto il tiro di non rieleggerlo. Ma la vita politica è piena di questi dolori».

E la femminetta prese un’aria grave, la boccuccia stretta e il capo inchinato sopra una spalla. In realtà, il salotto non era molto diverso da quello di Via Angelo Custode: vi era più tappezzeria sbiadita, un maggior numero di fotografie, una seggiola americana a dondolo: la cornice dorata dello specchio aveva un velo verde, per preservarla dalle mosche.

«Questa qui», continuava la sora Virginia con un forte accento romano «è la stanza da letto. Vi è una piccola biblioteca, per i libri, perchè io ci ho avuto sempre dei deputati studiosi: anzi l’onorevole Gotti leggeva continuamente dei romanzi. Ne legge lei, dei romanzi?»

«Nossignora: mai».

«Peccato, perchè me ne presterebbe. Qui manca un armadio per i vestiti, ma sto aspettando una vendita, in Via Viminale, che anzi il Muccioli, il perito, m’ha promesso di conservarmelo, un bell’armadio. Del resto, può affidare a me la sua roba, marsina, soprabito, pelliccia, quello che sia, che la conserverò nel mio armadio, fra i miei vestiti e vi starà benissimo. Qui vi è tutto, concolina, brocca, lavapiedi per l’acqua, il letto con le sue brave tendine e il comò. Osservi tutto, che tutto è soddisfacente, e non faccio per vantarmi, ma Toto ringrazia Dio sera e mattina per avergli dato una moglie come Virginia. Tutto questo, onorevole?...»

«Sangiorgio, Francesco Sangiorgio».

«Deputato per?...»

«Tito in Basilicata».

«Onorevole Sangiorgio, tutto questo per centotrenta lire il mese, senza calare un centesimo, perchè io non ci guadagno niente: se dovessi vivere col far l’affittacamere, starei fresca. In anticamera vi è una porta di comunicazione col mio quartino: chiudendosi, lei ha il suo quartino con l’ingresso libero. Ha bisogno, Lei, dell’ingresso libero?»

E lo scrutò, con gli occhietti chiari di gatta. Sangiorgio non capì bene.

«... Non so, non so,» disse a caso.

«Perchè, per avere l’ingresso libero, come capisce, si pagano venti lire di più il mese, centocinquanta lire. Ma se Lei è ammogliato e vuole delle altre stanze, capitando la sua signora, ci è qui, sullo stesso pianerottolo, mia sorella Restituta Coppi, che ha disponibili delle camere; quelle di mia cognata, al secondo, non gliele posso raccomandare, non cura la pulizia, povera donna, è popolante» tutte così quelle di quel quartiere: è un errore che mio fratello, povero Gigio, ha commesso. E’ ammogliato, Lei, onorevole?»

«Nossignora».

«Sia per non detto, allora; e si goda ancora la gioventù, chè ad ammogliarsi subito è un inferno. Io, grazie a Dio, non mi posso lagnare, che Toto è un fior d’uomo, ma via, meglio la libertà. Glielo dicevo sempre al deputato Gotti, che era ancora celibe come Lei, onorevole Sangiorgio: e lui, che mi rispondeva sempre, bontà sua: — Dovrei trovare un’altra sora Virginia per ammogliarmi, ma non ve ne sono più. — Dicevamo dunque, centotrenta lire il mese, è proprio un prezzo economico, poi ci è il servizio di dieci lire al mese a Nanna, ci è il gas, per le scale, sino alle undici, cinque lire. Al caso, posso pensare anche io alla imbiancatura, ho una lavandaia buonissima, lava con acqua Marcia e sapone, senza potassa. Insomma, tutto quello che ci vuole; e se qualche giorno l’onorevole vuol pranzare in casa, nauseato da quei pasticci che si mangiano nelle trattorie, ci è qui Toto, mio marito, che si diverte a fare e a cucinare gli gnocchi, che è un piacere: io non ci metto piede in cucina, la mia salute è troppo delicata».

Erano giunti di nuovo nell’anticamera e Sangiorgio serbava il contegno freddo delle persone taciturne innanzi a quelle troppo loquaci.

«E.... scusi, signor deputato,» chiese a un tratto la sora Virginia con la voce che era diventata aspra, pel silenzio di Sangiorgio, «che intende Ella di fare? Io ho molte richieste, capirà, un quartino come questo non ci è da lasciarlo sfuggire...»

«Faccia pure i suoi affari, signora,» disse il deputato, in cui la natural diffidenza del provinciale rinasceva. «Nel caso, Le farò sapere qualche cosa».

«Aspetterò un suo biglietto, allora? Debbo mandare a ritirarlo alla Camera?» ribattè quella, ridiventata melliflua.

«Non s’incomodi, manderò io».

La sora Virginia inchinò il capo e gli tese una manina, come una gran signora. Ancora, per le scale, egli restava sbalordito e stanco di quel chiacchiericcio: e già gli sembrava di aver visitato dieci case. Aveva due altri indirizzi sul pezzetto di carta e gli veniva meno la voglia di recarvisi. Fu proprio per una reazione di volontà che si fece condurre, in carrozza, in Via del Gambero, 37, poichè non ancora conosceva le vie. La strada aveva l’aria misteriosa delle parallele al Corso, le vie scorciatoie che scelgono gli uomini frettolosi e le donne preoccupate: dal grande palazzo Raggi, che ha un cortile come una piazza, un portone sul Corso e l’altro sul Gambero, ogni tanto se ne vedeva sfilare qualcuna, che sfuggiva la folla e gl’incontri pericolosi, scantonava rapidamente, senza guardarsi indietro. Nel portoncino n. 37, dall’aria decente, vi era un casotto di legno con vetri, che prendeva luce dalla sala. Una donnetta ne uscì, incontro al deputato.

«Non si affitta, qui, al terzo piano, un quartino?»

«Sissignore; vuol vederlo?»

«Vorrei vederlo».

La donnetta rientrò nel suo casotto, scelse una chiave da un mazzo e s’avviò, ammiccando con un par di occhietti bigi dalle palpebre rosse e gonfie. Era evidentemente la portinaia: portava un vestito di lana verdognola, smesso, stinto, guarnito con una certa pompa di raso verde: un perucchino di raso cupo, con un treccione finto sulla nuca e una sfioccatura a frangia sulla fronte: salendo, le calze di seta rosse si vedevano, smorte. E nella floscezza scialba delle guance di un biancore punteggiato di lentiggini, nel pallore violetto di una bocca dal disegno infantile, s’indovinava un viso che una volta era stato rotondo, roseo e che si era a un tratto appassito, vuotato, come quello di una pupattola a cui è sfuggita la crusca da un bucherello. La scala era larga e girava ampiamente, caso raro negli edifizi romani: sopra ogni pianerottolo, tre porte corrispondevano. Al primo piano, a destra, l’onorevole Sangiorgio lesse: Barone di Sangarzia, deputato al Parlamento, nulla sulla porta di mezzo, e a sinistra: Anna Scartozzi, sarta. Al secondo piano a destra: Marchese di Tuttavilla, deputato al Parlamento, nulla sulla porta di mezzo, e a sinistra: Ditta di commissioni e rappresentanze.

«Anche questi due deputati hanno dei quartini mobiliati?»

«Nossignore; hanno mobiliato del loro; ma il quartino è simile,» rispose la portinaia, mettendo la chiave nella toppa della porta a destra: anche al terzo piano, non vi era alcuna leggenda sulla porta di mezzo, e a quella di sinistra: Cav. Paolo Galasso, dentista.

Il quartino che dava sulla strada era pieno di luce, e i mobili, quasi nuovi, pretendevano alla eleganza. Un vaso di maiolica per fiori posava sopra un tavolino: vi era un caminetto, un vero e buon caminetto, l’estremo lusso delle case borghesi romane. «Qui si può accendere il fuoco e dopo pranzo d’inverno, è un piacere,» disse la portinaia. «Il caminetto ci è in tutti i piani: che anzi il deputato del primo piano lo fa accendere dalla mattina, una gran fiammata tutto il giorno».

«Ma non va alla Camera?» domandò Sangiorgio, cedendo al pettegolezzo.

«Non sempre, non sempre,» rispose, con sorriso malizioso che le aggrinzò tutto il floscio viso, la portinaia.

«E quanto si paga, qui?» interruppe Sangiorgio, seccamente.

«Centotrenta lire al mese.»

«E a chi?»

«A me.»

«Affittate voi?»

«Sissignore.»

«Mi sembra caro».

«Nossignore, Lei s’informi dei prezzi, poichè è forestiero, e vedrà che non è caro, nel centro di Roma, a un passo dal Corso. Non faccio per vantarmi, ma il quartino è messo con molto gusto: ne ho sempre capito io...»

E la portinaia si arruffò la frangetta del parrucchino sulla fronte. Il deputato si strinse nelle spalle.

«È caro,» insistette.

«Non ci è obbligo, sa, di pigliarlo; ma che Lei vuole un quartino libero, con la porta sulle scale, mobiliato e senza noie, che qui ognuno bada ai fatti suoi, col caminetto, è un lusso che non si trova altrove; che Lei vuole tutto questo in Via del Gambero per meno di centottanta lire, caro signore, Le assicuro che non è possibile. Il deputato del primo piano ci è venuto da quattro anni e vi si trova benissimo, non se ne va più; il deputato del secondo piano ci è venuto, consigliato dall’amico, e ci è rimasto, son già due anni. Qui non si sfitta mai: la sarta del primo piano ha una clientela di signore dell’aristocrazia, che ci è sempre una vettura innanzi alla porta.»

«Va bene, capisco, ma tutte queste cose non mi servono».

«A piacer suo: ma girerà, girerà, vede, e non troverà nulla di buono come questo. Sono sicura che ci ritorna, signor deputato; questo è proprio un posto fatto per Lei».

E scendevano per le scale, mentre saliva una signora, chiusa in una pelliccia di lontra, con un velo marrone che avvolgeva il berrettino di lontra, la testa, il collo, il mento, sotto cui s’annodava con un cappio vistoso. Ella saliva lentamente e presso la porta della sarta si fermò.

«Eccone una,» mormorò la portinaia. «Andrà certo a provare un vestito».

Ma non s’intese rumore di campanello e di giù, alzando gli occhi, l’onorevole Sangiorgio vide quella irriconoscibile figura femminile salire chetamente al secondo piano.

Presto presto, per finirla, egli si fece condurre sempre in carrozza, alla salita di Capo le Case, la via chiara ed allegra, tutta sole, che taglia in mezzo quella dei Due Macelli. Un’aria di signorilità, di tranquillità aristocratica, veniva dalla vicina Piazza di Spagna, da Via Sistina, da Via Propaganda, da Via Condotti, il centro più esotico di Roma. La porta 128 si trovava dirimpetto ad una bottega di biscotti inglesi, di conserve, di liquori, di saponi, ciò che gl’Inglesi chiamano grocery, da cui usciva un sentore pungente e quasi caldo di spezierie: dall’altra parte una bottega di fioraio, piena di portafiori di giunco, di vimini dorati, di tronchi grezzi, che aveva, nella mostra, delle rose invernali, e financo in un vasettino, un ramoscello di mughetto, una primizia delicata. La scaletta era di marmo, netta, illuminata, dall’alto, da una finestra sul tetto. Sopra ogni pianerottolo davano tre porte, di legno biondo, un acero venato, coi pomi lucidissimi di ottone, per bussare. Un servitorello in mezza livrea venne ad aprire, subito, e fece entrare l’onorevole Sangiorgio in un salottino semibuio, dicendo che la signora sarebbe venuta a momenti: l’onorevole sentì un tappeto molle in terra e sedette, tastando un poco, sopra una poltroncina, bassa e soffice. Così, nella penombra, distingueva un tavolino coperto di felpa gialla, d’oro, un portacenere giapponese, un vaso di vetro veneziano. Ma un lieve passo si udì: la signora s’intravedeva, alta, non grassa, ma pienotta, con acconciatura corretta di capelli castagni tutta ondulata dal ferro della pettinatrice e ornata di fornicelle di tartaruga bionda; con un vestito di lana nera, semplice, di una stoffa molle, un goletto alto di tela bianca, chiuso da un ferro di cavallo in oro.

«Vuol favorire?» chiese la signora.

Uscirono insieme sul pianerottolo: ora si vedeva il pallore opaco, di avorio, di quel volto trentenne e gli occhi di un nero cupo, torbido, di carbone, con qualche cosa di claustrale, dentro. La mano bianca e grassa della signora si arrotondò mollemente sulla chiave. Il quartino era piccolo, ma luminoso, gaio, come se fosse nel sole dell’aperta campagna. Il salottino aveva un mobilio di tela stampata, grigio e rosa, molto carezzevole alla vista: lo specchio era ovale con una cornice di legno, intagliato; una dormeuse, lunga e bassa, era distesa presso il balcone, innanzi a cui pendevano delle tendine larghe, di mussola ricamata, molto fitta: senza bracciuoli, a pieghe profonde, esse trascinavansi per terra. Una grande raggiera di fotografie era disposta bizzarramente sul muro, come se vi fossero state buttate a caso: un tavolincino da scrivere, minuscolo, su cui era appoggiata una cornice da fotografia, di felpa rossa, senza ritratto. La stanza da letto aveva un mobilio di raso in lana azzurro-pallido, una coltre simile sul lettuccio, velata da un largo merletto bianco; la toletta era tutta di mussola bianca ricamata, con nocchi di nastro azzurro; l’armadio era a specchio; e alla finestra, oltre le molli tendine che trascinavansi sul suolo, ai vetri erano attaccate certe cortinette di seta azzurrina, a flotti, a ondatine.

«Vi è anche un gabinettino da toletta,» mormorò la signora, senza sorridere.

«Non si voglia incomodare.....» soggiunse l’altro.

«No, no, voglio farvelo vedere: è importante, ha una porta sulla scala.»

La signora, con quel suo viso corretto, un po’ grosso, un po’ impastato, come quello di certe teste antiche romane, non chinò neppure gli occhi sul lavabo di marmo, dai cui bastoni di legno giallo pendevano gli asciugamani spiegati: aprì una porticina, dava di nuovo sul pianerottolo, era la terza porta: quel quartino di due stanze e mezzo aveva due ingressi liberi.

«È una casa comodissima,» soggiunse ella semplicemente, guardandosi una mano e soffregandola per farla diventare più bianca. Nel suo vestito nero, dalle pieghe statuarie, con la pallida e quieta faccia di matrona romana ella imponeva rispetto. L’onorevole Sangiorgio le parlò come a una gran signora.

«Il quartino è un po’ troppo elegante, per me,» disse. «Mi piace molto, ma sono pochissimo esigente.»

«Oh!» fece la signora, quasi non ci credesse, con una lusinghiera intonazione di cortesia.

«Glielo assicuro: sono un po’ selvaggio,» riprese Sangiorgio, abbandonandosi, «ho bisogno di tranquillità pel mio lavoro, null’altro. Sto molte ore al Parlamento. Qui è un po’ femminile, mi pare,» soggiunse, sorridendo.

«Infatti vi fu una dama, una russa, l’anno scorso: poi la richiamarono, dovette partire.» E si tacque, senza dare altre spiegazioni.

«.... E... costa?» domandò il deputato, dopo un momento di esitazione.

«Duecentocinquanta franchi il mese,» disse la signora, con trascuranza, raddrizzandosi il ferro di cavallo al collo.

«Ah! e vi sarà, inoltre, la servitù, il gas?» chiese con una curiosità gentile, l’onorevole Sangiorgio.

«Bisogna intendersi con Teresa, la mia cameriera...»

«È naturale, è naturale,» mormorò l’altro, come se chiedesse scusa.

La pallida signora, dai profondi occhi neri, che eran pieni di quel malinconico fluido monacale, ricondusse sino alla porta il deputato, senza neppur chiedergli se avesse intenzione di prendere il quartino, si licenziò da lui con un sorriso, il primo, e non gli strinse la mano.

Ora, egli si sentiva snervato, vinto da una fiacchezza mortale: il sole di novembre lo mordeva come quello rovente di agosto, e l’aria gli pesava addosso. Certo, in quella casa di Capo le Case, vi doveva essere un profumo indistinto, ma, permanente, di quelli che eccitano i nervi e poi li buttano in un accasciamento. Forse il profumo lo portava la signora, così smorta, così severa, con la sua grand’aria claustrale, di badessa nobile, dall’abito nero e dal goletto bianco. Mentre andava, con indolenza, per Via Mercede, gli si ripresentava alla fantasia il salotto bigio e roseo, così dolce nella sua semplicità, la camera azzurra tutta velata di bianco, e le doppie tendine, fluttuanti, ondeggianti, che le davano un carattere intimo, di nido involato in alto, lontano dal mondo. Tutti quei mobili, la dormeuse dove si era certo sdraiata la dama russa, a sognarvi i suoi sogni di straniera bizzarra, quel tavolino piccolo su cui aveva scritte le sue lettere, quella toletta davanti a cui si era acconciata, questo interno femminile gli si ripresentava: ma più di ogni altra cosa, lo interessava quella cornice rossa, a cui mancava il ritratto, come se fosse stato portato via in fretta, da una viaggiatrice affannosa.

Non si poteva figurare la faccia di quella dama russa: e al posto vuoto che la immaginazione non sapeva riempire ritrovava sempre l’ovale pallido, quella carnagione di avorio della signora, su cui scendevano le onde molli dei capelli castagni. Involontariamente, era entrato nel Caffè Aragno, nell’ultima stanza stretta e solitaria e si era fatto servire un cognac per scuotere quella depressione.

La signora di Capo le Case gli ricompariva, ma con contorni meno precisi: più nettamente, ora, gli si ripresentava la donna dal mantello di lontra, incontrata per le scale, in Via del Gambero; ne aveva visto il piede, arcuato, snello, che si appoggiava con precauzione sugli scalini, lungo la ringhiera di ferro, — e avrebbe voluto sapere dove andava, poichè, turbata da quell’incontro, ella aveva finto di picchiare alla porta della sarta e poi era salita più su, chinando il capo, immergendo il basso del viso nel grande fiocco di velo marrone. La portinaia, certo, doveva conoscerla: la doveva saper lunga quella portinaia dal viso floscio e dagli occhi che facevano schifo: una malizia filtrava dalle sue parole leziose. Chissà! doveva essere stata bella, la portinaia dal parrucchino ignobile, fors’anche elegante: doveva aver tutta una singolare istoria che egli non le aveva dato il tempo di raccontare, com’ella desiderava. La sora Virginia invece gliene aveva narrata molta parte, della sua storia: ma che era questa moglie che leggeva romanzi, mentre il marito cucinava gli gnocchi, in cucina? E dall’abbattimento egli risorgeva, a grado a grado, con una curiosità crescente per tutti questi enigmi femminili: la visione della signora russa, il mistero di quella figura mistica, in Via Capo le Case: la visitatrice di Via del Gambero e il suo segreto: il passato della portinaia: lo strano intreccio che appariva e scompariva nella loquacità della sora Virginia. Avrebbe voluto sapere, conoscere, apprezzare tutta questa femminilità fuggente, che spariva, che si nascondeva alla sua curiosità; e da questa sua minuta ricerca, da quest’analisi delle donne viste e delle donne immaginate, una domanda, sino allora latente, sorgeva, una figura si sovrapponeva a tutte, le assorbiva e si rizzava, alta, flessuosa, nerovestita, placidamente rosea dietro il velo nero, andante lontano, con gli occhi raccolti e il passo misurato: la moglie di Sua Eccellenza. Dove poteva andare a quell’ora, dove andava la moglie di Sua Eccellenza?

Ma fuori, nella strada, il grosso largo duca di Bonito, il popolare deputato napoletano, dalla facciona tagliata da un colpo di sciabola, passò, con quel movimento di rullìo sulle gambe che lo faceva rassomigliare, camminando, a una nave pesante mercantile, una di quelle navi nere e piatte che approdano nei piccoli porti di Torregreco e del Granatello a Portici, a portarvi carbone e a caricare maccheroni: accanto a lui, il fido amico, il deputato Pietraroia, dal quieto viso e dal carattere violento, dalla voce moderata e dalle frasi appassionate, che taceva per mesi e mesi alla Camera, e poi, un giorno, scoppiava con una forza meridionale, meravigliando tutti.

L’onorevole Sangiorgio li seguì con l’occhio, un minuto; tornavano da colazione, si fermarono sul marciapiede, con la terza figura della Trinità napoletana, l’onorevole Piccirillo, dalla bionda barba fluente, dagli occhietti azzurri, il domatore degli irruenti quartieri popolari napoletani. E sul marciapiede, un dialogo vivace cominciò: l’onorevole Piccirillo narrava un fatto grave, senza dubbio, gesticolando, agitando la mano storpiata in duello con l’onorevole Dalma, afferrando il bottone dell’amplissimo soprabito del duca di Bonito che sogghignava e sghignazzava, incredulo, ironico, con la freddezza dell’uomo che ha vissuto, mentre l’onorevole Pietraroia, tranquillo, ascoltava, arricciandosi delicatamente un baffo. E dirimpetto all’onorevole Sangiorgio, nascosto dietro un tavolino, con le gambette raccolte e il viso di bambino vecchiotto, l’onorevole Scalzi, il deputato operaio, il solo che vi fosse al Parlamento e che Milano aveva mandato, faceva colazione, modicamente, con una tazza di caffè e un panino.

Francesco Sangiorgio, messo di nuovo a contatto con quel suo mondo, ripreso da un più serio bisogno di osservazione, si sentì a un tratto rinvigorito, come strappato a quel vaneggiamento d’indolenza, che lo turbava dalla mattina. Tutte quelle donne che aveva viste, con cui aveva parlato, gli avevano messo nelle fibre una debolezza, gli avevano immeschinito l’animo sino al pettegolezzo, e scomposta la fantasia in sogni ridicoli e inutili.

Una natural reazione gli restituiva l’equilibrio, e col buon senso egli acquistava una lucidezza di ragionamento, un’acutezza di logica che penetrava e intendeva quanto gli era rimasto oscuro la mattina. Egli intendeva che fosse questo accumulamento di case mobiliate, di quartini mobiliati, di stanze mobiliate, che sorgono, s’infittiscono in tutta Roma, e formano in essa una vegetazione larga e potente che quasi la soffoca; e tutto questo rimescolìo bizzarro di donne borghesi, di sarte, di portinaie, di serve, di bottegaie, che dall’affittar camere traggono il più facile e più sicuro guadagno; e fra colui che cerca casa e tutte queste donne, un contatto necessario, le comunicazioni interne delle porte chiuse e aperte, in cui si conviveva, un vedersi al mattino, alla sera, nelle ore pericolose della giornata, una dominazione femminile che comincia dalla casa, si estende alla biancheria, poi ai vestiti, poi ai libri, poi alle lettere dell’inquilino, e arriva sicuramente, per vie oblique, sino alla persona. Egli sentiva quanto vi era di drammatico, di comico, di appassionato e di corrotto, in tutto quel sistema di ingressi liberi, di quartini a due porte, di portoni a due sbocchi, di chiavi inglesi a due ingegni, in tutto quello sdoppiamento, in quella fantasmagoria di usci chiusi, di serrature che stridono, di campanelli che non squillano, di scarpette femminili che non scricchiolano, di veli femminili molto fitti e di mantelli di pelliccia ermeticamente chiusi: e il grande equivoco della vita romana, così corretta e immobile nella apparenza, così inquieta, fervida, calda nella sostanza, gli si rivelava in una delle sue parti.

E nel suo vago, istintivo terrore del femminile preponderante e prepotente, nel suo bisogno selvaggio di solitudine e di forza, egli prese la casa in Via Angelo Custode, dove non vi erano donne.

V.

Ancora una passeggiata dall’angolo di Piazza Sciarra sino a Piazza San Carlo, sempre lungo il Corso, un Corso di giorno festivo, con tutte le botteghe chiuse e in quell’ora del pomeriggio invernale, fra le due e mezzo e le tre, un’ora vuota. A Piazza Colonna, il pasticciere Ronzi e Singer era aperto, ma senza un’anima, con le vetrine dove restavano poche bomboniere e sul grande banco marmoreo i piattelli di cristallo vuoti di pasticcini; chiuso il chiosco dei giornali accanto alla fontana. Da Montecitorio, un grande angolo di sole pallido sulla facciata del palazzo Chigi; qualche rara carrozza da nolo sbucava da Via Bergamaschi, rasentava la bruna colonna Antonina, e andava lentamente a infilarsi nel vicolo del Cacciabove. Dai vetri chiusi si vedeva il Caffè del Parlamento, basso, azzurrognolo, simile ad una cripta dalle ombre fitte: dentro, nessuno.

Innanzi al liquorista Morteo, due giornalisti, due giovinetti, chiacchieravano con le mani nelle tasche del paletot, sbadigliando, con la cera di due esseri mortalmente annoiati, un altro gruppo di quattro o cinque giovinetti, dietro i larghi cristalli del Caffè Aragno, prendendo dei vermouth, e leggendo un fascicoletto di carta rosa, un giornalettino letterario; e poi, tutta una lunghezza di Corso sino a San Carlo, con qualche raro passante, con qualche signora che sbucava da un portone, e montava subito nella carrozza chiusa, che partiva come una freccia. Un dolce scirocco invernale temperava e appesantiva l’aria; e in quel venerdì, in quel giorno di Natale, in quell’ora pomeridiana, pareva a un tratto sospesa la vita di Roma. Tutto quel quartiere centrale della città, quel tratto di Corso sempre così fervido di movimento, con le sue quattro piazze, Sciarra, Montecitorio, Colonna, S. Carlo, con i suoi caffè sempre chiassosi, con le sue botteghe eleganti, coi suoi marciapiedi affollati, sembrava, in quel lieto giorno di festa, in quella temperatura mite, come colto da improvvisa profonda atonia. Al contatto di quel breve mondo attivo, quasi febbrile, ogni giorno Francesco Sangiorgio provava lo stesso fenomeno di eccitamento, per quanto rimanesse estraneo a quell’attività. Ora, quella vuotaggine, quel sonno, quel silenzio del giorno di Natale, che altrove, in provincia, nei più piccoli villaggi si suol celebrare con grida di gioia e sparo di mortaretti, lo avevano colpito di meraviglia, come molte e molte cose di questa Roma, sempre così nuova, così impensata. Passeggiava da un’ora, su e giù, dopo colazione, dopo aver letto i tre o quattro giornali che erano usciti la mattina, e che contenevano delle tirate sentimentali natalizie; non incontrava alcuno, non già una faccia amica, perchè non aveva amici, ma neppure le faccie che per solito incontrava. Tutti quelli che avevan potuto partire per festeggiare il Natale nei loro paesi, con le loro famiglie, deputati, senatori, studenti, impiegati in permesso e ufficiali in licenza, erano scappati via, e quelli che erano restati, indifferenti, si chiudevano borghesemente o aristocraticamente in casa, poichè il romano non chiede e non aspetta ventura. Francesco Sangiorgio aveva presentito che si sarebbe trovato molto solo, molto abbandonato, smarrito in mezzo a una folla festante e spensierata: invece, Roma gli aveva preparata la sorpresa di un gran silenzio solenne di città morta.

Mentre tornava indietro per la quarta volta, pentendosi amaramente di non essere andato in quella povera umile e buona Basilicata a far Natale coi suoi vecchi zii, innanzi al ruvido ceppo che arde nell’ampio focolare; mentre s’irritava contro quel fascino singolare della città che se lo teneva stretto, nelle vacanze, quando tutti fuggivano, vide spuntare da Via Convertite al Corso un drappello di quaranta o cinquanta persone che procedevano quasi in processione, con a capo una bandiera tricolore.

Avanti, quattro o cinque signori, in soprabito e cappello basso, andavano tutti seri, quasi misurando il passo; il portabandiera aveva sul soprabito una tracolla di pelle, con un anello di metallo sulla pancia per reggere la bandiera, mentre una tuba lucida gli si abbassava fieramente sull’orecchio. Poi una ventina di uomini vecchi, in cappello di feltro molle, con certi soprabitoni grevi e pelosi, di antica data: chi aveva tre, chi quattro medaglie, varî andavano curvi, uno, zoppo, si trascinava a stento reggendosi sopra un bastone. Era un manipolo di reduci dalle battaglie 1848-49; qualche giovanotto, molto meno che trentenne, vi era frammischiato. In coda, le facce equivoche, brune, lucide, dai mustacchi a spazzola, di due guardie travestite, in giacchetta, cappello basso sull’orecchio, passo militare e bastoncino di giunco sotto l’ascella. I giovanotti del Caffè Aragno nemmanco si voltarono, abituati a vederne passar tante di queste processioni, indifferenti oramai: sui marciapiedi qualche persona si fermava distratta: i due giornalisti discussero un momento, davanti a Morteo, poi l’uno si decise, e si staccò dall’altro, si strinse nelle spalle e si unì alla dimostrazione, col contegno dell’uomo disoccupato. Francesco Sangiorgio non si mise in fila, ma costeggiò la dimostrazione, tenendosi sul marciapiedi, studiando il passo. Ogni tanto, lungo la strada, agli Orfanelli, ai Pastini, qualcuno si univa. In Piazza della Rotonda, dinanzi al Pantheon, ove il gran re dorme, la bandiera s’inchinò, i vecchi reduci si cavarono il cappello.

La dimostrazione proseguiva il suo cammino, infilando certe strade strette e oscure della vecchia Roma, allungandosi, assottigliandosi in quei vicoli dove possono andare di fronte solo quattro persone: ed era dappertutto un gran silenzio di botteghe chiuse, di finestre chiuse, di androni vuoti, una gran pace festiva che lasciava deserte le vie, che assorbiva, dietro le mura delle case, tutta la giocondità natalizia. Tratto tratto la bandiera oscillava, ma subito il portabandiera la rizzava nell’anello, con un moto energico.

Una breve sosta fu fatta all’imboccatura di ponte Sisto. Qui un poco di animazione cominciava: sui due larghi marciapiedi, varie persone, ferme, contemplavano il fiume, tutto biondo sotto uno smorto sole invernale, delle carrozze passavano, al trotto, sobbalzando sulla curva fortemente pronunziata del ponte. Tutt’intorno, al principio di Via Giulia, verso piazza Farnese, laggiù verso il Politeama, era un largo rinnovamento edilizio: mucchi di pietre, pile di mattoni, macerie accumulate, muri di case in demolizione, piccoli laghetti bianchi di calce assodata, carriuole di muratori con le braccia in aria, alte impalcature di legno su cui già la réclame aveva steso i suoi cartelloni: a monte e a valle, a destra e a sinistra, ancora delle demolizioni: poi il tronco di una strada già selciata, i lavori della sistemazione del Tevere già cominciati, un Lungo Tevere abbozzato. La leggiera nuvola dello scirocco avvolgeva l’orizzonte verso la Farnesina e l’acqua gialla scintillava lievemente. Una grossa zattera nera tagliava in mezzo il fiume, immota, messa in quel punto per i lavori: pareva una macchina da guerra. Una quiete era anche lì, come una sospensione di vita, come un sogno nella dolcezza invernale del pomeriggio.

Sangiorgio si trasse di lì a stento, e rizzandosi sulla punta dei piedi, vide la bandiera dell’associazione che penetrava in Trastevere. Di nuovo cominciò lo sfilare taciturno per i vicoli sinuosi di quel quartiere estremo; qualche popolano in abito da festa si univa alla dimostrazione: erano, adesso, un centinaio di persone. A un gomito di una piccola strada, tutt’a un tratto, con una improvvisa rischiarata di orizzonte, si trovarono in un grande viale. Da una parte, dietro un breve parapetto, era Roma, tutta chiara nella luce; dall’altra, una proda verde, la cresta del Gianicolo, si elevava; a mezza costa, l’Accademia di Spagna mostrava le sue fondamenta, intorno a cui girava il gran viale ascendente. Tre o quattro volte, l’associazione dovette farsi da parte per lasciar passare qualche equipaggio che trottava vivamente alla salita, senza far rumore, sulla ghiaia; qualche profilo femminile appariva e spariva dietro i cristalli. A un punto, dove il viale piegava ancora, innanzi alla villa Sciarra, fra due siepi aristocratiche di agavi fiorite e di pioppetti giovani, un signore fermo chiamò:

«Onorevole Sangiorgio?»

Questi trasalì, si voltò e scorse l’onorevole Giustini, un deputato toscano, con cui aveva parlato tre o quattro volte, essendo vicini di posto, all’ultimo banco del loro settore, al centro destro. Lo raggiunse.

«Segue la dimostrazione, collega?» domandò Giustini, con la voce velata d’ironia e di stanchezza.

«Da curioso. E Lei?»

«La guardo passare: fo da spettatore. Già l’è sempre la stessa cosa.»

Il Toscano aspirava la lettera c, fortemente, e parlava senza guardare in faccia il suo interlocutore, con certe voltate di testa sulle spalle, come uomo infastidito. Camminarono insieme, con un accordo tacito.

L’onorevole Giustini non era nè zoppo, nè gobbo, nè propriamente sciancato, ma trascinava straccamente le gambe, portava per malvezzo una spalla più alta dell’altra e il collo raggricchiato come quello della testuggine, le braccia e le mani penzoloni, come se non sapesse che farne e gli dessero noia. Un viso terreo, un par d’occhi chiari, scialbi e una barbetta rada e fulva, divisa sul mento. Tutto un contegno di uomo seccato, un’aria di rachitismo fisico e morale.

«Le dimostrazioni, le passeggiate con le bandiere, le corone deposte sopra una lapide, tutte si rassomigliano fra loro. Ne avrò viste mille, ne avrò anche fatte: quando si è stati giovani e studenti di legge, chi può garantire di non aver dimostrato?»

«Anch’io, all’Università,» rispose Sangiorgio.

«Chi ci crede a queste frottole?» riprese l’onorevole Giustini, dando in una energica stretta di spalle. «Bisogna avere vent’anni o sessanta, l’età in cui si è scempiati.»

«Non dica male della gioventù, onorevole,» rispose Sangiorgio, abbozzando un debole sorriso.

«Già, già, gioventù, amore, morte, le tre cose che ha cantate Leopardi: veramente ne ha cantate due, ma l’altra ci sta dentro. Tutti Leopardiani i meridionali, nevvero? Eppure, che famoso seccatore quel Leopardi! Era gobbo, ne ha profittato per far versi o per annoiare la gente. Anch’io son mezzo gobbo, ma non fo versi, perdio! E non secco neppure i miei colleghi della Camera, parlando.»

«Infatti non ha mai parlato, dall’apertura della sessione.»

«E sì che i colleghi miei non hanno la cortesia di contraccambiarmi. Che riunione di chiacchieroni incorreggibili, quante parole inutili, quanto fiato sprecato!»

Respirò lungamente; aveva lo sguardo smorto che filtrava attraverso le palpebre socchiuse. Sangiorgio lo ascoltava e lo guardava, lasciandolo discorrere e non parlando, continuando nel silenzio che serbava da due mesi che era in Roma, quello studio profondo degli uomini e delle cose, che doveva essere una delle sue forze. Camminando adagio, erano giunti a un altro gomito del viale. Ora, sul piazzale, un vasto orizzonte si apriva: di nuovo Roma vista da una terrazza semi-circolare. Si era a livello dell’Accademia di Spagna: innanzi al grande portone due o tre carrozze aspettavano, una di cardinale: il cameriere, sbarbato, senza un pelo, la faccia di chierico, vestito di nero, passeggiava più in là. La dimostrazione saliva sempre, verso l’acqua Paola, il fontanone sonante e clamoroso. Le persone che passeggiavano, si fermavano a vederla passare. Un signore alto e magro, con una barbetta, bionda brizzolata, scambiava dei saluti coi reduci, mentre sfilavano, restando accanto alla siepe.

«Quello vorrebbe crederci ai tempi moderni e non può,» ricominciò la voce maligna di Giustina «Quello sì, un bell’uomo, sì, proprio quello, con la tuba, è Giorgio Serra: l’avrà inteso nominare. Un bel tipo: un apostolo, un poeta, ma dentro, certo, ne deve aver accumulato di delusioni! È in buona fede, lui: uno dei pochi democratici simpatici. Del resto, in arte è aristocratico: ama il popolo, poichè ha un bell’animo affettuoso e deve per forza amare qualche cosa, ma odia la volgarità. Vedrà che sale al Gianicolo per la commemorazione, ma che non parlerà: è delicato come una donna, in certe cose. Ora gli passeremo davanti; mi saluterà freddamente: egli odia il centro, alla Camera. E ha ragione: nulla è più odioso del centro, a cui abbiamo l’onore di appartenere, onorevole collega.

«E perchè ci sta, Lei, onorevole Giustini?»

«Oh, io!» fece l’altro con un gesto di noncuranza.

Nell’ampia vasca cadeva fragorosamente l’acqua da tre bocche; due serve erano sedute sul parapetto del bacino e discorrevano; un prete tedesco guardava, da un terrazzino, Castel Sant’Angelo, il fiume e giù, a picco, la diritta Via della Longara in Trastevere, sotto villa Corsini, La dimostrazione imboccava Via Garibaldi; alla coda si era messo Giorgio Serra, guardando la campagna ed il paesaggio di Roma amorosamente. I due deputati avevano affrettato il passo, ma dovevano ogni tanto sostare per gli equipaggi signorili che transitavano.

«Tutte queste signore vanno alla commemorazione?» domandò Sangiorgio.

«Sì, proprio!» ghignò Giustini. «Non lo sanno neppure che vi è una commemorazione. Vanno a villa Pamphily, a passeggiare: è venerdì ed il tempo è bello: vale a dire, è il grande scirocco romano che fa mangiar poco, dormir molto, ammollisce i nervi e fiacca la volontà. Del resto, le donne sanno quel che si fanno».

«Bah!» fece Sangiorgio, con un atto di disprezzo per le donne. Giustini lo guardò a lungo, come per giudicarlo mentalmente, ma non gli volse domanda. Passavano Porta San Pancrazio, la Via delle Mura s’inclinava, stretta e sinuosa, a diritta verso la Valle dell’Inferno e il Vaticano, a sinistra verso villa Pamphily. Un’osteria di cocina con vino delli castelli, innanzi a cui stavano ritti ed indifferenti due carabinieri: poi una strada con una siepe di spini che la divideva; a sinistra, una muraglia alta e bigia, scrostata; a un punto, in una sporgenza, una porticina di legno tarlato, su cui era scritto il nome del podere e della villa che era dietro quella muraglia: Il vascello. E il nome, glorioso, bastava — e la lapide sul muro era inutile — e le corone secche e fradice dalla pioggia erano inutili: — bastava il nome.

La dimostrazione si era aggruppata sotto la lapide commemorativa, lasciando un po’ di spazio libero per le carrozze che sfilavano sempre verso villa Pamphily; i carabinieri si erano avvicinati. I vecchi reduci erano tutti riuniti intorno alla bandiera e stavano muti, ricordando: i due deputati si tenevano a una certa distanza; Giustini faceva una smorfia bruttissima di stanchezza; Sangiorgio, punto dalla curiosità, osservava. Un operaio salì sopra una scala di legno appoggiata al muro, tolse le vecchie corone e le buttò via, spazzò col gomito la lapide e vi sospese la corona fresca: giù, si applaudì. Dall’alto della muraglia, un contadino, il guardiano del podere, una di quelle facce pallide e malinconiche di contadini romani, guardava indifferente. Poi, sul sedile di una carrozza da nolo, a un cavallo, che stava addossata alla muraglia, un uomo sorse per parlare; gli studenti lo applaudirono.

Era un giovinotto biondissimo, grassotto, con certi occhietti languidi azzurrini, con un mustacchietto appuntato, con le mani pienotte e bianche come quelle di una donna, con le unghie lunghe e rosee e un anello di brillante al dito mignolo. Era vestito con una raffinatezza da parrucchiere, aveva una faccia serena e fresca, tutta piena della soddisfazione di esistere, mentre gli occhietti roteavano con inclinazioni di beatitudine. Aspettò che si finisse di applaudire, per parlare; anzi fece un cenno con la mano, perchè si cessasse. Tutti si ristrinsero intorno a lui per ascoltarlo, reduci, studenti, operai, carabinieri e guardie.

Il giovanotto, con una voce fievole, ma ben modulata, di tenorino da salotto, con pause sapienti, girando il capo con una lentezza graziosa di donnina civettuola, gesticolando con sobrietà, spiegò come e perchè, dopo la commemorazione di aprile, se ne facesse un’altra in dicembre: e subito si ingolfò in una descrizione dell’assedio di Roma, come se vi fosse stato; i reduci crollavano il capo innanzi a quell’elegante giovinotto, essi che vi erano stati. Egli aveva una loquela facile, ma lenta: a un tratto, parve riscaldarsi e se la prese coi preti, col Vaticano, di cui parlava accennando a sinistra, verso la muraglia, vagamente, con un gesto di attrice giovane, arrotando le r. I pochi veterani, distratti, assorbiti, non lo ascoltavano più, compresi dai ricordi di quel sacro colle, dove essi avevano combattuto per la redenzione della patria, dove i loro compagni d’arme erano caduti col volto sfigurato, o col petto spezzato dalle palle dei cacciatori di Vincennes. Ogni tanto, fra di loro, mormoravano una frase, si rammentavano un fatto, col capo chino, con le mani appoggiate sul pomo del bastone.

«Nella notte si sentivano i Francesi chiacchierare allegramente sotto le loro tende...»

«Ve lo rammentate voi il moro di Garibaldi che morì con una spalla fracassata da una scheggia di bomba francese?..»

«Com’era bello il colonnello Manara...»

«Bello e valoroso...»

Il giovinotto finiva con un’apostrofe ai sette colli di Roma, infarcita di storia romana. I suoi compagni, gli studenti, si affollarono più strettamente intorno alla carrozza da nolo, applaudendo, stringendogli la mano, acclamandolo. Ed egli si curvava, tutto amabile, sorridendo, prodigando le strette di mano, interrompendole per passarsi sulla fronte bianca una pezzuola di batista, dal largo orlo nero, profumata di fieno. Gli operai e i popolani restavano poco convinti, niente scossi, con quel riso sarcastico romano che poche cose vincono. Una voce circolò:

«Serra! Serra! Dov’è Serra? Parli Giorgio Serra!»

Ma Serra non rispondeva. Forse si nascondeva, umile, tra la folla. E la folla si mosse in vario senso, come se in lei avvenisse una cerna.

«Serra, Serra!» si ripeteva ancora, quasi evocando quella bella testa di poeta e di artista.

Ma Serra non vi era. Forse, mite sognatore che qualunque realtà nauseava, era disceso lentamente in quella Roma che egli amava, o, più probabilmente, costeggiando la grande siepe fiorita di biancospini e di roselline, era andato a passeggiare per gli ampi viali, profondi e raccolti, di villa Pamphily, ritrovando le sue care illusioni in quella verdezza di campagna, impregnandosi di quell’alta bellezza naturale.

«Gliel’ho detto,» mormorò Giustini a Sangiorgio, «che Serra sarebbe scomparso: egli odia la rettorica».

«E fa male: la rettorica è una forza,» ribattè Sangiorgio.

Per la seconda volta il deputato toscano squadrò il deputato meridionale, con un lieve accenno di meraviglia sulla faccia. Quei due, non li univa nè l’affetto, nè la simpatia, nè altro interesse; solo la curiosità, il desiderio di conoscersi, misto a un senso di diffidenza, di due maestri di scherma che si mettono in guardia e non si arrischiano ancora a un vero assalto. Attorno a loro la folla si disperdeva lentamente; la bandiera era andata già via, i veterani s’incamminavano per la discesa, sbandati, a gruppi di due o tre, schiene curve nei rozzi soprabitoni e gambe un po’ vacillanti: qualcuno, ogni tanto, si voltava a dare un ultimo sguardo al Vascello e si fermava.

Il giovane oratore era sceso dalla carrozza con un salto e si era unito ai suoi amici studenti: aveva spiccata una rosellina dalla siepe e se l’era posta all’occhiello: camminando verso Roma, in fila di quattro o cinque, egli si teneva la mazzettina di balena sotto l’ascella e s’infilava delicatamente un guanto. Una comitiva di operai era salita all’osteria di cocina: sopra una terrazzina e intorno a una tavola grezza, si beveva di quel leggiero vino giallo che sa di zolfo. E dopo dieci minuti non vi era più nessuno sotto la lapide ai caduti del 1848: la villa del Vascello serbava, nella solitudine, il suo aspetto di casa smantellata, cui è rimasta solo la facciata in piedi. Sulla cornice dell’alta muraglia che chiude il podere, il contadino solo restava: col capo appoggiato al pugno chiuso, guardava giù, indifferente.

I due deputati erano discesi sino al piazzale presso la fontana di Paolo III, camminando piano. Un principio di umidità crepuscolare filtrava attraverso lo scirocco, o piuttosto lo scirocco diurno, tepido, si tramutava nell’umido scirocco notturno che invade la città al cader del giorno. Gli equipaggi signorili discendevano da villa Pamphily, tornando verso Roma. Appoggiati al parapetto della terrazza che guarda la città, i due deputati seguivano con lo sguardo le carrozze. Due o tre volte Giustini salutò, con una scappellata secca e breve di uomo poco galante, e subito dopo, come se parlasse a se stesso:

«La Baldassarri, una contessa bolognese, bella donna, moglie di un senatore vecchio. Una sciocca da cui non vado più; ha la smania dei poeti, ne ha sempre vari in collezione, un barbaro, un sentimentale, un naturalista, financo: quelli che fanno i sonetti per nozze sono accolti con una certa considerazione. È la donna per cui si fa più consumo di rime e di parole sdrucciole.»

«Questa qui è la Gagliardo, una baronessa: brutta, mediocre, intrigante e cattiva. Medita, continuamente, in silenzio, la caduta del ministero. Quando cade, per opera altrui, ella ha l’aria trionfante. È così crudele che fa le visite alle mogli dei ministri, il giorno in cui i mariti sono caduti. Del resto, lancia i deputati giovani o crede di lanciarli. I disgraziati illusi le fanno la corte: è una donna importante. Nel suo salotto il thè è insipido, ma la maldicenza è saporita.»

«Ci andate voi?»

«Io no, non più. Sono forse un deputato giovane?.. Ah, ecco la moglie di Sua Eccellenza.»

Il saluto fu profondo, da ambedue. E la serena donna rispose, dolcemente, chinando la testa dietro il cristallo. Sangiorgio non disse nulla, con un lieve tremito in sè, aspettando e temendo il sarcasmo di Tullio Giustini.

«Bella donna, la moglie di Sua Eccellenza,» mormorò il deputato toscano: «troppo bella e troppo giovane, per lui. Gli è persino fedele, non si sa perchè. Le sue amiche la odiano cordialmente, ma è di moda l’ammirarla. È virtuosa... per calcolo, per ipocrisia o per freddezza di temperamento?»

«Ci andate, voi?» chiese Sangiorgio.

«No: sono troppo ministeriale.»

«Vale a dire?»

«Che ne farebbero di me? Son un convertito, io: non si predica che ai dubbiosi. Eppoi, diventerei di opposizione, se frequentassi la sua casa. Mi fa troppa rabbia vedere un marito magro, segaligno, arrabbioso e corroso dalla politica, sequestrare una moglie giovane. Eppoi, eppoi, donn’Angelica è troppo buona: mi guasterebbe.»

«Donn’Angelica?» ripetette sottovoce Sangiorgio.

Ma Giustini non lo intese: si era scappellato di nuovo, dinanzi a un coupè che passava. Questa volta, la carrozza piccolina si fermò, una manina lunga, inguantata di nero, abbassò il cristallo e chiamò a sè il deputato toscano. Sangiorgio restò solo, a guardare il collega che, appoggiato il corpo allo sportello, col capo dentro la carrozza, pareva chiacchierasse.

Di lì a poco, Giustini ritornò presso Sangiorgio, e gli disse:

«Venga, La presento alla contessa Fiammanti.»

Sangiorgio non ebbe tempo nè di resistere nè di rispondere: si trovò accanto alla carrozza.

«Contessa, l’onorevole Sangiorgio, deputato per Tito, meridionale e novellino.»

I begli occhi grigi della contessa lampeggiarono di malizia: la sua bocca sottile si piegò a un sorriso.

«Ho detto qui, a Giustini, di presentarvi, onorevole, dopo aver saputo che siete del Mezzogiorno. Quanto vi deve sembrar noiosa Roma, onorevole! Oh, Napoli è così bella, io l’adoro, signore! Mio marito era napoletano: io ho imparato da lui l’amore per Napoli e per tutte le cose di laggiù. Vedete, io do subito del voi. Quel vostro Lei, Giustini, che orrenda cosa! Io preferisco di non udirvi, quando dovete parlare in quel modo glaciale.»

«Per questo non mi lascia dire mai, contessa, quando comincio..,»

«A farmi la corte? no, caro Giustini, vi voglio troppo bene per lasciarvi continuare. L’amore è una vecchia farsa, di cui nessuno ride più. Vi par viso da pianto, il mio? Onorevole Sangiorgio, noi dobbiamo sembrarvi molto frivoli, nevvero? Sappiamo anche esser seri: per esempio, quando Giustini mi racconta la politica. Mi interessa moltissimo la politica: mi ci diverto. E voi?»

«E’ la sola cosa che m’interessa,» disse, un po’ rudemente, Sangiorgio.

«Oh, quanto mi ci diverto!» esclamò la signora, senza mostrare di aver notata la scortesia.

«Per divertircisi bisogna non amarla assai,» mormorò Sangiorgio, ma con tanta espressione che la bella contessa, profumata di viole, lo guardò un momento.

«Dunque, Giustini, fra un paio d’ore, nevvero? Onorevole Sangiorgio, sono in casa tutte le sere dispari, il tre, il cinque, il sette. Non vi obbligherò a prendere il thè. Si fuma da me. Io canto abbastanza bene. Non ci sono altre donne. Arrivederci, onorevole.»

E appena essi si scostarono, la carrozza fuggì verso Roma.

«Che è questa signora?» chiese Sangiorgio a Giustini.

«Che gliene importa, a Lei? Non Le piace?»

«... Sì, mi piace.»

«Ebbene, ci vada, la sera: si divertirà. E’ seducente, non bella: certe sere è irresistibile. Canta benissimo. Talvolta, non spesso, ha dello spirito. Parla troppo. E’ una buona figliuola.»

«Che donna è?» insistette Sangiorgio.

«Che posso dirle?» e si strinse nelle spalle. Non sono giunto a essere suo amante; dipenderà da quella quistione del voi e del Lei

«E si chiama?»

«Donna Elena Fiammanti.»

Erano giunti sul piazzale dell’Accademia di Spagna, deserto in quella rapida caduta di sole invernale.

«Ecco Roma!» disse Giustini, innanzi al parapetto della terrazza. «L’aveva mai vista, tutta, così?»

«No, mai.»

«E’ grande, grande assai,» disse sottovoce il maligno deputato toscano, con una malinconia nell’accento.

«Pare che dorma,» rispose anche sottovoce Sangiorgio, come se parlasse in una chiesa.

«Dormire? Non se ne fidi, non dorme, ella se ne sta quieta e guarda e pensa. Vede laggiù, lontano, a sinistra, quella cupola chiara chiara che si confonde nella bianchezza del cielo? E’ San Pietro. L’ha visto? Sì. Una grande chiesa, deserta e inutile, nevvero? Dopo San Pietro, un grande gruppo di edifici, quà e là tagliati dal verde dei giardini: sembrano piccoli, di quà, quegli edifici e avvolti in un sonno profondo. E’ il Vaticano, quello: vi è il papa, là dentro. Ha settant’anni, è gracile, soffre, la morte gli è sopra, che importa? Egli è forte. Quanta gente crede in lui, tende a lui le mani, si prostra innanzi a lui, prega nel suo nome, muore nel suo nome! Noi contiamo, esultanti, le schiere degli atei e degli scettici: chi può contare quelle dei credenti? Ci crede Lei, in Dio, onorevole?»

«No.»

«Neppur io. Ma il papa è forte. Egli ha per sè gl’infelici, gli sciocchi, gli umili, i giovanetti, le donne: le donne che si trasmettono di madre in figlia, non la religione, ma il culto. Le pare che si dorma, laggiù, sulla sponda del fiume, in quel grande palazzo dove Michelangelo ha dipinto? È il Vaticano, quello: tutta una idea colossale a cui serve, da cui si dirama una popolazione di cardinali, di vescovi, di parroci, di preti, di monache, di frati, di seminaristi, di chierici, e costoro non pregano, non officiano, non cantano soltanto: stanno nelle case, penetrano nelle famiglie, insegnano nelle scuole, essi stessi amano, odiano, godono, vivono, per sè e per il loro interesse, per la Chiesa e pel papa! Chi può misurare la loro forza, la loro espansione, la loro potenza?»

«Roma non crede,» interruppe Sangiorgio.

«Non parlo di fede, io. Glorifico la religione, forse? La grande fola è finita, ma l’interesse umano vive e si moltipica. Noi passiamo accanto a questo grande fermento e non ce ne accorgiamo. Viviamo presso un enorme mistero agitantesi nell’ombra, senza sospettarne l’esistenza.

Giustini taceva, fissando ancora gli occhi sull’immenso paesaggio della città che pareva annegata nel sottilissimo aere nebbioso sciroccale. Sangiorgio ascoltava, turbato, con un palpito di ansietà nel cuore, come all’appressarsi di un pericolo.

«Quello è il Quirinale: la regina, il re, la corte. Proprio lì, in quella luce rosea. Quattro balli, otto ricevimenti ufficiali, quaranta pranzi di parata, venti serate teatrali, quattro concerti, trenta inaugurazioni, quattrocento presentazioni, brillanti al collo, decorazioni sul patto, piume sui capelli, spalle nude, pasticci di fegato grasso e quadriglie d’onore... chi pensa che vi sia altro? Ma questa bella regina che saluta, con tanta amabilità, amici e nemici, monarchici e repubblicani, è anche una donna che sente, che pensa, che sa, che ascolta: ma questo re, carico di così pesante fardello, obbligato così doverosamente a un’obbedienza continua, non è un uomo, non ha anch’egli una coscienza, un criterio, una volontà? E tutta questa gente di corte, militari e impiegati, dame d’onore e diplomatici, maggiordomi e servitori, non si agitano, non lottano, non vivono forse? E che? Una riverenza è tutta la loro manifestazione? Non sanno che camminare davanti al re, in una sala? Chi dice questo? Non hanno amore e odii e passioni furiose di ambizione? Ognuna, di quelle donne, non ha un desiderio, un’invidia, un rimpianto amaro?»

Il brutto uomo, strisciando nervosamente le dita sul piano del parapetto, aveva trovato un grosso frammento di calcinaccio secco: ne staccava dei pezzetti e li buttava giù, per la proda verde. Francesco Sangiorgio seguiva attento attento il moto delle mani magre e brune, dalle grosse vene gonfie.

«Non si vede quel caldaione di Montecitorio,» riprese il deputato toscano, con la voce diventata più aspra: «è affogato tra le case; noi affoghiamo in esso. Un forno di cartapesta, dentro cui si cuoce lentamente, con una cottura disseccante, temperatura da bachi che addormenta tutte le audacie e riscalda tutte le timidità, che finisce per dare una dannosa cocciutaggine a tutti gl’irresoluti, e che solleva qualche pseudo-idea sotto il cranio dei cretini. Non si vede di qui il paese della politica, color di legno, come il signor Comotto ha voluto che fosse. Tutti gli abitanti di quel tamburone di cartone si agitano, gridano o tacciono, per una legge, per una leggina, per una ferrovia, per un ponte: più della legge, piccola o grande, più di ogni ferrovia o di ogni ponte, esser ministro, portare un’uniforme, sentirsi assordato dalla marcia reale nei paesi dove si arriva, aver per naturali nemici gli amici di prima, sentirsi dare del ladro dai giornali, vedersi aprire le lettere private da un segretario troppo zelante... e altre dolcezze simili. Vi sono dei disgraziati che desiderano di esser segretari generali! Uno di questi disgraziati sono stato io. Oh, brutto forno che fai ridurre l’uomo come una fava secca, arso da un desiderio irrefrenato e consumato dalla inettezza di questo desiderio!»

Ora il cielo tutto bianco allo zenit si faceva di un bigio delicato sulla linea circolare dell’orizzonte: una dolcezza serale saliva dalla città nell’aria, come un velo finissimo. Francesco Sangiorgio provava un malessere strano: Tullio Giustini gli sembrava più terreo, più brutto che mai, in quel momento: ridendo, gli si scoprivano due fila di denti giallastri.

«Com’è quieta la città!» riprese Tullio Giustini; «pare che si goda, dormendo, la festa di Natale. Pare, pare, non è. Lassù, in quel verde del Pincio e di villa Medici che discende fino a Via Babuino, i pittori cantano, ridono, dicono delle eresie come teoriche d’arte, e producono dei quadri che sembrano follie grandi. Che gliene importa, a loro? Per consolarsi dell’insuccesso, hanno inventato la parola borghese, con cui disprezzano il pubblico. In tutto quel biancore, dall’ altra parte, sono i quartieri nuovi. C’è stato mai? Settantamila impiegati, famiglie, servi, cani e gattini: un attendamento di barbari disarmati e affamati, che se ne stanno accoccolati lassù, guardando Roma e odiandola, perchè non la possono capire, e perchè la trovano esorbitante mentre le loro donne fanno i figli e cucinano, pallide, col seno smunto e colle mani rosse. Costoro avran festeggiato il Natale nelle loro casette, sfogandosi a parlar male del governo, delle serve, di Roma, del macellaio, come veri barbari, miserabili e ottusi. E i Romani, i veri Romani della Regola e del Popolo, del rione Monti e del rione Trevi, che mettono l’aggettivo romano accanto al loro nome come un titolo di nobiltà, che mangiano gli gnocchi il giovedì, la trippa il sabato e l’agnello sempre, che amano il vino bianco e i fuochi d’artifizio di Castel Sant’Angelo, che si vantano dell’acqua Marcia, e fanno placidamente pullulare gli scarafaggi nelle loro case vecchie, i Romani scettici, arguti, indifferenti e laboriosi, eccellenti mariti e amanti affettuosi, quelli lì non dormono sicuro. E tutte le donne, romane o napoletane, italiane o straniere, che passeggiano, stanno alla finestra, discorrono, ridono, amanti baciano, e amate si fanno baciare, non dormono, no!... le donne non dormono mai, neanche le notte. Oh, Roma è così viva, mentre vi sembra immobile: essa è così grande, così complicata, così delicata nel suo congegno, così potente nelle sue leve di acciaio, che quando io mi piego a guardarla, di quassù, mi fa spavento, come una macchina infernale.»

In quel tramonto crescente, Francesco Sangiorgio, tutto pallido, si piegò macchinalmente a guardare anche lui, in giù, come per scoprire la misteriosa macchina di Roma.

«E quel che si sogna, venendo qui!» seguitò Tullio Giustini, con un breve riso sarcastico. «Tutta una serenità amorosa di grande città che vi aspetta, poichè voi siete giovane e avete ingegno e volete lavorare e non essere indegno della città augusta. Anche io ci son venuto così e mi pareva che il primo cittadino romano dovesse abbracciarmi. Invece, dopo tre o quattro anni di rodimento, di tormenti interni e di forti delusioni, ho imparato varie cose: che ero troppo aperto per riuscire in politica, che ero troppo brutto per piacere alle donne, che ero troppo malato per riuscire in una scienza, che ero troppo duro per riuscire in diplomazia. Questo ho imparato e da questo una verità fulgida come il sole, terribile come la stessa verità: Roma non si dà a nessuno!»

«E che bisogna fare?» domandò, quasi tremando, Francesco Sangiorgio.

«Conquistarla.»

E Tullio Giustini, con la mano scarna, fece un largo gesto verso la città.

«Conquistarla... Guai ai mediocri, guai ai paurosi, guai ai deboli, come me! Questa città non vi aspetta e non vi teme: non vi accoglie e non vi scaccia: non vi combatte e non si degna di accettare la battaglia. La sua forza, la sua potenza, la sua attitudine è in una virtù quasi divina: l’indifferenza. Vi movete, gridate, urlate, mettete a fuoco la vostra casa e i vostri libri, danzate sul rogo: essa non se n’accorge. E la città dove tutti son venuti, dove tutto è accaduto: che gliene importa di voi, atomo impercettibile che passate così presto? Ella è indifferente, è la immensa città cosmopolita, che ha questo carattere di universalità, che sa tutto, perchè tutto ha veduto. L’indifferenza: la serenità imperturbabile, l’anima sorda, la donna che non sa amare. È lo scirocco spirituale, la temperatura tepida e uniforme, che vi fiacca i nervi, vi ammollisce la volontà e vi dà, ogni tanto, le grandi ribellioni interne e i grandi accasciamenti. Eppure vi dev’essere qualcuno o qualche cosa che turbi questa serenità, che vinca questa indifferenza. Qualcuno bisogna pur che la conquisti, Roma: sia pure per dieci anni, per un anno, per un mese, ma conquistarla, ma prenderla, ma far la vendetta di tutti i morti, di tutti i caduti, di tutti i deboli che hanno toccato le sue mura, senza poterle superare. Oh, costui, bisogna che abbia il cuore di bronzo, una volontà inflessibile e rigida; bisogna che sia giovane, sano, robusto e audace, senza legami, senza debolezze; bisogna che si concentri, profondamente, intensamente, in questo unico ideale di conquista. Qualcuno deve conquistarla, questa superba Roma».

«Io,» disse Francesco Sangiorgio.

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