< La conquista di Roma
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Parte seconda
Parte prima Parte terza

PARTE SECONDA

I.

Il ministro parlava da un’ora. Non era un oratore: gli mancavano la foga e l’eleganza. Era piuttosto un parlatore modesto, colui che non ricerca verun effetto di eloquenza politica e dice le cose precisamente, nell’ordine logico, matematico, con cui si presentano in un cervello quadrato e solido. Il discorso era, com’è naturale, irto di numeri, una sfilata interminabile di cifre: egli le pronunziava con una certa lentezza, quasi volesse farle apprezzare ad amici e nemici. La voce era un po’ molle, troppo familiare forse, ma nel silenzio si effondeva con chiarezza: pareva di assistere a una seduta di consiglio amministrativo: l’intonazione parlamentare mancava affatto. Il ministro, ogni tanto, s’interrompeva, per soffiarsi il naso, con un grande fazzoletto di seta, a scacchi rossi e neri. In realtà, in quella breve personcina grassoccia, onestamente vestita di nero, in quel volto placido, raso sulle labbra e sul mento, ma incorniciato inglesemente da due fedine brizzolate, in quelle mani bianche e grassocce, in tutto quel senso di calma e di meditazione che da lui traspirava, s’indovinava il grande lavoratore di gabinetto, l’uomo che passa dodici ore al giorno al ministero, innanzi a una scrivania ingombra di carte, scrivendo, leggendo, compulsando registri, discutendo coi capi di servizio, coi direttori generali. Così il ministro, l’uomo raccolto, concentrato in un lavoro immane ma segreto, pareva spostato a dover discorrere innanzi ai deputati; e dicendo delle cose importanti, facendo una relazione minuta e profonda, egli conservava una bonarietà di scienziato che spiega popolarmente l’altitudine della sua scienza.

La Camera taceva per rispetto, ma in verità era distratta. Erano così sicuri di lui, i suoi amici! Egli era forte, anzi era tutta una forza, metallica, massiccia, lucida, che gli ossidi della maldicenza politica o della discussione non potevano corrodere. Gli stessi avversari suoi ammettevano la sua potenza e contribuivano a rendere più grande il suo trionfo. A studiarlo acutamente, si finiva per intendere com’egli fosse fuori della passione politica, tutto preso dall’amore della finanza.

Poi l’atmosfera dell’aula conciliava un certo raccoglimento vago, senza pensiero. Mentre fuori, a metà gennaio, spirava una tramontana secca, fischiante e tagliente, uno dei tre giorni di freddo dell’inverno romano, dentro l’aula le bocche dei caloriferi mandavano un continuo alito di calore. Tutta chiusa, senza finestre, con qualche rara apertura di porte nelle tribune, porte che si richiudevano subito, senza rumore, come se strisciassero sul velluto, con quelle stuoie su cui si smorzava ogni passo, l’aula aveva un aspetto fisicamente confortante. Con tutto questo, il presidente, il bell’uomo cinquantenne, dal viso bruno e dai capelli ancora tutti neri, aveva le gambe avvolte in una coperta di velluto azzurro, foderata di pelliccia; e ascoltando il ministro, ogni tanto dava uno sguardo circolare alle tribune, cercandovi forse una persona. I segretari stavano immobili, seduti alla sua destra e alla sua sinistra: Falucci, l’abruzzese, alto e nerboruto, con una zazzera riccia, un po’ brizzolata, diceva tratto tratto, sottovoce, una parolina al bel Sangarzia che approvava col capo, senza rispondere, avvezzo alle lunghe pazienze silenziose; Varrini, il calabrese gentile e intelligente, dalla testa di sorcetto astuto, con una finezza di damina sopra una gagliardia di tribuno, scriveva delle lettere; e Bulgaro, il napoletano, faceva scricchiolare la sedia sotto il suo grosso corpo, portando sul viso imbronciato le tracce di una noia quasi infantile. Non più, come negli altri giorni, durante le piccole discussioni, al banco della presidenza, un viavai di deputati che facevano un discorsetto col presidente, scambiavano una barzelletta con qualcuno dei segretari e ridiscendevano dall’altra parte: poi, una passeggiatina fuori, a brevi intervalli, due chiacchiere fatte nella sala dei passi perduti: la seduta passava via. Ma il ministro faceva, oggi, una esposizione molto seria; bisognava ascoltarlo, ministeriali e oppositori.

La destra, una sessantina, quasi tutti vecchi deputati di otto legislature, ascoltavano senza attenzione, sapendo che quello era un avversario invincibile, e avevano l’aria di veterani, consegnati al loro posto, che non soffrono e non godono. La estrema Sinistra non ascoltava punto, ma non turbava la discussione; essa disdegnava le quistioni di ordine economico-amministrativo, non aveva studiato la finanza e aspettava qualche discussione politica per fare un po’ di chiasso: uno della piccola falange, Degli Uberti, dormiva, nascondendosi decorosamente la faccia tra le mani, un altro, Gagliardi, dormiva senza celarsi. Solo sopra un banco del centro l’attenzione era sincera, quasi di scolari ardenti innanzi alla parola rivelatrice del maestro. Dei quattro deputati, giovani, intelligenti e ambiziosi: Seymour, anglico, bruno, miope e corretto, prendeva delle note sopra una carta; accanto a lui, la barba da nazzareno di Marchetti; Gerino, fiorentino, taciturno, con una lunga barba bionda e fluente, un po’ duro nel volto, passava degli appunti a Joanna, il meridionale, bella testa contemplativa e studiosa. Ma tutta la Camera, presidente, segretari, commissari, deputati, subiva la molle influenza di quell’aria calda, di quel posto chiuso, di quel silenzio che solo la voce tranquilla del ministro interrompeva.

Le tribune erano affollate, caso strano in un giorno di discussione finanziaria. Ma il freddo aveva, certo, sorpreso per le vie quelle signore che se ne stavano nella loro tribuna, con le pellicce sbottonate, le mani ficcate nel manicotto, la faccia rosea pel buon caldo dell’aula: esse erano tutte felici di restar là, quantunque non capissero nulla, sentendo la voce del parlatore come un ronzio, rabbrividendo al pensiero di rimettersi per le strade, con quella tramontana che faceva lacrimar gli occhi e arrossire il naso. Così la tribuna pubblica era piena di gente: facce smorte e stanche di sfaccendati, figure miserabili di sollecitatori che passano la giornata a cercare il cugino di un amico di un deputato e che a una certa ora, demoralizzati, tremanti di freddo, vengono a finire alla Camera, alla tribuna pubblica, ascoltando senza batter palpebre. Anche la lunga tribuna dei giornalisti era più popolata del solito e quelli della prima fila fingevano di scrivere il sunto della relazione: ma chi scriveva una lettera, chi un articoletto teatrale, chi disegnava un profilo fantastico di Depretis, chi si esercitava alla calligrafia, scrivendo a svolazzi il proprio nome; i giornalisti di opposizione avevano già in macchina un semplice attacco tutto platonico, quelli ministeriali decantavano già da dieci giorni la esposizione finanziaria del ministro, tutti avevano un’aria tranquilla. Solo Gennaro Casale, impiegato governativo, giornalista napoletano ed enfatico, nemico del governo qualunque esso fosse, ci si riscaldava, e in fondo alla tribuna esclamava:

«Signori, il pareggio è una slealtà ministeriale!»

Financo nella tribuna diplomatica, appoggiata alla balaustra di velluto azzurro, si vedeva la snella persona e i grandi miti occhi profondi della contessa Beatrice di Santaninfa, che non ascoltava, pensava.

Quando, alle quattro e mezzo, il ministro ebbe finito il suo discorso, un grande movimento di soddisfazione, di ammirazione, piegò quelle teste di vecchi e giovani parlamentari. Egli rassettava le sue carte nel grande portafoglio, senza un tremito nelle mani, senza un mutamento di colore nel volto. Poi, intorno gli si aggrupparono amici cadenti e amici tiepidi, per stringergli la mano, per congratularsi con lui: financo qualche ex-ministro delle finanze discese dai banchi di destra a salutare il piccolo ministro grassoccio, dal cervello di acciaio. Vi fu un po’ di disordine, un po’ di tumulto. E la voce del presidente, sonora e chiara:

«Onorevoli colleghi, prego far silenzio. La parola è all’onorevole Sangiorgio».

«Chi? chi? chi?» fu una domanda generale.

E di nuovo, il presidente disse: «Prego far silenzio. L’onorevole Sangiorgio ha facoltà di parlare».

Allora gli occhi curiosi dei deputati cercarono questo collega che quasi nessuno conosceva: era lassù, all’ultimo banco di un settore del centro destro. Stava ritto e calmo, aspettando di poter parlare: anzi si trasse quasi sulla scaletta, fuori del banco, perchè lo vedessero meglio. Non era alto, ma lassù pareva alto, poichè si teneva dritto ed era molto robusto: non era neppur bello, ma la testa aveva tutt’i caratteri della forza, i capelli piantati rudemente sulla fronte bassa, il naso aquilino, i mustacchi bruni e folti, un mento duro, pieno di volontà: a nessuno egli parve insignificante. Poi, una curiosità diversa nasceva ora nella Camera. Questo deputato nuovo parlava in favore o contro? Era uno dei piaggiatori che appena arrivati, si affrettano a far dichiarazione di fedeltà?

O qualche piccolo insolente che avrebbe balbettato, innanzi alla Camera, un debole attacco, affogato tra i mormorii ironici dei colleghi? Un meridionale, avvocato: ecco quello che si sapeva. Dunque avrebbe declamato: la solita rettorica che i Piemontesi odiano, i Milanesi deridono, e i Toscani disprezzano.

Invece l’onorevole Sangiorgio cominciò a parlare lento, ma con voce così sonora e virile, che si allargava in tutta l’aula e per cui tutti gli ascoltanti respirarono di soddisfazione. Persino le signore, che quasi dormivano pel calduccio, si riscossero: e nella tribuna della stampa, rimasta vuota dopo il discorso del ministro, i giornalisti cominciarono a ricomparire, riprendendo i loro posti. L’onorevole Sangiorgio preludiava con un esordio pieno di riverenza per l’illustre uomo che dirigeva la finanza italiana, e l’elogio non aveva nulla dell’adulazione brutale: era dato con una forma sobria e delicata. Fuggevolmente, il parlatore accennò alla propria giovinezza, alla oscurità di colui che, costretto alla vita provinciale, volse gli occhi sempre verso Roma, dove ferve una continua e nobile lotta politica. Egli esaltò la politica, dicendola più grande dell’arte, più grande della scienza: in essa si compendiava tutta la storia dell’attività umana, e a lui l’uomo politico pareva il tipo supremo dell’uomo, apostolo e operaio, braccio e testa.

Un bene squillante partì dalla destra. L’onorevole Sangiorgio si fermò per un minuto secondo: ma solo un minuto secondo. Però quel richiamo alla sublimità dell’idea politica, quella specie di idealità larga, a cui era portata una cosa che nelle mani degli uomini diventa volgare, era piaciuto generalmente, e aveva fatto ringalluzzire una quantità di teste piccole. Il ministro, che sul principio aveva rizzato il capo, fissando bene l’oratore coi suoi occhi di un azzurro pallidissimo, ora lo aveva di nuovo abbassato, sentendosi venire addosso un discorso di parole, di quelli che lo imbarazzavano e lo stizzivano.

Sangiorgio però diceva che quegli anni di giovinezza in provincia non sono inutili, a chi vuol sorprendere il mondo moderno in tutt’i suoi bisogni. Le grandi città sono invaditrici, divoratrici, e hanno necessità di vivere dell’esistenza altrui, e sfruttano forze, e affogano lamenti, e dànno all’uomo che ci vive una tal febbre, che lo fa dimentico di qualunque altro interesse umano. Chi le sa le miserie delle provincie? Chi si fa l’eco di quegli sfoghi dolorosi e sommessi che non possono arrivare sino a Roma? Certo, alcuni valenti e buoni e coraggiosi, ogni tanto, narrano alla Camera le pene di tanta parte degl' Italiani; ma sono voci isolate, si affiochiscono, poi tacciono. Eppure non bisogna tacere: bisogna che la verità si sappia.

Ora la Camera ascoltava attentamente, con un certo interesse meno ironico, più benevolo. Era una neutralizzazione allo stento, alla difficoltà di comprensione che presentava il discorso antecedente del ministro: dopo una tensione dolorosa di due ore e mezzo a seguire il ballo fantastico delle cifre, quella eloquenza abbastanza semplice sollevava gli spiriti oppressi. Eppoi, in quella calata di giorno, freddissima e oscura fuori, beneficamente calda e chiara dentro l’aula, la Camera era presa da una sentimentalità, da un gran bisogno di affetto e di generosità. Di che si lagnavano le province, dunque?

Sangiorgio proseguiva, dicendo che tutta la triste esperienza della sua gioventù, a contatto coi contadini, si era ribellata a una proposta del ministro, che pareva molto innocente. Il ministro aveva detto che, dovendo dare dei milioni al collega della guerra, era mestieri fare ancora delle economie. Benissimo; l’economia era una forza nelle nazioni giovani. Ma il ministro chiedeva inoltre un piccolo aumento sulla tassa del sale. Sangiorgio intendeva la necessità di Stato che obbligava il ministro a chiedere quell’aumento di tassa, ma quei pochi centesimi rappresentavano una sequela di guai, un aggravamento a condizioni di vita già insopportabili. E allora egli rifece con vivezza il quadro della miseria contadinesca, così maggiormente e diversamente terribile della miseria cittadina, narrando coi particolari più veristi, con aneddoti brevi e lugubri, dove abitavano i contadini, quello che mangiavano, cioè come digiunavano, e come l’esattore delle tasse fosse per loro lo spettro pauroso della fame e della morte. Egli descrisse tutta la nudità rossastra del grande paese di Basilicata, le frane che ruinano dai monti dispogliati, andando a coprire i pochi pascoli, e la lontananza dei villaggi poveri dalla linea ferroviaria, onde la nessuna possibilità d’industrie, e la malaria della pianura dove gli ingegneri, i cantonieri e i capistazione prendono le febbri.

Parlando del proprio paese, così misero, tanto infelice, la voce gli si era abbassata, come se una emozione la velasse: ma si rinfrancò subito, andando alla questione. La tassa sul sale colpiva le classi povere, più nelle province che nelle città: già mangiavano la minestra con poco sale, ora l’avrebbero mangiata senza sale affatto. E le ultime verità igieniche, crudeli ma precise, stabilivano nella scarsezza del sale la origine delle fiere malattie dei contadini nella Lombardia e nel Piemonte.

Un mormorìo di approvazione corse per certi banchi: quello dove stavano le quattro teste giovani e vive del centro, Seymour, Gerini, Joanna e Marchetti, prestava la maggiore attenzione, ma senz’approvare, con quella rigidità inglese dei giovani deputati economisti.

«Nelle piccole città, nelle borgate, nei villaggi meridionali», proseguiva Sangiorgio, «i fornai hanno sempre due qualità di pane: quello insipido che costa poco, pei poveri, e quello salato pei signori. E a quello salato, spesso i fornai dànno il sapore, non col sale, perchè costa troppo caro, ma passando sulla pasta fresca un panno bagnato nell’acqua di mare; e nelle case povere si usa un sale grosso, nero, grezzo, che si dovrebbe vendere solo per le bestie, ma che sono costretti a comperare gli esseri umani. Coll’aumento della tassa, il governo condannerebbe tutta una classe di contribuenti a privazioni intollerabili, cui terrebbero dietro gravi malattie e sempre più profonda miseria.

«I milioni spesi per la difesa nazionale, per l’esercito, sono santamente prodigati; ma è egli necessario essere forti, quando si è così poveri? Quando il ministro della guerra chiamerà sotto le armi i giovani di Basilicata e crederà di trovare una schiera di montanari robusti e animosi, sarà deluso vedendosi davanti un branco di esseri pallidi e rosi dalle febbri, cachettici, malinconici. O piuttosto, questo non accadrà; le province aride e infruttifere si vanno sempre più spopolando; il contadino, desolato dalla durezza della terra, angariato dal fisco, abbandonato dalla natura, perseguitato dagli uomini, preferisce voltare le spalle al proprio paese e andarsene nei lidi lontani di America. Il contadino preferisce una gente straniera, un paese straniero, donde non si ritorna più. Quando si chiameranno all’appello della guerra i figliuoli italiani di Basilicata, essi non risponderanno: spinti dalla fame e dalla disperazione, essi saranno andati a perire lontano.»

L’onorevole Francesco Sangiorgio rientrò nel suo banco e sedette al suo posto. Dei bene, dei bravo gli giungevano agli orecchi, ma confusamente: sentiva quel ronzio di discussione che tien dietro a ogni discorso importante. Giusto innanzi al suo settore, un gruppo di deputati si era formato e fra loro discutevano un po’ forte, nominando ogni tanto l’onorevole collega Sangiorgio, volgendosi a lui, quasi a chiamarlo in appoggio. E stando fermo al suo posto, con le palpebre abbassate, senza che nessuno venisse a stringergli la mano, poichè nessuno lo conosceva, Francesco Sangiorgio sentiva però salire fino all’ultimo banco dov’egli sedeva la soddisfazione di tutta la Camera: della vecchia destra, carezzata nel suo orgoglio politico; della estrema sinistra, che credeva di avere scoperto un socialista in un deputato del centro; di tutti i deputati egoisti e sentimentali, pronti a impietosirsi a tutte le disgrazie, senza cercare di porvi rimedio; di tutti i deputati economisti, con vaghi ideali di socialismo agrario. Questo discorso, che in altra occasione sarebbe passato come uno squarcio qualunque di letteratura, assumeva oggi una grande importanza: trionfavano con Sangiorgio i modesti e intelligenti deputati di Basilicata, che una strana fatalità teneva sempre lontani dal potere; trionfavano tutti gli avvocati, a cui par solo debba spettare il regno parlamentare; trionfavano tutti i meridionali, in genere, a cui è sempre un po’ lesinato il successo. La Camera, infine, in certe ore di bontà, presa da un abbandono amoroso quasi femminile, si compiace a questi battesimi pieni di superbia e pieni di dolcezza.

Ogni minuto, la porta a cristalli della sala terrena, N. 9, in Via della Missione, si schiudeva per lasciar passare una nuova persona. Quelli che erano già nella sala, seduti sui divanetti, o in piedi, rivolgevano al nuovo venuto una occhiata astiosa: colui che entrava, frettoloso e freddoloso, andava diviato al grande banco che divide in due la sala terrena, prendeva una piccola scheda, vi scriveva il proprio nome e quello del deputato che desiderava vedere: e come costui, ve ne erano sempre cinque o sei che scrivevano sulle piccole schede. Dall’altra parte del banco, gli uscieri, in uniforme, col petto coperto di medaglie, con una fascia tricolore al braccio, teste calve, teste canute, andavano e venivano, portando via, a cinque a cinque, quelle schede, comparendo dietro una porta, che per certi corridoi dava accesso all’aula. Soddisfatto, colui che aveva mandata di là la sua richiesta si metteva a passeggiare, o, se vi era posto, a sedere, senza impazienza, anzi con una certa sicurezza presuntuosa. La porta sacra si schiudeva, e un usciere ricompariva, con varie schede tra le mani: tutti alzavano il capo e tendevano l’orecchio.

«Chi ha cercato l’onorevole Parodi?» gridava l’usciere.

«Io,» rispondeva una voce tra la folla degli aspettanti.

«Non vi è.»

«Avete cercato bene?» insisteva la voce, un vecchio col naso rosso e fiorito, con certe labbra grosse e pavonazze.

«L’onorevole Parodi non vi è,» replicava lo usciere con pazienza.

«Eppure ci dovrebbe essere,» mormorava l’altro.

«Chi ha chiesto l’onorevole Sambuchetto?»

«Io,» rispondeva un giovanotto, dal viso smorto e dal soprabito gramo, col bavero alzato.

«Vi è, ma non può venire.»

«Perchè non può venire?» chiedeva, con tono insolente, il giovanotto, quasi facendosi livido.

«Non ha scritto altro: non può venire.»

Il giovanotto si mescolava alla gente che riempiva la stanza, ma non se ne andava: restava rabbioso, borbottando, col cappelletto abbassato sugli occhi, con una cera di malcontento poco promettente. Del resto, tutt’i visi della gente che andava e veniva impaziente, in quella sala, o se ne stava accasciata sui divanetti appoggiati al muro, tutti quei visi avevano un’impronta di tristezza, di fastidio, di sofferenza repressa. Pareva l’anticamera d’un medico celebre, dove vengono a riunirsi, l’un dopo l’altro, gl’infermi, aspettando il loro turno, guardandosi intorno, con l’occhio vago di chi non s’interessa più a nulla, col pensiero sempre rivolto alla propria infermità. E come in quell’anticamera lugubre, che chi l’ha vista una volta, per sè o per una persona cara, non può dimenticare; come in quella stanza si riuniscono insieme tutt’i malori che tormentano il povero corpo umano: il tisico con le spalle strette e curve, il collo sottile e gli occhi nuotanti in un fluido morboso; il cardiaco dal viso pallido, dall’arteria grossa, dalle mani giallastre e gonfie; l’anemico dalle labbra violacee e dalle gengive bianche; il nevrotico dalle mascelle rimontanti, dai pomelli sporgenti, dal corpo scarnato, — e tutte le altre malattie ignobili o pietose, che torcono le linee del viso, che serrano nervosamente le bocche e danno quel calore insolito alle mani, quel calore che fa spavento alle persone sane; — così in quella stanza fredda, venivano a raccogliersi tutte le miserie morali umane, di tutto dimentiche, concentrate nella propria pena.

Vi era il giovanotto che ha fatto il maestro elementare senza patente, è venuto a Roma per avere un impieguccio qualunque, e poichè gira da un mese invano, timido, ha finito per chiedere un posto di servitore che non vogliono dargli, perchè ha l’aria poco servile; l’ex-impiegato del Banco di Napoli o di Sicilia che fu destituito per malversazione dodici anni fa sotto il partito di destra e ora vuol essere reintegrato dal partito progressista che ha sempre servito fedelmente; l’industriale dalle speculazioni vacillanti, che deve pagare una fortissima multa al fisco, perchè non ha fatto registrare un contratto, e che spera nella grazia del signor ministro per essere assoluto dall’ammenda inflittagli; la vedova del pensionato accompagnata da un bambino tutto piagnoloso pel freddo, che chiede da dieci mesi una prenditoria del lotto, rinunziando alla pensione; il fannullone che sa far di tutto e non è buono a niente, che vuole assolutamente un posto, qualunque sia, col pretesto che, mentre alla Camera e ai ministeri ci sono tante bestie, anche lui deve prender parte alla cuccagna.

E le variazioni dei bisogni, delle necessità, sono infinite: ognuna di quelle persone ha dentro l’anima un cruccio, un desiderio insoddisfatto, una illusione vivace e tormentosa, una cura segreta, un’asprezza di aspirazione, un malcontento: e sulle facce corrisponde una contrazione spasmodica, uno stringimento di labbra colleriche, una dilatazione di nari che tremano all’urto nervoso, un aggrottamento di sopracciglia che contrista tutto il viso, una convulsione di mani che si serrano nelle tasche del paletot, una curva malinconica nel sorriso femminile che va discendendo di delusione in delusione: e insieme un concentramento profondo, una dimenticanza di tutti gli interessi altrui, un pensiero unico, una idea fissa, per cui si guardano, s’incontrano, si urtano, ma par quasi che non si sentano e non si vedano. La sala è sudicia sul pavimento, sporcata dai piedi che hanno attraversato le pozzanghere dei vicoli, tutta macchiata di grossi sputi di persone raffreddate.

«Chi ha chiesto l’onorevole Moraldi?» grida la voce dell’usciere.

«Io», risponde un vocione imponente, un uomo grasso e grosso, con la pappagorgia rossa.

«Prega di aspettare un poco: parla il signor ministro.»

E il grosso uomo si pavoneggia nel suo soprabitone caldo, che descrive una curva sensibilissima sulla pancia. Qualcuno lo guarda con invidia, poichè il suo deputato lo ha almeno pregato di aspettare, mentre altri si dànno per assenti, o mandano secco secco a dire che non possono venire. Forse lo invidiano per quel soprabitone caldo, poichè quanti abiti troppo leggieri coperti da un meschino paletot ragnato, quante giacche di autunno portate ancora nell’inverno, con una disinvoltura rassegnata, quanti calzoni sale e pepe sotto un soprabito verde, quanti calzoni di un giallore offuscante sotto la stoffa color cannella di un vecchio e logoro soprabitone!

Il movimento continuava; quelli che avevano avuto un rifiuto definitivo restavano un po’ indecisi, con la faccia smorta, guardando verso l’uscio, quasi non avessero il coraggio di uscire, pel freddo; poi si decidevano ad andarsene, le spalle curve, lentamente, senza voltarsi. Per uno che ne usciva, due o tre ne entravano: la sala non si vuotava mai: gli uscieri andavano e venivano da quella porta, che pareva quella di un tabernacolo: le risposte negative piovevano.

«Chi ha cercato l’onorevole Nicotera?»

«Io,» rispondeva un uomo alto e magro, con un collo scarnato, una faccia scheletrita, con pochi peli incolori.

«Vi è: si scusa, non può venire.»

L’uomo dalla magrezza fantastica si piegava in due, come un bruco, sul banco, scriveva un’altra scheda, la consegnava a un altro usciere, che tornava, gridando:

«Chi ha chiesto l’onorevole Zanardelli?»

«Io,» rispondeva quella vocetta sibilante.

«Vi è: parla il ministro, non può venire.»

Lo spettro scriveva ancora, senza perdere la pazienza.

Ma un deputato, più arrendevole, era uscito all’appello di colui che lo desiderava, accogliendolo con una certa premura frettolosa, conducendoselo nell’altro salone dove avvengono le conversazioni fra clienti e deputati. In quel salone vi erano tre o quattro signore, sedute nell’ombra, aspettando, con le mani nel manicotto. Il deputato e il cliente andavano su e giù: il cliente discorreva con vivacità, gesticolando, e l’onorevole lo ascoltava, con gli occhi bassi, attentamente, chinando il capo ogni tanto per approvare.

Nella sala d’aspetto l’attesa aveva stancato tutta quella gente: una lassezza fisica e morale piombava su loro: la nuova delusione, in quella caduta di giornata, spezzava le loro gambe; qualcuno si appoggiava al muro; sulle ginocchia della vedova il bimbo si era addormentato, un silenzio regnava. E miserie vere o false miserie, desiderii di cervelli oziosi, o pii ferventi desiderii di anime laboriose, necessità in cui il vizio ha fatto precipitare o infortuni immeritati, ambizioni modeste, fantasticherie di nervi esaltati, sete di giustizia di mattoidi ostinati: tutta questa intima pena umana, sopportata in silenzio, si confondeva in un senso di oppressione, di mestizia, in un sentimento di abbandono, in un rammarico sconsolato di essere venuti là, un’altra volta, a picchiare a quella porta che non voleva aprirsi. Già ardevano le fiammelle del gas, vivamente, ma battevano sopra facce scomposte, in una prostrazione, in una immobilità di gente morta. Tre uscieri vennero fuori dalla porta, uno dietro l’altro:

«Chi ha chiesto l’onorevole Sella?»

«Chi ha chiesto l’onorevole Bomba?»

«Chi ha chiesto l’onorevole Crispi?»

«Io, io, io,» rispose la vocina piccola dell’uomo scheletro.

«L’onorevole Sella non può lasciar l’aula».

«L’onorevole Bomba è occupato nell’aula».

«L’onorevole Crispi è nella commissione del bilancio».

Tranquillamente l’essere scheletrito scrisse una altra scheda e la porse a un usciere.

«Scusi,» osservò quello, «non possiamo chiamare i signori ministri e specialmente il presidente del consiglio».

«E perchè?» fece lo spettro, meravigliato.

«È il regolamento».

Ma quello, sempre paziente, scrisse un altro nome e si mise a passeggiare su e giù, sorpassando la statura di tutti. Qualcuno cominciava ad andar via, trascinando il passo, portando seco la umiliazione di quella lunga attesa inutile; altri, prendendo una risoluzione disperata, uscivano di là per andare a piantarsi, nel freddo serale, innanzi alla porta di Montecitorio, aspettando i deputati all’uscita; altri, più timidi, restavano ancora: il gas dava un po’ di calore, alla fine della seduta qualche deputato sarebbe comparso. Un coupè si fermò davanti alla porta, restò chiuso, un servitore scese di cassetta, entrò, consegnò un biglietto ad un usciere e stette aspettando, con l’aria indifferente della gente comandata. Un usciere gridò:

«Chi ha chiesto l’onorevole Barbarulo?»

«Io», fece la fantasima.

«Non vi è.»

«È in congedo?»

«È morto da quattro mesi.»

Questa notizia colpì l’uomo-cadavere: egli pensò un momento, ma forse non trovò altro nome da chiamare e se ne andò, lentamente, anche lui. Dopo un minuto, Francesco Sangiorgio attraversò la sala, parlò col servitore — due parole — e accompagnato da lui fin sulla piazzetta, entrò nel coupé, vibrando ancora pel successo.

«Mi congratulo sinceramente,» disse donna Elena Fiammanti, stringendogli la mano.

Il coupé filò via. Nella sala il viavai cessava, il bimbo gridava, svegliato dalla mamma, gli uscieri si sedevano un momento, stanchi: due deputati, uno con tre interlocutori, un altro con due signore, chiacchieravano nel salone attiguo.


La vampa ardeva, piccolina, nel caminetto: tre ceppi in triangolo bruciavano, alle punte. Donna Elena stuzzicò un poco la cenere calda e i carboncini accesi, ne schizzò fuori qualche scintilla, i tre ceppi s’infiammarono. Ella si rialzò subito: si stirò, con un moto macchinale, la maglia di seta nera sui fianchi.

«Vi piace la vampa, Sangiorgio? Vi dev’esser freddo laggiù, in Basilicata».

«Molto freddo», diss’egli, sedendosi in una poltroncina. «I caminetti eleganti non ci sono: ci sono certi larghi e alti camini, sotto la cui cappa, a destra, si pone un banco di legno. Ivi siede il capo della casa, nell’inverno, e attorno i figliuoli e i parenti».

«Io amo molto il fuoco, nel caminetto,» diss’ella, con gli occhi socchiusi, come gravi di languore; ma quando vi è qualcuno. Da sola, mi contrista».

Parlava, con le due braccia abbandonate lungo i bracciuoli del suo seggiolone, appoggiando la testa alla spalliera. La luce della lampada faceva scintillare l’oro con cui era ricamato l’alto goletto della sua maglia e traeva una scintilla da una fibbia d’oro, sopra la scarpetta nera: il piedino si avanzava, un po’ grasso, ma inarcato.

«Non sarete mai sola, credo».

«No, mai,» rispose ella francamente; «la solitudine è odiosa».

«Infatti.....» assentì lui, vagamente.

«No, no, non mi date ragione per cortesia. Lo so che voialtri uomini, massime quando avete una grande ambizione o un grande amore, desiderate la solitudine. Ma noi donne, no. Noi abbiamo bisogno della gente. Se una donna vi dice che preferisce la solitudine, non ci credete, Sangiorgio; vi inganna per bontà o per non discutere. Esse sono tutte come me, o, piuttosto, io sono donna come le altre. La gente mi diverte. Anche uno sciocco m’interessa. Oggi, alla Camera, per esempio.....»

«Per esempio?...» fece lui, con un mezzo sorriso.

«Vi era uno sciocco dietro a me, nella tribuna della presidenza: mi ha parlato di scempiaggini, per un’ora».

«E non vi ha seccato?»

«No, mi ha impedito di udire il discorso del ministro. Fumate?»

«Grazie».

Ella gli porse la scatola degli avana. La mano era grassoccina, con certe unghie rosee, lucidissime.

«Avete fatto un bellissimo discorso, oggi, Sangiorgio», riprese ella, accendendo una sigaretta gialla.

Sangiorgio alzò gli occhi su lei, senza rispondere.

«Se ci tenete, comperate i giornali domani: saranno pieni di voi».

«Non mi pare: il ministro è molto amato».

«Bah!... egli è come Aristide: i suoi concittadini si sono annoiati di udirlo chiamare giusto. Non v’illudete per questa citazione, Sangiorgio: io non so nè il greco, nè il latino. Sono ricordi di giovinezza, quando leggevo».

«Ora non leggete?»

«No, i libri mi annoiano».

«Sono inutili».

Il cameriere entrò con un piccolo vassoio di bambù e col caffè: anche le tazze erano giapponesi, di una porcellana delicatissima, azzurrina.

«Quanti pezzi?» domandò ella, tenendo sospesa la morsetta d’argento.

«Due».

Mentre prendevano il caffè, Sangiorgio guardava il salotto. Vi era stato un momento, prima del pranzo, mentre la contessa era di là a cambiarsi di vestito. Era un salotto piccolo, senza tavolini, senza mobili di legno, tutto pieno di poltrone, poltroncine, divanetti, sgabelli, una stanzetta senz’angoli: anche il pianoforte era dissimulato sotto una quantità di stoffe turche e persiane: sul muro, un pezzo di piviale roseo, ricamato in oro, brillava.

«Vedrete, vedrete, Sangiorgio: domani molti deputati vi si faranno presentare. Voi godrete tutte le dolcezze del successo».

«Bisogna crederci all’ammirazione dei colleghi?»

«No, caro amico, ma goderne. Una quantità di cose umane, belle e buone, sono false nella loro essenza. La saggezza è di approfittarne, di prenderle come sono, senza chiedere di più».

E gli diede un’occhiata, alla sfuggita, rapidissima. Egli capì subito: lo assisteva in quella piccola stanza la stessa lucidità che, nella giornata, innanzi alla Camera, lo aveva soccorso nella sua audacia.

«Anche l’amore è così,» mormorò lui.

«Specialmente l’amore,» rispose donna Elena, spalancando i suoi occhioni bigi che avevano delle tinte turchine, quella sera. «Vi siete mai innamorato, Sangiorgio?»

«Mai molto,» disse subito lui, «... ancora,» soggiunse.

«Grazie. Quando v’innamorate, ricordatevene. L’amore è una cosa bella, non bellissima: non bisogna chiedergli più di quello che può dare. Ma l’uomo è esigente, l’uomo è egoista, l’uomo vuole la passione... e allora... la donna dice la bugia. In realtà il sentimento è mediocre, ce ne sono dei più forti, l’amore è una forma passeggiera, spesso inefficace.»

E mentre ella spifferava questi paradossi romantici con un’aria un po’ pedantesca, le labbra incarnate si delineavano nella loro tumidezza, la mano arruffava un poco i riccioli naturali della fronte, ella agitava in su e giù il piedino grassoccio, la cui pelle traspariva dalla calza di seta nera traforata. Sangiorgio, già familiarizzato, la guardava con un sorriso un po’ fatuo che ella forse non vedeva, infervorata nei suoi paradossi.

«Anche la donna vuole essere ingannata,» continuò donna Elena, buttando la sua sigaretta nel caminetto. «— Questi traditori d’uomini non sanno amare!» — le sentite gridare, e piangono e si disperano. Esse esigono la fedeltà! la bella frottolina da raccontare ai bimbi. Come se si potesse esser fedeli! come se non si avessero nervi, sangue, fantasia, tutte cose contrarie alla fedeltà! Centomila lire di mancia a chi mi porti in casa un uomo e una donna veramente fedeli, assolutamente fedeli!»

Francesco Sangiorgio aveva preso quella mano alzata: egli scherzava con le dita, leggermente, intorno agli anelli di brillanti, intorno a un’opale allungata, dalla tinta lattea. Sangiorgio abbassava ogni tanto la testa sulla mano come per ischerzo, e finì per baciarla, sulla linea del polso. Donna Elena non gl’inspirava più alcuna soggezione: gli sembrava di essere in intimità, con lei, da un pezzo; gli venivano una quantità di idee volgari; una leggera ebbrezza rimastagli dal giorno, rinforzata ora da quell’ambiente femminile tutto profumato di corylopsis, da quella donna provocante, da quelle parole che a forza di paradossi diventavano brutali, gli faceva crollare il capo. Per affermare questa sua intimità con donna Elena, avrebbe voluto distendersi sopra un divano, o buttarsi sul tappeto, o gittare i fiammiferi nel caminetto, fare delle impertinenze da bambino ineducato. Resisteva a queste tentazioni con uno sforzo di volontà, ma il sorriso ironico che piegava sdegnosamente il labbro inferiore di donna Elena, ma il lieve fremito delle nari che animava quel grande naso aquilino femminile — l’aristocrazia e la bruttezza di quel volto — lo eccitavano. Piano piano le cavò gli anelli dalla mano sinistra, facendoli ballonzolare nella propria mano; e in quella specie di ubbriachezza che lo vinceva, il suo più forte desiderio era di cavarle una scarpetta, per vedere il piedino che si sarebbe ripiegato, nudo nella calza, quasi pudico.

«Certamente vi sono delle donne virtuose,» seguitò donna Elena: «chi lo nega? È tutta un’altra quistione. Vi sono delle donne fredde, vi sono delle donne che non amano. Io ne conosco varie: non molte, ma varie. Allora non ci vuole una gran forza a restar fedeli. Donna Angelica, la moglie di Sua Eccellenza, ecco una donna virtuosa! La conoscete, donna Angelica, Sangiorgio?»

«... Sì.., di vista,» mormorò lui.

E restò tutto imbarazzato, con quegli anelli in mano, non sapendo cosa farne: finì per posarli sopra uno sgabello, senza osare di rimetterli alla mano, donde li aveva tolti. D’improvviso, quella nebbia bassa che gli offuscava il cervello si era dileguata, ed egli si vergognava di tutte le ignobili cose da fanciullo, che aveva pensato di fare. Quasi quasi avrebbe chiesto perdono a donna Elena: ma costei, forse, di nulla si era accorta. Tutta nervosa ancora, si passava le mani sulle pieghe della veste di lana nera, a stirarle, come se volesse far loro prendere una tensione immutabile.

«Che ve ne pare della mia predica?»

«Sono un neofita ardente: non intendo tutto, ma ammiro,» rispose il deputato, avendo ripreso elasticità di spirito, da poter esser frivolo.

«Vi farò della musica: questa la capirete,» disse ella, alzandosi a un tratto: «Fumate, leggete o dormite: se non mi ascoltate, non importa: io, la musica, la fo tanto per me che per voi.»

Dopo un momento, una voce delicata e toccante cantò le prime note dell’Avemaria di Tosti. Francesco Sangiorgio trasalì, come a un suono inaspettato, impensato. Invero, la voce di donna Elena non rassomigliava a donna Elena, o, piuttosto, le rassomigliava per un lato solo, e, per gli altri lati, la completava.

Invero, donna Elena ritrovava, ogni tanto, nel canto, la nota sua, il suo carattere; ritrovava quella nota grave di contralto, un po’ rauca, calda, che scuote le fibre, quel tono basso e amoroso, che è una confidenza passionata e una gelosia improvvisa: e per codesto lato la voce le rassomigliava. Ma ella trovava anche la dolcezza molle di intonazione, la purezza di una nota filata senza un tremolìo, la delicatezza di un canto quasi infantile, la tenerezza fluida di una voce innocente di giovanetta: ella ritrovava, nota eccezionale nel canto, una voluttà quasi ideale, una trasfigurazione armoniosa della sensualità, un poetizzamento supremo: per questo, la sua voce la completava.

Dimentica di colui che l’ascoltava, ella cantava, la testa un po’ arrovesciata, gli occhi tanto illanguiditi che le ciglia ombreggiavano le guance, la bocca appena schiusa, senza fare una contorsione, la gola che si gonfiava, bianca nel colletto nero e oro della maglia, con le mani che scorrevano lievi lievi sui tasti, staccandosene delicatamente come se li carezzassero. Una nuova dolcezza, una nuova serenità pareva che si fossero diffuse per quella stanzetta, sin allora dominata da un ambiente acre e provocante: una blandizie si allargava sulle cose inanimate, temperandone la vivacità. Donna Elena cantava la malinconica romanza di Schumann, il cui ritornello sembra più un novo contristamento che un conforto, tanto la musica ne è acutamente triste:

Va, prends courage, cœeur souffrant...

e Sangiorgio l’ascoltava, pensoso, alla fine di quella giornata trionfale, preso da una emozione ignota di dolore.

II.

L’ultimo veglione, l’ultimo martedì di carnevale, al Costanzi. La gente minuta che di carnevale ha solo il veglione pel divertimento serale, tutti gli studenti che hanno ancora dieci lire in saccoccia, tutti gl’impiegati che si abbandonano a una piccola orgia onesta, tutt’i commessi di negozio la cui bottega restava chiusa il domani, piccoli avvocati e piccoli dottori, tutti costoro e altri ancora, sfilavano, dalle dieci, attraverso le quattro porte rosse, che non si richiudevano mai. Nel corridoio terreno, i guardarobieri perdevano un po’ la testa, numerando soprabiti e pellicce, unendo sciarpe, veli, bastoni e scialli in pacchetti. La vastissima platea ingoiava gente, sempre, e non pareva mai piena, malgrado quel brulichìo di persone, di colori vivi a fondo nero. La gente si dava a quell’eterno passeggio circolare che è la nota caratteristica del veglione romano. Ventiquattro pulcinella, una chiassosa compagnia di giovanotti, tenendosi per la camicia bianca, l’un dopo l’altro, correvano attraverso la sala, ridendo e gridando, come una valanga di neve che precipiti, roteando. In mezzo alla sala, in un largo circolo, erano riunite una quantità di mascherette femminili, per lo più con una vesticciuola bianca e corta, una vera blusa infantile, stretta un po’ alle ginocchia da un largo nastro azzurro o rosso, con la cufnetta bambinesca sul capo e un giocattolo tintinnante in mano: l’economico, carino e provocante costume di donna Juanita, nell’atto della Giamaica. Venute in buona compagnia, queste mascherette non lasciavano mai il loro cavaliere; appena l’orchestra, dalla tribuna elevata sul palcoscenico, dietro la grande fontana zampillante, preludiava per una polka, le coppie si mettevano a girare, con una gravità singolare, misurando il passo, strisciando per non urtarsi, ballando con coscienza; quando la musica cessava, si fermavano di botto, come sorprese: il cavaliere offriva il braccio alla dama, e senza scambiare una parola, si davano alla passeggiata circolare; alle nuove prime battute penetravano nuovamente nel circolo e ballavano ancora, con una ostinazione quasi doverosa, mentre intorno a loro tre file di spettatori ammiravano.

Tre ragazze, vestite di lana nera, con certi grembiuli bianchi e certi immensi cufnoni di mussola bianca, si tenevano a braccetto e con un filo di voci sottili, agitando le manine calzate di guanti neri, andavano intrigando mezzo mondo. In un palco di seconda fila, un domino femminile, scarlatto, di raso, con un cappuccio a cresta di gallo, se ne stava solo, quieto, tenendo lungo il parapetto un braccio tutto rosso, financo nel guanto. Qualche altro domino femminile elegante e misterioso appariva qua e là: uno svelto, tutto azzurro, con un grande cappello a forma di conchiglia schiusa; un altro di raso nero, col capo avvolto in una blonda nera veneziana; una opulenta persona che lasciava vedere, dal domino aperto, di broccato fiamma e oro, un vestito di broccato crema: e altri ancora, seguiti da giovanotti che cercavano d’indovinarne la figura. Ma la massa era formata dalle oneste famiglie borghesi, padre e madre, figliuoli e figliuole, che venivano al veglione come a uno spettacolo notturno di passeggiata, col vestitino di lanetta scura, il colletto bianco, il cappellino nero piumato, e incontrandosi fra loro, si fermavano, si salutavano, chiacchieravano, spassandosi con quella serenità della borghesia romana che non si esalta mai.

La calca si faceva fittissima innanzi alle due barcacce (palchettoni di proscenio), dove i soci del Club delle Cacce, in marsina, cravatta nera, gardenia all’occhiello, da una parte, gli ufficiali di cavalleria, dall’altra, si piegavano a parlare, a ridere con gli amici che passavano in platea.

Quando Francesco Sangiorgio entrò nell’atrio e comprò un biglietto di ingresso, erano le undici e mezzo. Una figura femminile avvolta in una stoffa ricamata, con la testa coperta e il volto nascosto sotto una trina bianca, gli disse, con una voce finissima:

«Oh caro Sangiorgio, buona sera, perchè sei malinconico?»

«Perchè non ti ho riconosciuto ancora, carina».

«Tu non mi conosci, tu non devi conoscermi, tu non mi conoscerai mai. Io lo so, perchè sei malinconico, Sangiorgio. Te lo dico in un orecchio: sei innamorato».

«Di te, cara».

«Mi fai ridere: sei troppo galante: non si usa, al veglione. Sii brutale, te ne prego; ne va del tuo decoro. Senti ancora: il Ferrante non è più candidato a membro della commissione del bilancio. Si parla di te: te lo avverto; sii cauto».

Egli restò colpito. Il domino sfilò tra la folla e scomparve. La notizia lo aveva meravigliato molto: non se l’aspettava. Che ne aveva ricavato dal suo grande discorso? Una discussione lusinghiera col capo della destra, don Mario Tasca, l’oratore freddo, mite ed elegante, il moderato socialista, l’uomo politico che aveva perduto il proprio partito per la nebulosità delle proprie tendenze. E poi saluti, presentazioni, strette di mano. Il ministro, rispondendo, aveva reso omaggio all’avversario, ma aveva insistito sulla proposta, e la Camera aveva votato il bilancio con una forte maggioranza. Chi si occupava più del suo discorso? L’onorevole Dalma glielo aveva detto, con quel suo poetico cinismo parlamentare:

— In politica tutto si dimentica. —

Nel vestibolo, dove le coppie passeggiavano, tenendosi a braccetto, discorrendo, dove gruppi di giovinotti si consultavano finanziariamente, per metter su una cena, dove i domino solitari andavano su e giù aspettando qualcuno che non veniva, Sangiorgio incontrò l’onorevole Gullì-Pausania. Il deputato siciliano era addossato al muro, aspettando anche lui, elegante e corretto nella marsina di meridionale galante, con la barbetta castagna tagliata a punta, con gli occhi verdini che cercavano nella folla e il gibus che nascondeva la calvizie precoce, per cui molte donne lo amavano.

«Oh caro Sangiorgio,» disse Gullì, con un forte accento siciliano: «solo, solo, al veglione!».

«Solo: non aspetto nessuno, nessuno mi aspetta e l’onorevole mio collega Gullì-Pausania non mi imita, certo»

«Che ci volete fare?» rispose, ridendo, Gullì, «passiamo la vita ad aspettare.....»

«Non la stessa persona, sempre, per fortuna».

«Oh no, sarebbe troppo grave... Nessuna notizia politica?»

«Nessuna, caro collega. Buon divertimento!»

«Grazie,» fece Gullì-Pausania, sorridendo con la sua fine aria voluttuosa.

Sangiorgio entrò. Le palpebre gli battevano sugli occhi abbarbagliati. Il teatro, nelle sue tre file di palchi, sulle gallerie, sul palcoscenico, era strabbocchevolmente illuminato, e il fondo bianco della sua decorazione ne raddoppiava il fulgore: sul palcoscenico, lo zampillo della fontana, altissimo, era colorato di rosso da un raggio di luce elettrica. La sala era piena: arrivava ancora gente dagli altri veglioni, dai caffè, dai ricevimenti, dai balli. Non era più permesso nè di fermarsi, nè di camminare presto: Sangiorgio principiò col non veder altro che le spalle di un alto signore robusto che camminava innanzi a lui, a diritta l’orecchio rosso di una ciociaretta, a cui certo era troppo stretto il lacciuolo della mascherina, a sinistra il profilo sperso di una giovanetta alta e magra, con gli occhi malinconici. L’alto signore guardava a destra e a manca nei palchi, movendo una testa dalla zazzera bionda, ripartita da una diritta scriminatura. Una volta che costui si fermò per poco a guardare in un palchetto di prima fila, pieno di domino neri che se ne stavano immobili e zitti zitti, Sangiorgio gli si trovò accanto. Era l’onorevole principe di Sirmio che portava il titolo di Altezza Serenissima ed era il più ricco signore di Roma.

«Buona sera, onorevole signor collega,» disse il principe, con quella sua voce liquida e lenta, con quel tono di stanchezza fredda che era una delle sue originalità. «Credo sia la prima volta che capita in uno di questi luoghi di corruzione dove tutti si dànno a una virtù scrupolosa. Una virtù scrupolosa, non Le pare? Le avran detto che noialtri della capitale si fa una vita sfrenata: invece, come vede, noi si gira in tondo, con molta lentezza, pour le bon motif, poichè noi si cerca la moglie, che dev’essere in un palco con sua sorella. Intanto si va tra la folla, come vede, per sentire e sapere. Sento dirmi da tutti che son democratico... e ubbidisco. Lei fa della politica, onorevole collega? Ce n’est pas le bonheur, ma infine... io non ne fo più, da tempo immemorabile. Il capo del mio partito è don Emilio Castelar: io sono repubblicano spagnuolo. Se ne maraviglia?»

Francesco Sangiorgio sorrise e non rispose, il che fece piacere al principe, poichè egli non amava troppo i parlatori e gli interruttori: con quel suo discorrere molle molle, una interruzione lo seccava.

«Ah! ecco la moglie,» riprese Sirmio. «Chi sta nell’altro palco, accanto a lei? Ah! è il ministro degli affari esteri con le sue figliuole, la Grazia e l’altra che dovrebbe chiamarsi Giustizia, ma si chiama Eleonora. La freddura non è mia, è di un giornale. Buona notte, onorevole collega».

«Buona notte, principe».

Sangiorgio, invece di fare il giro minore intorno alla sala, faceva il giro maggiore, ascendeva verso il palcoscenico, dove, dall’una parte e dall’altra, lungo le quinte, stavano dei tavolini e delle sedie, e tutt’intorno famiglie intiere borghesi che bevevano delle gassose, o delle coppie inseparabili e annoiate che, non osando dividersi, bevevano una tazza di birra. Egli rasentava la fontana che adesso la luce elettrica tingeva di violetto, un colore delicatissimo, e passava fra la vasca e il grande specchio del fondo, sotto la tribuna dell’orchestra. Questa, a un tratto, scoppiò sul suo capo, con le prime note della mazurka dei postiglioni del ballo Excelsior, che era popolare in quell’inverno. Vi fu un momento di fluttuazione dal palcoscenico alla platea, come se tutte le teste ondeggiassero a quel ritmo vivace: la gente rifluì verso la platea a veder ballare. In un angolo di quinta, a sinistra, solo a un tavolino, l’onorevole Schuffer beveva della birra guardando la gente coi suoi occhietti chiari dietro gli occhiali, rizzando ogni tanto il nasetto sottile e il mento arguto.

«Oh caro collega,» disse Schuffer con la dolcezza dell’accento veneziano; «prende una tazza di birra con me? Ma già Lei è napoletano, e non gusterà la birra».

«Grazie, grazie, onorevole, non prendo nulla: sono entrato adesso.»

«Io, da un’ora, ma in un’ora quante gomitate nelle costole, quanti spintoni, quanti piedi passati sui miei! Mi sono rifugiato qua per evitare le occasioni: Lei già saprà che io sono sfortunato, in certe cose.»

Sangiorgio sorrise: l’onorevole Schuffer, con la sua aria di giovanetto biondino e furbettino dalla zazzeretta ricciuta, aveva già avuto tre querele per ingiurie. Questo deputato, fatalmente, capitava ogni tanto a dover litigare con una guardia, con un facchino, con un capo-stazione, con un cameriere di caffè: e mentre a cento altri deputati accadeva lo stesso senza veruna conseguenza, a farlo apposta, la guardia, il facchino, il capo-stazione, il cameriere gli davano querela; onde, di tanto in tanto, la Camera era chiamata ad accordare l’autorizzazione a procedere.

«Io ho imparato a bere la birra, viaggiando, andando al Giappone,» proseguì Schuffer. «Gran paese quello, onorevole collega! Là non ho mai litigato con alcuno, glielo assicuro.... Onorevole, Ella è ministeriale: voterà Ella i milioni al ministro della guerra?» soggiunse, come colpito improvvisamente da un’idea.

«E Lei, onorevole Schuffer?» rispose, pronto pronto, Sangiorgio.

«Io?... Io?...» fece quello, sconcertato, «ci debbo pensare. Ne dovremmo parlare, non Le pare? metterci un po’ d’accordo: è una cosa grave: la guerra mangia tutt’i quattrini della nazione».

«Non chieggo di meglio, ne riparleremo, sicuramente. Buona notte, onorevole Schuffer.»

La mazurka dei postiglioni riscaldava il veglione: ora si ballava in tre circoli, presso la porta della platea, in mezzo alla sala, sul palcoscenico. Una mascherina vestita da ufficiale dei bersaglieri, col cappello piumato sull’orecchio, le braccia nude che uscivano di sotto le frange dorate delle spalline, i calzoncini stretti al ginocchio, ballava con una ragazza vestita da diavolo, serie serie, respingendo quelli che volevano dividerle. Ora anche i palchi erano stati occupati dalle signore che venivano dai ricevimenti, dai balli: tutta la prima e la seconda fila eran piene. In quello subito dopo la barcaccia, in prima fila, vi era la bellezza delicata e gentilmente fiorentina di Elsa Bellini, maritata a Novelli, e quella opulenta e biondissima di Lalla Terziani: le due signore venivano dal Valle. Con loro stavano Rosolino Scalìa, il deputato siciliano dall’aria militare, il piccolo principe di Nerola, nuovo deputato per gli Abruzzi, un giovanottino dall’aria fine e dal mustacchietto nero, il cavalier Novelli e Terziani, i due mariti.

«Onorevole Sangiorgio?» fece il piccolo principe, piegandosi sul parapetto del palco.

«Onorevole collega?» fece quello, alzando il capo.

«Se vedete Sangarzia, non vi dispiaccia di dirgli che sono qui..... Sapete chi porteranno, dopodomani, alla commissione del bilancio?»

«L’onorevole Ferrante, com’è naturale.»

«Non credo, non credo,» disse il principino, sorridendo maliziosamente.

Nell’andarsene, Sangiorgio sentì dire nel palco: giovane intelligente... meridionale di talento..... Egli cercava Sangarzia nei palchi. Sempre in prima fila, le due sorelle napoletane, le Acquaviva, maritate una al deputato marchese di Santa Maria, l’altra al deputato conte Lapucci. La contessa, bruna, vivacissima, con una bocca carnosa e colorita, con due occhi folgoranti, era come il contrapposto di suo marito, un giovane bruno ed esile, molto taciturno, molto pensoso, tenuto in conto di orgoglioso, malgrado che fosse un deputato socialista. La coppia Santa Maria era diversa: la moglie, biondina, ricciuta, con un visetto giovanile e un vestito semplicissimo, l’aria candida: il marito, biondo, con gli occhi socchiusi, molto indolente. La contessa Lapucci rideva forte, la marchesa di Santa Maria sorrideva: il conte Lapucci guardava la folla, silenzioso, coi due pollici ficcati nei taschini della sottoveste, il marchese di Santa Maria chiacchierava sbadatamante con l’onorevole Melillo, la testa forte finanziaria della Basilicata, il cuore troppo debole con le donne, un celibato ostinato che lo rendeva interessante a tutte le ragazze, di cui egli non si curava. L’onorevole Melillo rispose con un gran saluto e un cenno protettore della mano al saluto di Francesco Sangiorgio, e costui s’accorse che, per un momento, nel palco si parlava di lui: l’onorevole Melillo diceva forse delle belle speranze che dava il suo compatriota.

Nel palco presso la porta, la segretariessa generale delle finanze era arrivata, venendo da un circolo serale del Quirinale: la piemontese magra e svelta, con un viso pallido e interessante d’inferma, era scollata e carica di gemme, tossiva spesso, portava la pezzuola alle labbra un po’ vive, si rialzava i lunghi guanti di camoscio fino ai gomiti, con un moto nervoso. L’onorevole Pasta, l’avvocato subalpino, dalla faccia rasa e dalle fedine biondo-brizzolate, le diceva qualche cosa di molto spiritoso che la faceva ridere; l’onorevole Cimbro, il deputato giornalista piemontese, assorbito dietro le lenti, con la cravatta che gli era risalita sotto l’orecchio, aveva l’aria di un uomo che è imbarazzato della propria persona: invece il segretario generale, piccolo, un po’ calvo, con un mustacchietto grosso e corto, serbava un silenzio solenne guardando la platea come se non la vedesse. Quando Sangiorgio passò, gli fece un saluto profondo, pieno di espressione, quasi affettuoso, il saluto riconoscente del segretario generale che dimostra la sua gratitudine a colui che gli ha fatto il piacere di attaccare il ministro.

— Dove sarà Sangarzia? — pensava tra sè Sangiorgio, camminando a stento in quella folla che cresceva sempre.

Nel suo palco, la baronessa Noir, un corpicciuolo serpentino, una simpatica testina viperea, avvolta in uno strano abito di seta cangiante, dove erano ricamati dei tulipani e dei pavoni, aveva raccolto un secondo piccolo ministero degli affari esteri: per vero, ella era stata segretariessa generale. Suo marito si teneva in ombra, con la gravità del diplomatico che aspetta una destinazione; ma l’onorevole di San Demetrio, un abruzzese tranquillo, dalla barba nera già brizzolata, un forte aspirante al ministero, si teneva dritto, sul davanti, in luce; poi l’onorevole di Campofranco, un siciliano freddo e nordico, il figliuolo della più forte donna politica che abbia l’Italia, la principessa di Campofranco. L’onorevole di San Demetrio parlava, spiegando forse qualche paragrafo della sua relazione del bilancio, e la piccola baronessa ascoltava, interessata, dandosi dei colpettini di ventaglio sulle dita. Pressato dalla folla, Sangiorgio si fermò un momento sotto quel palco: una stanchezza gli saliva dai piedi alla testa, i lumi gli davano fastidio, quell’aria già impregnata di odori acri, l’opprimeva.

«Sangiorgio,» chiamò San Demetrio.

Quello trasalì, come in un sogno.

«Sapete se l’onorevole Mascari si è iscritto per parlare contro, nella discussione del bilancio degli esteri?».

«No, non si è iscritto.»

«Positivamente?»

«Positivamente.»

«Grazie... Scusate tanto.»

E si ricollocò al suo posto, sollevato al pensiero di questo avversario di meno. Sangiorgio si teneva ritto contro la parete, senza muoversi, sentendosi riconfortato da quella immobilità, socchiudendo gli occhi per non vedere i lumi.

Seymour e Marchetti, dandosi il braccio, si fermarono accanto a lui; facevano un vivo contrasto le due figure degli apostoli della scienza sociale: Seymour, bruno e asciutto, con un mento rialzato di uomo energico e una spazzola di capelli neri, in cui già spiccavano i bianchi; Marchetti, col viso ingenuo e roseo, la lunga barba castagna e gli occhi azzurri, brillanti, di un entusiasta. Ambedue erravano per quel veglione, senza osare di andare a trovar le signore, poichè erano in soprabito.

«Vi annoiate, Sangiorgio?» chiese Seymour.

«Un poco: sono anche stanco.»

«Siete stato agli uffici, stasera?» domandò Marchetti.

«No: che si è fatto?»

«Nulla di concreto ancora: si lavora poco,» fece Seymour, raddrizzandosi le lenti sul naso, con un moto familiare. «Perchè non fate stampare il vostro discorso, Sangiorgio?»

«A che serve?» rispose questi, con un accento sincero di sfiducia; «ritornerò alla carica diversamente, al bilancio di agricoltura,» riprese poi, come rianimato.

Ma come l’orchestra aveva intonato lo stridulo ed eccitante waltzer di Strauss, Saluto di gioia, un grande movimento vi fu nella folla, il circolo del ballo si allargò, la gente fu respinta sotto i palchi, il gruppo dei deputati fu diviso. Sangiorgio restò solo. Le signore dei palchi guardavano giù, ardentemente, invidiando quelle pedine che ballavano con tanto entusiasmo: ed esse, lassù, dover starsene sedute, mentre quella musica e il veder gli altri ballare, le eccitavano alla danza. Tre o quattro, scollacciate, venivano dal ballo di casa Huffer e lasciavano ammirare tutta la magnificenza dei loro vestiti. Il piccolo principe di Nerola, adesso, era nel palco di sua cugina, la contessa di Genzano, la grande bionda affascinante e tizianesca: nell’ombra si vedeva il viso un po’ scialbo, ma ancora corretto, quasi bello, di lineamenti, del ministro di grazia e giustizia, il magistrato inflessibile e galante, ostinato nella inflessibilità e nella galanteria. Sangiorgio si riscosse da quel torpore che lo invadeva: doveva trovare Sangarzia. Guardando bene, palco per palco, alla fine giunse a scoprirlo in seconda fila, presso il palco reale. Un domino nero, femminile, di raso, elegantissimo, con un fitto velo nero che gli copriva la testa e la faccia, fermato da un grosso ciuffo di garofani, sedeva al primo posto; dirimpetto a lui l’onorevole Valitutti, un calabrese ricco, metteva la sua faccia olivastra, la sua barba nera, la figura di un arabo taciturno; nell’ombra vi era l’onorevole Fraccacreta, uno dei più forti negozianti di cereali del paese di Puglia; in mezzo, l’onorevole Sangarzia, il siciliano simpatico, lo schermidore eccezionale, il gentiluomo perfetto, che tutti amavano.

«Chi sarà quella signora?» si domandava Sangiorgio, avviandosi per salire al secondo ordine. Qualche signora, impazientita di non poter ballare, andava via di malumore, lasciando trascinare lo strascico, con la bocca stretta delle donne a cui si è proibito qualche cosa: e il marito e l’amante venivano dietro, con l’aria felice di chi si seccava, e che finalmente potrà andare a letto. I cinque domino neri femminili che erano stati tutta la sera in un palco senza muoversi e senza parlare, come tanti congiurati, ora scendevano al braccio di cinque giovanotti, coppie silenziose, quasi lugubri, che parea si avviassero a una cena funeraria. Giusto dietro loro scendeva l’onorevole Carusio, un deputatino dalla testa calva come una palla di bigliardo, con un lungo, stravagante pizzo nero napoleonico che gli arrivava sulla pancia e con un’aria di uomo timido e impacciato, pieno di faccende e pieno di preoccupazioni.

«Caro collega,» disse Carusio, fermando improvvisamente Sangiorgio sul primo scalino, «scusate se vi fermo così, perdonatemi, ve ne prego: sono in molta pena. Un parente di provincia, capitato qui, mi ha costretto ad accompagnarlo al veglione che non aveva mai visto: figuratevi se mi ci annoio. Sono inquietissimo. Il presidente del consiglio è dunque molto ammalato?»

«Non molto, non molto,» rispose sorridendo Sangiorgio: «è la solita gotta che lo tormenta.»

«Lo sapete di certo, caro collega? È almeno sicura la notizia?»

«Sono stato a informarmene personalmente.»

«Oh! quanto vi ringrazio, caro collega. È stato proprio un incontro fortunato: mi togliete da una viva inquietudine. Se ammalasse gravemente il presidente, pensate che disordine!? Se morisse, quante complicazioni!...»

«Dio sperda l’augurio,» fece Sangiorgio, sorridendo sempre.

«Ai vostri ordini, caro collega: sono rinfrancato, vi ringrazio molto, contate su me, ve ne prego, non mi risparmiate; non potevate capitare più a proposito; buona notte, buona notte, onorevole collega.»

«Buona notte: dormite tranquillo: il presidente starà bene domani.»

«E di nuovo, grazie, grazie.»

Sangiorgio picchiò pian piano al numero 15. Un avanti fu pronunziato dalla voce di Fraccacreta. Sangiorgio schiuse appena la porta e disse: «Scusino, onorevoli colleghi, cerco l’onorevole Sangarzia.»

«Eccomi, eccomi.»

E uscirono fuori ambedue: il domino nero dai garofani aveva appena voltato il capo.

«Nerola, il principe, vi cerca, onorevole Sangarzia.»

«Oh! caro Sangiorgio, Nerola e voi non potevate rendermi miglior servigio: non sapeva come andar via di qui. E dov’è il principe?»

«In prima fila, dalla contessa di Genzano.»

«Andiamoci, andiamoci subito.»

Egli rientrò nel palco, s’infilò la pelliccia sulla marsina, salutò la signora e i due colleghi, discese con Sangiorgio.

«Che gran servigio mi avete reso! La signora si seccava, forse voleva ballare! Venite dalla contessa?»

«Non la conosco.»

In questo, da un palco di prima fila, una figura femminile, stranamente avvolta in stoffa turca, col capo e la faccia nascosti da un fitto velo bianco, uscì.

«Vieni con me,» disse con la sua sottile voce a Sangiorgio.

«È inutile augurarvi buona fortuna, collega,» mormorò Sangarzia, licenziandosi.

«Vieni con me,» ripetette ancora la donna, stringendogli un po’ il braccio per trascinarlo via.

Erano le due e mezzo. La gente si accalcava al guardaroba per andar via, infilando i soprabiti con aria svogliata, avvolgendo la testa negli scialli, a guisa dei funamboli che, dopo aver eseguito dei giuochi in piazza, mettono una giacchetta vecchia e stinta sugli stracci di raso, dalle pagliette d’oro.

«Vieni, vieni,» disse, presa d’impazienza, la donna, mentre Sangiorgio s’infilava il paletot.

Fuori, ella distinse subito la propria carrozza e vi si cacciò premurosamente, attirandosi dietro Sangiorgio.

«A casa,» ella aveva detto al cocchiere.

Ma quando fu dentro, dietro gli sportelli chiusi, ella si tolse rapidamente il velo dal capo e lo buttò sul sedile di rimpetto: si disciolse, con un po’ di nervosità, strappando le spille, stracciando la frangia, da quel mantello orientale: una pelliccia col cappuccio era nel fondo della carrozza, ella la indossò. Sangiorgio l’aiutava, in silenzio. Ella guardò un momento nella strada.

«Ah! vi è la luna!» mormorò con una grande dolcezza.

E picchiò sui cristalli per dire qualche cosa al cocchiere. Subito la carrozza si fermò, in Piazza Barberini. Ella discese presto e si rialzò sul capo il cappuccio del mantello.

«Va’ a casa,» disse al cocchiere: «dì a Carolina che vada a letto: ho la chiave.»

Restarono soli, in Piazza Barberini. Lo zampillo della fontana, alto, mormorante, scintillava sotto la luna.

«Volete che passeggiamo un poco? Nel teatro si soffocava.»

Egli le offrì il braccio, deciso a non meravigliarsi di nulla. Andarono per Via Sistina, la grande via che ha un’aria così aristocratica di giorno e così paurosa la notte. Ella si stringeva a lui come se avesse freddo e paura, come se volesse farsi piccola, per mettersi sotto la sua protezione: ma restava forte e alta nel suo mantello nero: sotto il cappuccio gli occhi brillavano. E quella persona, quegli occhi avevano la qualità singolare, che è la simpatia: un fascino violento che turba i sensi. Di nuovo Francesco Sangiorgio si sentiva preso, come nel salotto, quando ella disprezzava così brutalmente l’amore. E l’impressione era profonda e acuta, senza niuna dolcezza, uno sconvolgimento, un tumulto, un principio di ebbrezza.

«Che silenzio!» diss’ella, con una voce che fece vibrare tutt’i nervi di Sangiorgio.

«Dite ancora qualche cosa,» mormoro lui.

«Che cosa?» domandò ella, piegandoglisi sulla spalla.

«Quel che volete, quel che volete: la vostra voce mi piace tanto.»

Invece donna Elena non rispose. Erano arrivati sulla piazzetta di Trinità dei Monti, illuminata dalla luna. L’obelisco si allungava nella blandizie lunare e la sua ombra, alta e sottile, si disegnava sulla facciata della chiesa; il viale alberato che conduce a villa Medici e al Pincio era tutto chiaro. Essi si accostarono all’alto parapetto della piazzetta, da cui tanti malinconici contemplatori hanno guardato Roma, nelle ore del tramonto. Ma Roma si vedeva molto confusamente, annegata in una chiara nebbia plenilunare che pareva quasi la continuazione del cielo bianchissimo, una discesa di orizzonte che aveva avvolto le case, i campanili e le cupole.

«Non si distingue nulla, peccato!» disse donna Elena.

E forzando un po’ il braccio di Sangiorgio, lo condusse verso una scalettina che si allunga sulla facciata della Trinità: non la scalettina a due rampe della chiesa, ma la scaletta che porta al convento, dove le monache e le bimbe in educazione vivono in comunione. Quella scaletta ha un piccolo pianerottolo di fronte alla porticina e un parapetto. Lassù donna Elena fece salire Francesco Sangiorgio.

«Bussiamo al convento?» domandò ella quasi tentando la catenina di ferro. «Noi siamo due pellegrini freddolosi che chieggono ospitalità.»

E rise, mostrando quei bianchi denti raggianti che rendevano irresistibile la sua risata. Già, ella non sorrideva mai: rideva. Ma anche dal poggiuolo nulla si vedeva: soltanto il mare di nebbia, trasparente, biancastro, latteo, sembrava più vasto. In linea retta si scorgevano i pochi lumi che restavano ancora accesi, alle tre dopo mezzanotte, in Via Condotti. Sotto, Piazza di Spagna si dilungava, nella sua calma e grandiosa bellezza architettonica, da Propaganda Fide a Via Babuino.

«Andiamo via,» diss’ella.

Egli si lasciava condurre: quella prima avventura romantica gli dava un piacere intenso. Quella signora, poichè era una dama, malgrado la leggerezza e l’audacia della sua condotta, parlava a tutt’i suoi desiderii di uomo forte, provinciale, fantastico e naturalmente casto. Era proprio un romanzo, un piccolo romanzo d’amore quello che gli accadeva: e quella bella donna avvolta nelle pellicce, profumata, dai grandi orecchini di brillanti che scintillavano alla luna, che aveva rimandata la sua carrozza per girare con lui, di notte, a piedi, per le strade di Roma, quella creatura lo seduceva per tutto quello che rappresentava. Egli ne subiva il fàscino personale, complicato dalla stranezza del caso: e in fondo, nel crescente smarrimento della volontà, in quella specie d’ubbriachezza che lo vinceva, gli restava la coscienza che non commetteva nulla di grave. Così i suoi scrupoli di solitudine e di ordine erano vinti e si lasciava prendere, in questo nuovo trionfo del suo amor proprio, carezzato, lusingato, sentendo la delizia di questa vittoria.

Scendevano gli scalini, al chiarore lunare che pareva bagnasse di mollezza le pietre della vecchia Roma. Sull’antipenultimo, donna Elena ritrasse il suo braccio da quello di Sangiorgio e sedette per terra. Ora sembrava piccola, tutta nera, accovacciata sullo scalino, con la testa appoggiata sulle ginocchia, guardando la bella fontana del Bernini, la barca sommersa nell’acqua. Sangiorgio non si era seduto: ritto accanto a lei, la guardava con un senso di orgoglio maschile, che filtrava attraverso quella sua dedizione. La bella signora sembrava abbattuta, seduta per terra come una misera, un mucchio di vesti nere dove forse palpitava un’anima ansiosa in un cuore tumultuante: e lui pareva quasi che la dominasse.

«Vi piace la fontana?» chiese ella con la sua voce armoniosa, alzando la testa.

«È bella assai.»

«Sì,» disse lei, chinando il capo. «Perchè non sedete?»

E pareva che non si dirigesse a lui, che parlasse alle acque mormoranti, che ricadevano continuamente nella barchetta naufragata. Egli sedette sullo scalino, accanto a lei.

«Non avete sigari? Fumate dunque un poco.»

«Mi duole di non aver sigarette per voi.»

«Non importa. Fumate, fumate voi.»

Egli accese il suo sigaro: ella aspirò l’aria.

«Che sigaro è?»

«Un Minghetti

«Questi Minghetti odorano talvolta,» osservò lei.

E attese che lui fumasse, guardando la sottile striscia di fumo che se ne andava nell’aria chiara. Una carrozza sbucò dai Due Macelli, chiusa, rapidissima, passò innanzi a loro, scomparve verso il Babuino.

«Vengono dal veglione,» disse lui.

«Che brutta cosa è il veglione!» susurrò donna Elena con un filo di voce armoniosissima.

«Sì,» rispose Sangiorgio a quel suono melodioso che gli carezzava così acutamente i nervi che quasi quasi ne soffriva.

D’un tratto ella si rizzò in piedi, scattando come una molla.

«Ho freddo, ho freddo, andiamo via,» disse rudemente.

E si strinse sempre più nella pelliccia, calò il cappuccio più avanti sulla fronte, si attaccò al braccio di lui e lo strascinò via, verso Propaganda. Egli aveva gettato via il sigaro: e sentiva a un tratto mutato lo spirito di quella donna, sentiva che quel momento gli sfuggiva, che non poteva più contare su nulla. Ma, superbo, taceva. Forse la sua era stata una fantasticheria di orgoglio. Contare sopra il capriccio di una donna? E si stringeva nelle spalle, ridendo di sè stesso, che per un istante aveva creduto di poter dominare una di queste creature frivole e vili.

Ella non parlava, affrettando il passo per Via Due Macelli, come presa da un gran freddo che volesse vincere, camminando: guardava a terra, non si volgeva al suo compagno. Sangiorgio non chiedeva dove andassero così; era risoluto di secondarla sino all’ultimo, malgrado la defezione di amor proprio che ella gli procurava. Quando furono all’angolo dei Due Macelli, ella voltò risolutamente in giù, per l’Angelo Custode.

«Qui abito io,» disse lui, per dire qualche cosa.

«Qui?» — esclamò lei, fermandosi un istante. «Dove?»

«Al numero 50..... là.»

«Solo?»

«Solo.»

«Andiamo su,» fece ella, avviandosi per traversare la strada. «Mi riscalderò al caminetto.»

«Non vi è caminetto.»

«Non importa. Mi riscalderò, suonando il pianoforte.»

«Non vi è pianoforte,» disse lui, deciso a volere udir tutto.

«Non importa,» disse lei, senz’altro.


Due giorni dopo, Francesco Sangiorgio era eletto membro della commissione del bilancio.

III.

Un applauso debole ma gentile, formato da piccole mani femminili bene inguantate e un po’ indolenti, salutò il finale fragoroso del pianista, un piccolino magro, bruno, meschinello, che scompariva dietro il pianoforte.

«Che sentimento!» esclamò la moglie di un deputato pugliese, una grassona con una pioggia di riccioli neri sulla fronte rossa e lucida.

«Bene, bene, è deliziosa,» disse la signora di Bertrand, la moglie di un alto funzionario, piemontese, ma delicatina, dal viso di madonnina, con un mantello di broccato, dove scintillava dell’oro.

E di signora in signora, di gruppo in gruppo, lungo i divani, sulle poltrone, sugli sgabelli, sotto le foglie di palma delle giardiniere, accanto alle mensole cariche di statuine, dal pianoforte alla porta, l’approvazione femminile si andò man mano affievolendo: quelle che stavano ancora sulla soglia del salone ministeriale, crollarono il capo, due o tre volte, come se annuissero tacitamente. Solo Sua Altezza, il principe orientale in esilio, accasciato grassamente in una poltrona, rimase immobile; nel viso gonfio, scialbo, macchiato qua e là dalla barbetta incolore e brizzolata, con quella flemma contemplativa di orientale enorme, rimase immobile, pensando forse alle drammatiche canzoni di Aida che erano state uno degli splendori del suo trono, socchiudendo gli occhi rossi e rotondi sotto la striscia rossa e sottile del fez.

E il chiacchiericcio femminile ricominciò, e donna Luisa Catalani, la moglie del ministro, la padrona di casa, che si era riposata un poco durante la musica, riattaccò i suoi giri di saluti, di riverenze, di sorrisi: e il vestito di casimiro bianco, le rosette di brillanti, la piccola testa, il viso piccante, la pettinatura un po’ strana, si scorgevano in ogni posto, quasi nello stesso momento, come se ve ne fossero dieci, di donne Luise, e non una.

«Che fatica questi ricevimenti!» disse languidamente la contessa Schwarz, una donna magrissima, dal volto livido, dai capelli arruffati, che imitava, per forza, Sarah Bernhardt. Sprofondata in una poltroncina soffice, rannicchiata nelle pellicce come un uccello ammalato e freddoloso, ella muoveva solo le labbra per sorbire la sua tazza di thè.

«Donna Luisa non si stanca: è di ferro,» mormorò la Gallenga, segretariessa generale delle finanze, tossichiando un poco, spianando le sopracciglia arcuatissime, cinesi. «Io, non ci reggerei, sono felice che i miei ricevimenti sieno familiari. È stata alla Camera, oggi, contessa?»

«Io non ci vado mai.»

E la svelta piemontese intese l’errore della sua domanda. Il conte Schwarz era riuscito a diventare consigliere provinciale, ma deputato mai.

«Ci sono stata io,» intervenne la signora Mattei, la moglie di un altro segretario generale, una toscana bruna come un acino di pepe, dagli occhi di fuoco, dalla chiacchiera rapida, dal cappello nero, ricco di papaveri. «Una seduta interessante.»

«E non esserci stata!» esclamò la signora Gallenga, «che sfortuna! Ha poi parlato Sangiorgio?»

«Sì, sì.....

Ma un zittìo corse per la sala. Una robustissima signora, dal seno prepotente, stretto in una corazza di raso rosso, dalla faccia larga e bonaria, cantava una straziante romanza di Tosti: ella aveva sbottonata la sua pelliccia, arrovesciandola sugli omeri e con le mani nel manicotto, la veletta del cappello abbassata sugli occhi, serena, senza che una linea del suo volto si movesse, ella seguitava a lamentarsi nella musica del maestro abruzzese. Donna Luisa, ritta in mezzo al salone, fra le cinquanta signore sedute, ascoltava con l’attenzione cortese della padrona di casa: ma una leggiera inquietudine l’assaliva, ella sentiva che nei due salotti attigui vi era gente, delle signore che aspettavano per entrare. Era il ricevimento più importante della stagione, nel salone vi era una calma di serra e il lieve odore zuccherino, dolcissimo, dei posti dove sono molte donne. Veramente, lungo il muro, in piedi, chiusi nelle redingotes severe, vi era una fila di commendatori, calvi, taciturni, usciti alle quattro e mezzo dalla Corte dei Conti, dagli uffici di finanza, dagli altri ministeri: ma conservavano la glacialità statuaria dei temperamenti burocratici, la lunga pazienza, l’aspettazione incalcolabile, strabocchevole, con cui passano da un grado all’altro, e arrivano a fare quarant’anni di servizio: quel ricevimento era per loro una frazione infinitesimale dei quarant’anni di servizio. Un respiro di sollievo corse per la sala: la dolorosa romanza era finita, e la cantante riceveva i complimenti di donna Luisa Catalani, sorridendo nella faccia di luna piena. La padrona di casa scappò subito fuori: vi erano sette od otto signore nel salottino.

«Che vi è stato alla Camera?» chiese ella alla bionda e pallida figlia di un ministro, che era arrivata allora.

«Molto caldo: non so come i nostri uomini non vi si ammalino,» e tirò fuori il ventaglio, per originalità.

«Sangiorgio ha parlato bene», mormorò la signora Giroux, una piccola dama dai capelli bianchi, dal sorriso soavissimo, la signora del ministro dell’agricoltura.

«Un meridionale,» fece donna Luisa Catalani. «Vi era gente alla tribuna diplomatica?»

«La contessa di Santaninfa e la contessa di Malgrà».

«Bei capelli?»

«Così,» rispose la biondina, pallida e distratta.

Qui, in un angolo, un circolo di ragazze cinguettavano allegramente, con le giacchettine sbottonate per aver meno caldo, mostrando le vitine sottili negli abiti di lana oscura. Enrichetta Serafini, la figliuola del ministro dei lavori pubblici, una brunetta in lutto, vivacissima, chiacchierava per quattro: e attorno la stavano a sentire la ragazza Camilly, un’italiana nata in Egitto, la ragazza Borai, una zitella anticuccia, afflitta dalla ostinata gioventù di sua madre, la ragazza Ida Fasulo, una creatura linfatica, dagli occhi larghi e pensierosi, nipote di un ragioniere, la ragazza Allievo, una gentilina taciturna; e unico fiore aristocratico, biondo sotto la piuma bianca del cappello, donna Sofia di Maccarese.

«Io preferisco Tosti a tutti quanti,» sosteneva Enrichetta Serafini. «Mi fa venir da piangere.»

«Anche Denza, alle volte, fa piangere,» osservò la ragazza Borla, che non sapea cantare, e che era condannata a udire la voce cinquantenne di sua madre.

«E voi, donna Sofia, chi preferite?»

«Schumann,» mormorò essa semplicemente.

Le altre ragazze tacquero: non conoscevano quella musica. Ma la ragazza Serafini, nervosa e vivace, rispose:

«Ma tutta questa musica bisogna cantarla bene. Scusate», e abbassò la voce, «forse che vi piace la signora di poco fa?»

E il gruppo delle ragazze ridacchiò sottovoce.

«Quella che canta meglio, in Roma, è la Fiammante,» soggiunse la fanciulla Camilly, dal volto grasso e bianco, dagli occhi socchiusi di orientale trapiantata in Italia.

Le altre ragazze tacquero: la Boria strinse le labbra in segno di riprovazione, la Fasulo chinò gli occhi, l’Allievo arrossì; solo donna Sofia di Maccarese non mutò viso: non conosceva, o non si curava della Fiammante.

«È vero che sposa il deputato Sangiorgio?» chiese la Serafini.

«No, no,» rispose la Camilly, con uno strano sorriso.

Questa volta le ragazze si guardavano fra loro, con quelle occhiate mute ed espressive in cui il mondo le obbliga a condensare la loro intelligenza. Nel salone era cresciuta una folla di signore, e vi si addensava un calore di stoffe, un odore di thè e di opoponax, di lontra e di martora. Ora quasi tutte chiacchieravano, a coppie, a gruppi di tre o quattro, con certe leggiadre inclinazioni di testa, con certe modulazioni squisite di voci, frivoleggiando sulla Camera dei deputati, discutendo gravemente la voce dell’onorevole Bomba, dicendo quale era la tribuna che preferivano, parlando del colore dei tappeti, discutendo le sottovesti carnicine dell’onorevole conte Lapucci, e la fisonomia romantica, da Cristo pensoso, dell’onorevole Joanna. E la Gallenga, che s’intendeva di letteratura, pronunziò questa frase:

«Quest’anno è di moda l’Abruzzo nella letteratura e la Basilicata nella politica.»

Così esse credevano di fare della politica, sul serio, esaltate dal cicaleccio, con le loro testoline leggiere. Ma senza che nessun pianista si fosse presentato al pianoforte, mentre che la signora pacifica e veneranda che aveva singhiozzato con Tosti, sorbiva la sua terza tazza di thè, un zittio sottilissimo circolò nel salone: e donna Angelica Vargas, alta e bella, col suo passo ritmico, attraversò il salone, cercando con gli occhi donna Luisa Catalani.

Era vestita di nero, come al solito, con qualche cosa di scintillante nella persona e nel cappello: e donna Luisa le corse incontro, col suo più bel sorriso. Le due riverenze furono profonde; un piccolo colloquio, a voce bassa, cominciò tra loro, una tutta bianca, coi capelli di un biondo dolce, l’altra tutta nera, coi dolci capelli bruni ondulati sulla fronte.

Il salone fingeva di non ascoltare, per rispetto: ma vi era quel silenzio imbarazzante di molte persone adunate insieme, quando nessuna di loro osa principiare a discorrere. Sua Altezza Mehemet pascià aveva spalancato gli occhi, e guardava la bella italiana, così casta nella figura, ma i cui occhi largi gli rammentavano le sue donne d’Oriente, di cui forse pativa la nostalgia. Poi quei begli occhi larghi, scintillanti come le perle nere del vestito, guardarono la sala, intorno intorno, un’occhiata intelligente, e come donna Luisa Catalani si voltava, a una, a due, a tre, le signore vennero a circondare donna Angelica Vargas, a chiederne il saluto, e sebbene suo marito non fosse il presidente del consiglio, sebbene ella fosse la moglie di un ministro di affari, non politico, sebbene in quel salone vi fossero tre o quattro mogli di ministri politici, importanti, le colonne del gabinetto, ella era il centro di tutti quei complimenti, ella conservava nella sua semplicità qualche cosa di regale.


Per aver meno freddo, mentre scriveva, in quel salottino lungo e stretto, senza fuoco, di via Angelo Custode, Francesco Sangiorgio s’era messo sulle gambe un vecchio soprabito. Alle otto la serva gli aveva portato una tazza di caffè, in letto: e mentre ella rassettava quel glaciale salotto, egli si era vestito, per mettersi al lavoro. La serva aveva rifatta, in un momento, anche l’altra stanza, e se n’era andata senza parlare, con la faccia imbronciata e stizzosa delle creature povere che non sanno rassegnarsi alla miseria e al lavoro.

Ma lo spazzamento, fatto in fretta, aveva lasciato sudici gli angoli del pavimento; le cortine delle finestre erano giallastre di polvere, e il nauseante odore di spazzatura stantìa restava in quelle due stanze. Sangiorgio, appena scomparsa la serva che strascicava i suoi scarponi da uomo, senza dare uno sguardo a quella triste corte interna, dai balconi pieni di casse vecchie e di cocci, dalle loggette di legno tarlato e sudicio, si era messo a scrivere, sopra un piccolo tavolino da studente; si era posto a scrivere, fra gli stampati della Camera e un mucchio di lettere della Basilicata, sopra certi larghi fogli di carta bianca commerciale, intingendo la penna in un miserabile calamaio di creta. Verso le dieci aveva sentito un insopportabile freddo ai piedi e alle gambe: aveva ancora tre ore di lavoro; andò in camera a prendere un vecchio soprabito, e se ne ravvolse le gambe: tutto questo come un automa, senza distogliere il suo pensiero da quella relazione parlamentare a cui si occupava da otto giorni. Il fuoco interno che lo divorava si manifestava in quella scrittura grande, svelta, chiarissima, di cui ricopriva quei grandi fogli di carta: si manifestava in quell’assorbimento di tutto il volto, in quello sguardo quasi rientrato in sè stesso, estraneo a tutte le cose esterne. I fogli si ammucchiavano alla sua sinistra, egli non si fermava che per isfogliare i resoconti parlamentari, per consultare un grosso volume sull’inchiesta agraria, o un piccolo taccuino vecchio e sdrucito. Alle undici, nel fervore del lavoro, si udì un piccolo scricchiolìo di chiave, e una donna entrò, richiudendo la porta senza far rumore.

«Sono io,» diss’ella chetamente, stringendo al petto un fascio di rose. Egli alzò la testa, e la guardò con gli occhi stralunati di chi non si toglie ancora alla sua preoccupazione, tanto da non riconoscere la persona che entra.

«Ti disturbo?» chiese Elena, con la sua voce cantante. «Sì, sì, ti disturbo. Resta a scrivere, fa il tuo lavoro. Mi annoiavo tanto stamane, in casa, con questo tempo plumbeo, che mi son fatta trascinare in carrozza per due ore, il povero cavallo scalpitava nel fango, ho visto scivolare della gente, le donne che andavano a piedi avevano gli stivaletti inzaccherati, una pietà. Dovendo aspettare sino all’una, perchè tu venissi a colezione, ho preferito venir qua. Ma tu scrivi... Leggerò un libro.»

«Cara, non ve ne sono, di libri per te,» rispose lui, senza pensare a ringraziarla di esser venuta.

Ella cercava fra le carte, con le mani sottili inguantate di nero, imbarazzata dal suo gran fascio di rose. Sangiorgio la guardava sorridendo di compiacenza. Era sempre così attraente con quelle grosse labbra umide e rosse, con gli occhi strani dal colore incerto, con quella eleganza opulenta della persona, che il contemplarla, l’averla presente, là, nella sua stanza, era per lui un diletto sempre nuovo. Ogni volta che la sua signoria maschile si affermava in qualunque modo, egli provava un delicato e intenso piacere di orgoglio.

«Non vi è nulla,» diss’ella, ridendo, «non posso mica leggere quanta polenta mangino i contadini lombardi, e quante patate i meridionali. Ciò mi affliggerebbe troppo; scrivi, scrivi, Franz: non occuparti di me.»

Egli si alzò e venne a baciarla sugli occhi, attraverso il lieve velo, come a lei piaceva: ella fece un risolino di bimba golosa a cui si dà un pasticcino, egli ritornò a scrivere. Elena camminò su e giù nel salotto, come per riscaldarsi: in quella stanza, in quel giorno brutto di marzo, si gelava.

«Non hai freddo, Franz?» chiese Elena, dal divano, dove contemplava curiosamente il lusso dei quadrati all’uncinetto.

«Un poco,» mormorò lui, senza lasciar di scrivere.

Ella contemplò di nuovo la stanza tutta nella sua meschinità, sentì quel fiato di miseria decente che vi alitava, e contemplò lui che scriveva alacremente, su quel piccolo tavolino, dove gli toccava stringere i gomiti per non far cadere le carte. E negli occhi della donna guardante quella testa indomita di lavoratore, si dipinse una tenerezza nuova che egli non vide. Due volte ella fu per dirgli qualche cosa: ma pensando, tacque. Appoggiata alla console, ora, ella ridacchiava fra sè, guardando le tre fotografie, di un caporale, di un grasso signore, di un ragazzotto collegiale del Nazzareno, guardando le tre sacrileghe oleografie che rappresentavano la famiglia reale.

«Franz? ti sei mai fatto la fotografia?» domandò, mirandosi nello specchio, e aggiustandosi il fiocco del cappello.

«Una volta, a Napoli, quand’ero studente,» disse lui, sfogliando gli atti parlamentari.

«E ce l’hai?»

«No, naturalmente.»

«Se ce l’avessi, io la vorrei,» soggiunse ella con voce infantile.

«Non ne hai abbastanza dell’originale?»

«No,» rispose Elena, tutta pensosa.

Egli si alzò di nuovo, venne a prenderle le mani, e le chiese:

«Dunque mi vuoi bene?»

«Sì, sì, sì,» cantò ella, su tre note musicali.

Francesco se ne ritornò di nuovo al tavolino, dove si rimise al lavoro. Ella si azzardò sulla soglia della stanza da letto, e vi gettò un’occhiata.

«Franz,» disse di là, «iersera non sei venuto al Valle?»

«Vi era la commissione del bilancio, sino alle undici. Dopo, ero stanco.»

«Sono venute molte persone a trovarmi in palco. Giustini... perchè sei tanto legato con lui?»

«Mi serve,» diss’egli semplicemente, senza alzare il capo.

«Dice male di te.»

«Lo spero bene.»

«Infatti, egli non dice mai bene delle persone mediocri. Tu diventerai un grand’uomo politico, Franz.»

«Oh, ci vuol molto tempo,» rispose lui tranquillamente, annotando certe cifre sopra un pezzo di carta.

«Sono venuti Gallenga e Oldofredi, che mi fa molto la corte.»

«Ha ragione, Oldofredi,» mormorò lui, con galanteria.

Ella sorrise e scomparve nella camera. Era così fredda e brutta, che per un momento ristette, come disgustata. Guardava gli arabeschi di lana del piumino, che la serva aveva gonfiato a furia di manate; ma la grande macchia d’olio della poltrona di lana azzurra le fece voltare il capo; il suo istinto femminile la faceva soffrire di quella macchia. E girò per la stanza, cercando un oggetto introvabile: sul canterale non vi erano che due candelieri senza candele, una spazzola pei vestiti, nulla di quello che ella desiderava: sulla toletta, solo i pettini e una bottiglina di acqua di Felsina, dimezzata. Una nudità, una miseria da anacoreta. Finalmente, giunta presso il letto, sul comodino, ella trovò la bottiglia dell’acqua e il bicchiere, e, tutta felice, sciolse il suo fascio di rose, ne ficcò tre o quattro nel collo della bottiglia dell’acqua, un piccolo gruppo nel bicchiere, ne buttò due o tre sul tappetino a piedi del letto, poi non sapendo dove altro metterne, ne ficcò due sotto il cuscino. Camminando piano, andò al canterale, e ne aprì il primo cassetto, dove ci erano delle cravatte e dei guanti: anche lì lasciò le sue rose. Un ritratto era buttato lì dentro, ancora in una busta: il suo. Una lieve ombra di malinconia le passò sul viso, ma disparve. Ora su quella miseria della stanza, in quella luce bigiognola che veniva dal cortile interno, in quel tanfo di acqua di cucina, le rose mettevano una freschezza primaverile, un po’ di giardino, un ricordo di sole, un piccolissimo profumo.

«Ho finito,» disse Sangiorgio, comparendo sull’uscio.

«Andiamo a far colazione.»

«Credi tu che avremo finito per l’una e mezzo?»

«Perchè?»

«Ho un convegno... con un elettore.»

«Avremo finito, spero. Tanto più che ho anche io un convegno... alle due.»

«Con un elettore?»

«Con Oldofredi.»

«Ah!» fece lui, infilandosi il soprabito.

«Mi deve raccontare come fu che non volle sposare donna Angelica Vargas.»

«Doveva sposarla?»

«Sì, e non la volle. Forse, è lei che non ha voluto. Oldofredi è antipatico a mezzo mondo: alla Camera, poi! Lo conosci tu?»

«No: e mi è indifferente.»

«Sei molto pallido; che hai?»

«Non so: sarà il freddo.»

«Andiamo, andiamo a casa, vi è il fuoco, ti riscalderai.»

Egli la seguì senza accorgersi delle rose.


L’onorevole Oldofredi non era un frequentatore troppo assiduo della biblioteca della Camera: ci andava qualche volta per cercarvi un amico; ma non leggeva, nè chiedeva mai libri e giornali. Dicevano anzi, le maligne lingue parlamentari, ch’egli non sapeva leggere. Ora, come quel giorno entrò in biblioteca, e trovò Sangiorgio seduto davanti a un vero monte di volumi, che scartabellava opere di statistica, e sfogliava libri di economia politica, di storia, di scienze sociali, con quell’intemperanza di ricerche e di preparazione che è propria dei provinciali meridionali, quel fatuo anconetano ebbe un lieve sorriso di scherno. Affacciò prima il capo all’uscio, per vedere se ci fosse il collega di cui andava in cerca; poi, spinto chi sa da qual nuovo pensiero, entrò, sebbene non avesse trovato il collega. Entrò, e cominciò a passeggiare in su e in giù, oziosamente, soffiando via dal piccolo bocchino d’ambra i rimasugli della sigaretta.

L’onorevole Oldofredi, malgrado la riputazione dongiovanesca e spaldaccinesca che s’era acquistata, non era nè un bello nè un forte uomo: macchina d’ossa e di nervi mal connessa, aveva in tutta la lunghissima persona uno sconquasso sgradevole, nella faccia un color terreo antipatico, negli occhi una crudezza sciocca, e un dislocamento di tutte le membra che lo faceva parere un automa ambulante a caso.

Sangiorgio, dal primo momento che lo vide, gli pose gli occhi addosso, e non potè più lasciarlo. Una specie di attrazione dispettosa distraeva il Basilisco dalle statistiche e dai libri di economia politica, e lo spingeva verso il deputato marchigiano, ch’egli disprezzava e odiava, per un istinto misto di regionalismo, d’amante e d’ambizioso. Lo guardò fissamente, intanto che Oldofredi passeggiava, pensando con la penna sospesa sulla carta. Quel Donchisciotte antipatico a tutte le donne, ignorante, sciocco, inabile, che pure con tutte queste qualità negative era sempre riuscito a farsi rieleggere, a far parlare di sè, ad avere nella vita politica e nella vita mondana una posizione spiccata, gli pesava sullo stomaco, come uno di quei cibi indigeribili contro di cui si ha una ripugnanza istintiva.

Oldofredi era lo sciabolatore politico: dei suoi duelli non si parlava più, se non vagamente, come di qualche cosa confusa e lontana, poichè da parecchi anni nessuno aveva più osato provocarlo; ma non c’era questione personale ove egli non fosse chiamato come padrino, o come arbitro, o come consigliere; ma non c’era, fuori o dentro la Camera, una più sicura e più salda autorità cavalleresca. Ciò dava a quel brutto e volgare uomo un’aureola romantica, e diceva la cronaca pettegola che le donne volentieri posavano i desiderii indecisi ai piedi di quel Rolando marchigiano, che appariva ad esse come un campione formidabile contro i pericoli del peccato.

«Avete visto, per caso, l’amico Bomba, onorevole Sangiorgio?» chiese Oldofredi, fermandosi innanzi allo scrivente.

«Io? No,» rispose l’altro, seccamente alzando il capo.

«Dove si sarà ficcato? Nell’aula non ci è: parla quell’asino di Borgonero, sopra non so quali sciocchezze. Ho cercato l’amico Bomba dappertutto: non può essere che qui, in compagnia di quell’imbecille di Giordano Bruno. Ci credete voi, Sangiorgio, all’esistenza di Giordano Bruno?»

«Io? Sì,» fece l’altro seccamente.

Sangiorgio guardava Oldofredi, fisso, con una freddezza di sguardo che avrebbe fatto tacere un chiacchierone meno vanitosamente distratto, ma quell’altro passeggiava, guardava in aria, aveva accesa un’altra sigaretta, dimenava quel suo lungo e antipatico corpo dinoccolato, empiendo di rumore quella cheta stanza da studio. Di già, dalla stanzetta accanto, a destra, l’onorevole Gasperini, il toscano dalla barba bianca, dal sorriso arguto e dagli occhi fini dietro gli occhiali, si era affacciato due volte, lasciando a mezzo certe teorie di finanza: e si era stretto nelle spalle, infastidito, al chiasso dell’onorevole Oldofredi. Costui, arrivato innanzi all’altra porta che dava sulla stanzetta a sinistra, sogghignò, ritto sulla soglia, appoggiato allo stipite, con le mani in tasca: nella stanza a sinistra, l’onorevole Giroux, un vecchio lento e grave, con le palpebre socchiuse, l’aria di addormentato, leggeva in un librone legato in pergamena. Oldofredi sogghignava. Poi, accostandosi di nuovo al tavolino di Sangiorgio, disse, sghignazzando ancora:

«È di là, sapete, con Copernico.»

«Chi?» chiese l’altro, con la medesima solita durezza.

«Giroux. Non bastandogli di seccare la gente con le sue fandonie filosofiche, ha inventato quelle di Copernico. Chi sarà questo Copernico? Ma... Giroux giura di averlo conosciuto, a Torino: anzi era carbonaro

E scoppiò a ridere. Egli non vedeva, Oldofredi, la prepotente e ostinata espressione di disprezzo sulla faccia di Sangiorgio: non vedeva quel lieve tremito nervoso che faceva ballare la penna nelle dita del deputato meridionale.

«E dall’altra parte ci è Gasperini, l’ex-segretario, che certo sta rileggendo gli atti del Parlamento inglese, per poter domani parlare contro Giroux. Che ne dite?»

«Io? Niente.»

«Ora prendo con due ditini Gasperini, e lo porto nelle braccia di Giroux: così la riconciliazione sarà fatta, Copernico e Bentham la benediranno, e la finanza, nonchè l’agricoltura italiana andranno sempre allo stesso modo, cioè malissimo.»

Diceva questo ad alta voce, noncurante che quei due lo ascoltassero. Sangiorgio guardò le due porte, come per esprimere questo timore; Oldofredi intese.

«Non odono, no. Quando Giroux è con Copernico, non sente nulla, e Gasperini è smarrito nella finanza inglese.... E anche se sentissero!»

Fece la sua stretta di spalle da bravaccio, uno dei suoi gesti che gli avevano procurato la riputazione di un uomo coraggioso.

«Potrebbero rispondervi,» osservò con un tono equivoco Sangiorgio.

«Ma che! Non risponderebbero affatto. Piuttosto se la legherebbero al dito, per rinfacciarmela più tardi, nell’aula, in un corridoio, in un giornale: così si usa, in politica. O piuttosto, cercherebbero dimenticare anche questa, come tante altre hanno dimenticate. Voi siete novello, mi pare: vi restano molte cose da imparare. Una, vedete, ve la insegno io: in politica non si risponde mai subito, mai in faccia, mai direttamente. O si dimentica o si aspetta.»

«E se vi rispondessero subito?» replicò Sangiorgio, sempre più freddo.

«Ma che! Figuratevi, mio caro deputato novello, che da cinque anni a questa parte vado dicendo tutta la verità, a tutti quanti, su fatti, uomini e avvenimenti, gridando, strillando, per sollievo del mio fegato. Avesse qualcuno il coraggio di difendersi, di rispondermi sulla faccia! Nessuno, nessuno, caro il mio deputato nuovo.»

«E perchè?» domandò Sangiorgio, tenendo gli occhi fissi sulla carta dove aveva scritto come se meditasse.

«O bella! perchè i vecchi hanno esaurito la quantità di coraggio che avevano, se ne hanno mai avuto: e i giovani non hanno ancora cominciato a usare la propria, se ne avranno mai una.»

«Voi credete, Oldofredi?»

«Perdio! se lo credo. La Camera è vigliacca.»

«No, onorevole Oldofredi.»

«Vigliaccheria e compagni! ecco la ditta.»

«Vi assicuro di no, Oldofredi.»

«Mi smentite, mi pare.»

«Sicuramente.»

«Voi mi smentite?»

«Io, proprio io.»

«Voi volete provarmi che la Camera non è vigliacca?»

«Sissignore.»

«Io abito in Via Frattina, 46, pranzo alle Colonne e vado all’Apollo, questa sera.»

«Va bene.»

«Buon giorno.»

«Buon giorno.»

Oldofredi si strinse nelle spalle, scosse la cenere della sigaretta e uscì, dimenando la sconquassata persona. Sangiorgio intinse la penna nel calamaio e ricominciò a scrivere. Quelli della stanza accanto non avevano udito nulla: tanto più che il dialoghetto era avvenuto sul tono ordinario di voci. Gasperini sfogliava i bilanci della finanza inglese, Giroux s’immergeva in Copernico, e Sangiorgio ricavava delle note dalla Storia dell’Internazionale di Tullio Martello.

IV.

Quando l’onorevole Sangiorgio entrò nel Caffè del Parlamento, alle sette, per pranzare, in quella cripta egiziana, affogante, rossa, quasi affumicata, varie teste si voltarono e il suo nome fischiò nel susurrìo educato di coloro che mangiavano. Restavano solo due o tre tavole disoccupate: Sangiorgio, dopo esser rimasto un momento indeciso, sedette a una, dove tre posti erano pronti. Subito, dal tavolino accanto a lui, l’onorevole Correr, il giovane deputato di destra, dalla barba nera e dalla molle pronuncia veneta, lo salutò amichevolmente, l’onorevole Scalatelli, il colonnello dei carabinieri, dal pizzo brizzolato e dagli occhi bonari, lo guardò con un certo interesse: gli altri due ex-onorevoli, il grande Paulo, il grosso Paulo, il forte Paulo continuò a litigare col piccolo Mefistofele padovano, Berna, lo spirito bizzarro.

«Dunque è vero, Sangiorgio, del duello?» domandò sottovoce Correr.

«È vero,» rispose l’altro, guardando la lista delle vivande.

«Primo duello?»

«Primo.»

«Avete mai fatto sala d’armi?»

«Un poco.»

«È un’imprudenza, Oldofredi è fortissimo.»

«Un duello, un duello!... chi si batte?» esclamò il grosso Paulo, finendo di dar dell’asino al suo amico Berna, che gli dava dell’imbecille.

«Qui, l’onorevole Sangiorgio, con Oldofredi,» spiegò Correr.

«Bell’avversario, perdio! È mancino, Oldofredi: bisogna che Ella ci pensi, onorevole Sangiorgio.»

«Non lo sapevo: ci penserò.»

«E i padrini, chi sono i padrini?» domandò l’enorme Paulo, il colosso, il molosso, che qualunque duello inebbriava.

«Il conte di Castelforte e Rosolino Scalìa: li aspetto a pranzo,» disse cortesemente Sangiorgio.

«Benissimo, buona scelta, sono padrini poco arrendevoli, non vi riconcilieranno sul terreno.»

«Era inevitabile il duello, Sangiorgio?» chiese Scalatelli.

«Inevitabile.»

«Oldofredi è fortunato, Sangiorgio; mi sono battuto con lui, anni sono: m’ha ferito al polso,» spiegò placidamente Scalatelli.

In questa, il conte di Castelforte e Rosolino Scalìa entrarono, cercando con gli occhi Sangiorgio. Il conte conservava la sua freddezza aristocratica che emanava da tutto, dalla magra e alta persona, dalla lunga barba nera che si brizzolava, dalla compostezza un po’ naturale, un po’ letteraria di scrittore e di signore; Rosolino Scalia aveva la sua aria di militare elegante in borghese, il fiore all’occhiello e il mustacchio profumato; ma era anche lui freddo e grave. Castelforte si fermò a parlare con Correr e Scalatelli, mentre Scalìa si cavava il soprabito.

«Ebbene,» domandò Sangiorgio, «che si fa?»

«Nulla ancora,» rispose con riserva Scalìa, «o molto poco.»

Sangiorgio non chiese altro. Il pranzo fra quei tre cominciò in silenzio: Castelforte era sempre contegnoso, Scalìa grave e Francesco Sangiorgio indifferente.

«I padrini sono Lapucci e Bomba,» disse Scalìa, versandosi del vino. «Abbiamo convegno alle nove e mezzo. Avete provveduto alle sciabole, Sangiorgio?»

«Sì.»

«Bene,» disse Castelforte. «Spero che le abbiate fatte arrotare: niente più odioso, in un duello, che le sciabole mal affilate. Il duello si prolunga, e le ferite sono sempre ridicole, larghe, una indecenza.»

«Le ho fatte arrotare dallo stesso Spadini.»

«Bravo,» fece Scalìa. «Un duello lungo ha tutti gli inconvenienti; si presta alla burletta. Una cosa sola vi raccomando, Sangiorgio; non pensate a nulla e di nulla vi preoccupate, ma al primo assalto, andate giù, non aspettate l’avversario, non calcolate nulla, buttatevi: quelli che cominciano, non possono riescire che così.»

«D’altra parte,» aggiunse Castelforte, «come ho potuto intendere dalle parole di Lapucci, le condizioni saranno piuttosto gravi. Ma voi non ci badate, Sangiorgio: è naturale che fra due persone serie, queste cose siano prese sul serio.»

«Io non ho intenzione di scherzare,» soggiunse Sangiorgio, prendendo dell’insalata.

«Tanto meglio. Il medico ce l’avete?»

«No.»

«Prenderemo il solito Alberti,» disse Scalìa, «ci penserò io, questa sera.»

Un fanciullo in piccola livrea, che portava scritto sul berretto Caffè di Roma, entrò nella trattoria, cercando qualcuno. Era un biglietto per l’onorevole Sangiorgio.

«Il presidente della Camera mi manda a chiamare, al Caffè di Roma, dove resta fino alle nove e mezzo.»

«E voi andateci,» rispose Castelforte, «ma siate fermo, non vi lasciate convincere.»

«Scalìa, Scalìa,» chiamò dall’altro tavolino il molosso Paulo, che non poteva resistere, «badate al posto del duello. Che sia vicino a una casa, a una osteria, a una capanna, a un ricovero qualunque. Da che ho dovuto ricondurre per tre miglia di strada maestra, piena di sassi e di solchi, il povero Goffredi, con una ferita nel polmone, che boccheggiava e sputava sangue a ogni sbalzo della carrozza, ho fatto voto che, se non vi è un letto pronto a cinquanta passi, non faccio il padrino.»

«Sarebbe meglio, allora, in una casa....» osservò Correr.

«No, no, che casa!» esclamò Scalìa, «è malaugurio, in una casa. Tutti i duelli in casa finiscono male.»

I due padrini si levarono, parlarono altri cinque minuti sottovoce col loro primo, in piedi, stretti a gruppo. Dalle tavole si guardava con curiosità, ma le tre facce erano impassibili: fu fatto un grande scambio di strette di mano vigorose e di saluti. Sangiorgio, rimasto solo, pagava il conto. Quelli dell’altro tavolino andavano via anche essi, si licenziavano da Sangiorgio.

«Buona fortuna, collega: in bocca al lupo,» disse Correr.

«Buona mano, onorevole Sangiorgio,» soggiunse Scalatelli.

«Si metta un corno addosso, se crede alla iettatura,» suggerì Berna.

Ma dal mezzo della sala, l’immenso Paulo subitamente familiarizzato, urlò, ridendo:

«Addio, neh, Sangiorgio: tira alla faccia!»

Egli capì che tutti e quattro se ne andavano poco convinti dell’esito. Uscì due minuti dopo di loro. Sulla porta incontrò un reporter di un giornale del mattino che gli chiese notizie.

«Nulla ancora,» rispose Sangiorgio.

«Nel caso.... nel caso, domani, posso venire a casa Sua per prendere notizie?» insistette il giovanotto imberbe, dall’aria ingenua.

«Angelo Custode, 50,» fece l’altro, allontanandosi.

Al Caffè di Roma, il presidente finiva di pranzare col suo amico, il colonnello Freitag, il grosso uomo dall’aria infantile, dalla voce stridula e sottile: il presidente aveva l’aria stracca di persona che si riposa finalmente da una fatica improba. E subito, vedendo Sangiorgio, andò allo scopo:

«Si può conciliare questo brutto affare, onorevole collega?»

«Non lo credo, signor presidente.»

Il presidente frenò un piccolo moto nervoso e si morsicò un po’ le labbra.

«Vediamo, onorevole collega, non vi è stato un po’ di malinteso? Un duello fra due deputati è una cosa grave, non bisogna farlo per nulla.»

«Non vi è stato malinteso, glielo assicuro, presidente.»

«Capisco queste cose: Oldofredi è un po’ vivace, Ella è giovane, avrà preso a male qualche scherzo. Bisogna badarci a queste cose, collega: domani i giornali parleranno, ne nascerà uno scandalo.»

«Spero di no: a ogni modo, non vi è rimedio.»

«Nessuno tratterrà Oldofredi dal dire che Ella, Sangiorgio, ha cercato questo duello per far del chiasso.»

E il presidente gittò uno sguardo scrutatore sulla faccia del deputato meridionale, ma vi lesse la indifferenza, l’impassibilità, e parve che rinunziasse al suo progetto di riconciliazione.

«E i padrini fissarono le condizioni?» domandò.

«Non ancora: ho convegno con loro alle undici,» e si levò per andarsene.

«Mi raccomando, non parli con giornalisti: un duello parlamentare è per loro un grande pascolo. Buona fortuna, onorevole collega.»

Sangiorgio se ne andò, sentendo che la freddezza della voce del presidente e la tranquillità taciturna dell’onorevole Freitag si equivalevano.

Nella via, sul Corso, si fermò, indeciso. Aveva dato convegno ai suoi padrini al caffè Aragno; ma una invincibile ripugnanza gli vietava oramai questo vagabondaggio notturno di caffè in caffè, in quell’artifiziale attendamento di deputati, di giornalisti e di curiosi che non hanno famiglia e passano la loro serata in quelle sale calde, piene di fumo; gli veniva, gli cresceva un fastidio immenso della gente che domanda, che chiede, che vuol sapere, che commenta, sempre indifferente. Sapeva che Castelforte e Scalìa si sarebbero trovati con Lapucci e Bomba agli Uffici: preferì risalire, verso Montecitorio, lentamente, comprando i giornali al chiosco di Piazza Colonna, leggendo sotto un lampione, sotto il portico di Velo.

I due o tre giornali della sera annunziavano il duello con una certa solennità, uno metteva solo le iniziali, ma aggiungeva che i tentativi di riconciliazione erano riusciti infruttuosi. Egli li conservò in tasca, e, preso da un po’ d’impazienza, andò a passeggiare su e giù innanzi al Parlamento. Le grandi finestre degli Uffici erano tutte illuminate, i commissarii lavoravano ancora: ma la piazza era deserta, la grande piazza senza botteghe. Egli andava su e giù, girando attorno all’obelisco, dagli Uffici del Vicario agli Orfanelli, dagli Orfanelli alla Missione, con le mani in tasca, la testa abbassata, camminando presto per combattere l’umidità che gli entrava nelle ossa.

Il portone dell’Albergo Milano che dà sulla piazza si chiuse, dopo l’arrivo dell’ultimo omnibus della stazione: i padrini non discendevano ancora. E lui si seccava di lasciarsi vedere dai deputati che avevano passato la serata alla Camera, e quando qualcuno ne compariva sulla porta, si fermava, o si allontanava colto dall’impazienza. Finalmente Scalìa e Castelforte comparvero sugli scalini: la lunga figura del conte lombardo si delineò accanto a quella più piccola, ma membruta del deputato siciliano. Parlavano fra loro, vivamente, poi scesero e si avviarono verso giù. Sangiorgio li raggiunse correndo:

«Non ho voluto aspettarvi al caffè: è pieno di gente e tutti vogliono sapere e io non voglio aver l’aria di posare,» spiegò lui, ai padrini.

«Avete fatto bene,» disse Scalìa. «Quand’uno deve battersi, è meglio non lasciarsi vedere, per delicatezza. Quel posatore di Oldofredi ha declamato tutta la serata alle Colonne: ora è al teatro, all’Apollo, per farsi ammirare. Basta, tutto sembra combinato.»

«L’acqua Acetosa, fuori Porta del Popolo, è un buon posto,» soggiunse Castelforte, «poichè ci si va presto. Abbiamo fissato per le dieci, verremo a prendervi alle otto e mezza.»

Camminavano tutti e tre verso la casa di Sangiorgio. Egli taceva, fumando.

«Siete nervoso, voi?» domandò Scalìa.

«Io? per nulla.»

«Allora cercate di dormire. Cognac, in casa ce ne avete?»

«No.»

«Il cognac è buono, in caso di duello. Domattina ne porterò io, sul terreno. Ma voi, cercate di dormire.»

«Diamine! dormirò.»

«Non abbiamo escluso nessun colpo,» riprese Castelforte. «Era quello che volevate, mi pare?»

«Proprio questo.»

«Ho avvisato il dottor Alberti,» soggiunse Scalìa, «egli verrà; molto dipende dalla sua esperienza. Non pensate alla carrozza: verremo noi col landau. Solo fatevi trovare pronto; bisogna arrivare in tempo.»

«Come è, Sangiorgio, che non vi siete mai battuto?»

«Oh, noi di Basilicata abbiamo la collera molto lenta.»

«Non parrebbe,» disse ridendo Castelforte.

Poi, come salivano, per l’Angelo Custode, tacquero. Nella via deserta le tre ombre salienti si proiettavano: quella di Castelforte scarnata, quasi fantomatica; quella di Scalìa, nella sua rigidezza militare; quella di Sangiorgio, piccola ma solida.


Finalmente, solo. La candela stearica illuminava a mala pena il salotto freddo e nudo dove il tanfo di chiuso si mescolava, sempre, a quelli odori cattivi di cucina che venivano dalla corte interna. Finalmente, solo: e ne era contento, con quella selvaggia necessità d’isolamento che rinasceva ogni tanto nel suo temperamento.

In quel pomeriggio e in quella serata erano cresciuti in lui tutti gli istinti di disprezzo per l’uomo, che covavano, latenti, nel suo spirito: egli passava, da sette ore, per una di quelle grandi prove umane, donde l’anima esce amareggiata, delusa, nauseata. Nella solitudine del suo piccolo quartiere, nella lucidità notturna del suo cervello che niuna cosa, niuna persona, niun avvenimento era sinora venuto a turbare, tutte le vigliaccherie, le transazioni, le freddezze, le indifferenze, le premure misurate della gente che aveva incontrata, si affollavano, si aggruppavano, si precisavano: prima la difficoltà di trovar padrini contro Oldofredi che aveva fama di sciabolatore, poi l’entusiasmo molto limitato di Scalìa e di Castelforte, e tutti i consigli, tutti i suggerimenti, tutti gli avvertimenti poco caritatevoli, tutti i discorsi lugubri, tutte le domande a base di compassione, tutti i complimenti a fior di labbro, poco convinti, questo ammasso di parole, di frasi, d’intonazioni dispiacevoli, lo disgustavano, sfilandogli di nuovo innanzi, per dimostrargli ancora un’altra volta la miseria e l’ipocrisia serena dell’uomo.

Egli sentiva che tutti quanti, conoscenze o estranei, amici o nemici, ammiratori o biasimatori, lontani o vicini, lo giudicavano malamente pel suo duello con Oldofredi; sentiva degli uni la pietà offensiva, degli altri il dispetto ironico, degli altri l’invidia rabbiosa, dei molti un disprezzo grande. Sentiva, che quell’impresa audace, di volersi misurare lui, nuovo, giovane, inesperto, contro uno spadaccino che niuno osava più d’insultare, contro un antico deputato, gli valeva le beffe, la compassione, il dispregio degli altri. In quell’ora egli aveva contro di sè tutta la pubblica opinione, sentiva la ingiustizia umana colpirlo. Per cui era felice di essere finalmente solo, di potersi chiudere nella sua amarezza e nella sua delusione. Non solo, no; qualche cosa scintillò sul divano. E come egli mosse la candela per veder meglio, una striscia lucente brillò. Nella sua veglia le sciabole dal taglio affilato vegliavano con lui.

Quelle almeno non mentivano. Ottusa la loro virtù offensiva e difensiva, era bastato farle strisciare per cinque minuti sulla cote, per ridar loro la potenza del male e del bene. Esse non s’infingevano, erano pronte, lealmente pronte a parare i colpi mortali, a ferire, a tagliare, a uccidere; una nelle sue mani, l’altra in quella dell’avversario, lama contro lama, taglio contro taglio: le sciabole erano fedeli. La parola dell’uomo agghiaccia il sangue per la indifferenza o avvelena il cuore per la sua acredine: la buona lama va diritta al suo scopo, recide, nettamente, profondamente. La parola umana strazia: la lama quasi non fa dolore per la rapida precisione del suo colpo.

Sangiorgio, attratto invincibilmente dallo scintillìo del metallo, andò a sedersi sul divano e passò il dito sul taglio sottilissimo di una sciabola.

Che importavano più i padrini, i deputati, gli amici, i nemici, i giornalisti? Tutto il nodo dell’azione era concentrato adesso in quelle due armi: la catastrofe spettava ora a quel pezzo di acciaio bene temprato e bene affilato. La catastrofe? Che catastrofe? Egli si guardò attorno, come per cercare chi avesse pronunziato quella parola; ma era solo, le sciabole giacevano accanto a lui; il suo sguardo era concentrato su loro. Per altri la notte che procede un duello è notte di agitazione, di nervi, di andirivieni: gli altri hanno tutti una donna, a cui infondere del coraggio con la disinvoltura: un parente a cui scrivere una lettera, un amico a cui mandare un biglietto, un servo a cui raccomandare un servizio importante; gli altri hanno tutti non la paura, forse, ma tutti una piccola pena, un pensiero molesto, una puntura di rimpianto; tutti gli altri al pensiero della catastrofe si esaltano o cercano distrarsi, i grandi interessi del cuore soffrono, l’anima è eccitata o accasciata, nervosa o sonnolenta. Sangiorgio, nulla di tutto questo: nè donna, nè parenti, nè amici, nè servi; non una linea da scrivere, non una parola da pronunziare, non un ordine da dare; Sangiorgio cercava invano, nel cuore, il grande interesse, per cui l’idea della catastrofe fosse dolorosa.

A chi poteva dolere se l’indomani Oldofredi lo avesse rimandato a casa gravemente ferito o morto? A quale donna, a quale uomo? Nessuno, nessuno: egli era solo, accanto alle sciabole, accanto alla catastrofe. E in quel freddo processo di eliminazione, in quella selezione misantropa di persone, di sentimenti, egli arrivò a sè stesso, arrivò al suo grande, unico, egoistico sentimento: l’ambizione politica. L’indomani, se egli era ferito, gravemente o lievemente, non importa, — il valore era sempre il medesimo, la disfatta era sempre eguale, — l’indomani, la catastrofe lo avrebbe colpito in pieno, nel suo profondo, fervido, ardente desiderio di fama e di potere. Non sarebbero discese su lui, ferito o morente, lagrime di donna, tenerezza d’amico, rimpianto di persone affettuose: ma lui solo, Sangiorgio, avrebbe pianto su sè stesso, sui propri desiderii di gloria dispersi, sui propri sogni d’ambizione svaniti nella vergogna fisica e morale del disastro. Il colpo di sciabola che l’indomani avrebbe tagliata la carne, recisi i muscoli, divisa una vena, avrebbe trovato la via del cuore, di quel cuore chiuso e duro dove un solo sentimento viveva, per ferire a morte questo sentimento. L’opera lenta e solida a cui egli lavorava da tanto tempo, con una pazienza da formica, con una ostinazione immutabile, domani, sarebbe crollata: a che valevano più tanti sforzi, tanto studio, tante privazioni, tante astinenze, tanti dolori sopportati in silenzio? Un colpo di sciabola: tutto diventava inutile. Così, al lume fumicante di quella candela stearica, nella notte, nella solitudine, quelle armi sguainate e fredde, per un minuto fugacissimo gli fecero paura.


Alle otto e mezzo preciso, vennero i padrini. Sangiorgio, vestito di tutto punto, la redingote abbottonata, il cappello a cilindro ben lucido posato sopra un mobile, aveva la faccia un po’ pallida, ma era tranquillo; solamente a un lato della bocca, che tremolava lievemente, aveva una piccola animazione.

«Dove sono le sciabole?» domandò Castelforte.

«Eccole.»

Castelforte le trasse dal fodero, l’una dopo l’altra, toccò le punte, poi passò il dito sul taglio, le ripiegò, puntandole a terra, le provò più volte, tirando dei fendenti nell’aria.

«Avete una sciarpa, un fazzoletto di seta, per legare la sciabola?»

Sangiorgio aveva apparecchiato una sciarpa. Scalìa chiuse le sciabole nel sacco, che legò con la sciarpa: prese il guantone gittato sul canapè, guardò Castelforte:

«Andiamo?»

«Andiamo.»

Scesero la scala buia. Il cocchiere aperse lo sportello del landau, Scalìa gettò sopra uno dei sedili le sciabole e il guanto: poi in fretta entrarono tutti tre in carrozza. Passarono per Via Due Macelli, ove già il fioraio aveva esposto molta ricchezza di rose, ed entrarono in Piazza di Spagna. Dalle nuvole mollicce che s’amassavano nel cielo, caddero poche gocce d’acqua che si attaccarono ai cristalli.

«Piove,» disse Sangiorgio.

«Non è nulla,» disse Castelforte, «il duello con la pioggia è più drammatico.»

In Via del Babuino si demoliva. Mucchi di rovine ingombravano gli sbocchi delle vie laterali: il principio di Via Vittoria era tutto sconquassato, perchè riparavano la fognatura. In Piazza del Popolo la pioggia ingrossò, e cominciò a cadere con uno strepito allegro, quasi fosse grandine.

«Cesserà,» disse Scalìa «c’è contrasto di venti, in alto.»

Fuori la porta, la carrozza si fermò, per prender su il dottore, che aspettava davanti al Caffè dei Tre Re. Aveva sotto il braccio un involtino coi ferri e le fasciature. Sedette dirimpetto a Sangiorgio, accanto a Castelforte. Aveva un’allegrezza briosa, parlava d’altri duelli a cui aveva assistito.

E mentre il landau si slanciava al galoppo, sui ciottoli fangosi di Via Flaminia, il primo tram di Ponte Molle si staccava dalla stazione e si avanzava, quasi vuoto, sbalzellando e tentennando sui binari.

La carrozza passò davanti al gazometro, e piegò rapidamente nella svolta che conduce a villa Glori. Sotto l’Arco Oscuro, si cominciò a veder la campagna: i primi alberi si affacciarono al disopra delle mura.

Allora Sangiorgio, che sino a quel punto era rimasto in una specie di stordimento del pensiero e dell’anima, in una stanchezza spirituale e morale, si svegliò, ed ebbe un brivido. Castelforte aveva abbassato un cristallo, e l’aria frizzante entrava fischiando. E, come la via era tutta in salita, la carrozza camminava piano. Sangiorgio cominciò a rivivere e a pensare. Mano mano che si andava innanzi, tutta la sua forza nervosa si concentrava nei denti che di minuto in minuto più si serravano. Anche, aveva preso fra le dita un fiocco dello sportello e lo stringeva con crescente energia. Sotto gli occhi, gli era nato un tratto di rossore caldo che cominciava a spandersi in giù, irregolarmente. Ma come l’animazione aumentava, ogni potenza d’espansione scemava in lui: si andava lentamente rinchiudendo in sè stesso, in una specie di prosopopea, romantica e orgogliosa di sè medesimo, e alle parole del medico o dei padrini non poteva più rispondere che con qualche movimento del capo più vibrato del solito. I cavalli, per la salita, rifiatavano forte; in fine, a villa Glori, cominciò la discesa. Allora, di nuovo, la carrozza si slanciò di gran trotto. Erano cessate le mura: oramai a destra e a sinistra le siepi fiorite passavano rapidamente davanti agli sportelli. A Sangiorgio parve un momento che delle ragazze corressero, offrendo fasci di biancospino. Poi cessarono le siepi, e la carrozza entrò fra due file di olmi che fremevano cupamente, agitati dal vento. Poi si fermò. Allora, un gran brivido corse i nervi di Sangiorgio, e quel piccolo rossore sotto gli occhi subito sparve. Erano arrivati. Egli si volle slanciare; Castelforte lo trattenne.

«Restate in carrozza col dottore. Il luogo non è fissato precisamente. Aspettate un poco.»

Scesero i padrini. Sangiorgio affacciò il capo allo sportello. Erano giunti primi. La Casina dell’Acqua Acetosa era abbandonata: le porte chiuse, le persiane chiuse: non vestigio d’anima viva. La grande spianata si stendeva lungo il fiume, verde, senza alberi, senza uomini: solamente lontano, lungo la staccionata di villa Ada, una lunga fila di pecore bianche spiccava dalla comune intonazione di cinereo e di verde, e un pastore incappato stava ritto, immobile.

Castelforte e Scalìa si allontanarono nella pianura, gesticolando. Il tempo s’era un po’ calmato, ma brontolava e minacciava ancora: e quella enorme piattaforma, brulicante di erbe inutili, aveva una tristezza così straziante e così selvaggia, che quelle due sagome di gentiluomini eleganti, avanzanti tra la cicoria fiorita, stonavano bizzarramente. Il Tevere, gonfio e livido, tumultuava con impeto collerico. Castelforte e Scalìa tornarono indietro lentamente, discutendo. Sangiorgio cominciava a vibrare per l’impazienza. Pel fondo dello stomaco gli si era messo un tremolio breve e vivace, che gli si propagava sino ai nervi del palato e gli promoveva una salivazione incessante. La carrozza gli era diventata angustissima. Si sentiva soffocare.

I due padrini si accostarono a lui. Castelforte appoggiò le braccia allo sportello:

«Abbiamo trovato un buon terreno; si affonda un poco: ma non si scivola. Aspettiamo gli altri per vedere se sono contenti.»

«Eccoli,» disse Sangiorgio, i cui nervi erano stranamente aguzzati dall’eccitazione.

Infatti, il rumore d’una carrozza si udì, e ingrossò subito: la carrozza, di gran galoppo, voltò nella pianura, e andò a fermarsi in distanza, nel mezzo del prato. Si spalancò lo sportello. Oldofredi, Lapucci, Bomba saltarono giù.

Questi ultimi si avvanzarono verso Castelforte e Scalìa che venivano incontro; il dottore di Sangiorgio e quello di Oldofredi si fermarono in disparte, e s’inginocchiarono svolgendo i fagottini, sull’erba, per aver tutto pronto. Oldofredi restò presso alla carrozza, col paletot indosso, fumando, battendo gaiamente con una sua bacchettina di bambù la groppa d’uno dei cavalli. Sangiorgio, con mezzo il corpo fuori dallo sportello, guardava incertamente. Ciò che lo smaniava, era l’imperizia, la novità del fatto, e l’ignoranza delle formalità. Doveva restare in carrozza, o scendere come aveva fatto il suo avversario? Guardò i padrini. S’erano raccolti tutti e quattro, con amichevoli saluti e forti strette di mano, sul terreno arso, e discutevano. Ogni tanto, in quella strana e molle calma del tempo piovoso, veniva distintamente l’accento lombardo di Castelforte: le altre voci si udivano smorzate e senza senso, come suoni che uscissero da un involucro di bambagia. Poi Scalìa tornò indietro verso Sangiorgio, e Bomba andò a Oldofredi: Castelforte e Lapucci, chini a terra, sbarazzavano il terreno coi piedi, e segnavano delle linee coi bastoni. Scalìa giunse allo sportello:

«Spogliatevi. Lasciate la redingote e il cappello nella carrozza.»

Prese le sciabole e il guanto, e tornò verso il luogo dello scontro: anche Bomba tornava, con le sciabole e con un altro guanto. Sangiorgio, che cominciava ad avere un brivido nel petto e alle scapole, brivido di impazienza e di desiderio, buttò via il cappello, si trasse furiosamente il paletot, la redingote, la sottoveste, la cravatta, e s’avviò in furia verso i padrini. Il crollo acuto e secco delle sciabole buttate sull’erba da Scalìa lo fece trabalzare. Castelforte gli gridò da lontano:

«Tenetevi il paletot: fa freddo.»

Sangiorgio tornò indietro, prese il paletot, se lo buttò sulle spalle, raggiunse i padrini. Nel mezzo del terreno, Castelforte e Lapucci traevano a sorte il comando del combattimento e la scelta delle sciabole. Scalìa e il dottore si posero in mezzo Sangiorgio, gli parlavano piano:

«Avete bevuto un sorso di cognac

«No.»

«Male; bisogna sempre fortificarsi.»

«Non ce n’è bisogno,» rispose Sangiorgio mentalmente.

«Io comanderò l’azione. Voi scegliete le sciabole,» disse Castelforte. «Volete esaminare le nostre?»

«Scelgo le nostre,» disse Lapucci. «Eccole.»

Oldofredi, dall’altra parte del terreno, con un anemone ai denti, guardava il paesaggio, voltandosi intorno. Castelforte venne incontro a Sangiorgio, gli fece impugnare la sciabola, gli legò l’elsa al polso, lo accompagnò al suo posto. I due dottori si scostarono di venti passi, Scalìa si fermò alla sinistra di Sangiorgio, Bomba alla sinistra di Oldofredi. Lapucci e Castelforte si posero a mezzo il terreno, uno di qua, l’altro di là, ciascuno con una sciabola in mano.

Oldofredi aveva l’aria più sciocca e insignificante del solito: certamente, non ancora il suo spirito s’era fermato al fatto di cui egli era tanta parte.

Castelforte, con quella sua aria di capitano di cavalleria, guardò Sangiorgio, poi guardò Oldofredi, imperiosamente.

«Signori.....» disse con intonazione di cantilena.

La faccia di Sangiorgio, a cui era corso un violento impeto di sangue, si affissò in lui: Oldofredi sputò via l’anemone, e con un movimento elegante si scosse il paletot dalle spalle «Signori: a due gentiluomini come voi sarebbe ingiuria raccomandare di comportarsi con perfetta cavalleria. Vi rammento soltanto che dovete fermarvi immediatamente appena udrete la parola Alt! che non dovrete attaccare se non al comando: A voi! Andiamo.»

Diede un’occhiata a Lapucci, che gli rispose con un’altra occhiata; e comandò:

«In guardia.»

Oldofredi, con un movimento quasi insensibile avanzò la gamba destra, piegò ad un angolo il braccio e la sciabola, si appoggiò sulle gambe. Sangiorgio andò in guardia con un salto, stendendo il braccio destro e la sciabola in una linea così retta e così dura, che pareva un pezzo di ferro.

«A voi!» comandò Castelforte.

E si slanciarono. La sciabola d’Oldofredi battè quella di Sangiorgio che s’era buttata di punta, e la scartò, poi cadde sul guantone imbottito; ma Sangiorgio rialzando con impeto brutale il braccio e il ferro, sollevò la lama del nemico, e per poco non gli ruppe il muso con l’impugnatura.

«Alt!» gridò Castelforte, interponendo la sua sciabola. I due combattenti si staccarono e tornarono al loro posto. Oldofredi, un po’ pallido, sorrideva: aveva capito l’avversario; ma Sangiorgio, a cui era entrata nel petto una furia di toro che abbia visto del rosso, teneva la bocca chiusa e respirava con violenza dal naso.

«In guardia!» disse di nuovo Castelforte. Sangiorgio, col braccio teso e la punta della sciabola alla faccia dell’avversario, lo guardava fisso con occhio così torbido e così minaccioso, che Oldofredi se ne avvide.

«A voi!» disse Castelforte.

Questa volta si slanciò Oldofredi, minacciando al ventre dell’avversario. Sangiorgio, immobile, col braccio teso e la punta agli occhi del nemico, non parò; e come vide la lama, che aveva finto una botta al ventre, passar luccicando davanti a’ suoi occhi per ferire alla faccia, la respinse con una battuta strisciante così franca e così pronta che la sciabola escì di mano ad Oldofredi, e restò sospesa per la fasciatura.

«Alt!» gridò Castelforte.

Lapucci e Bomba corsero a rilegar l’arma al polso d’Oldofredi.

«Animo. Un’altra botta!» disse piano Castelforte all’orecchio del suo primo. Sangiorgio s’era rasserenato. Un riso interiore di superbia contenta gli spianava la faccia. I suoi denti si schiusero. Oldofredi era di nuovo a posto, con la sciabola in pugno, ma questa volta bianco d’un pallore iroso: aveva lui, ora, i denti sbarrati, e le sopracciglia tese come se dovessero scoccar saette.

E al comando si buttò addosso al nemico, d’uno sbalzo, senza finte, senza artifizi di scherma, per spaccargli la testa. Ma prima che la sua sciabola arrivasse allo scopo, la punta di quella di Sangiorgio gli entrò nel labbro inferiore e squarciò tutta la guancia, sino alla tempia. I quattro padrini si buttarono in mezzo, i due medici accorsero. Oldofredi fu tratto in disparte, posto a sedere sopra un pliant, circondato dai sei uomini. Sangiorgio restò solo, con la sciabola in mano, mezzo nudo, stupefatto, sotto il cielo di piombo che da capo schizzava una pioggerella fangosa.

Confusamente, intorno a sè, mentre la carrozza passava sotto Porta del Popolo, egli sentiva chiedere da Castelforte al medico:

«Quanti punti ci son voluti?»

«Dieci.»

«Per quanti giorni ne avrà?»

«Venti: ammeno che non si dichiari una febbre forte.»

«Perdio! che bel colpo!» interveniva a dire Scalìa, fumando voluttuosamente un sigaro.

«E resta la cicatrice,» aggiungeva Castelforte, ridendo. «Oldofredi non se lo scorderà, il colpo.»

Il medico discese all’ospedale di San Giacomo, dopo essersi dato l’appuntamento per firmare il processo verbale. A quella fermata Sangiorgio si scosse dal suo silenzio.

«Avrai fame?» gli chiese Scalìa.

«Lo credo io: se l’è meritata bene,» soggiunse Castelforte.

E ambedue sorrisero di compiacenza.

Sul terreno, per non far vedere, i due padrini non avevano abbracciato il loro primo, ma come ritornavano, in carrozza, si lasciavano andare a poco a poco a un esaltamento affettuoso. Avevano perduta la freddezza, la rigidità: guardavano Sangiorgio amorosamente, con certi occhi lucidi, parlavano di lui con orgoglio, con dolcezza, come di un figlio valoroso che ha subìto un esame, riportando il massimo dei punti: Castelforte arrivò sino a battergli due o tre colpettini sulla spalla, con una familiarità insolita in quel gran signore. Quasi quasi lo accarezzavano con gli occhi, col tono della voce, con certe frasi lusinghiere, fieri di lui, lasciando travedere come diversamente lo apprezzassero e gli volessero bene dopo il duello. Egli riceveva quietamente questa onda novella di amicizia, coi nervi che si ammollivano sempre più, lasciandosi andare a un gran bisogno di vita fisica, non pensando più, avendo voglia soltanto di mangiare, di digerire in una stanza calda, di dormire due, tre ore, profondamente. Sorrideva ai suoi padrini, come il giovanetto che ha fatto magnificamente gli esami, come la fanciulletta che ha preso la prima comunione: tutta la visione dell’Acqua Acetosa, e quella gran cicatrice sanguinante a fiotti sul viso pallido dell’avversario, erano scomparse, egli non sentiva che la soavità letificatrice del riposo nel trionfo. Le linee del volto si erano spianate, gli occhi avevano perduto la loro lucentezza quasi febbrile, la chiostra dei denti si riposava, addolorata: Francesco Sangiorgio aveva l’aria di un ebete.

La colezione fu rumorosa e allegra, al Caffè di Roma. Ogni momento Castelforte e Scalìa versavano del vino a Sangiorgio; egli mangiava e beveva molto, tutto felice di mangiare, ringraziando col capo ai discorsi amabili dei due padrini, ridendo quando costoro parlavano del dispetto di Oldofredi, tanto più doloroso della sua ferita.

Alle frutta le espansioni divennero maggiori:

«...Perchè» continuava a dire Scalìa, «perchè, io ho lunga esperienza di duello, ho temuto per te, caro Sangiorgio. L’avversario era forte e coraggioso e si era battuto venti volte: tu, novello, inesperto... è naturale, ho temuto,..»

«Oldofredi non se lo aspettava...» aggiunse Castelforte.

«Pareva che scherzasse, sul terreno,» osservò Sangiorgio.

«Oldofredi non scherza mai,» disse sentenziosamente Scalia. «Non bisogna credere alle sue pose. Al terzo assalto, ve lo assicuro io, cari colleghi, egli era furioso: è andato addosso a te, Sangiorgio, che pareva ti volesse spaccar la testa. Che colpo, santo diavolo!»

«Che colpo, perdio!» fece coro Castelforte.

E gli stessi discorsi di compiacenza ricominciavano sempre, un po’ monotoni, un po’ da trasognati, come proferiti da coloro che stanno sotto una grande impressione recente e ne rifanno la storia cento volte, cullandosi in quella stessa musica, incapaci di pensare ad altro. E tre o quattro volte fu rifatta la storia; l’onorevole Melillo, che aveva fatto colezione con l’onorevole Cermignani alle Colonne, un po’ preoccupato della sorte del collega basilisco, era venuto in su pel Corso, per vedere se incontrava la carrozza, e chiacchierando di politica, gridando, riscaldandosi, strillando, enumerando cifre e demolendo bilanci, avevano scorto nella trattoria il gruppo dei tre che mangiavano: l’onorevole Melillo, il biondone dal viso rosso e dalla sottoveste bianca, era giunto sino ad abbracciare Sangiorgio, mentre Cermignani, il deputato abruzzese, restava in piedi, ascoltando la storia dai padrini, tirandosi la barba nera macchinalmente, esclamando, preso da un furore bellicoso, postato quasi in una posizione di attacco.

Il Bencini, il vecchio deputato di destra, il vecchio cattolicone arguto, in sospetto di burlarsi di Dio come del diavolo, che era in fondo alla sala chiacchierando vivamente e ridendo, con quel buon vecchione placido, dalla barba argentea, il Gambara, il decano dell’antico partito conservatore, il Bencini curioso e arzillo come una femminetta, venne anche lui a congratularsi quantunque non conoscesse punto il Sangiorgio: ma il Toscano spiritoso e paradossatico aveva un’antipatia profonda per la stupidità vanagloriosa e spadaccina dell’Oldofredi. Egli sghignazzava pensando alla collera del deputato marchigiano.

— Non se la lega al dito questa cosa, Oldofredi: gliel’ha già ricucita sulla faccia! Per fortuna che non siamo in canicola, non siamo: lui avrà una voglia di mordere! —

E tutti, intorno a Sangiorgio, ridevano: Scalìa comperava dei fiori da Nerina, Castelforte narrava ancora il fatto a Gambara che si era accostato anche lui, e sorrideva placidamente guardando Sangiorgio con l’occhio del vecchio parlamentare che ama i giovani deputati laboriosi e coraggiosi; Cermignani e Melillo ascoltavano il chiacchiericcio sfavillante del Bencini dalla voce chioccia e dal riso secco. Fu quasi un corteo che accompagnò il deputato Sangiorgio sino al landau. Era uscito il sole, la carrozza fu aperta, Melillo volle salire anche lui. E come pel Corso passava la carrozza, vi era un allargarsi, un propagarsi di saluti, di cenni, di congratulazioni, di gesti, di sorrisi: pel Corso dove andavano su e giù deputati e giornalisti, uomini d’affari e reporters, dopo colezione, aspettando l’apertura della seduta, facendo il chilo, godendo quel piccolo raggio di sole prima di andarsi a chiudere nel caldaione del signor Comotto.

L’onorevole Chialamberto, il breve deputato ligure, discorreva col colonnello Dicenzo, un abruzzese magro dall’aria ascetica; ambedue salutarono profondamente i quattro deputati che passavano, accennando fra loro. In quanto al deputato Carusio, in Piazza Colonna, egli si buttò allo sportello, volle si fermasse, abbracciò e baciò Sangiorgio, gridando, tutto affannato, che correva dal presidente del consiglio a portargli il felice esito del duello.

Ma, nella Camera, la dimostrazione crebbe, crebbe sempre, intorno a Sangiorgio.

In verità, il presidente della Camera serbò, come sempre, il suo contegno corretto: ma vi fu nel sorriso con cui accolse Sangiorgio qualche cosa di cordiale, di amichevole, una specie di luce affettuosa.

L’onorevole Freitag, grande, grosso, dalla testa incassata nelle spalle, dondolandosi mastodonticamente nel nero corridoio, domandò al deputato meridionale, con la sua vocetta sottile:

«Alla faccia, nevvero?»

«Alla faccia.»

Gli altri non facevano che fermarsi, congratularsi vivamente, stringere la mano: tutti quanti chiedevano i particolari del duello; Scalìa, Castelforte, finanche Melillo, erano circondati; i tre assalti con la botta finale circolavano; i dedeputati bellicosi li ascoltavano con gli occhi lustri, puntandoli, commentandoli con qualche esclamazione; i deputati pacifici ascoltavano in silenzio, sorridendo, figurandosi un combattimento da torneo. Alcuni, i più crudeli, si facevano ancora narrare e descrivere la lunghezza e la profondità della ferita di Oldofredi, chiedevano se vi era stata molta emorragia, se la cicatrice si sarebbe subito rimarginata, se lo sfregio sarebbe rimasto molto visibile. Ma dappertutto, in tutti, anche nei più cauti, anche in quelli che arrischiavano solo una parola e un saluto, trapelava l’antipatia profonda che i molti colleghi avevano per Oldofredi; in molti traspirava il rancore segreto per una parola, per uno sguardo, per qualche piccolo sgarbo ricevuto e sopportato solo per pazienza, per non far chiasso, per non fare scandali; in molti traspariva la noia naturale cagionata dall’individuo che vuol imporsi senza aver meriti, che fa il prepotente a ogni costo e a cui l’improntitudine tien luogo di coraggio e la insolenza tien luogo di spirito.

Qualche raro amico di Oldofredi si teneva in disparte, si contentava di non congratularsi con Sangiorgio. Quando Lapucci e Bomba entrarono, verso le quattro, nell’aula, come se niente fosse stato, le domande furono poche, dettate da una fredda curiosità: i due padrini sentivano, alla loro volta, l’isolamento del loro primo che giaceva in letto, con la faccia e la testa fasciata, in preda a una febbre violenta. Pochi domandarono di lui: pochi, i quali come gli altri, pensavano che quella ferita fosse meritata in castigo della soverchia insolenza, ma che convenisse essere pietosi anche coi vinti.

E l’entusiasmo per Sangiorgio durò nel pomeriggio, crescendo; aumentò durante il pranzo. Stordito, confuso, ma conservando sempre la sua freddezza esterna che solo uno stupido sorriso veniva a diradare, egli lasciava dire, lasciava fare, accogliendo tutto e tutti, abbandonandosi a quella popolarità novella.

Andò al Costanzi, dove si rappresentavano gli Ugonotti, prese una poltrona di orchestra, ascoltò la musica che non conosceva, come incretinito: dietro di lui, due giovanotti parlavano del duello, accennando a lui, come quello che aveva data la sciabolata a Oldofredi; essi parlavano sottovoce, ma egli udì benissimo, egli che non udiva la musica. Nell’intervallo sentì sul viso il calore di uno sguardo magnetico: donna Elena Fiammanti lo guardava da un palco. Salì lassù macchinalmente: schiudendo la porticina, entrando in quel camerottino che è separato dal palco e dal pubblico da una tenda rossa, egli sentì due braccia al collo e la voce quasi commossa dirgli:

«O Franz, o Franz, perchè battersi per me? Non ne valeva la pena.»

Quando scesero, finita l’opera, dopo aver ricevuto almeno dieci visite nel palco, mentre la Fiammanti si appoggiava al suo braccio, con gli occhi umidi di piacere orgoglioso, egli vide nell’atrio il grande Paulo che s’infilava un soprabito enorme. Subito tutta la nebbia superba gli si dileguò e gli venne voglia di buttarsi sul largo torace di quel galantuomo. Era lui, il molosso, che gli aveva consigliato di tirare alla faccia. Sul terreno, egli non aveva ricordato che quel consiglio.


V.

Il principio della questione si era manifestato due giorni dopo la festa dello Statuto, inopinatamente. In un paese d’Italia, in quella domenica di festa patriottica, la giunta municipale e il consiglio comunale, in parte, avevano dato la prova più manifesta di un repubblicanismo avanzato: i consiglieri monarchici si eran subito dimessi, telegrammi erano giunti ai deputati, ai giornali, agli uomini influenti, il caso era diventato grave, in un momento.

Era già l’estate e le sedute si trascinavano lente e fiacche: la politica estera si era già addormentata del suo sonno estivo: leggi importanti non ve ne erano; lo scoppio, dunque, fu improvviso, inaspettato, bene accolto, tutti vi s’interessavano. Gli amori fra la Camera e il Ministero si erano illanguiditi, come tutte le passioni corrisposte e soddisfatte; la gran sazietà empiva di nausea costoro che si erano troppo amati; e il principio della lite che sempre più si complicava, fu il colpo di frusta che risvegliò gli amanti disgustati e sonnolenti. Non avevano più voglia, nè più forza di amarsi con furore: la ritrovarono per litigare, per insultarsi, par darsi a una guerra di sospetti, di maldicenze politiche, di calunnie private. Il maggior accusato era il ministro dell’interno, che, obbedendo a un suo ideale amore della libertà, non aveva voluto sciogliere il municipio di quel paese.

Uomo profondo, d’idee larghe, di un grande carattere, abituato a considerare le questioni politiche con un’ampiezza che la meschinità degli altri uomini politici non perdonava, elevandosi sempre a un ordine di concetti molto superiore, egli aveva detto che bisognava rispettare la libertà della coscienza politica: in privato, ridendo un poco della gravità inusata che si dava a questo caso, aveva detto, come i monatti di Milano a Renzo Tramaglino: andate là, andate là, non saranno questi piccoli assessori camuffati da Erostrati, che abbruceranno il tempio delle istituzioni. Rispondeva a tutti che l’affare era di poca importanza, e alle facce serie, preoccupate, di coloro che lo venivano a interpellare, opponeva la sua serenità di uomo superiore, che pareva una posa ed era l’intima sicurezza di una coscienza quieta.

Ma intorno a lui, sottomano, trapelante, ferveva il desiderio della crisi: tutti i malcontenti, tutti gli ambiziosi a cuore aperto, tutti i mediocri, tutti gli sciocchi invidiosi, tutti i cretini presuntuosi si agitavano, si radunavano, si davano convegno, discutevano, mettendo insieme la mediocrità e l’invidia, l’ambizione e la presunzione, il malcontento e la cretineria. Si strillava al caffè, si perorava nelle trattorie, si ordivano piccoli complotti parziali nei salottini delle case mobiliate dove i deputati alloggiavano, si aveva l’aria di congiurati davanti ai piccoli tavolini che il liquorista Ronzi e Singer mette innanzi alle sue botteghe, nell’estate, a Piazza Colonna.

Ogni giorno, alla stazione, da tutte le parti d’Italia, arrivavano deputati, con una piccola valigia: la valigia della settimana di crisi, dove la moglie mette quattro camicie, sei fazzoletti, le pianelle, una spolverina, giacchè il deputato verrà via subito, in qualunque modo. Erano già in Roma trecentocinquanta deputati, numero eccezionale che le più palpitanti sedute invernali non arrivano mai a formare. E forse, ognuno dei trecentocinquanta aspettava, credeva, voleva, desiderava, era sicuro di diventar ministro, per la crisi.

Il ministro, l’uomo forte e buono e sapiente, o non sentiva, o sentendo, non dava molta importanza a questo crescente tumulto di crisi.

«Non vi sarà crisi,» rispondeva, sorridendo, a coloro che lo interrogavano amichevolmente. «Non vi sarà crisi,» soggiungeva a chi glielo affermava con una certa aria di protezione preoccupata.

In fondo, egli conosceva il mondo politico e gli uomini che lo compongono: sapeva bene che il presidente del consiglio era con lui, che eran con lui gli altri sette ministri, che questo corpo vigoroso di nove individui non si sarebbe fatto scalzare, così, senza una ragione al mondo, perchè un municipio non ha voluto firmare un indirizzo al re e ha levato la croce dalla bandiera tricolore. Egli conosceva bene la passione furibonda dei suoi otto colleghi pel potere, la tenacia di quelle ostriche attaccate allo scoglio; per arrivarci avevan dovuto soffrire e agonizzare politicamente, sarebbero morti prima di andar via. Egli sorrideva, pensando quanta forza può dare la debolezza: sorrideva, ed era sicuro.

E passava a un giro d’idee più morale: lo scetticismo non aveva intaccato certe sue nobili credenze, la sua fede nella coscienza umana non era ancora scossa. Egli sentiva che questo culto supremo della libertà era l’amore di tutte le intelligenze, di tutti i cuori italiani: egli sapeva che gli stessi meschini possono per un istante traviare questi cuori e queste intelligenze, ma che di fronte alla grandezza di un’idea, tutto sarebbe scomparso.

Invano, ogni tanto, arrivavano sino a lui i soffi maligni, le voci calunniose, le notizie false o falsificate; invano, qualche vero amico gli suggeriva di diffidare, di considerare la situazione da pessimista: il ministro dell’interno conservava quella sua spiritualità appena appena velata di amarezza, egli non poteva esser vinto; moralmente e materialmente, si sentiva saldo, stretto coi colleghi, fatto forte da una causa generosa. Non voleva sentire lo sviluppo della crisi parlamentare, il ministro: eppure in quella grande caldaia politica bollivano tutti i temperamenti, e tutti i caratteri delle regioni italiche si manifestavano. I Siciliani si davano a quella loro foga simpatica, mescolata d’ironia e di buon senso; i Napoletani gridavano e gesticolavano; i Romani aspettavano, attenti, temporeggiando, sapendo il momento in cui dovevano intervenire; i Toscani ridevano dietro gli occhiali, sogghignavano sotto i baffi, ambiziosi, mefistofelici, burloni di sè stessi e degli altri; i Lombardi si aggruppavano, un po’ solitari, un po’ aristocratici; i Piemontesi e i Liguri andavano e venivano, si agitavano, senza parlare, intendendosi a occhiate. Ma i più ardenti, i più ribelli, i feroci, erano i rappresentanti delle piccole province, gli Abruzzi, le Marche, le Romagne, la Campania, le Calabrie, i rurali, i rappresentanti le province che danno la vita e le ricchezze alle grandi città, i deputati che veramente si appassionano alla politica, che ci credono, che la stimano come la più grande potenza umana, che si inebbriano come di un vino generoso.

Solamente, fra tanto tumulto represso, gli uomini della Basilicata non si riunivano, non formavano gruppi, non parlavano, non si chiedevano nulla e non rispondevano nulla, freddi e corretti. Il ministro, l’uomo integro e nobile, era sicuro: non avrebbe mai temuto, in nessun caso; e sorrideva.

Il giorno dell’interpellanza, quando il ministro dell’interno entrò nell’aula, vi fu un lungo mormorio sui banchi. Egli se ne accorse, ma, forte lottatore nelle piccole come nelle grandi cose, ebbe lo spirito di non volgere gli occhi intorno, di non alzarli su alle tribune: pensò subito, però, che la cosa era più grave di quello che gli era sembrata sino al giorno prima. Anche il giorno prima, egli aveva detto, così, con una certa noncuranza, al presidente del consiglio:

«Vi è molto rumore per quest’affare del municipio.»

«Calori estivi,» aveva risposto, sorridendo, il presidente.

«Ella è d’accordo con me?»

«D’accordo, naturalmente,» soggiunse l’altro, senza però stabilire su che cosa.

«Crede che il discorso di don Mario Tasca sarà importante?»

«Uno dei soliti discorsi.»

E si parlò d’altro. Gli altri colleghi si erano mantenuti in un grande riserbo: solo Vargas, il ministro delle belle arti, il vecchio asciutto e segaligno, disseccato da una divorante ambizione, aveva fatta qualche opposizione vaga, a cui aveva risposto vagamente il ministro dell’interno. Le cose erano restate lì. Ora, nella Camera, egli si accorgeva che la giornata sarebbe stata bollente. Sfogliando certe sue carte, con gli occhi bassi, egli sentiva, dal ronzìo parlamentare, che vi dovevano essere almeno quattrocento deputati: alzò gli occhi alla tribuna diplomatica, la contessa di Santaninfa, la bella pensierosa, vestita di nero, chinava gli occhi malinconici sull’aula; la contessa di Malgrà, la pallida bionda seducente, aveva quel giorno un cappellino di paglia di oro e non lasciava mai di considerare l’aula attentamente. La tribuna degli impiegati era piena: in quella dei giornalisti una triplice fila di teste si piegava curiosamente.

— Fiutano l’odore della polvere, — pensò lui.

E guardò i suoi due o tre colleghi ministri, come se volesse dir loro qualche cosa: ma costoro avevano l’aria così indifferente, che egli non disse più nulla. Solo guardò la Camera: essa si era chetata, ma aveva un’aria dura e solida, una massa profonda di quattrocento persone che tacciono, aspettando. E dopo una quindicina di minuti, alle tre, l’oratore della destra, don Mario Tasca, cominciò a parlare dal più alto banco del penultimo settore, in mezzo a un silenzio di grande chiesa vuota: pianamente, il presidente del consiglio era entrato nell’aula e si era seduto alla punta del banco dei ministri. Don Mario Tasca, il vecchio bianco, dal collare di barba candido, dalla pelle rosea, parlava con una eleganza di forma, con una rotondità di periodo che talvolta il gesto della mano, circolare, accompagnava e compiva, come il movimento di una piccola ruota. Il discorso filava, filava, dolcissimamente, senza mai un abbassamento di voce, senza un’esitazione, come un canto d’usignuolo: l’oratore non guardava il ministro, guardava in aria, come un virtuoso; non si chinava mai a guardare le sue note, come uno che conosca la sua parte a memoria. Ma in tutta quella dolcezza esteriore, il discorso suonava di rampogna: l’oratore non parlava nè di persone, nè di fatti, ma pur restando in una certa vaghezza di termini, diceva che erano state offese certe istituzioni e certe idee, a cui sin allora niuno aveva toccato. Era un discorso senza ingiuria, un po’ nebuloso, forse, ma accusava: taceva i nomi, ma feriva le coscienze.

Il ministro ascoltava attentamente e ogni tanto sogguardava il presidente, che non si voltava mai dalla sua parte: gli altri ministri ascoltavano con attenzione profonda don Mario Tasca, che continuava nella bella fluidità della sua prosa: i deputati tutti rivolti verso la destra ascoltavano: lassù tutto il pubblico delle tribune si piegava ai parapetti: le due contesse, la bruna e la bionda, pareva che sorbissero le parole di don Mario Tasca.

Costui parlò per un’ora, appena appena pigliando fiato, senza bever mai, senza che mai il timbro della sua voce si alterasse di colorito. Egli incalzò il ministro, negli ultimi periodi, più brevi, sempre rotondi, a ruote sempre più concentriche, a rispondere se voleva continuare in questo dannoso sistema di noncuranza, di lasciar fare, di lasciar passare. Un lunghissimo, lunghissimo mormorìo di approvazioni salutò don Mario Tasca.

Il ministro, prima di rispondere, interrogò con l’occhio il suo presidente: ma costui scriveva; era inutile. Allora egli si alzò e rispose con molta pacatezza, con molta giustezza, riducendo la questione ai suoi termini minimi, dichiarandola di poca importanza, attenuando e sfrondando tutti i fatti, ricorrendo a una quantità di ragioni piene di buon senso, rinunziando al gonfiamento delle grandi frasi, che egli credeva inopportune. E discorrendo placidamente, si guardava attorno, interrogava i volti dei deputati, quasi volendone ricavare in loro approvazione. Ma i volti non si rischiaravano, chiusi, molto malcontenti: i deputati non erano soddisfatti, no, erano venuti nell’aula esaltati da otto giorni di discussione e di aspettazione, la questione era molto grave, il ministro voleva cambiar loro le carte in mano, riducendola a un piccolissimo affare.

Invano egli prodigava certe sue finezze di talento ingegnoso, certe sue risorse stringenti e lucide di logica: egli continuava a sbagliare la nota, non avendo intesa l’intonazione di quel giorno, non comprendendo che il vento era alla grande rettorica delle giornate di crisi. Sentiva lo scontento, ma non ne capiva il perchè: gli pareva sempre di poter vincere questa battaglia con le semplici armi della ragione, — ma un silenzio glaciale regnò nell’aula, alla fine della sua risposta. Poi Niccolò Ferro, il deputato radicale, chiese la parola. Il ministro aggrottò lievemente le sopracciglia: in quel minuto si accorgeva del pericolo.

Niccolò Ferro, l’oratore migliore della estrema sinistra, il parlatore lucido, freddo, imperturbabile, forte nella logica, come forte nella rettorica, chiarì così limpidamente la situazione, che non vi fu più dubbio. La dimostrazione di quel municipio era rialzata al suo vero e grande valore, era un segno del tempo, niuno avrebbe osato mai violare la libertà delle coscienze, sino a voler proibire o punire queste manifestazioni. Egli parlò della tradizione storica dei Comuni, di tutto il lungo sforzo italico per giungere a questo stato di libertà, ancora incipiente, ma che presto avrebbe avuto un largo sviluppo. Un consigliere è un uomo, è un cittadino: egli pensa come crede e agisce come pensa. Le istituzioni non decadono per mano degli uomini, ma decadono per la loro naturale corruzione: non sono gli uomini che le uccidono, ma le nuove idee che le distruggono. Fatalmente esse si imputridiscono pel germe morboso che contengono: nulla le salverà mai, quando il corrompimento è così avanzato. In fondo Niccolò Ferro era scontento e contento del ministro: lo dichiarava apertamente. Scontento perchè lui, uomo di libertà, aveva voluto quasi mettere in ridicolo la coraggiosa e audace manifestazione di quel municipio che agiva a viso aperto: contento, perchè sapeva bene che la fede antica non vacilla mai nel cuore degli uomini integri, malgrado le allucinazioni tiranniche del potere — ed era sicuro che giammai un atto di repressione sarebbe partito dalla volontà dell’illustre uomo.

L’illustre uomo aveva inteso tutto, torcigliandosi un po’ nervosamente il mustaccio bigio: guardava Niccolò Ferro, il suo amico, con molta dolcezza, senza un rimprovero. Si sentiva affogare: sentiva lo sgomento della Camera innanzi all’audacia novella del partito radicale; sentiva l’equivoco in cui tutti lo volevano trascinare, amici e nemici, e contro il quale non poteva difendersi. Nè poteva dichiararsi solidale con Niccolò Ferro, nè combatterlo: e solidale, pel suo silenzio, lui, il ministro della Corona, tutti lo avrebbero creduto. Sentiva, in quel momento, il lungo errore di una politica troppo leale, solamente fondata sulla verità, solamente inspirata agli alti principii, astratta dalle persone e dai fatti, quindi poetica e fallace: una politica così poco pratica, che, ecco, prestava il fianco indifeso alla destra e alla sinistra. Tutto questo capiva l’illustre uomo; ma non poteva dire nulla. Forse, in quel frangente, il vecchio presidente del consiglio, parlando lui, con quella sua temperante bonomia poteva salvar la posizione: egli poteva metter a suo posto le paure mistiche e canore di don Mario Tasca, come le spavalderie intempestive di Niccolò Ferro. Ma il vecchio presidente leggeva una lettera, placidamente, come se si trovasse nella pace del suo gabinetto e non nel tumulto dell’aula.

La parola fu data all’onorevole Sangiorgio e subito l’assemblea si chetò; il presidente del consiglio alzò la testa canuta, e guardò fisamente il deputato di Basilicata, come se volesse leggergli nell’anima: il ministro dell’interno respirò, sollevato, immaginando che quanto nè lui, nè il presidente avevano detto, lo avrebbe detto Sangiorgio. Era intelligente, amico sicuro del ministero, non poteva che rimettere le cose al loro posto.

Invece, dalla prima frase crudele, l’onorevole Sangiorgio cadde addosso brutalmente alla politica interna, con un furore concentrato. Avevano detto troppo poco don Mario Tasca e Niccolò Ferro, come attacco e come difesa: le cose erano diversamente gravi, da un anno a questa parte; il più profondo disordine regnava nella politica interna, non vi era più nessuna guida, non vi era più freno, i pubblici funzionari agivano a casaccio, o non agivano punto, non avendo ordini. La politica interna era fondata sull’equivoco e sulla noncuranza colpevole: le teorie elastiche di libertà vi portavano la rovina. E questo tono acuto, quasi tragico, di attacco, doveva essere indovinato, era quello della giornata, perchè ad ogni frase la Camera mormorava per approvazione. Sangiorgio citò fatti: non era soltanto quello che dava da pensare, nè il primo; disse il numero delle associazioni repubblicane che in un anno era cresciuto a dismisura; citò i comizi che si moltiplicavano dappertutto; e gli atti di ribellione, non di quel solo municipio, non di quella sola Giunta, ma di altri pubblici funzionari; parlò di un prefetto che aveva consentito ad assistere ad un banchetto, dove era stato proibito di brindare al re, — e il ministro dell’interno, malgrado lo sapesse, malgrado gli articoli dei giornali monarchici, non aveva punito quel prefetto. I prefetti, i questori, i delegati, lasciati in balìa delle loro opinioni, della propria volontà, si abbandonavano ad atti di autoritarismo o di debolezza inqualificabile: ma la nota principale era la indolenza, una trascuraggine colpevole. Da Roma non partiva una circolare energica, mai: i rapporti dei più zelanti funzionari restavano senza risposta, o avevano una risposta ambigua: a Roma si facevano una quantità di deduzioni filosofiche e sociali, ma nessun atto di volontà. La Camera approvava tanto forte, che il suo presidente dovette due volte richiamarla all’ordine. Sangiorgio parlava con una speciale durezza di voce, con una brevità di accento e di frasi, con una tale aridezza di forma, che le più piccole cose facevano effetto: e parevano, quei fatti, tanti scatti di un’arma infallibile, tutti colpivano al segno, implacabili.

Era un atto di accusa, una requisitoria compilata con la crudeltà fredda di un magistrato, dalla collera legale e morale. Sangiorgio aveva la faccia rude e concentrata, i lineamenti immobili, non sorrideva, non gesticolava, non ricorreva a nessuna delle solite astuzie dell’oratore: pareva così profondamente sicuro e compenetrato della sua causa, che solo l’enunciazione precisa e glaciale bastava. Non faceva commenti, o quasi mai: era una enumerazione di fatti, passava dall’uno all’altro, dicendo, ogni tanto: ma non basta, vi è dell’altro. Questa frase, ripetuta ogni tre o quattro minuti, monotona come un ritornello tragico, faceva una grande impressione: dei brividi nervosi parea corressero lungo la spina dorsale di quel grande corpo che era la Camera.

L’aria parlamentare era carica di elettricità: nessuno scriveva, nessuno leggeva, tutti erano rivolti verso l’oratore, dei gruppi di ascoltatori si erano fermati sotto il suo settore; della gente era financo scaglionata sulla scaletta, quasi volesse bere le parole di Sangiorgio, in una esagerazione di attenzione. Lassù, nella tribuna diplomatica, la già bella, e ancora bella contessa Lalla D’Ariccia, il più sicuro barometro della crisi, era comparsa: ella non veniva che nei giorni di elettricità. Donna Luisa Catalani chinava la piccola testa fasciata da una veletta bianca, e, accanto a lei, donna Angelica Vargas piegava la bella faccia senza velo, tutta rossa ai pomelli, quasi esaltata dalla curiosità.

L’oratore riassumeva, con una forza di sintesi martellante sull’uditorio, tutto quello che aveva detto: e senza aggiungere osservazioni, senza chiedere risposta, senz’aspettarne, con un disprezzo di qualunque argomento, detto da qualunque avversario, propose, leggendolo, il seguente ordine del giorno:

«La Camera, disapprovando la politica interna del ministero, passa all’ordine del giorno, — Francesco Sangiorgio.»

Nel rapidissimo minuto di silenzio, si udì, chiaro, nitido, pronunziato dall’on. Schuffer:

— Perdio!

Poi sorse un tale vocìo, così alto, così irrefrenabile, che per cinque minuti il presidente scampanellò invano. Si discuteva nell’aula, sulle scale, nell’emiciclo, nei banchi, nelle tribune, dapertutto: le signore, da quella diplomatica, guardavano, guardavano, prese forse anche esse da un tremito nervoso.

E il forte e onesto uomo, che era ministro dell’interno, aveva ricevuti nel petto, senza muoversi, i colpi dell’onorevole Sangiorgio, quasi ammirando la forza del suo avversario: solo, verso la fine, come lo scioglimento di quella posizione si approssimava, un dubbio crescente lo assaliva. Dopo quell’attacco così vigoroso, fatto dal centro, da un ministeriale, da un uomo che aveva mostrato aver tendenze democratiche, la situazione era così grave, che solo la parola del presidente del consiglio poteva chiarirla. La difesa spettava al più vecchio, al capo, all’antico parlamentare. E un sospetto, sì, un nuovo sospetto, amarissimo, saliva dal cuore al cervello del ministro dell’interno: in quei cinque minuti di tumulto parlamentare, come quelle piante velenose del tropico che crescono in una notte, il sospetto gli si allargò nell’anima, immenso. Egli guardava il vecchio presidente, fiso fiso, come se volesse strappargli la verità, e temendo che una qualche emozione gli velasse la voce, non gli parlò, non gli chiese nulla: lo guardava, soltanto, aspettando che uscisse da quel silenzio, che scotesse quell’inerzia, che rivivesse, poichè dalla mattina pareva morto. Ma il presidente taceva e scriveva, carezzandosi con l’altra mano la barba. Allora il ministro, cedendo a un impeto del suo temperamento sanguigno, si piegò sul banco, per leggere che cosa scriveva il presidente. Niente scriveva: disegnava un pupazzetto, con molta attenzione di disegnatore, e si carezzava la barba con l’altra mano. E il ministro dell’interno si rifece indietro, calmo a un tratto, un po’ pallido, senza sospetto. La certezza era venuta, innegabile. Egli sentì l’abbandono, sentì il tradimento. I colleghi, il presidente lo lasciavano cader solo. Erano già staccati da lui, come si fugge il morto, per nausea del puzzo.

Certo, il tradimento era completo, erano essi che avevano voluto liberarsi di lui, come di un braccio ammalato o di una gamba cancerosa. E la Camera non voleva più saperne di lui: lo sentiva. Quando il presidente della Camera gli dette la parola, per replicare, si udì la onesta e tranquilla voce dell’illustre uomo dire:

«Non ho nulla da aggiungere; accetto l’ordine del giorno Sangiorgio.»

Alla votazione egli ebbe trenta voti contro. Il ministro dell’interno era caduto.


Dopo otto giorni, il giornale officioso del ministero e tutti gli altri in seguito scrivevano:

«È quindi assicurato che nel rimpasto ministeriale, don Silvio Vargas passa dal ministero delle belle arti a quello dell’interno. L’onorevole Sangiorgio, invano pregato di prender parte alla nuova combinazione, ha sempre rifiutato ed è partito per la Basilicata.»

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