< La conquista di Roma
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Parte terza
Parte seconda

PARTE TERZA

I.

Un soffio molle di pianto; una luce mesta che le funebri tede pagane, lambenti con la fiamma azzurrognola le pareti di masso granitico, non diradavano; una luce velata che le gialle candele funebri cristiane, anime consumantisi nell’amore, non aumentavano; una fredda aura di sepolcro; un singhiozzìo frequente musicale; e una gran massa di gente nera, quasi perduta nell’ombra di quei funerali: e nell’aria, nella luce, nelle fiammelle, nell’ombra, nella musica, erano lacrime versate e desiderio di lacrime nuove, era la nota del dolore irrimediabile.

A lui, fermo al suo posto, e lasciantesi penetrare da quel languore melanconico che al dolore per infinite e continue gradazioni declina, un improvviso, intimissimo tremore scosse i nervi e fece battere violenti i polsi: e per naturale moto, sentendosi tremare e impallidire, egli si volse intorno, cercando scorgere qualcosa in quel fioco lume che scendeva dal velario.

Ora, egli vide, accanto a sè, questa dolcissima donna, questa donn’Angelica, dalla parvenza realmente angelicata. Era vestita di nero, di cordoglio profondo, come quei funebri reali, in quel Pantheon sacro alla gloria e alla morte dell’Eroe, lo comportavano: e tenea gli occhi languenti fissi in un cero che si struggeva. Nulla ella vedeva, nulla parea sentisse, assorta nei suoi pensieri sicuramente di mestizia, perduta nei suoi sogni di dolore. Seduta accanto a una colonna, aveva voluto leggere, nel suo libro di orazioni, le preghiere che chiedono pace, che invocano requie ai defunti; ma presto il libro le era caduto in grembo, semi-aperto e le mani inerti non avevano avuto forza di riprenderlo.

E a lui, quella gentilissima abbrunata, dal pallore di perla sotto il velo nero, dalle labbra soavi ancora schiuse pel passaggio della preghiera, dagli occhi perduti in mistiche e dolorose contemplazioni, parve una figura divina. E tutto, lume fievole azzurro di lampade, lume sottile di fiammelle che si allungavano, aria di dolore, musica di desolazione, profondo impregnamento doloroso che pareva avesse ammollito persino le antichissime, saldissime muraglie del Pantheon, incurabile male dello spirito, tutto per lui si concentrò in quella figura di donna, seduta presso a lui: ella personificò tutta quella tepida e umida giornata invernale, in cui il sole era morto; ella fu la sede morale di tutte quelle lagrime che sgorgavano dalle cose; ella fu l’abisso attraente del dolore, che tutto il dolore delle cose non arrivava a riempire; e sull’urto profondo dei nervi di lui, sulla vibrazione di tutto il suo essere, carne, sangue, nervi, muscoli, in tutta quella forte compagine di uomo forte, che sussultava, salì, crebbe, vinse un sentimento di pietà amorosa.

Ella, inconscia, si abbandonava, fidente dell’ombra: si abbandonava alle sue fantasie di donna, vaganti fra i cerei, fra gli abiti neri lucenti d’oro dei preti, fra le grandi, quasi colossali cariatidi umane dei corazzieri, fra tante facce pallide, tristi, annoiate, sofferenti, o indifferenti. Malgrado quella immensa folla di gente che circondava il catafalco, malgrado l’indefinibile mormorio che se ne distaccava, ella si lasciava andare in quell’ora di libertà spirituale, l’ora breve, l’ora indisturbata, l’ora di liberazione, in cui il proprio dolore rinasce e si fonde e si trasforma nel dolore universale. Ogni tanto, a uno strappo più lugubre della musica, a una voce di cantore che pareva quasi bagnata di pianto, a una parola monotonamente cantata in minore dal prete officiante, ella trasaliva e il suo sogno desolato ricominciava, percorrendo altre fasi, altri gradi, altri cerchi di malinconia: e in diverso e più profondo modo, ella procedeva per le vie amare, che le anime dolcissime sono condannate a percorrere. Non piangeva, no, perchè troppo vasta, troppo ampia era la visione funebre di quel giorno: ma egli vedeva bene, egli vedeva che le delicate palpebre, dalla fibra tenue, come petalo di fiore, erano ombrate di violetto: ivi erano state le lagrime e ivi dovevano correre.

E guardandola ardentemente nella faccia soavissima, a cui quell’ombra di dolore dava una espressione altamente spirituale, non considerando più altro che quel volto bianco quasi impregnato, quasi saturo di lagrime, avendo tutto dimenticato nella contemplazione amorosa di quella donna, egli sentiva in sè tutta una mirabile trasformazione. La infinita amaritudine ond’ella appariva compresa, a poco a poco, per naturale assorbimento dello spirito passò in lui: fu come una penetrazione di sentimento, lenta, ma sicura, infallibile. Egli non domandava che fosse, ma sentiva tutta la sua personalità scomparire, annegarsi, morire in quella donna: egli era preso, non da lei, forse, ma da quello che ella provava. Tutto il vago, l’arcano, il mistico di un dolore femminile, senza lamenti e senza lacrime, senza cause e senza limite, gli saliva dal cuore al cervello, allargandosi, prendendo possesso, scacciando quanto altro mai trovasse sul suo cammino. No, non era più la pietà, la grande natural pietà dell’uomo verso la donna che soffre: la pietà è ancora un sentimento personale, la pietà è ancora un egoismo, la pietà è ancora il grido dell’individuo. Era lui, lui che soffriva, ora, come se la tortura di quel cuore femminile fosse la propria tortura; era lui che sentiva la puntura acuta delle lagrime che ella non versava, abbruciargli le palpebre; era lui che spasimava nell’altruismo, parendogli di esser perduto nell’angoscia, in un grande vuoto angoscioso, come quella donna appariva perduta, nuotante nel vacuo della sofferenza.

Poi, come l’ora funebre procedeva, pel tempio pagano dove degnamente posava l’Eroe, si diffuse un sottile odore cristiano, d’incenso: e le spire eleganti salirono dall’altare alla vôlta, sempre più sfumate, sempre più lievi, perdentisi come preghiere per salire sino al trono della divinità. E l’incenso aveva anche sapore aromatico di pianto: e il profumo, salendo dalle nari al cervello, agiva profondamente sui nervi, carezzandoli con una amarezza voluttuosa. Nella penombra tutto parve ondeggiasse a quel bacio triste e aromale, i volti femminili parve si piegassero tutti, per nascondere il tremolìo delle labbra: e la testa della donna che egli guardava, reclinò, come se le mancasse la forza. Egli trasalì, fece quasi per accostarsi a lei e sostenerla: ma una singolare paralisi teneva legati i suoi movimenti. L’incenso bruciava, bruciava, nei vaselli d’argento, senza fiamma incandescente, vincendo le ultime forze sue.

Un campanello risonò, con uno squillo che parve sonoro in tanto silenzio ed era debole: donn’Angelica scivolò dalla sedia sul marmo freddo del pavimento, chinò la testa fra le mani, non era che un mucchio di roba nera, abbattuta per terra, ignorata, ignorante, smarrita. E lui, senza inginocchiarsi, senza chinare il capo, senza pregare, sentiva di essere annientato nell’annientamento di quella donna, tutto gli sembrava finito, come tutto era finito per lei. A ogni nuovo squillo del campanello, come ella sussultava, quasi chiamata da una voce lontana, lo stesso movimento si ripercoteva in lui: nulla che nascesse in lei, spiritualmente, che non si svolgesse in lui, subito, per ripercussione.

Attorno al catafalco, una fila di preti si schierò, tenendo nelle mani i cerei accesi: la croce d’argento, dove era confitto il Cristo Redentore morente, stette immobile, di fronte alla bara. E dalla musica, una voce partì, stridula, straziante, una voce che non cantava, ma gridava, una voce che non pregava, ma chiedeva: libera, libera, libera me, Domine. L’invocazione cristiana, il grado di dolore che chiede la liberazione, fece levar gli occhi alla dolcissima donna. E nei suoi tratti, che il pallore di fiore languente facea sembrare quasi consunti, nei suoi tratti sfigurati, un potente verissimo desiderio nasceva.

Ora, mentre la voce aspra e quasi straziata del cantore domandava al cielo, con la emozione mistica, la liberazione, donn’Angelica, dopo aver percorso tutti gli stadi imprecisi, roteanti del dolore, sentiva in sè precisarsi la necessità del suo cuore. Ella parlava al Signore, ora; le sue labbra si agitavano, chiedendogli la liberazione. Quanto era stato d’indefinito sin allora, si definiva: la liberazione. La liberazione di tutto quello che era stato, bene o male, felicità o infelicità. — Tutto, fuorchè questo, Signore: tutto, fuorchè quello che è stato, Signore misericordioso: tutto, fuorchè il tremendo passato, Signore pietoso. — La liberazione: e per Colui che giaceva nel sepolcro e di cui si celebravano i funebri, la liberazione era giunta, in cima al vertice glorioso dove egli era salito, — era giunta, chissà, forse gradita. E peso reale della corona, pondo di regno, responsabilità grave di leggi e di volontà regali, cumulo di pensieri, di cure, tutto, la liberazione era venuta a cancellare da quell’anima, quietandola nella pace suprema. — Come dorme il re, fatemi dormire. Signore di bontà, come avete liberato la forte anima del re, o Signore, liberate la debole anima mia. Sia pure la morte, la liberazione; fatemi morire e liberatemi, Signore!

In un momento supremo, la bella donna straziata tese le braccia al cielo, nella penombra; e in quella preghiera, le calde lacrime ribelli, tanto tempo frenate, le scesero giù per le guance.

Egli aveva inteso, misticamente, quanto ella domandava al Signore: e quella preghiera funebre, quell’ultimo affanno doloroso, riassunto in una parola, quella richiesta del cristiano agonizzante, erano sgorgate anche da lui, nella musica, nella voluttà triste dell’incenso, nel crepitìo sepolcrale delle fiammelle, nell’ondeggiare vago della luce, in quel cerchio azzurrognolo del velario che parea si muovesse. Nacquero, sgorgarono dal suo cuore virile le frasi di desolazione, che ella aveva proferite: egli volle quello che ella voleva. Un piacere dell’anima, altissimo, si svolgeva da questo desiderio comune: lo spasimo era così acuto, la volontà era così intensamente concentrata in una sola cosa, che la vita parve a lui si moltiplicasse. E quando si volse e la vide piangere, spossata, cedendo all’intenerimento successivo ai grandi piaceri, ai grandi dolori, egli abbassò il capo superbo. In verità, egli piangeva, per amore.


Col viso quasi nascosto da un fascio di rose bianche, con cui ella giocherellava e il cui fresco, invernale profumo, le coloriva le guance, donn’Angelica ascoltava la conversazione fra suo marito e Francesco Sangiorgio.

Essi parlavano di politica, da un’ora: in verità, era piuttosto don Silvio Vargas che ne parlava, un po’ arrovesciato nella sua poltroncina, fumando un pestilenziale sigaro toscano, guardando i delicati fiori dipinti sul soffitto grigio chiaro del salottino. Ne parlava con la sua secca voce fischiarne, a sussulti, a frasi spezzate, sbuffando fumo, tirandosi ogni tanto il mustacchio rimasto rado malgrado la vecchiaia, rimasto castagnino come i capelli, malgrado gli anni. L’età non si vedeva in quel vecchio magro che nelle rughe finissime all’angolo dell’occhio, un ventaglio che si allargava verso le tempie; in due rughe profonde, agli angoli delle labbra, che il sorriso vi scavava: nella durezza di tutta la fisonomia diventata quasi lignea; nel collo scarno, dove i tendini si movevano come corda di strumento. Ma del resto era forte e robusto nella sua magrezza, come quei legni di quercia che s’induriscono per tanti anni nell’acqua prima di poter essere adoperati: e quando conficcava sotto l’arco sopracciliare destro la lente rotonda, senza cornice, sospesa a un cordoncino nero, la fisonomia acquistava una vivacità, quasi una giovanilità.

E quella lente, in don Silvio Vargas, era un barometro infallibile: nelle ore di riposo quasi quasi l’arco del sopracciglio non la reggeva: nelle ore d’indifferenza pareva smorta, appannata, l’occhio dietro di essa era chiuso o socchiuso, immobile; nelle ore di stanchezza profonda, di delusione, la lente si staccava dalla sua orbita, ricadeva sul petto, si perdeva fra le pieghe del soprabito e della sottoveste; nelle ore di battaglia, di scaramuccia, di combattimento, la lente stava ritta, al suo posto, lucida, nitida, l’occhio era aperto e scintillante. Gli avversari e gli amici, troppo passionati per essere osservatori, non avvertivano questi mutamenti che più tardi, dopo: il barometro politico essi lo trascuravano: sentivano la gagliardia o la debolezza, non vedevano dove si manifestavano.

Donn’Angelica Vargas, quando aveva inteso annunziare, dopo colezione, il deputato Sangiorgio, si era levata per andarsene. Ma il marito, mentre chiudeva un giornale e ne apriva un altro, le aveva detto di restare, brevemente, come quando voleva essere ubbidito: Ella era rimasta ritta, presso una giardiniera fiorita di cinerarie, malgrado il rigore invernale: e salutato colui che entrava, non era intervenuta nella conversazione. La svelta e giovanile persona, smesso l’abito di cordoglio, era mollemente avvolta in una vestaglia a grandi pieghe, di colore, di stoffa, di foggia monacale: un grosso cordone di seta girava intorno alla cintura: le belle mani fini erano perdute nell’ampiezza delle maniche. Ella, ogni tanto, si voltava: e a un motto arguto o vivace di suo marito, sorrideva per dimostrare che prendeva parte alla conversazione, che intendeva, che approvava: a una risposta di Sangiorgio, a una osservazione, a una riflessione, ella si voltava a guardarlo, una breve occhiata, ma intelligente, ma apprezzatrice. Pure, si occupava delle piante, amorosamente, osservandole con una grande attenzione, togliendone via la polvere dalle foglioline che ne erano coperte, staccando i piccoli rami secchi e i fiorellini già fracidi, che deturpavano la bellezza di quelli freschi. Si vedevano andare e venire, intorno alle molte piante verdi, onde il salottino pareva un boschetto primaverile, le mani bianche, piccoline, uscenti dalla larghezza claustrale delle maniche: e le dita avevano una gentilezza infantile. Chinandosi sulle pianticelle, la testa abbassata lasciava vedere il biancore attraente della nuca, dove i capelli neri segnavano una linea sinuosa e fitta. Quando si rivolgeva verso don Silvio o verso Sangiorgio, nel volto soave era scomparsa, dalle palpebre, l’ombra violetta delle lagrime versate o delle lagrime soffocate: una pacatezza amabile vi regnava. Poi, a un certo punto, ella aveva di nuovo interrogata la faccia legnosa di suo marito: l’occhio vivido dietro la unica lente le aveva detto di rimanere. E poichè ella aveva finita la visita quotidiana alle sue piante, da un vasello aveva preso il fascio delle rose, era andata a sedersi in una poltroncina presso un balcone e odorava i fiori, mentre un po’ di sangue le saliva alle guance pallide. In verità, sulle sedie, sui tavolinetti, sulle mensole era un grande trascinar di giornali, aperti, buttati via, non aperti ancora, con quell’acuto odor d’inchiostro di stamperia: sul tappeto le fascette, sparse, multicolori, a brani, strappate con violenza e con noncuranza. Ma donn’Angelica non li prendeva, i giornali, non li toccava, non li guardava neppure: il suo piede aveva scartate due o tre fascette, come per istinto di pulizia intorno a sè. Odorava i fiori.

Francesco Sangiorgio era venuto in quella casa, in Piazza dell’Apollinare, chiamato da don Silvio Vargas: il ministro dell’interno si era fermato con lui, sulla soglia del Pantheon, gli aveva passato il braccio sotto il braccio ed aveva parlato con lui, sottovoce, per qualche minuto. Poi, aveva insistito perchè andasse da lui, non al ministero, non a quel dannato palazzo di Braschi che sembra un mercato, che è ancora Piazza Navona, nella notte della Befana: venisse a casa sua, all’Apollinare, dopo colezione, doveva parlargli, che diamine, non si lasciava veder mai.

«Domani, allora?» chiedeva Sangiorgio, esitando. «Ma che domani, oggi stesso;» aveva bisogno di parlargli. E passando dal braccio di Sangiorgio a quello di sua moglie, se ne era andato. Sangiorgio era capitato, all’una, all’Apollinare; temendo fosse ancora troppo presto, fu preso da una esitazione innanzi al campanello. Ma dentro, si era inteso subito bene, tranquillo, innanzi alla cordialità di don Silvio; soltanto, mentre il ministro parlava, giudicando uomini e cose, egli ascoltava, sì, ma seguiva tutti i movimenti molli ed eleganti di donna Angelica.

«Fumate, fumate,» gli aveva detto don Silvio, offrendogli dei sigari e continuando a masticare il suo toscano.

Egli aveva guardato dalla parte della signora:

«Mia moglie è abituata, non le fa nulla,» aveva soggiunto brevemente il ministro.

Pure, Sangiorgio non aveva fumato, malgrado il bel sorriso di donn’Angelica. Seduto presso un tavolino, più che parlare, ascoltava: poichè a don Silvio piaceva di essere ascoltato. Il ministro che adorava la politica, ardentemente, come un appassionato ventenne, era quel giorno in collera con lei: e negli stessi rimproveri che le dirigeva, nel disprezzo che mostrava di averne, nella nervosità, ora sarcastica, ora collerica, con cui ne parlava, si sentiva la passione, la vecchia passione, tutta fiammeggiante ancora, che gli abbruciava le vene di antico parlamentare. A Sangiorgio, in don Silvio, come in un sogno, gli pareva di udire una parte dei propri pensieri, uno sfogo del suo spirito vaneggiarne, i cui deliri mai a nessuno aveva confidati.

Riconosceva quella febbre interiore che lo travagliava da anni, senza sfogo, mentre in don Silvio quel morbo spirituale trovava il suo sviluppo nell’idea e nella parola: era troppo vecchio e troppo appassionato, il ministro dell’interno, per celare più il suo sentimento: non era più tempo d’infingersi. Questo fuoco intimo aveva dovuto conservare ancora vivo lo spirito di don Silvio: Sangiorgio si spiegava ora la ragione di tanto lunga e ostinata vigoria.

Ogni tanto, don Silvio, guardando Sangiorgio, smetteva quel ghigno che rendeva più profonde le rughe degli angoli labiali e sorrideva come intenerito. Oh, egli non dimenticava, no, che il suo predecessore era caduto dietro un discorso e dietro una mozione di Sangiorgio: nè si scordava del reciso rifiuto di Sangiorgio a voler entrare nel rimpasto. Non gli aveva mai potuto dire la sua riconoscenza, ma da quando la Camera si era riaperta, egli lo guardava affettuosamente, lo chiamava a sè, lo consultava, con un’aria fra la deferenza e la cordialità.

«In fondo, il potere vi secca», disse, in una pausa di silenzio, Sangiorgio.

«No,» rispose francamente Vargas, «non mi secca, mi piace, era quello che desideravo. Ma la opposizione mi fa nausea: talvolta sciocca, talvolta ipocrita, talvolta bestiale, sempre in mala fede. Dov’è quella bella opposizione leale, audace, crudele, implacabile? Invece dell’accusa aperta, il pettegolezzo da serve al pozzo; invece della battaglia, l’agguato; invece dell’attacco, il tranello.»

«L’uomo è una meschina cosa,» disse Sangiorgio.

«Non dev’essere: o non deve parer tale, quando è. Perdio! sono stato anch’io all’opposizione. Te ne rammenti, Angelica, quando ero all’opposizione?»

«Me ne rammento,» rispose costei con una dolcissima voce minore, alzando il capo.

«Ero un diavolo: non avevo e non davo pace ai miei avversari. Senza tregua! Ora, impoltronisco. Io non posso fare guerra: debbo aspettarla, e questa sequela di avventure brigantesche m’inacidisce il sangue. Come attaccaste il ministro, quel giorno, Sangiorgio: ed eravate ministeriale! Ci eri tu, Angelica, quel giorno?»

«Sì, vi ero.»

«È a voi che dobbiamo di esser ministri, qui all’interno, Sangiorgio,» fece Vargas preso dalla tenerezza.

«Ma no,» mormorò Sangiorgio, sorridendo.

«Sì, sì, il presidente non avrebbe mai avuto il coraggio di disfarsi apertamente del suo collega. Mi meraviglia persino che ne abbia parlato a voi: nessuno lo sapeva, neppure io.»

«Il presidente non mi aveva detto nulla,» rispose lentamente Sangiorgio.

«Come? Non sapevate nulla?»

«Nulla.»

«Non eravate di accordo?»

«No.»

«Perdio!» esclamò Vargas, «siete fortissimo!»

E squadrò Sangiorgio con ammirazione. Costui rideva, macchinalmente: ma vedeva bene che il viso di donn’Angelica perdeva la serenità, — una stanchezza l’invadeva.

«Venite alla Camera, meco, Sangiorgio: sono le due,» e si alzò per andare di là.

«Rientri presto?» domandò donn’Angelica, scotendo quell’espressione di lassezza.

«No. Ho la Camera, prima: poi il Senato; dopo debbo andare al Ministero per concordare un movimento di prefetti.»

«Verrai alle sette?»

«Alle otto o alle nove, non so.»

«Debbo venirti a prendere alla Camera?»

«No. Va’ pure a passeggiare, a villa Borghese, fuori Porta Pia, dove vuoi: è inutile venire al Parlamento. Io pranzerò, quando avrò finito. Questo affare dei prefetti è molto serio, Sangiorgio: vi dirò, strada facendo. Qualunque lettera o plico o dispaccio arrivi, mi vengano a cercare dove sono, alla Camera, al Senato, al Ministero: subito. Aspetto notizie importanti: ora vengo, Sangiorgio.»

E gli ordini partivano brevi, concisi, alla moglie, al segretario che era comparso sulla soglia, erano dati con un tono militare di comando: don Silvio stava ritto e robustamente piantato, come un giovanotto; la sua febbre era la sua salute, il suo morbo era la sua salvazione.

Andò di là, nello studio, portandosi il segretario, parlandogli a voce bassa, ma seccamente. Rimasero soli, Francesco e donn’Angelica: egli ritto, ella col capo chino come nel Pantheon, nel minuto della preghiera, giocando con le dita attorno al cordone serico della sua vestaglia. E non parlavano e il minuto presente aveva vibrazioni prolungate come di suono musicale, come di palpito.

A un tratto, ella lo guardò coi bellissimi occhi rattristati, congiunse le mani e gli disse:

«Ma perchè avete voi voluto che noi fossimo ministro dell’interno?» e la voce tremava di emozione contenuta.

Don Silvio rientrava, con soprabito e cappello, stringendo fra le labbra il mozzicone spento e nero del suo sigaro toscano: il segretario lo seguiva con una cartella imbottita di fogli.

«Vuoi una rosa?» disse improvvisamente donn’Angelica a suo marito, facendo per mettergliela all’occhiello.

«Ma che ti pare?» esclamò lui, staccando con una certa durezza la mano bianca, «vuoi farmi burlare dall’opposizione? Un ministro con la rosa: mi farebbero subito la caricatura nei giornali.»

Donn’Angelica si ritrasse: guardò fuggevolmente Sangiorgio, ma non gli offrì la rosa.


Un cielo basso di nuvole bianche, grige, plumbee, scuricce, che si facevano nere all’orizzonte, sopra i colli tuscolani, sul Soratte che pareva anche esso un grosso nuvolone sceso sulla terra: una campagna brulla, bigia, qua e là ondulata, come se dovesse sbuzzar fuori; due siepi nere, due siepi ispide e scarnate, senza un’ombra di verde, senza un fiore: qualche osteria di cocina, dai rozzi dipinti sulla parete umidiccia — tre bocce nere che formavano triangolo, un pulcinella che beve una foglietta — ma le porte e le finestre sbarrate, un cancelletto di legno che cadeva in frantumi: il grande fabbricato bigio dove la vedova Mangani dà da mangiare ai romani buontemponi dell’estate e dell’autunno la trippa in brodetto e l’abbacchio alla cacciatora, sopra un terrazzo, sotto un pergolato, in un cortile, dovunque si può mettere una tavola o un litro di vino bianco; quel rudere strano, perduto in un campo, che sembra una colossale poltrona dalla spalliera sbocconcellata e che infatti si chiama la sedia del diavolo; un carrettiere buttato giù, bocconi, sonnecchiante sopra un carro di pozzolana che rientrava verso Roma; ogni tanto, qualche grossa goccia di pioggia che cadeva sul terreno.

Prima di Sant’Agnese qualche carrozza di cardinale che tornava lentamente dalle catacombe, qualche prete pedone sui due marciapiedi; subito dopo Sant’Agnese due carabinieri a cavallo, avvolti dei mantelli neri, immobili; un soffio molle e sciroccale che radeva la terra; un odore acuto, quell’odore particolare della campagna romana, che va al cervello e dal cervello va nel sangue, come miasma sottile: un cane sperduto, tutto infangato, che andava annusando per le siepi e guardava il viandante, con certi tristi occhi di animale infelice: ecco le cose, le persone, gli animali, le parvenze che vide Francesco Sangiorgio, in quel cader del giorno invernale, sulla Via Nomentana. E in tutte le cose, gli animali, le case, le chiese, la grande malinconia della pioggia imminente, la immensa malinconia del tramonto romano, in campagna.

«Ecco il Ponte Nomentano,» gli disse il cocchiere, indicandoglielo con la bacchetta.

«Ferma; voglio scendere. E aspettami qua,» rispose Sangiorgio.

E a piedi fece la piccola erta che conduceva al ponte, lo strano ponte murato, dall’arco largo e molle che si piegava sull’acqua gorgogliante dell’Aniene, con le due larghe finestre che affacciano a monte e a valle del fiume. Sangiorgio si fermò sul ponte, si appoggiò allo sporto e guardò lontano, donde il fiume veniva. E veniva, stretto, ma profondo e sinuoso, con una rapidità di corrente singolare, aumentato dalle pioggie invernali: veniva, tutto bianco, con un colore di argento smorto, ma freddissimo; senza lucentezza, ma glaciale. Una quantità di piccoli gorghi vi si formavano, cerchiolini con un buco intorno a cui l’acqua si arrotondava, a piccole onde circolari.

Sulla riva un po’ di terriccio più chiaro, non una pianta, non sabbia, non pozzolana e attorno il grande deserto della campagna romana.

Non pioveva ancora: ma le nebbie del fiume e lo scirocco morbido avevano dato una tinta di bagnato alla vecchia costruzione nomentana: e toccando la parete del finestrone donde si affacciava, Sangiorgio sentì un’umidità gocciolante; i gomiti stessi del suo soprabito erano già bagnati e sporchi.

Aguzzò gli occhi su tutta la campagna, ma non si vedeva nè il gramo profilo di un albero, nè il meschino profilo di un uomo: attraverso di essa, il fiume che a Tivoli è così bello, così allegro, così sonante, metteva la larga nota mestissima delle acque correnti.

Allora egli si affacciò dal finestrone a sinistra, sul fiume, guardando l’acqua che correva a valle, rapidamente, per ricongiungersi al Tevere. Qui, si vedeva la Via Nomentana prolungarsi fra la pianura, fare un gomito e scomparire: in mezzo a un campo, una casetta, un tugurio di due stanze, senza soffitto, diruto dalle mura simili a denti spezzati; al gomito della strada, una casetta bianca e pulita, piccolina, l’Osteria dei cacciatori, e di lì un larghissimo prato discendente al fiume.

Qui a valle, di mezzo l’acqua sorgevano dei boschetti di salici, rami nerastri e scarni; una chiatta tenuta per mezzo di una fune a un piuolo di legno conflitto, sulla riva: contro la chiatta, contro i salici, contro la fune, l’acqua si rompeva, gorgogliando.

Nell’ora oscura che discendeva, parea che discendesse anche il cielo. Guardando, con l’ardore concentrato di chi cerca, Sangiorgio vide una carrozza chiusa, ferma presso l’Osteria dei cacciatori, ma era rivolta in modo che non si vedevano nè i cavalli, nè il cocchiere. E poi, di lontano lontano, sulla riva destra del fiume, vide lentissimamente un punto bruno ingrandirsi ingrandirsi, e riconobbe la dolcissima donna che aveva visto piangere nella chiesa.

Solitaria, vestita di nero, ella camminava lungo il fiume, arrestandosi ogni tanto a veder fuggire la corrente, contro cui andava: camminava piano, molto rasente l’acqua, affondando nel terreno bagnato, movendo i passi con lentezza.

Come fu più vicina, egli potè scorgere, sul bruno del vestito, il fascio di rose bianche che ella aveva in casa, nel salotto tutto pieno di piante verdi: con le mani ella lo teneva stretto alla cintura. Due o tre volte, ella si rivolse verso l’orizzonte, mirando la tristezza del cielo che pareva volesse soffocare la terra, cercando invano i lieti colli di Tuscolo che il temporale già aveva nascosti; poi riprese la sua passeggiata solinga, con tale lentezza di movenze che sembrava appena appena radesse la terra.

Giammai ella alzò gli occhi sulle mura del ponte, dal cui largo finestrone, colui che aveva pianto per lei, la contemplava. Certo, ella si credeva profondata nella solitudine, in quella vasta campagna nuda, in quella minaccia crescente di bufera, in quell’ora ultima della giornata, in quel paesaggio triste da cui rifugge la gente volgare: si credeva sola, come nel tempio, pregando Dio, parlando a Dio.

A cinquanta passi dal ponte, presso il piuolo mezzo marcito dove la fune della chiatta era attaccata, donn’Angelica si fermò. Pareva che una stanchezza l’avesse presa, a un tratto, malgrado la lentezza della passeggiata: o forse aveva agito su lei il grande fascino delle acque correnti che si prendono lo spirito di coloro che le contemplano e ne assorbono la volontà. Difatti, appoggiata al piuolo, come confitta sulla riva, a un passo dall’acqua che correva, inclinando i rami neri dei salici, donn’Angelica si smarriva nella contemplazione del fiume.

Un larghissimo coperchio nero di nuvole, una cappa che affrettava il sopraggiungere della sera, chiudeva oramai tutto l’orizzonte, intorno: e pareva che la luce a poco a poco morisse, schiacciata fra il cielo e la terra. Sangiorgio non vedeva più nulla, salvo quella figura di donna, immobile come una statua, sulla riva del fiume. Pure, uno strepito sordo venne dalla Via Nomentana, un rumore di ruote, di cavalli trottanti: e in tanto bigio qualche cosa di rosso, di acceso balenò. Sotto il mantice abbassato di una daumont, qualche cosa di bianco, un viso fulgido, il viso regale, passò: passò l’equipaggio reale sul ponte, al trotto, mentre la regale donna salutava al saluto di Sangiorgio; e tutta la visione, brevissima, accesa, fulgida, scomparve verso Roma. Sangiorgio si rivolse di nuovo al fiume.

Nulla sapeva la donna: perduta nelle sue visioni, il rumore, il passaggio purpureo dell’equipaggio regale, quella specie di cometa bionda e luminosa che aveva per un istante animato quello scurore di tramonto nuvoloso, le era sfuggita. Pareva non sapesse più distaccarsi dalla vista del severo Aniene dalle acque gelate. Egli la vide inchinarsi due o tre volte, quasi volesse contemplarsi nell’acqua o vedere il fondo del fiume. Poi le mani di lei sfogliarono una rosa e ne gittarono i petali bianchi nell’acqua fuggente che li portò via: e una dopo l’altra, tutte le rose furono sfogliate e, a manate, i petali lasciati andare alla corrente. Non ella strappava rabbiosamente quelle foglioline bianche dallo stelo, ma le distaccava con un moto di abbandono, come se realmente tutto partisse, tutto morisse nel suo spirito, insieme a quei petali che partivano, che morivano. Vi era nelle mani che lasciavano andare via quelle vite di fiori, la desolazione di altre vite morte. E l’ultima foglia, invero, le svanì fra le dita. Non egli vedeva tutto questo, per la distanza, ma lo indovinava: e come l’ultima foglia se ne andò, perduta, travolta, sentì uno struggimento come di morte. La donna, dato un ultimo sguardo all’Aniene, risalì senza voltarsi; pel prato della strada, rientrò in carrozza. Sul ponte, la carrozza passò con una velocità grandissima: donn’Angelica non vide Sangiorgio, ma egli vide bene che la pallida donna stringeva ancora alla cintura gli steli nudi delle rose morte.

II.

Dal suo banco del centro, dove fingeva di scrivere delle lettere, ma dove in verità tracciava macchinalmente il suo nome, venti, trenta volte sopra un foglietto di carta, egli vedeva perfettamente donn’Angelica Vargas sola sola nella tribuna diplomatica, appoggiantesi con un braccio sul parapetto di velluto. Ne aveva sentita la presenza, subito, a un sussulto dei nervi; aveva osato voltarsi due o tre volte e anche salutarla; — ella aveva risposto con un sorriso profondo, ma aveva immediatamente guardato altrove. Ora egli non provava altro desiderio che salire lassù, sederlesi accanto: ma pensava che non era forse conveniente farsi notare da tanti colleghi, darsi in spettacolo. Pure, il desiderio era così forte che si levò dal suo posto, attraversò l’aula e uscì nel corridoio, gironzando, distratto, rispondendo qualche monosillabo a chi gli parlava della riforma della legge universitaria. Rientrò, non avendo avuto il coraggio di salire su: e vergognoso della propria vigliaccheria. Presso il banco dei ministri, don Silvio Vargas lo chiamò:

«Sentite, Sangiorgio...»

E gli disse qualche cosa sopra la legge comunale e provinciale, di cui si parlava di nuovo, per la terza volta.

La simpatia di don Silvio per Sangiorgio era cresciuta rapidamente, in poco tempo: ogni volta che aveva un dubbio politico o amministrativo, lo chiamava, se lo portava a casa, lo consultava, lo conduceva al ministero, aveva con lui delle lunghissime conversazioni. Ora, di nuovo, aveva qualche cosa da sottomettergli. Sangiorgio gli dette il suo avviso; poi:

«La signora è lassù...» soggiunse.

«Ah sì?» fece don Silvio, senza voltarsi, con una perfetta indifferenza. «Credete vi sarà viva discussione sugli articoli?»

«Specialmente sull’articolo quarto: la estrema sinistra ci tiene molto.»

«Parlerete voi, Sangiorgio?»

«Non so bene.»

«Dovreste parlare.... Sentite, venite domani a pranzo con me, vi spiegherò certe mie idee...»

«Verrò,» disse Sangiorgio, dopo aver esitato un momento.

E si allontanava; ma sottovoce il ministro lo richiamò.

«Giacchè ci siete a sacrificarvi per me, andate un po’ lassù a far compagnia a mia moglie. Quella si annoia a morte: io non ho tempo neppur di salutarla.»

«Si annoia?»

«Essa odia la politica: la femmina è egoista, caro Sangiorgio,» rispose filosoficamente don Silvio, conficcandosi la lente sotto l’arco sopracciliare.

Sangiorgio raccolse le sue carte con una fretta che non giungeva a dissimulare, le ficcò nel cassetto e attraversò l’aula, i corridoi, salì le scale, frenandosi per non correre. Donn’Angelica non si voltò neppure, udendo schiudere la porta della tribuna.

«Si annoia molto, signora?» le chiese lui, alle spalle, a voce bassa.

«Non più del solito, onorevole,» disse lei, voltandosi un poco e dandogli la mano, senza manifestare nessuna sorpresa.

Egli sedette alle sue spalle: ella, sebbene fosse rimasta rivolta a lui, gli parlava senza guardarlo, tenendo gli occhi sull’aula.

«E ci viene spesso, mi pare?»

«Spesso: anche la noia diventa un’abitudine. E poi... Silvio è ministro, molti credono che io sia una donna influente, a casa è un viavai di persone che vogliono qualche cosa.»

«Si proibisce l’entrata.»

«Sì, quando si è una semplice signora, non quando si è moglie di un uomo politico, di un ministro. Don Silvio ha sempre paura che io gli faccia perdere la popolarità.»

E la voce le si velò d’amarezza.

«Ella dovrà dunque subire dei contatti volgari?» chiese lui, con una dolcezza di pietà, per cui ella si tramutò di colore.

«Sì. Io sono piena d’indulgenza, mi par naturale essere indulgente: ma la volgarità mi offende e mi addolora.»

«Bisogna mettere in alto il cuore.»

«Il cuore? Il cuore non ci entra, in questo. È la fibra morale che soffre, sono i nervi. Così, preferisco venir qua: fra due mali, il minore.»

«Tanto Ella odia la politica?» arrischiò lui.

«Non la odio, non posso amarla.»

«Eppure è una forte e nobile idea,» azzardò egli ancora.

«Lo dicono: ma io non la intendo. Capisco altre idee nobili, buone, forti, generose, feconde di bene: non questa. Io sono troppo ignorante,» soggiunse, poi, umilmente.

«No, no,» si affrettò a dire lui, «Ella ha forse ragione.»

«Non posso amarla, questa idea. E poi, per noi donne certe idee, anzi le idee astratte, non rappresentano nulla. Noi abbiamo bisogno di una realtà che le concreti: la religione nella chiesa, nella figura della Madonna, del Cristo: la patria, nel dolce paese, nel mare, nella collina, fra la gente che amiamo: — la politica, idea, chi la rappresenta?»

«Gli uomini politici,» mormorò lui, dopo aver esitato.

«Ah sì!» fece lei, come pocanzi aveva esclamato suo marito, con una indifferenza disdegnosa.

«Anche quelli li odia?»

«Li compatisco.»

Egli non ebbe un impeto di ribellione, ma una impressione dolorosa gli si rivelò sulla faccia.

«Li vengo a guardare, ogni tanto: li guardi anche lei, onorevole. Che facce scarne, consumate, gialle di bile, verdi d’invidia! Che facce grasse e flosce, pallide e malaticce! Che stanchezze precoci in certi corpi, che movimenti nevrotici in certi altri! Sembrano tutti ammalati di una medesima infermità, un morbo fatale che li corrode o li gonfia. Così, forse, debbono essere i giocatori, nelle bische.»

«Almeno, è una grande passione,» soggiunse lui, timidamente.

«Grande? Forse. Lo dicono: non lo credo. Quando essa è entrata in uno spirito, lo restringe in un meschino orgoglio, in un’ambizione piccolina. Ecco trecento persone, quaggiù, che hanno ingegno e che hanno studiato, che hanno coraggio fisico e coraggio morale, che hanno coscienza onesta e carattere d’uomo. Ebbene, questi trecento ingegni, queste trecento audacie, queste trecento volontà, queste coscienze e queste intelligenze, che cosa vogliono tutte, senza eccezione, a qualunque costo?»

«Esser ministri.»

«Ministri: a qualunque costo. E in questa voglia implacabile, ditelo voi, non si sgretola forse miseramente l’ingegno? Questo ingegno che farebbe miracoli di bellezza e di utilità, applicato all’arte e alla scienza, non si sfinisce, senza risultato?»

«È vero,» disse lui.

«Inventare una macchina che renda gli uomini più felici, moralmente o fisicamente, non è forse meglio che far cadere un ministero? Non è meglio fare una statua, dipingere un quadro, scrivere un libro?»

«È vero,» rispose lui.

«E il coraggio, crede Ella che conservi lo stesso impeto d’azione, lo stesso slancio di audacia, qui, dove tutto si riassume in un discorso, dove ogni nobile iniziativa si spreca in venticinque sedute pomeridiane e in quattordici discussioni negli uffici? Tante parole, tante parole!»

«Noi abbiamo combattuto, quando si doveva.»

«Sì,» disse lei, pensierosa a un tratto, «quelli eran tempi! Noi donne, vede, comprendiamo l’eroismo dei campi di battaglia e quello delle cospirazioni, — questo parlamentare ci sfugge.»

Tacquero un momento. Una fiammolina ardeva le guance di donn’Angelica: e le calde parole sue ondeggiavano nell’anima di Sangiorgio, vi s’imprimevano come sulla cera molle.

«Resta poi la coscienza,» riprese lei, che voleva dire tutto. «Ahimè, come restar saldi fra tanti istinti personali che scoppiano, fra tante necessarie transazioni, fra tanti equivoci? Come restar immobili, inflessibili, quando la maggior virtù per riuscire è proprio la elasticità?»

«È vero, è vero,» ripeteva lui.

«Una grande passione, la politica: lo so bene,» continuò ella, chinando gli occhi sull’aula, battendo con le dita sul velluto del parapetto, «lo sappiamo tutte noi altre, mogli di uomini politici. In questi cuori di uomini, questa passione scaccia tutte le altre. Se stiamo in provincia, l’uomo ci abbandona per nove mesi dell’anno, senza badare alla gioventù, alla bellezza, alla solitudine della moglie. Se veniamo in Roma, peggio: la casa diventa un piccolo Parlamento, dove si congiura, se non siamo al potere: dove si preparano i mezzi di difesa, se siamo ministri. Non più amici: alleati, clienti, servi, invidiosi, interessati, niente altro. Non si chiede loro l’affetto: si chiede il voto. Ha detto ? è un amico. Ha detto no? è un traditore. In casa sparisce la intimità: la invade un fiume di gente estranea che la deturpa, che la rende simile a un porticato, a un cortile, a una via pubblica, a una piazza. La cordialità sparisce: il marito è inquieto, è annoiato, cercate di saperne la cagione, — non ve la dice, crede che non possiate capirla, gli uomini politici disprezzano il consiglio delle donne. A tavola? Il marito legge i giornali o risponde ai telegrammi. Al ballo? È difficile che vi possa accompagnare, eppure bisogna andarci, per rappresentare il governo, parlare coi deputati influenti, far la riverenza alle mogli dei capi-parte, dare la mano a creature insignificanti che non esisterebbero, se la grande passione politica non esistesse. La solitudine malinconica in provincia, come una povera creatura abbandonata: o la folla affogante in città, senza un soffio di poesia, senza un sorriso d’ideale. Grande passione, certo: ma così furiosa e invadente e sequestrante che fa spavento o fa nausea.»

Di nuovo, silenzio grande. Nell’aula, don Silvio Vargas parlava, con la sua voce stridula, con le mani in tasca, piegando un poco l’alta persona scarna, guardando dietro la sua lente lucida colui che lo aveva interrogato, quasi burlandosi di lui, con quella forza d’ironia che irritava l’avversario.

«Una grande passione, una grande passione...» mormorava donn’Angelica, «la donna ne capisce una sola...»

«E quale?»

«L’amore.»

«È vero,» rispose Sangiorgio.


«Si pranza soli, oggi,» aveva detto don Silvio a Sangiorgio, sedendosi a tavola, «donn’Angelica è dietro a vestirsi pel ballo del Quirinale.»

Alla piccola tavola dei pranzi familiari sedeva anche il segretario: un quarto posto, quello della padrona di casa, restava vuoto. In mezzo alla tavola, in un vasello di cristallo dal collo sottile, stava in fresco un ramo di gigli rossi: e gli occhi di Sangiorgio andavano continuamente da quel posto vuoto e a quel grande fiore rosso. I due deputati, il ministro e l’importante uomo politico discorrevano vivacemente di politica, mangiando senza badarci, don Silvio tagliuzzando nervosamente la carne, mentre si infiammava sulla legge comunale e provinciale, Sangiorgio ascoltandolo, rispondendogli, facendogli obbiezioni, dimenticando di pranzare: ma il suo pensiero si staccava da quella piccola stanza, tutta in legno biondo, resa tiepida dalla fiamma allegra del caminetto, per andare dietro quella porta chiusa, per indovinare dove fosse donn’Angelica.

Solo il segretario, dunque, pensava a pranzare e ci si dedicava con tutto lo stomaco: ma serbava un contegno serio; ogni tanto, a una frase de! ministro, approvava col capo, con un’aria di ammirazione contenuta; a ogni osservazione di Sangiorgio, inarcava le ciglia, come se si preoccupasse anche lui della difficoltà.

Così il pranzo continuava, fra l’andirivieni dei due servi che ora portavano un telegramma, ora una lettera, ora un giornale, ora una pietanza: don Silvio stracciava subito la busta del dispaccio, apriva e leggeva la lettera, rompeva la fascetta del giornale, ne scorreva con l’occhio le colonne, non assaggiava la pietanza, la guardava con l’occhio distratto dello spirito assente.

Accanto a lui un calamaio, una penna, della carta da telegrammi, dei foglietti da lettere: e subito rispondeva dopo aver respinto il piatto dinanzi a sè, passava il giornale al segretario, dopo averci fatto un segno col lapis rosso in qualche posto: il segretario leggeva il passaggio segnato, con l’aria imperturbabile di un vecchio diplomatico. E Sangiorgio invano tendeva l’orecchio per cogliere qualche rumore femminile, invano stava attento al minimo incidente: non una cameriera passava, non un campanello risonava, niente di femminile trapelava la ricerca di un fiore, il passaggio di un candelabro, l’affaccendamento dei servi, nulla, proprio nulla.

Donn’Angelica aveva radunato nel silenzio delle sue stanze tutta la poesia nervosa e febbrile di una donna che si veste pel ballo: e il gran mistero della bellezza che si adorna, fatto di acque lustrali e di profumi, di capelli disciolti e di fiori sparsi, di veli volanti e di gioielli luccicanti, di stoffe spiegate e di molli pellicce, il gran mistero d’Iside della donna moderna, si compiva come in un tabernacolo.

Un desiderio sempre più cocente di sapere, di udire, assaliva Sangiorgio in quel tepore della stanza da pranzo, fra tanti discorsi di politica, tanto odore di inchiostro: un desiderio che nasceva da quel posto bianco e vuoto dove il seggiolone di legno era accostato, come se allora allora ne fosse partita colei che l’occupava: che nasceva da quel ramo di gigli rossi, i focosi gigli di san Luigi, che pare uniscano alla purezza il calore della passione. Almeno fosse venuta fuori un momento, a salutare suo marito, a salutare il suo ospite: si fosse fatta vedere, fiorente di gioventù e di bellezza! A ogni schiuder di porta, come l’ora si avanzava, Sangiorgio trasaliva, chiudendo gli occhi, credendo di vederla comparire nello splendore della venustà e della acconciatura. Ma di nuovo capitava un dispaccio, un plico, una lettera: a un certo momento, don Silvio cavò di tasca la cifra per interpretare un telegramma politico. Dov’era dunque donn’Angelica? In quali onde di profumo si annegava la sua persona?

Passava l’ora e niente nella casa si moveva, che fosse appartenuto alla lietezza di un ballo: essa serbava il suo aspetto confuso, il suo batter di porte, il suo discorrere ora concitato, ora sommesso, il suo andirivieni di carte scritte e stampate, il suo aspetto di piazza, di Borsa, di casa politica dove viene ad approdare ogni intrigo, ogni falsità, ogni imbroglio. Forse, di là, nel santuario, la bellezza giovanile di donn’Angelica si manifestava nella piccola febbre femminile che precede il ballo, mettendo nella sua camera il disordine inebbriante delle biancherie sparse, delle calze di seta che sgorgano dai cassetti aperti, delle boccette sturate, dei busti che trascinano sul tappeto: ma questa confusione muliebre, questo scombussolamento inebbriante che innamora un marito o un amante più profondamente che mai, si ignorava.

Francesco Sangiorgio sentiva, sì, attraverso le tre o quattro porte che lo dividevano dalla donna che amava, sentiva questo fascino novello, tutto umano, che lo dominava in modo diverso, che s’indirizzava all’uomo; sentiva il contrasto fra la secchezza, l’aridità di quella esistenza tumultuosa di don Silvio, e la morbidezza poetica di quella acconciatura di donna, laggiù, nel grande turbamento tenero e sensuale che dànno tutte le cose che hanno toccato il corpo femminile.

Finalmente, alle dieci, si udì aprire e chiudere qualche porta, qualche voce parlò sommessa: e Sangiorgio, preso alla gola dalla soffocazione di un desiderio, chiuse gli occhi per salvarsi dallo spettacolo abbagliante della bellezza di donn’Angelica. Ma niuno comparve, un rotolìo sordo si udì nel cortile e sulla Piazza dell’Apollinare.

«Donn’Angelica è partita pel Quirinale,» disse quietamente don Silvio, aprendo la Riforma che gli avevano portato allora. «Non andate anche voi, Sangiorgio?»

«Più tardi,» rispose fievolmente Sangiorgio che era diventato pallidissimo.


Nella bianchissima luce elettrica che illuminava lo scalone d’onore, le donne ascendevano lentissimamente, posando appena il piede calzato di raso sul tappeto: e con lo strascico abbandonato, il ricco mantello di lana bianca molle e caldo sulle spalle nude, la testa ingemmata o piumata o infiorata, davano, salendo, certe occhiate lente e distratte alle due grandi siepi di piante verdi, alle muse dalle foglie larghe venate di rosso, alle palme che parevan cupissime sullo stucco bianco delle pareti.

Le donne guardavano, inerti, come se non vedessero nulla, per conservare la serenità — e salivano piano, per non scalmanarsi, perchè sul viso non fosse turbato il pallore eguale o il fiorente roseo. Dopo tanta nervosità febbrile, la calma egoistica della donna che vuol restar bella era scesa in loro: e bastava vedere la tranquillità con cui nel grandissimo salone degli arazzi, trasformato in guardaroba, un po’ freddo, esse discioglievano i nastri, snodavano i cappi dei mantelli, lasciandoseli togliere delicatamente dalle spalle, conservando la loro apparenza di bellissime statue insensibili e semoventi; bastava vedere il gesto flemmatico, con cui distendevano su per le braccia la pelle cedevole dei guanti di Svezia, mentre il marito, o il fratello, o il padre, aspettava, impaziente, col braccio pronto, per accompagnare la bella indifferente e serena che si rialzava pacificamente le spalline del corpetto un po’ spostate.

E anche l’attraversare i due saloni e il corridoio delle statue era una passeggiata molle e silenziosa: ma già nel fiato caldo che i caloriferi mettevano dappertutto e in quell’approssimamento quieto e pieno di dolcezza, le donne schiudevano le labbra al sorriso florido dei balli, il sorriso che si diffonde per tutta la faccia, per tutta la persona. E alla porta del grande salone da ballo, il cerimoniere, che offriva loro il taccuino da ballo, un mazzetto di fiori e il braccio per introdurle nel salone, aveva la primizie incantevole di quel sorriso: il padre, il marito, il fratello erano abbandonati senza un saluto, senza una parola.

Scintillìo profondo di gemme. Su tre file di panchette rosse, trecento donne erano sedute, ingemmate nei capelli, alle orecchie, al collo nudo e sul seno, sulle braccia. Da certe testine, più modeste, partiva un raggio sottile, vivissimo, a ogni movenza: ma alla ondulazione di certe spalle altiere che s’inchinavano, al moto di un braccio che agitava un ventaglio piumato, era tutto un vivido fluire di scintille, un balenìo chiarissimo e fulgido. Strette le donne l’una all’altra, l’un vestito femminile assorbiva e confondeva quello dell’altra, per essere a sua volta assorbito e confuso: e nulla si discerneva di colori e di stoffe, si vedeva solo un po’ di corpetto, un lembo breve di spallina che talvolta un fiore o un nastro o un gioiello copriva. E quello che vinceva tutto, sul molle soffio del velo, sulla lucentezza del raso, sulla delicatezza del merletto, sulla pesantezza nera dei capelli, sulla leggerezza delle chiome bionde, sulla pelle quasi viva dei guanti, sulla carnagione del collo, delle spalle, del braccio, era il gioiello, più di tutti lucido, vivido, colorito, iridescente, era il gioiello trionfante.


E su quella triplice profondità scintillante, quella che sgorgava, che si allargava, che dominava tutto, era la plasticità varia, infinita, delle braccia e delle spalle denudate. Qui il biancore anemico e freddo che più si assomiglia alla glacialità del marmo e che gela lo sguardo che vi si ferma; e qui il perlaceo, la carnagione dalla trasparenza levigata che nessun’ombra verrà mai a colorire; subito dopo la carnagione bianca e forte, sotto cui scorre, come un flutto, il sangue ricco, una stoffa rossa dietro un tessuto leggiero bianco; altrove il carnicino mite e eguale, temperamento medio, temperatura media che nulla vale a rialzare mai; altrove il bianco opaco che il calore o l’emozione marmorizza qua e là, a placche di roseo; altrove ancora la carnagione nè bruna nè bianca, ma scura, come se il sangue fluttuante portasse seco un letto di sabbia nera; altrove ancora, il carnicino vivo, bello, attraente, simile alla densità grassa di un petalo di magnolia, simile alla polpa nutrita di un frutto maturo.

Questa plasticità germogliava dai corpetti, come se si sprigionasse delicatamente da un legame; fioriva dalla strettezza delle spalline, dall’arricciatura del velo, come dal calice; aveva qualche cosa di rigoglioso, di spontaneo, come le bellissime generazioni del mondo vegetale. Questa plasticità ripetuta su tutti i toni, trecento volte, finiva per acquistare un generale carattere di bellezza, d’insieme, come è la bellezza di una grande foresta: l’individuo vi scompariva, la personalità era assorbita.

Nulla più che parlasse febbrilmente all’occhio, nulla più che turbasse la fantasia, più nulla che inducesse alla particolar seduzione: ma invece la grande nota della bellezza femminile, presa in complesso, che i sensi non sentono, ma che lo spirito sente; il coro unico dove tutte queile voci bianche, rosee, rosse, diventavano una sola voce.

Invano, invano, sotto l’orchestra, dietro le panchette, nei vani delle porte, la siepe nera e bianca degli uomini, fittissima, cercava discernere un viso, una fisonomia, una persona, la persona, quella donna. Essi, gli uomini, non percepivano più che un grande splendore di gioielli, dove ogni altra cosa moriva: non percepivano più che una donna sola, la donna, dalle braccia nude, dalle spalle nude, dove trecento donne scollate erano assorbite.

Ma un improvviso silenzio cadde sulla sala: una immobilità colpì quelle trecento donne che rimasero con gli occhi fissi sulla porta del fondo, senza batter palpebra. Dall’orchestra risonarono le prime note della fanfara: chiarissime, squillanti, militari, di un effetto strano in quel silenzio, in quella pompa tutta femminile. Come di scatto, le trecento signore si alzarono, con un fruscio di stoffe: e stettero aspettando, strette l’una all’altra: tutte sorridenti, con le spalle un po’ sollevate che parea dovessero sfuggire dal vestito, con le braccia molli e abbandonate, con una serenità inflessibile di bellezza sulla figura. Dietro di loro, sotto l’orchestra, nei vani delle porte, la massa bianca e nera degli uomini fluttuava, ma silenziosamente: e l’attesa di un minuto parve lunghissima. Poi, sotto la porta del fondo, qualche cosa di fulgido apparve, un fulgore moltiplicato e concentrato che parve la visione di una cometa: e mentre lo splendore augusto femminile s’inchinava, scintillando, con un moto di grazia suprema, quella siepe scintillante di gioielli, quella gran fittezza di gemme, quello splendore di stelle, s’inchinò profondamente. Al femminile eterno, nella sua unicità, riveriva il femminile eterno nella sua molteplicità. Gli uomini — turbati — guardavano.

Ergendosi sulla punta dei piedi, Francesco Sangiorgio cercava di scorgere dove fosse la dolcissima donna. Egli era fra un gruppo di deputati, l’onorevole Galvagna, il colonnello delle province irridente, l’onorevole di Sangarzìa che aspettava pazientemente di raggiungere le signore, l’onorevole di San Demetrio che applicava la galanteria alla diplomazia: ma Sangiorgio cercava donn’Angelica.

Tutte quelle donne ritte, in fila, che sollevavano i loro mazzi di fiori e che guardavano, sorridendo, la quadriglia reale, lo confondevano, egli non distingueva i loro lineamenti, non ne riconosceva nessuna. Giammai aveva visto tante donne riunite, compatte, intensamente raccolte, in tutto lo splendore della bellezza e del lusso, in tutta la potenza della loro femminilità.

Chiudeva gli occhi, ogni tanto, abbarbagliato: li riapriva, cercando di distinguerne la più bella, la sola che a lui paresse donna.

A un tratto, mentre l’augusta donna girava mollemente intorno al canuto e bonario ambasciatore di Germania, e il lungo strascico regale, color fiamma, serpeggiava come la coda di una cometa, e il diadema reale aveva qualche cosa di siderale, Sangiorgio vide donn’Angelica Vargas al braccio di un signore bruno e vecchio, dai mustacchi tinti, dai capelli radi di un nero che tirava al rossastro: donn’Angelica figurava nella quadriglia reale, di fronte alla biondissima, pallida signora amletiana che era l’ambasciatrice di Germania.

Donn’Angelica passeggiava attraverso il salone con quell’incesso armonioso, quasi musicale, che rendeva la sua andatura una delle sue più grandi seduzioni: dietro lei, lo strascico di broccato bianco ondulava dolcemente, come a flutti: qualche filo d’argento, che passava nella trama del broccato, vi brillava.

Ogni tanto, come la nobile e lenta passeggiata, che era poi la quadriglia reale, lo consentiva, si vedeva il busto giovanile e snello di donn’Angelica e il corpetto di broccato bianco, pudicamente scollato, terminato da una nebulosa arricciatura di velo bianco: sulla nitidezza del collo bianco un monile di perle si confondeva col perlaceo della carnagione, e una grande croce di brillanti scendeva sul petto, luminosa.

Donn’Angelica, dai capelli castagni strettamente raccolti intorno al capo, era coronata di stelle: le lucenti stelle di brillanti le ingioiellavano tutta la scurezza della chioma bruna, quattro innanzi, quattro indietro, diffuse, senz’ordine, come realmente compaiono le stelle sulla nerezza notturna, sull’azzurro cupo e profondo del firmamento.

E l’occhio acuto dell’uomo che amava distinse bene, per sè solo, sulla scollatura di velo un fiocchettino di mughetti quasi indistinguibile, messo là per aver il profumo e la poesia di un fiore, messo là perchè soltanto lo sguardo di colui che sapeva amare, lo distinguesse.

E invero fra tanto rigoglio di bellezza, talvolta mite e semplice, talvolta provocante, talvolta gracile e delicato, fra tanto espandersi di bellezza e di seduzione, donn’Angelica era la bellezza pura e pensosa, la bellezza nella sua espressione di candore malinconico, nella sua serenità di cuore che ha vissuto.

Tutto in lei era casto: il vestito bianco ricchissimo, ma di un colore appannato, senza sfarzo, con lieve scorrere di fili d’argento, fra la trama, qua e là, come pensieri, come idee dolci che allietavano la monotonia di quel candore; le pieghe nobili dello strascico che avevano qualche cosa di classico, come il panneggiamento di una casta statua antica; la scollatura giusta, in modo che nulla vi perdeva di attrazione la donna, tutto vi guadagnava come castità la signora, la ricchezza della spallina che nascondeva il punto provocante, quasi sensuale, dove la spalla della donna diventa braccio; il guanto chiarissimo, di un bianco rosato, di una pelle finissima, che oltrepassava castamente di cinque dita il gomito e si distendeva, senza far pieghe, modellando il braccio; non un braccialetto; due semplici e fulgenti stelle di brillanti alle orecchie. Tutto l’insieme casto, che nulla aveva della stupidaggine odiosa della fanciulla ritrosa, ma aveva tutta la castità di pensieri e di sensi della donna pura.

A Francesco Sangiorgio parve vedere la medesima purezza. Una lucentezza blanda negli occhi: lento e buono il moto delle palpebre: non un’ombra di veglia o di pena sotto lo sguardo, che si posava quietamente sugli oggetti e sulle persone che la circondavano: freschissime, di fanciulla, le tempie, dove la pelle aveva la tenuità del velo che circonda l’uovo; da cammeo la linea del profilo, dalle nari foderate delicatamente di roseo: sinuosamente colorita di rosso, come un fiore chiuso, la bocca. E in tutta la fisonomia la espressione pacata di chi è senza speranza, come senza desiderii: un’aureola più che umana, tutta spirituale, la quale trasfigurava quella bellezza.

Francesco Sangiorgio, a quell’aspetto, aveva sentito dileguarsi quell’acre desiderio che lo aveva signoreggiato in quella stanza da pranzo, nell’attesa spasimante di donn’Angelica che era fuggita, senza farsi vedere; i suoi nervi si erano placati a poco a poco: i sensi eccitati cadevano in un languore di contemplazione.

Quella castità, quella purezza scendevano su lui, come un soffio fresco a mitigare il calore della passione: penetravano in lui come la benedizione di una carezza tutta innocente, bacio di bimba, mano di sorella, abbraccio affettuoso di amica: s’impossessavano di lui, come un placido fiume di dolcezza dilaga senza rumore e senza disastri e copre le rive.

La febbre dei suoi polsi si era calmata: le vene delle tempie non battevano più precipitosamente, come prima; quel malvagio desiderio brutale era sfinito in una blandizie. E mentre donn’Angelica, ferma al suo posto, si riposava, egli sentì che ella lo guardava: sguardo chiaro e schietto, tutto umido di dolcezza, tutta luce quieta. Invero, per lui, ella era, in quell’ora e per sempre, la celeste Beatrice.

Dalla grande poltrona reale, la sovrana piegava un po’ il capo per discorrere con donna Clara Tasca, che sedeva accanto a lei sullo sgabello, come moglie di un cavaliere dell’Annunziata: l’ardente siciliana dagli occhi vivi spirituali sotto i capelli un po’ brizzolati, dalla fisonomia mobile dove tutta l’espressione di un’anima irrequieta si dipingeva, rispondeva presto presto alla regina, piegandosi anche lei, dimostrando un interesse rispettoso. Le altre signore del mondo aristocratico, del politico, del diplomatico, riunite in gruppi, discorrevano fra loro, fingendo d’interessarsi al discorso, ma tenendo d’occhio, attentamente, ogni moto della sovrana: e non ballavano ancora, non accettavano inviti a ballare, distratte, assorbite nel pensiero di quello che avrebbe detto loro la regina. Tutte quante, malgrado il censo, il nome, la bellezza, tutte le fortune dell’anima e del corpo, non ambivano che questo minuto di colloquio pubblico, innanzi a duemila persone, con la regina; tutte quante dimenticavano ogni speranza, ogni desiderio, ogni interesse, ogni altro affetto, nell’ambizione muliebre di questo breve colloquio, al cospetto del pubblico. Le ragazze, soltanto, a cui non sarebbe mai toccato quest’onore, venute al ballo per mostrare la loro giovanile bellezza, per essere allegre, per ballare, per annodare uno di quegli innocenti e poetici legami d’amore, le ragazze, invece, già ballavano il waltzer, nel largo giro del salone, fra un grande volteggiare di veli bianchi, rosei, azzurri, scostandosi solo, con una certa timidezza, innanzi alla poltrona reale. Gli uomini andavano, venivano, si fermavano in gruppi, ballavano, chiacchieravano: niuno badava a loro. Francesco Sangiorgio, dopo la quadriglia reale, era scivolato fra le gonne seriche, lentamente, era distante da donn’Angelica soltanto venti passi e la vedeva discorrere col deputato di Carimate, il gran signore lombardo, dalla barba nera e dai principii vaghi di socialismo: ma ella stessa, donn’Angelica, era un po’ distratta, con gli occhi bassi, che ogni tanto si rivolgevano verso la persona regale.

E come quell’astro si volgeva a destra e a sinistra, come faceva cenno di alzarsi, certi lunghi fremiti correvano per quei gruppi di donne: tutte volgevano il capo da quella parte, molte tacevano, aspettando, molte continuavano a chiacchierare o ad ascoltare, ma balbettavano: il loro spirito era altrove. La regina era passata al gruppo delle sue dame, mostrando il profilo regale alla sala: e lo squadrone delle dame, in piedi, la circondava: le due principesse americane maritate a due principi romani, una biondissima, più inglese che americana, l’altra magra, simpatica, elegante; donna Vittoria Colonna, dagli occhi di diamante nero: donna Lavinia di Sora, dal volto perlaceo, dai grandi occhi lionati, pensierosi: la contessa di Genzano, la bellezza fatata, dai fulvi capelli; la principessa Seraphita, dal volto ideale, vestita semplicemente di bianco, con un mazzolino di violette sul seno; la principessa Lalla, dal volto che serbava le giovanili, pure linee di cammeo, dalle spalle bianche e lunate; e infine la marchesa Paola, la gran dama di onore, la madre felice dai capelli ancora biondi e ondulati, le cui figliuole allegre e brune ballavano, nel salone.

Pazientemente, le signore del mondo diplomatico si stiravano i lunghi guanti di camoscio sulle braccia, chiudevano e schiudevano il largo, molle ventaglio di piume, lo agitavano, odoravano il mazzetto di fiori, guardavano curiosamente, per la centesima volta, il taccuino da ballo, come se non lo avessero mai visto. Ora, poco a poco, Francesco Sangiorgio era arrivato alle spalle di donn’Angelica, e pian piano, come un soffio, le aveva detto:

«Buona sera.»

«Buona sera,» mormorò lei, con quella profondità di accento, che era la sua particolare espressione.

E si rivolse un po’ verso lui, chiedendogli se fosse arrivato suo marito, parlando a fior di labbro, mentre egli la fissava con certi occhi innamorati e così rispettosi, che una lieve fiamma salì a colorire le guance di donn’Angelica. La regina parlava, in francese, con l’ambasciatrice di Francia, una magra e ascetica signora, dal viso lungo. Laggiù, il re discorreva con donna Luigia Catalani, vestita di color bronzo, con un piumino azzurro e strano nei capelli biondi: e la viva, spiritosa siciliana sorrideva argutamente. Una quadriglia era cominciata, fittissima, con un grande fluttuare di strascichi: le signore che erano sul lato dove Sua Maestà discorreva, per non volgerle le spalle, ballavano di profilo, con gli occhi bassi, misurando i loro passi.

«Non ballate?» chiese Sangiorgio.

«Non ballo: il governo non può ballare,» rispose ella, placidamente. «Dopo, se volete, faremo un giro.»

«Dopo?»

«Dopo.»

Egli non capì subito, non aveva guardato attorno, concentrato solo in colei che era l’amor suo, non aveva sentito intorno a sè la febbre di quella grande ambizione femminile. Ma intese che qualche cosa di importante, di supremo in quella festa tutta muliebre andava accadendo: intese la profonda preoccupazione di quelle donne che avevano scordato tutto, financo di essere belle. Nel centro della sala era grande il movimento pel ballo: e la folla degli uomini era diminuita, dirigendosi verso i salotti, verso le stanze da fumo, verso il buffet.

Qui, sulla destra, era sempre grosso, sempre fitto fitto il gruppo delle donne che aspettavano, desiose, a cui altre si venivano ad aggiungere, credendo che il loro turno fosse venuto, incapaci di girare, avendo il cuore e la mente e l’attenzione là, in quel lato del salone.

La regina seduta quasi nel vano di un balcone, lasciando vedere solo lo strascico e il fermaglio del monile sulla nuca, s’intratteneva con donna Lidia, la moglie del presidente del consiglio, la piccola, buona e amabile signora che usciva dalla modestia della famiglia, solo in qualche festa ufficiale.

— Quella è donna Lidia, donna Lidia, la regina parla con donna Lidia, — si susurrava nella folla delle signore e fra i giovanotti bene informati. Il colloquio durava da cinque minuti, e, per una invincibile attrazione, tutti gli occhi delle signore che aspettavano, erano fissati su donna Lidia e sulla sovrana, di cui si misuravano i movimenti: sarebbe andata a destra o a sinistra, alzandosi, uscendo da quel vano di balcone? Nel salone era una passeggiata di tutte le coppie che avevano ballata la quadriglia; gli impegni per la polka si prendevano, dei giovanotti scrivevano, con la matita, nei taccuini delle ragazze; le signore straniere, anziane, mature o vecchie, rimanevano sulle ultime panchette di velluto rosso, con la loro aria corretta di persone che si annoiano volontariamente, coperte di gioielli e di merletti ricchissimi, col capo piumato.

Quelle che già avevano avuto l’onore della parola reale, circolavano, tutte rosee, sorridenti, soddisfatte, con una lucentezza di felicità negli occhi, ripetendo l’una all’altra il motto amabile ricevuto; e non si curavano più di altro, non badavano più alle altre, che aspettavano ancora, celando l’impazienza. Il re discorreva con la forte e bella signora del primo patriotta italiano, la buona e bruna signora, dal volto colorito, dal viso schietto, tutta vestita di azzurro.

«Speravo di vedervi prima, questa sera,» disse Sangiorgio, come un collegiale.

«Infatti...» rispose vagamente lei.

E subito gli voltò le spalle. Un improvviso solco si era aperto fra la folla: innanzi a loro, nello spazio libero, fra due siepi di persone, si avanzava, maestosamente e graziosamente bella, la sovrana, in una luce tremolante di stella. Ella veniva verso donn’Angelica: e Sangiorgio dette addietro, intimidito, sentendo in quella coppia muliebre, la donna semplice e serena, la donna regale e sorridente, tutta la potenza femminile.


Dopo, Francesco Sangiorgio e donn’Angelica passeggiavano per le sale, lentamente, attraverso gl’ingombri degli strascichi, formando delle piccole file, arrestandosi ogni tanto, come la circolazione femminile si ammucchiava, si accalcava. Nel grande salone da ballo, le ragazze, le mogli dei segretari, le signore innamorate del ballo, le spose borghesi, le dame che non avevano alcun posto ufficiale, si davano intieramente al piacere della danza, l’orchestra strideva nelle note eccitanti di Metra e di Fahrbach, l’animazione giovanile e femminile era al suo colmo.

Invece le altre passeggiavano, sedevano sui divani dei salotti, tenevano circolo, si allargavano dappertutto.

L’ambasciatrice d’Inghilterra, tenendosi accanto la bella e poetica figliuola che pareva una madonnina del Botticelli, nel salone azzurro, teneva intorno a sè un circolo di giovani diplomatici: per due minuti parlarono in inglese, dolcemente, con donn’Angelica: Sangiorgio ascoltava, senza intendere, ma gli sembrava una musica deliziosa.

La contessa di Malgrà, la simpatica bionda, dal pallore provocante e dagli occhi incantatori, diceva dei paradossi sociali a tre o quattro giovani deputati del centro che la seguivano nelle sue passeggiate; la signorina Maria Gaston, dalla bellezza dolcissima, figliuola del ministro della marina, in un vano di finestra, vestita di bianco, angeletta mondanamente soave, chiacchierava con due o tre vecchi ammiragli, rinunziando al ballo; la signora Giulia Greuze, la belga dallo spirito scintillante e dal bel corpo giovanile simile a una rosa che si sviluppi dall’involucro, ridacchiava sotto l’edera di una grande giardiniera, mostrando i dentini candidi.

Donn’Angelica, al braccio di Sangiorgio, passava, fermandosi ora qua ora là, scambiando saluti e sorrisi con le mogli dei deputati che incontrava: la marchesina di Santo Marta, bionda e ricciuta come un uccellino; la marchesa di Corvisea, fedele ai suoi vestiti di rosso-cupo, mostrando i più bei piedini della politica italiana; la baronessa de Romito, la bellissima e tranquilla Giunone; la contessa di Trecastagne, una francese pallidina e gentile che aveva sposato un siciliano; la baronessa di Sparanise, la spirituale signora dai nerissimi occhi egiziani; la mite e piacente marchesa Costanza, dalla voce affettuosa e dall’incesso molle; le due bionde signore figliuole del ministro di grazia e giustizia, una bionda ed esile, l’altra bionda e pensosa: esse andavano in su e in giù, senza rientrare nella sala da ballo, formandosi ogni tanto in gruppi, ridendo fra loro, narrandosi gli aneddoti della serata, guardandosi da capo a piedi, con un sorriso benevolo ma profondo, misurandosi giustamente in tutta la loro manifestazione di lusso e di bellezza.

Donna Clara Tasca era rimasta mezz’ora, aveva chiacchierato con ministri, uomini politici e deputati, ed era subito partita, trascinandosi dietro don Mario, di cui certo avrebbe completata la fortuna politica, se egli fosse stato meno nebuloso, meno fantastico, meno virtuoso di politica.

Donna’ Angelica, al braccio di Sangiorgio, parlava poco: ma egli non chiedeva altro, felice di avere, sulla manica della sua marsina, quel braccio nascosto pudicamente dal guanto, felice di poter contare, ogni tanto, macchinalmente, le perle di quel monile, felice di sentirsi sfiorare il piede, ogni tanto, dall’orlo di quel vestito di broccato. Ella cercava suo marito, ma quietamente, senza troppo insistere, senza chiederne a nessuno: e col suo cavaliere scambiava solo qualche rara parola. Finalmente don Silvio, al braccio di un deputato d’opposizione, comparve sotto una porta, si avanzò verso lei e senza quasi guardarla, senza accorgersi di chi l’accompagnava, le chiese subito, sottovoce:

«Sua Maestà?»

«Amabilissima,» fece lei, chinando gli occhi.

«Più del solito?»

«Non so... mi pare...»

«Ti pare o sei certa?» ribattè egli, duramente.

«Sono certa, sono certa,» si affrettò ella a soggiungere.

Egli le voltò le spalle: ella era pallida e turbata.

«Volete sedere, forse?» le chiese Sangiorgio, pietosamente.

«No, no,» disse donn’Angelica, «passeggiamo, passeggiamo.»

Andarono in una sala del buffet, sala da dolci, da caffè, da thè, da gelati, piena di gente che rosicchiava e beveva, con una quantità di cartine ricce da confetti sparse sul tappeto. Anche qui era pieno di donne, la principessa di Valmy sorbiva del thè, discorrendo col piccolino — grande traduttore di Platone, atleta della Camera, il meridionale profondo, dalla voce un po’ stridula e dalla frase incisiva, talvolta terribile; la contessa di Roccamorice mangiava delle castagne giulebbate, parlando col Gran Maestro dell’Ordine Mauriziano, dalla barba bianca e dal fine sorriso lombardo; la principessa di Tocco, la più bella donna di Roma, seduta in una poltrona, avendo intorno l’on. Melillo, l’on. Marchetti, l’on. di Sangarzìa, sorbiva un gelato, col suo contegno buono e placido di Dea; la baronessa Noir, piccolina, sottile, dall’abito di azzurro giapponese, dai magnifici giojelli, turchesi grosse circondate di brillanti, si batteva il ventaglio sulle dita, nervosamente, ascoltando una discussione fra il ministro d’Italia a Bruxelles e il ministro d’Italia a Bucarest.

«Non voglio nulla, non voglio nulla,» mormorò ella a Sangiorgio che la portava verso la tavola imbandita.

Cercava di dominare, a poco a poco, il suo turbamento. Parlò un minuto con la signora Gasperini, la moglie del segretario, cercando di riprendere la sua serenità; ma non vi riesciva che a metà. Un’agitazione restava ancora al fondo di quell’anima.

«Vorreste andar via?» le domandò Sangiorgio.

«Oh sì!» esclamò lei con uno slancio.

Si rimisero a cercare don Silvio di nuovo, attraversarono di nuovo la sala rossa, il salone azzurro, il salone da ballo, il corridoio delle statue dove ella rabbrividì dal freddo, con un tremito delle spalle nude; attraversarono altri tre o quattro saloni vuoti, si trovarono nel salone delle cene, dove era un allegro rumorìo di forchette, un tintinnìo di bicchieri. Ritornarono indietro: infine nel salottino degli arazzi di don Chisciotte, trovarono don Silvio in uno strettissimo colloquio con l’ambasciatore d’Inghilterra. Donn’Angelica fece per accostarsi, ma con un cenno delle palpebre don Silvio glielo proibì, le fece intendere di allontanarsi: ella chinò il capo, arrossendo, trascinò via Sangiorgio rapidamente.

«Non ballate voi, Sangiorgio?» gli domandò, ridendo. «Siete troppo serio, voi: a che pensate sempre così? Non alla politica, spero?»

«Oh no!»

«Non ci pensate, non ci pensate, ve ne prego,» fece lei, appoggiandosi maggiormente sul suo braccio. «Non sareste innamorato per caso?»

«Sì,» disse lui, schiettamente.

Ella si arrestò, un po’ interdetta, pentita di aver detto troppo. E subito parlò di altro, del ballo, degli arazzi, di don Chisciotte, del caldo, di tutto, con una voce un po’ velata. Il ballo, alle due dopo mezzanotte, era nel suo più vivo splendore: nel salone da ballo una quarantina di coppie ballavano il waltzer, e in tutte le sale, sotto gli arazzi, fra le giardiniere, fra le portiere di broccato, fra il bianco dello stucco e l’oro degli ornamenti, era un sorgere, un pullulare, un espandersi di donne, una lucentezza di chiome stellate, un anelare di petti femminili luminosi. Il segretario di don Silvio si accostò a donn’Angelica, con la sua aria affaccendata.

«Sua Eccellenza deve andare immediatamente al ministero, per un telegramma di urgenza. Non può accompagnare la signora.»

«Bene,» fece lei, licenziandolo con lo sguardo.

Tacitamente egli l’aveva accompagnata in anticamera, dove, nello scialbo luccicore della luce elettrica, sotto gli occhi dei camerieri muti, quasi automatici, l’aveva aiutata a infilare il grande mantello di broccato bianco, foderato di ermellino. E, senza avere spiegazioni, senza dirsi nulla, ella aveva ripreso il suo braccio ed era discesa placidamente per lo scalone: il cameriere di casa Vargas li aveva preceduti, per chiamare la carrozza. E con un moto gentile e rapido, innanzi allo sportello aperto del coupè, ella raccolse lo strascico, inarcò il piedino calzato di raso bianco e saltò in carrozza: non salutò, non tese la mano, — naturalmente, egli salì in carrozza con lei.

Nulla si dissero: ma lo strascico bianco copriva i piedi e le gambe di Francesco Sangiorgio, empiendo la piccola vettura delle sue onde seriche e candide, e si distingueva, nel breve ambiente, un lievissimo odore di mughetti.

Ella non aveva nulla sul capo, nè una sciarpa, nè un cappuccio, nè un merletto: la testa libera si ergeva dal candore morbido dell’ermellino e nei capelli neri le stelle di diamanti scintillavano. Dalle ampie maniche del mantello le mani uscivano, si abbandonavano sulle ginocchia: una calzata ancora dal guanto di camoscio chiarissimo: l’altra, senza guanto, nuda, con un brillante all’anulare, che scintillava. E nella penombra della carrozza che a mezzo trotto scendeva dal colle del Quirinale alla vecchia Roma, Francesco Sangiorgio guardava ora quel viso soavissimo che un pallore vivo rendeva più affascinante che mai, ora quella piccola mano lasciata con tanto abbandono in grembo, come se una mortale stanchezza l’avesse vinta. Nella dolcezza desiderata e aspettata di quel momento, nella solitudine bizzarra di quel piccolo nido azzurro cupo che riconduceva a casa la soavissima donna, l’amatore non era preso da alcun desiderio, niuna ansia del minuto che fuggiva, niuno spavento del tempo che passava e che avrebbe portato la loro divisione: egli godeva delicatamente quel vivissimo piacere spirituale, quella felicità era per lui senza mescolanza di amarezza. Immobile, muto, con gli occhi quasi incantati, i quali null’altro sapevano vedere che quel viso bianco e quella mano piccoletta e molle che parea dormisse, egli non si moveva e non parlava, buddista dell’amore, perchè in nulla l’altissima sensazione venisse scemata.

Giammai aveva inteso la sua vita svolgersi ed allargarsi con tanta dolcezza, come un fiume largo e felice che se ne va innamorato al mare, nella bellezza della pianura verde, sotto il sole, appena appena mormorando sotto i giuncheti: giammai si era sentito così inondato di una letizia pura, dove egualmente si fondeva l’appagamento dello spirito e dei sensi, la delizia del cuore e dei nervi. Delibava, intensamente, completamente, quella letizia, nella immobilità, nella passività dell’uomo felice.

Donn’Angelica, ogni tanto, lo guardava con un lento moto di occhi. Buttata in quell’angolo, ma non rannicchiata, non raggomitolata, con quella bella compostezza di forme e di pose che era la sua grazia, ella pareva si riposasse, senza troppo abbandono e senza troppa rigidità. Non dormiva, no, tenendo gli occhioni scuri spalancati e rivolgendoli, tratto tratto, quietamente, su colui che l’amava, — ma tutte le linee del volto si erano quasi ammollite, arrotondate nel riposo.

Come i fanciulli, come certe donne che riprendono la infantilità, dormendo, il cui volto si ringiovanisce, si addolcisce, ridiventa ingenuo e bonario, ella aveva, in quel momento di calma, l’aria di una fanciulletta, di un’adolescente creatura ingenua. Era scomparsa l’apparenza di donna vestita con la pompa di un ballo: il mantello pareva il vestito di una educanda, un vestito morbido e candido, senza forma, castissimo, un manto verginale: e lo scintillìo dei brillanti nei capelli neri, sulla mano piccola, pareva raggio di luce, non ricchezza fulgida di gioielli. Ella era ridiventata giovanetta, in una pura essenza spirituale di bellezza e di grazia, in un riposo che era anche un rinascimento.

Niuna fiamma si accendeva nei begli occhi pieni di ombra e pieni di pace; nessun sorriso veniva a dissuggellare le labbra chiuse e arcuate come quelle delle statue, non una parola usciva da quelle labbra. Anche ella era immobile, la piccola mano pareva di cera sul bianco della stoffa, il volto si delineava sul fondo cupo della carrozza, come un ovale chiaro: e che pensasse, che sentisse, non si sapeva, non s’intendeva. Dietro quell’apparenza di pace, dietro quel riposo delle linee, forse era alacre il pensiero, forse il cuore fortemente palpitava, forse la grande vita interiore dell’intelletto del sentimento passava per tutti i fenomeni dell’attività. E forse in lei erano penetrati sin nello spirito quella calma e quel riposo: forse ella era simile, dentro, al grande lago profondo d’acciaio che niuna tempesta mai può turbare. Ma non si sapeva nulla: ella, come sempre, era avvolta nel grande mistero della serenità.

Fra loro due, fra l’essere felice che si lasciava annegare dall’onda soverchiarne di delizia spirituale che lo assaliva senza strepito, e fra la creatura giovane, casta, quieta, serena, sedeva terzo l’amore.

III.

Appena spuntò dal Babuino in Piazza del Popolo, Francesco Sangiorgio ebbe un pugno di coriandoli nel collo, senza sapere donde gli venissero: un mazzettaccio informe, di fiori di cicoria, gli sfiorò una guancia: egli fu preso da un flotto di folla che lo trasportò verso l’obelisco. Una grande folla nera, tumultuante, urlante, fischiante, ondeggiava intorno alla fontana, sotto un nembo bianco di coriandoli lanciati dai pedoni, dalle carrozze, dalle due grandi tribune di legno che quasi continuavano il Corso sino alla fontana.

La chiarezza pomeridiana, larghissima, si effondeva su questa folla scura, dai volti convulsi, mettendo la piazza sotto una grande calotta luminosa di primavera, e nell’aria tepida, nello scirocco mite di febbraio, la polvere di gesso dei coriandoli sfarinati bruciava la gola e attirava il sangue alle guance. Sangiorgio dovette fare forza di gomiti e di spalle per liberarsi da quell’onda clamante che lo sospingeva, lo travolgeva, e una collera lo prese contro quella brutalità di divertimento che rassomigliava o superava i furori degli animali festanti.

La gente rifluiva sino alle due porte del Pincio, sbarrandole, chiudendole, aggrappata ai cancelli aperti, volgendo le spalle ai due viali ascendenti: ma niuno entrava, niuno pensava di salire al Pincio, presi da quell’ardore concentrato che danno i grandi spettacoli dello sfrenamento umano. Sangiorgio camminava con stento, contro corrente, ora pallido, ora rosso, frenandosi malamente a non dare dei pugni a quelli che lo spingevano. Ma la estrema difficoltà fu per lui di poter entrare al Pincio: la folla che ne sbarrava l’entrata non lo voleva lasciar passare, non voleva perdere il posto, non voleva che lui ne usurpasse uno, credendo che egli volesse installarsi là, non supponendo mai che egli volesse andare a passeggiare lassù.

Quale singolarità di gusti poteva dunque condurre quell’uomo a passeggiare pel Pincio deserto, in quella giornata di baldoria, in quell’ora tiepida pomeridiana, quando tutta la gente impazziva di gioia carnevalesca da Piazza Venezia a Piazza del Popolo? La folla non voleva crederci, a questa stranezza, e non voleva lasciar passare Francesco Sangiorgio. Egli gridò, di nuovo, due o tre volte, avendo le fiamme della collera sul volto:

— Vado al Pincio, vado al Pincio!

Passò. Appena fatto il gomito del viale, un gran respiro di contentezza gli sollevò il petto, un senso di calma gli si diffuse pei nervi esaltati. Entrava nella solitudine saliente e verde del grande viale, sotto la mite ombra degli olmi che fiorivano novellamente, nella primavera che veniva.

Non una persona s’incontrava nel viale che da una parte andava verso villa Medici e verso la Trinità dei Monti, dall’altra saliva al Pincio: non un viandante, non una donna, non un fanciullo. Tutti, tutti erano al Corso, per la via, nei portoni, sui balconi, sulle logge, sulle tribune improvvisate, sui fusti dei lampioni, attaccati al soffietto delle carrozze, tutti, tutti al Corso, presi dalla grande follìa carnevalesca.

Francesco Sangiorgio si sentiva sempre più rassicurato, sempre più tranquillo, montando a quell’alta pace di campagna solitaria. Ogni tanto gli arrivava un’eco fioca, da Piazza del Popolo, di voci stridule e gravi che la distanza attenuava; ma come si allontanava, sempre più questa eco diminuiva, arrivava ancora fievolissima, poi moriva. Solo, costeggiando il muretto che dava sulla Piazza del Popolo, si vedeva ancora, sotto, un’agitazione confusa di una gran massa nera e una grande nuvola trasparente bianca, una nuvola bianca e bassa come quelle palustri.

Sul grande terrazzo, che è piuttosto una spianata, amplissimo, chiaro, che guarda Roma e San Pietro al Vaticano e Monte Mario e tutta la campagna romana intorno al Tevere, oltre la Porta Flaminia, sopra un banco, sotto un albero, un vecchio, modestamente vestito, era seduto. Il bastone gli si abbandonava fra le gambe, il sole gli batteva sulla faccia, ed egli chiudeva gli occhi, inebetito dall’età, dal riposo e dal tepore. Appoggiato, o piuttosto buttato sulla larga balaustra del terrazzo, un prete guardava Roma, piccola macchia nera di fronte alla grande macchia biancastra della città bagnata nella dolce luce del pomeriggio. Francesco Sangiorgio, per vedere, si accostò a questo prete: era un giovanotto magro e pallido, dal volto sparso di macchie di lentiggini: ma non guardava Roma, nè la indistinta massa bruna che fluttuava in Piazza del Popolo: leggeva il breviario, un grosso libro legato di nero. Sangiorgio si allontanò rapidamente, sempre più fiducioso. E invero, in tutto il giardino che le balie, le cameriere, le istitutrici, le mamme modeste prediligono e che i bimbi adorano, era uno squallore di parco abbandonato, donde è fuggito ogni rumore, ogni traccia di vita: l’aiuola grande intorno a cui si mette la musica, pareva da anni non richiamasse più nessuno; i leggii di ferro, sparsi qua e là e che servono per la musica del concerto, erano sbandati e arrugginiti, come se per un’infinita quantità di tempo avessero ricevute le ingiurie del sole e della pioggia, senza che la mano dell’uomo li toccasse; nella piccola bacheca del venditore di palle elastiche, di cerchi, di corde per saltare, non vi era un’anima, e la sua merce era sospesa all’albero senza che niuno pensasse a venderla, a comperarla, a rubarla; silenzioso, deserto, immobile, coi suoi cavallucci azzurri e rossi, il carosello; pendente, come piangente, come trascinante il suo abbandono, la corda dell’altalena. Negli altri giorni tutti questi ingenui divertimenti eran pieni di strilli infantili, di vive risate, di richiami materni, di voci allegre: ora i bimbi e le madri e le serve erano laggiù, perduti nella grande voragine carnascialesca e da anni sembravano aver dimenticato quell’amabile ritrovo verde che la incipiente primavera già faceva germogliare tutto.

Intorno al minuscolo laghetto, niuno buttava la mica di pane al bel cigno candido che chinava il collo delicatamente, come una donnina malata, e navigava con lentezza in quel breve giro di acque verdigne: pareva vecchio e triste di vecchiaia il cigno, come se avesse perso l’abitudine di vedere le manini gentili delle creature dargli da mangiare. L’orologio ad acqua, sporco, appannato, segnava le 5.15; di quale giorno, di quale anno? Una sfera era rotta. Nessuno, nessuno seduto all’ombra della capanna svizzera che gli strani seminaristi tedeschi vestiti di rosso e gli allievi del collegio del Nazzareno amano: e dal cancello che separa villa Medici dal Pincio, si vedeva un lungo viale cupo, deserto, bruno e umido. Sotto i platani le erme marmoree, dalle guance un po’ consumate dalle piogge, con le anella delle chiome abbrunite dall’umidità, pareva si annoiassero lì, da secoli.

E Francesco Sangiorgio si consolava di questo profondo deserto campestre che si rigonfiava di succhio novello, come la dolce stagione lo comportava. Il grande giardino, coi suoi larghi viali, pareva tutto suo, lasciato in abbandono dalla folla chiassona, pronto a nascondere i suoi amori, nido solitario di un purissimo idillio sentimentale. Lontano, dalla terrazza posteriore, egli aveva ben guardato la immensa massa verde di villa Borghese dove sarebbe stato così facile il celarsi: ma ella non aveva voluto, per non attraversare piazza del Popolo, in quell’orrendo giorno di carnevale: e più del Pincio, villa Borghese sembrava un immenso parco naturale, senza traccia di uomo, una vasta campagna vergine e solitaria.

Passando innanzi al cancello che separa il Pincio da villa Medici, Sangiorgio dette un’occhiata di rimpianto alla cupezza malinconica di quel viale fittissimo, dove l’idillio soave sarebbe stato anche al coperto della chiarezza larga del cielo: ma ella non aveva voluto, per entrare a villa Medici ci vuole un permesso speciale. E quello che turbava Sangiorgio, nei suoi giri attorno al grande giardino, era la parte che dava sopra Roma e sopra Piazza del Popolo, tutto quel lato scoperto, quell’immensa breccia, donde veniva, a riprese, un rombo cupo, il clamore giocondo e pauroso della folla: ogni volta che girava verso villa Borghese, gli pareva di essere in pace, solo con l’amor suo, non disturbato, nel beneficio della solitudine campestre; ogni volta che ritornava verso Roma, l’improvvisa visione della città e il rombo e tutto quel mondo estraneo che s’imponeva, gli guastavano tutti i sogni. Sentiva in quel pubblico, in quella folla, l’ostacolo, la difficoltà, il dolore.

Quando ella giunse, egli l’aspettava da un’ora, non essendosi ancora impazientito, ignorando ancora i tormenti di colui che attende nell’incertezza, fiducioso ancora nella parola femminile.

Ella venne dallo stradone che dà sulla Trinità dei Monti, avendo lasciata la carrozza in Piazza di Spagna: era vestita di lana azzurro cupo, con una veletta bianca sulla faccia che aumentava la giovanilità del suo aspetto: camminava piano, senza muovere le gonne, come se scivolasse sul suolo, non venendo, ma avanzandosi. In un minuto, alzando ambedue gli occhi, senza affrettare il passo: egli non si era mosso dal pilastrino dove stava appoggiato, aspettandola, vedendola avanzarsi, nella cupezza della stoffa bruna, nel candore della veletta bianca. Non dunque lei era un fiore primaverile, un grande fiore umano sbocciato per la sua delizia?

Quando furono accanto, non si salutarono, non si tesero la mano, ella stringeva nel piccolo pugno il manico dell’ombrellino, un galletto di legno scolpito, con la cresta rossa: non si parlavano, camminavano l’uno accanto all’altro, senza guardarsi.

«Grazie,» disse lui.

«No, no,» rispose lei, subito.

E guardandosi intorno, con un’occhiata timida, soggiunse:

«Qui ci vedranno tutti.»

«Non vi è nessuno; non temete.»

«Nessuno?»

«Nessuno; è carnevale.»

«È vero; tutti sono al Corso: dovevo andare anch’io...»

E si accostò al largo terrazzo soleggiato, donde si vedeva tutto il mare magno della folla clamante, in Piazza del Popolo: egli provò una fitta al cuore, come se quello spettacolo gli togliesse una parte della sua felicità. Ella appoggiò al parapetto la mano sottile inguantata di camoscio: e guardò quei grandi flotti oscuri di gente, da cui saliva un rombo come di vulcano.

«Come si divertono, laggiù!» ella mormorò melanconicamente.

Egli l’aspettava, tenendosi indietro, preso da un senso d’impazienza.

«Venite via,» le disse.

Ella voltò le spalle alla città, internandosi con lui nel grande viale a sinistra; e guardava in terra, come se pensasse profondamente.

«Nessuno, nessuno,» diss’ella, come sollevata. «È una fortuna che sia carnevale. La gente impazzisce. Non preferireste voi essere laggiù?...»

«Come potete credere...» cominciò lui, addolorato.

«Non posso più credere in molte cose,» susurrò ella, come se parlasse a sè stessa.

«Siete così buona: io non so dirvi nulla: risparmiatemi,» la pregò lui, con l’umiltà del cristiano innanzi l’immagine benedetta.

«Ho da dirvi delle cose tristi, amico,» disse ella, con la sua bella voce dolente.

«Non oggi, non oggi, domani, un altro giorno...»

«Meglio oggi che domani,» soggiunse ella, fissando i begli occhi mesti sopra la campagna di villa Borghese. «Bisogna aver coraggio...»

«Io non ne ho, non ne ho niente...»

«Bisogna averne,» insistette ella, «per vivere in pace con la propria coscienza.»

E si strinse, con un brivido, nella piccola mantellina di pelliccia, passando innanzi alla freddezza nera di villa Medici.

«La coscienza, la coscienza!» esclamò lui, ribellandosi, «e l’amore?»

«Non si deve amare,» pronunziò ella, come una sentenza.

«E perchè?»

«Perchè non vogliono.»

«Chi non vuole?»

«Quelli,» e tendendo la mano, indicò Roma e Piazza del Popolo, dove alta ferveva la follìa carnevalesca.

«Non sapete chi siano.»

«Sono la coscienza: io non saprei ingannare, amando.»

«Voi non amate,» fece egli con amarezza.

«...Forse,» diss’ella, perdendosi nella contemplazione di Monte Mario.

«Venite via, venite via,» ripetette lui, preso da un’angoscia di pentimento, volendo sottrarla allo spettacolo della folla.

Infatti, com’ella volgeva le spalle al panorama di Roma, il volto le si serenava e pareva che i pensieri prendessero un corso meno lugubre. La grande pace campestre del colle Pinciano, quella solitudine, quel primo fiato di primavera, quel dolcissimo pomeriggio fra il verde e il tepore dell’aria, quello sguardo innamorato e reverente con cui egli la circuiva, quella fedeltà con cui la seguiva, quel rispetto amoroso con cui le parlava, le facevano scordare l’urlìo, la gazzarra della città ammalata di carnevale, le facevano scordare che un altro mondo esistesse, oltre la campagna, oltre la primavera, oltre l’amore.

Oh, egli bene intendeva che un poco di quell’anima era sua, che gli era pietosa in quell’ambiente deserto, fra le piante, le cadenti acque della fontana, l’orizzonte agreste e semplice: indovinava che quel poco di anima femminile gli sfuggiva, che quel cuore gli si chiudeva, appena il vasto e duro orizzonte cittadino se ne impossessava, appena la grande voce della folla saliva sino alle sue orecchie.

Nella solitudine, fra il novello germoglio degli alberi e dei fiori, in tanta soavità di cose e di cielo, ella era buona e cara e amorosamente compassionevole: ma al cospetto della maligna e dura città che non perdona, ella chiamava tutto il suo coraggio per diventare inflessibile, s’irrigidiva nella sua volontà di chiedere e di ottener sacrificio dell’amore. Così egli faceva di tutto perchè non ritornasse più verso il grande terrazzo, verso la breccia cittadina, persuaso che l’ora e il tempo e la stagione l’avrebbero indotta a mitezza. La trattenne presso il parapetto, donde giù giù si vede quello stretto budello che è la Via delle Mura: non vi passava un’anima.

«Non bisogna amare troppo tardi,» riprese ella, con un’infinita dolcezza di mestizia, «è inutile, è doloroso. Dove eravate voi cinque anni fa?»

«Laggiù, in Basilicata,» rispose, con un gesto vago.

«Io lassù, lassù, nei monti, fra le nevi. Credevo alla neve dei ghiacciai, io, il ghiacciaio che nulla vince. Ho sposato don Silvio: egli era buono, io non sapevo nulla del sole. Ora, il sole viene per me troppo tardi.»

«Non lo dite, non lo dite,» egli mormorò.

«Non possiamo fare convertire la neve in fango, amico.»

Un silenzio regnò: egli era pallidissimo, come se dovesse morire. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime: e lui guardava quelle pupille nuotanti, tremante di vedere scorrere quelle lagrime, commosso come se quella fosse l’ultima sua ora.

Ma non le disse quanto soffriva: non voleva, non sapeva lamentarsi: tutto quanto veniva da lei era bene, era dolcezza. Con quel profondo altruismo che danno i veri e forti amori, egli dimenticava tutta l’angoscia propria, guardando quei begli occhi lagrimosi, vedendo la piega dolorosa di quelle labbra. Il dolore di lei lo scoteva e lo esaltava; una grande, spasimante voluttà sentimentale lo trasportava.

«Eppure per me la vita è molto dura,» continuò lei, fievolmente, come se la emozione la accasciasse. «Io non ho figliuoli per riscaldarmi il cuore con l’amore materno: accanto a me, vi è un vecchio dall’anima gelida per me, avvampante di passione per un’altra cosa, per un’altra idea. Oh se sapeste, amico, che è questa solitudine, questo eterno silenzio!»

«Ma perchè rinunziate?»

«Così,» disse lei, come se quella fosse la inesplicabile parola della fatalità.

E camminò di nuovo, tacendo, ma sempre più lentamente, come se la stanchezza la signoreggiasse: egli la seguiva, senza vedere più niente, senza intendere più nulla, in uno di quegli oblii dell’anima e dei sensi.

Cadeva il sole, dietro San Pietro, fra la Chiesa e Monte Mario.

«È finita, amico, è finita, mi pare quasi di essere morta. La gente vede la mia faccia serena, la mia tranquillità imperturbabile, e non deve saper altro, non deve indovinare la verità. Ma non vi è più nulla qui dentro.»

E dette un colpettino sulla mantellina, al posto dove il cuore batte. E non sentì quale ferita crudele portava al cuore di quell’uomo innamorato, dicendogli che mai potrebbe amarlo. In quell’ora e in quel posto, ella si lasciava andare a uno di quegli sfoghi malinconici ed egoistici delle anime che restarono lungamente chiuse: ella non vedeva più il suo compagno, si abbandonava a tutta la personale amarezza di un cuore giovane e deluso.

«Eppure,» mormorò lui, «vi è accanto a voi un’amicizia schietta e tenace, una devozione a tutta prova: quello che voi volete, egli vuole; il suo desiderio di giovarvi, umilmente, segretamente, non conosce nessun limite...»

E si arrestò, perchè la voce gli tremava, perchè le parole lo affogavano, perchè questo suo amore, esorbitante, parea volesse traboccar tutto.

«Grazie, grazie,» ella disse con un lieve sorriso mesto, che le rischiarò la fisonomia, «io lo so...»

«Non potete, non potete sapere, non ve l’ho mai detto, non ve lo dirò mai, non so dirvelo: vi assicuro che è la devozione più grande... perchè respingerla? Come potete rinunziarvi?»

«Perchè essa rassomiglia troppo all’amore, amico.»

«Essa non vi parla d’amore...»

«Io lo indovino...»

«Non dovete intenderlo, non dovete indovinarlo; io non vi chiedo nulla, non voglio da voi che il permesso di dedicarvi questa devozione...»

«Oggi, così: domani l’amore esigerà l’amore...»

«Chi lo dice?»

«Ahimè! L’esperienza, amico».

«L’esperienza mentisce!» esclamò egli, con violenza, «l’amore mio non è simile a nessun altro.»

Angelica chinò il capo, come vinta, per un momento: e Sangiorgio si pentì della sua violenza.

«Perdonatemi, signora,» le disse, umilmente, «ma l’idea di perdervi mi è insopportabile.»

«Eppure dobbiamo lasciarci. Meglio ora che più tardi: più tardi soffrireste molto di più, io avrei maggiori torti, voi avreste il diritto di accusarmi. La consuetudine inacerbisce ed esalta l’amore: verrebbe un giorno in cui non potremmo dividerci più, giorno di spasimo per voi, di vergogna per me. Ora... ora, ancora tutto è possibile. Che siamo l’uno per l’altro? Nulla: meglio così. Ci siamo visti, quattro o cinque volte...»

«Io vi ho vista sempre.»

«In mezzo alle volgarità della vita...»

«Io ho pianto con voi, signora, quando piangevate nel Pantheon.»

«Fra la gente curiosa e maligna...»

«Io vi ho guardata per un’ora, quel giorno, a Ponte Nomentano, quando lasciavate andare alla corrente dell’Aniene le foglie delle rose... eravate sola... eravamo soli...»

«Fra gli obblighi convenzionali della vita politica...»

«Quanto eravate bella, signora, quella sera, al ballo del Quirinale: io venni via con voi: non vi parlai: non mi diceste nulla: quanto eravate bella!»

«È un sogno, è un sogno,» ribattè lei, esaltata nel sacrificio dalle vibranti parole dell’amore, «bisogna svegliarsi. Bisogna dividersi.»

«Bisogna morire, allora.»

«Chi parla di morte?»

Non rispose egli alla sua domanda, ma nello sguardo di dolore e di rimprovero con cui la fissò, ella comprese. Oramai il sole tramontato e i grandi veli violetti crepuscolari salivano dalla terra al cielo bianco: una brezza fredda e cattiva si alzava nell’aria: dalla terrazza era scomparso il prete tedesco, lettore del breviario; dal banco di legno il vecchietto era scomparso: tutto il colle Pinciano si oscurava; e laggiù la folla urlava più che mai, eccitata dalla sera che veniva. Ella si avviò per andarsene, pel grande viale che portava alla Trinità dei Monti; ma egli la seguiva, come stordito, senza osare di dirle altro, deciso a seguirla dovunque. Al pilastro di marmo dove l’aveva incontrato, ella si volse e gli tese la mano:

«Addio, amico.»

«No addio, no!»

«È tardi,» pronunziò quella voce amata e glaciale.

E Angelica si perdette nelle brume crepuscolari.

····················

Ora, da Piazza del Popolo a Piazza di Venezia, accendevano i moccoletti. Era una miriade di punti luminosi, di fiammelle erranti, per la via, sui poggiuoli, sui balconi, sui carri: e un volare di mazzettacci informi e infangati, un somare di lunghe ventole, un agitarsi di fazzoletti, di stracci, un saltare, un soffiare di bocche, tutti i mezzi, tutti gli scherzi, tutte le violenze, tutte le brutalità per spegnere il moccolo: e i gridi di resistenza e quelli di attacco e la gran voce umana ripercossa:

— Moccoli, moccoli, moccoli!

Fra tanta luce, fra tanto schiamazzo, fra tanto baccano d’allegrezza, andava urtato, sballottato, sospinto, incosciente, un povero essere agonizzante di angoscia.

IV.

Tre volte avevano camminato accanto, sulla larga via di campagna che va da Ponte Molle a Porta Angelica, sotto gli olmi e i platani, costeggiando il Tevere biancastro.

Ella lasciava la carrozza prima del Ponte Milvio, dicendo al cocchiere di andarla ad aspettare in Piazza S. Pietro: e faceva un centinaio di passi a piedi, passando il Ponte, cercando con gli occhi.

Egli era sempre là, aspettando da due ore, turbato dall’impazienza e dal desiderio, passeggiando su e giù innanzi all’osteria di Morteo, internandosi un poco nella Via di Tor di Quinto, tornando indietro sino al Ponte, arrivando sin dove comincia la Via Flaminia, tornando ancora indietro, dando dappertutto delle occhiate distratte, ai salici rinverditi che si piegavano sulle sponde del fiume, ai mandorli fioriti che sorgevano dietro le siepi della Farnesina, non vedendo nulla, col capo rivolto sempre verso Ponte Milvio, donde ella doveva arrivare: e di lontano la vedeva spuntare, un improvviso rossore colorava di fiamma il suo volto pallido, non le andava incontro, l’aspettava di piè fermo, fingendosi distratto, disattento.

Ella arrivava sempre dopo il terzo o il quarto convegno mancato, sempre con un’ora e mezzo di ritardo, ma non si scusava mai, non ricorreva neppure a uno dei tanti pretesti femminili: e lui che fremeva di dolore, che sino a quel momento l’aveva incolpata di freddezza, di noncuranza, battendo i piedi, in preda a una nervosità invincibile, quando la vedeva comparire, non le diceva più nulla, la guardava, incantato, pagando con quel minuto acuto di gioia tutte le sofferenze passate.

Il primo minuto era sempre imbarazzante: non si sapevano dire nulla, ella seria e preoccupata, egli incapace di profferir parola, per l’emozione: e si mettevano a camminare, sotto gli alberi, lentamente, ella con gli occhi bassi, con le mani ficcate nel manicotto, per avere il pretesto di non andare sotto il suo braccio; egli girando fra le dita il sigaro spento, sogguardandola, felice, malgrado il contegno severo e triste di donna Angelica.

Dolcissima la primavera romana si allargava nell’aria dai cipressetti di Monte Mario sui platani dei Monti Parioli; e dalle siepi alte, sul fiume e sulla campagna, un candore di biancospino si offriva acutamente profumato. Le prime parole di donn’Angelica sonavano dolore, rimpianto, pentimento: parole brevi, ma profonde, che piombavano, tutte, sul cuore dell’amatore. Egli taceva umiliato, non sapendo che offrire di consolazione a questa virtuosa e santa donna, che per lui aveva la coscienza turbata dai rimorsi. Ma come la naturale pietà rifioriva nell’ora e nel tempo in donn’Angelica, ella moderava i suoi lamenti che diventavano sempre meno precisi, più vaghi, erano infine un ritornello malinconico che l’amatore ascoltava, come una musica dilettosa e rattristante:

— Se soffre per me, mi ama, — egli pensava, nella follìa dell’amore.

Ma nè ella aveva mai detto di amarlo, nè lui mai lo aveva chiesto: una timidezza paurosa, una vergogna e un riserbo strano avevano impedito all’amatore di fare questa domanda. Sì, temeva la risposta, la risposta serena, ma crudele della donna che non ama e a cui la pietà, per quanto grande, non concede di mentire.

Così, naturalmente, in questa loro singolare relazione, senza nessuno suo sforzo, donna Angelica nulla doveva concedere del suo cuore e nulla le si doveva chiedere che concedesse: tacitamente, senz’altro, era stato inteso che ella accettasse, sopportasse, subisse l’amore, senza mai aver l’obbligo di ricambiarlo. Ella era la immagine benedetta che si degnava tenere gli occhi pieni di grazia sul suo devoto — e il devoto la benediceva sempre più, l’adorava, le parlava del suo amore. Sotto i grandi alberi di Via Angelica, attraverso i quali il fiume s’inargenta, andando fra gli odori forti campestri sul terreno duro, egli, poco a poco, come quel cullamento triste della voce di donn’Angelica si affievoliva, le parlava sottovoce del suo amore. Sulle prime erano delle frasi tronche che la passione spezzava, il riassunto frettoloso di quello che aveva pensato e sentito nei giorni in cui non l’aveva vista, o, vedendola, non aveva potuto parlarle: e allora, pronunziando quelle frasi smozzicate, quasi violente, la fissava con certi occhi pazzi, che a lei davano un’impressione rapidissima di terrore. Ma al suono della propria voce, Sangiorgio andava riprendendo cuore, la parola diventava più facile, le idee si annodavano fra loro logicamente, il suo amore trovava in lui una eloquenza di sentimento così semplice e così convincente, che donn’Angelica, a quell’onda umile e letificante, andava riprendendo la sua bella pace: la faccia le si faceva rosea, come quella di una fanciulla che si gode puramente l’omaggio dell’amore. Talvolta in quei momenti ella andava cogliendo dei lunghi rami verdi o un fascio di celidonie giallissime o quei mucchietti di fiorellini bianchi minuti, come un merletto, o quelle bacche rosse e velenose, dall’aspetto così attraente: ed egli parlava d’amore ed ella coglieva fiori, a un tratto ringiovanita, — e talvolta dal suo fascio staccava un fiore e glielo dava.

Egli lo teneva fra le mani, arso dal desiderio di morderlo: e un giorno volle mangiare le bacche rosse, dalla tinta viva, così provocante.

«Volete morire?» fece ella scherzando, ma tremando.

E quel tremito fu uno dei tesori morali che andava raccogliendo Sangiorgio. Un giorno, presso un mandorlo basso, ella si eresse sulla punta dei piedi e staccò alcuni ramoscelli rosei, odorandoli lungamente, col sorriso della felicità sulla faccia. Non ella era dunque la primavera fresca e amabile? Il fiorellino di mandorlo che ella gli donò, andò a raggiungere un mazzolino appassito di mughetti, un pezzetto di stoffa di un vestito, chiesto e ottenuto per grazia, e che cosa preziosa, impagabile, un fazzolettino di battista, orlato di merletto antico — ottenuto in una sera di disperazione, dopo tre giorni inutili di attesa, invocato come un conforto. Ella sapeva questo: e le piaceva di saperlo. Ella guardava sì, lontano, verso Castel S. Angelo, verso la nuova caserma dei carabinieri, verso Roma vecchia, in cui qualche lume cominciava ad accendersi: ma ascoltava, pur guardando altrove, tutte le parole che Sangiorgio le diceva, dolcissimamente, e crollava il capo, come una bimba lusingata. Arrivavano a Porta Angelica, così, calmati, pacificati: egli doveva andarsene per la Via Reale che va ai Prati di Castello e a Ripetta, ella per la porta che conduce a San Pietro, — ma il loro saluto era pieno di tenerezza e lungo.

Un giorno ella giunse tutta tremante. Presso l’Arco Oscuro ella aveva incontrato l’onorevole Giustini, quel toscano tanto maligno, mezzo gobbo, mezzo sciancato, che trascinava intorno la sua noia cinica e la sua salute distrutta. Sì, ella era passata in coupè, rapidamente, ma Giustini l’aveva perfettamente riconosciuta, le aveva fatto un grande saluto a fondo di meraviglia, poi si era piantato sulla via, a seguire con l’occhio la carrozza che fuggiva. Ella tremava tutta: per poco non era tornata indietro, tanto la possedeva il terrore che quel cattivo di Giustini la seguisse, per curiosità maligna, per sapere. E si voltava, ogni tanto, spaurita, credendo che ogni villano che passava per Via Angelica fosse il gobbo deputato di Toscana, guardando Sangiorgio con certi occhi timidi e dolenti che lo desolavano; egli cercava invano di rassicurarla, di dirle che un uomo a piedi non segue mai una carrozza al trotto, che Giustini era là per caso, che, del resto, Via Flaminia era una passeggiata pubblica, dove non era da meravigliare nessuno se ci s’incontrava una signora in carrozza. Ma egli stesso era preso dal primo glaciale brivido di spavento, quello che colpisce gli amanti in piena sicurezza e turba tutta la purezza della loro gioia: cercava di rinfrancar lei, ma egli stesso era scosso profondamente. Queir ora di convegno fu amara, non ritrovarono mai più la serenità, e donn’Angelica, a un certo punto, riassunse tutte le sue paure, con la precisione che hanno le donne pel dramma che le sovrasta:

«Ora Giustini va alla Camera e dice a tutti, anche a don Silvio, che mi ha incontrata a Via Flaminia.»

Fu in quest’ora di amarezza che egli, sentendo i lamenti di donn’Angelica, osò dirle che bisognava levare dalla strada questo amore e metterlo in una casa, fra quattro pareti, al coperto dallo sguardo della gente, dalla curiosità dei viandanti. E glielo disse con tanta emozione rispettosa, con un sentimento così alto di riverenza, con una semplicità così onesta, che ella disse subito no, brevemente, ma non potette offendersene. No, ripeteva ella a tutte le umili considerazioni che egli le veniva facendo, un no lento ma deciso, senza collera, ma senza debolezza. A un certo momento, ella, come infastidita, gli disse:

«Tacete.»

Tacque: si separarono, senz’altre parole. Ma da quel minuto fatale in cui ella aveva incontrato Giustini, essi sentirono sempre più la pena di quell’amore in pubblico e intanto non prendevano nessuna precauzione, la pena di quell’amore randagio che non aveva tetto: amore vagabondo che faceva sorridere d’ironia i camerieri della trattoria Morteo a Ponte Molle, oziosi sulla porta e sul terrazzo della palazzina: amore malinconico che faceva ridere, coi suoi saluti teneri, i doganieri grossolani di Porta Angelica.

Due altri convegni furono molto penosi: la paura, oramai, si era messa in fondo al cuore di donn’Angelica e la faceva fremere al passaggio di un carrettiere, di un cacciatore: persino i canotti sul Tevere la spaventavano, le sembrava sempre che i canottieri la conoscessero e che alzassero il remo in segno di saluto. Non più parlavano d’amore: cioè non più egli poteva parlarle d’amore, ella lo interrompeva, ogni momento, sogguardandosi intorno, chinando il capo a qualche rara carrozza di forestieri che passava, arrossendo, impallidendo, respirando appena.

Un giorno di convegno, piovve dirottamente, da un’ora prima dell’appuntamento: egli si ricoverò sotto il portone di Morteo, ma non potendo reggere alla impazienza, si avanzava continuamente verso Ponte Milvio, bagnandosi tutto, cercando di distinguere qualche cosa attraverso quel velo di pioggia. Non vedeva nulla, ella non sarebbe venuta, era impossibile con quella pioggia, ma intanto egli continuava ad aspettare, sorretto da una uniforme speranza; la pioggia seguitava, ella non venne, naturalmente, ed egli ritornò in Roma, soltanto alle sette, bagnato, con l’umido nelle ossa, nel tram aperto, coi piedi sul legno intriso dell’ultimo carrozzone che faceva il viaggio da Ponte Molle a Roma, preso da una grande desolazione, abbattuto, con un principio di febbre. Non potette dirle nulla alla sera, ella era circondata di gente e non seppe le ore dolorose che egli aveva vissuto, là, tra la pioggia del cielo e la nebbia del fiume.

Ma l’altra volta, egli insistette. Ella disse ancora no, ma vagamente, come se rispondesse più a sè stessa che a lui. Era tarda l’ora e la temperatura fredda. Era una di quelle pessime giornate di gennaio trasportate in aprile, vento noioso e glaciale, cielo nuvoloso e basso, terreno bagnato e fangoso. Ella aveva soltanto una piccola mantellina di velluto che le copriva le spalle e il petto, e sentiva un gran freddo salirle dai piedini irrigiditi sino al cervello, abbassava la testa, portava il fazzoletto alla bocca. Anche Sangiorgio aveva molto freddo, col soprabito leggiero primaverile, ma non le diceva nulla, ambedue mortificati e oppressi dall’ora e dal tempo. Ogni tanto le chiedeva:

«Avete molto freddo, è vero?»

«Oh sì!» diceva lei, piano.

«Oh Dio!» ripeteva lui, guardandosi intorno, non sapendo che cosa fare per riscaldarla.

E affrettavano il passo, ma il fango inzaccherava gli stivalini di donn’Angelica e l’orlo della gonna, essi non potevano correre. Come per istinto, egli le disse di una stanza calda, come la sua, come quel salotto dell’Apollinare dove sempre divampava il fuoco nel caminetto, una stanza dove sarebbero stati soli: ella non rispose.

«Dove?» domandò ella, dopo una pausa.

Egli stette per dire, poi si fermò:

«Laggiù...» soggiunse vagamente, poi, indicando Roma.

Più altro. L’ora avanzava, cupa e fredda nella campagna deserta. Ella era così triste e spaventata, che per la prima volta passò il suo braccio sotto quello di lui: e quella intimità egli la ricevette umilmente.

Poi, per tre giorni non la vide, non potette vederla, non ne ebbe notizie, era un po’ ammalata: glielo aveva detto don Silvio. Un minuto, dopo quattro sere, la trovò sola nel suo palco, all’Apollo: ella era pallida, come se avesse la febbre. E nascondendosi dietro il ventaglio di piume, gli disse subito che per giunta, in quell’ultimo giorno di convegno, aveva incontrato l’onorevole Oldofredi in Piazza di San Pietro e che l’aveva squadrata con un certo ghigno beffardo. Oldofredi era vendicativo. Per ultimo, arrossendo per la vergogna, la soave donna dovette confessargli che temeva, temeva, finanche del cocchiere e del cameriere: temeva che l’avessero spiata. E vedendolo sbalordito, gli soggiunse, presto presto, mentre bussavano alla porta del palco:

«Verrò, verrò, dove voi volete.»

V.

Quando rientrò, di notte, nel suo quartierino dell’Angelo Custode, Francesco Sangiorgio aveva un po’ di febbre. La promessa fattagli da donna Angelica gli sconvolgeva il sangue: nella testa sentiva un grande ronzio, una confusione. E subito, entrando nel salottino, una impressione di freddo, il cattivo odore che vi regnava, sempre, gli aveva dato un fremito e una nausea: per non vedere quel brutto posto, così nudo, così miserabile, non accese nè il lume, nè il fiammifero. Si buttò, vestito, sul letto, sognando la casa dove avrebbe ricevuto donn’Angelica.

La sua fantasia accesa, rovente di febbre e di amore, fluttuava nelle visioni. Non sognava nulla di preciso, di determinato, egli vedeva innanzi ai suoi occhi aperti una fuga di stanze calde e profumate, dalle triplici tendine profonde, dal tappeto morbido che attutisce qualunque rumore di passi; ma non sapeva dove fossero, queste stanze, non si raccapezzava in che posto di Roma si trovassero, ora supponeva che fossero al Gianicolo, ora a Piazza Navona, ora a Via Sistina, ora a Piazza di Spagna. E questa indecisione, questo non sapere, lo crucciava molto, era il tormento di quelli che fanno un sogno cattivo e incompleto, e volendo camminare, non possono muoversi, volendo gridare, non trovano voce. Dove era la porta per entrare in quelle stanze, dove era situata la scala, dove sporgevano le finestre?

Egli vedeva, sì, ogni tanto, come un lampo di colori, il roseo di una tenda serica, sul muro; il riflesso fulvo di una poltrona di felpa; la scintilla metallica che partiva da un coltello damaschino colpito dalla luce; il disegno minuto di una trina antica giallastra, ma tutto questo confusamente, senza saper dove, nè come, nè quando, nulla. Dove si sarebbe seduta donn’Angelica, entrando in quella casa, dove avrebbe posato i bei piedini stanchi, dove avrebbe appoggiato il bel braccio, per sorreggersi, nella sua posa abituale, dolcissima?

Gli pareva che in quella casa non vi fossero nè sedie, nè divani, nè sgabelli, nè tavolini; gli pareva che fosse un gran posto vacuo, profondo, incommensurabile, in cui lui e donn’Angelica si fossero perduti.

Il suo sogno lo faceva spasimare d’angoscia, l’incubo gli premeva sul petto, la febbre gli mordeva il sangue, la testa gli girava.

Disteso sul letto, in un dormiveglia, soffrendo e pur godendo del suo sogno, egli non si moveva per paura che tutto s’involasse, anche la promessa di donn’Angelica: e ogni quarto d’ora che passava, nel parossismo, il sogno cambiava d’aspetto, si tramutava, si arrovesciava stranamente, diventava pauroso o comico. Talvolta gli pareva che stesse da tempo immemorabile aspettando donn’Angelica, la quale non veniva mai, mai: le tende bianche erano diventate prima gialle, poi bige; le stoffe si erano scolorite, il tarlo le aveva rosicchiate, cadevano in pezzi, cadevano in polvere; i mobili erano tutti sporchi, cadenti per vecchiaia; in fondo alle giardiniere vi era un po’ di cenere puzzolente che era stata fiore; le mura stesse stillavano umidità e vecchiaia, sembravano danneggiate. Ed egli stesso, Sangiorgio, nell’attesa lunghissima, sembrava diventato un vecchione più che centenario, lento, infermo, con una lunga barba bianca e la vista indebolita. Donn’Angelica non veniva mai, mai; e Sangiorgio continuava ad aspettarla, paziente, innamorato. Poi, una gran voce aveva tonato in quella casa tre volte: donn’Angelica è morta, donn’Angelica è morta, donn’Angelica è morta.

Alla prima volta erano caduti in un ammasso di frantumi i mobili, alla seconda il vecchione era caduto morto, col viso in terra e le braccia aperte, alla terza le mura della casa erano crollate, seppellendo tutto, facendo una tomba di quella casa che donn’Angelica non aveva voluto visitare.

Si tramutava il sogno, continuamente. Gli pareva che nel giorno del primo convegno, in quella casa, egli, per un caso stranissimo, avesse dimenticata l’ora dell’appuntamento e si torturava per rammentarsela, le due o le tre, non sapeva bene, non giungeva a ricordare.

Poi si avviava da Montecitorio a mezzogiorno, per essere in tempo: ma incontrava in un corridoio il vecchio presidente del consiglio, che lo fermava, e, carezzandosi la barba bianca fluente, gli parlava della Basilicata, del sale, dei contadini, di cose che egli non capiva troppo bene, tanto il suo spirito era altrove.

Arrivava a sbrigarsi di costui, ma sulla soglia del portone incontrava l’onorevole Giustini, la cui gobba era diventata immensa e il cui sorriso velenoso gli faceva male al petto, come se un succhiello gli cavasse il sangue. Giustini gli sbarrava la via, inarcando le gambe storte, parlandogli di Roma, di Roma che fingeva di dormire nella indifferenza e che era invece bene sveglia: e gli scoteva il braccio, facendogli male. Passava il tempo, passava. Sangiorgio si scioglieva bruscamente da Giustini, correva per Piazza Colonna, quando una voce femminile lo chiamava, da una carrozza ferma. Non avrebbe voluto arrestarsi, ma si sentiva trascinato, suo malgrado, verso quella carrozza: era un paio di occhi neri e scintillanti che lo guardavano con amore e con desiderio, erano certe labbra sanguigne e provocanti che lo avevano baciato e lo volevano baciare ancora, era la mano molle e carezzevole, era il profumo forte e dolce di violetta, era donna Elena Fiammanti che gli aveva voluto bene e gliene voleva, e, quasi senza muovere le labbra, gli diceva:

«Vieni, vieni, rammentati tutto, rammentati quando ci siamo visti, il giorno di Natale, al Gianicolo; rammentati la notte del veglione e la luna a Piazza di Spagna; rammentati le rose che ho lasciate a casa tua, quel giorno; rammenta il bacio che ti ho dato, nel teatro, dopo il duello; rammenta tutti i baci, tutto l’amore; vieni con me, con me è la gioia, con me è il piacere, con me non piangerai, con me non dovrai spasimare. Vieni dunque, mi dirai tutto quello che soffri, ti consolerò: non ti dirò quello che soffro, non dovrai consolarmi.»

Ma egli chinava il capo, si turava le orecchie, chiudeva gli occhi, per non udire quella voce ammaliatrice, per non vedere quel volto farsi triste triste, diceva fra sè un nome, Angelica, il suo talismano, e pareva che donna Elena ne ricevesse il contraccolpo nel cuore, che si buttasse indietro, nella carrozza, come disperata e dicesse al cocchiere di fuggir via. Sangiorgio correva, correva, per la strada, tutte le carrozze che incontrava, erano piene; tutti gli amici che incontrava, volevano fermarlo; la folla che gli si assiepava dintorno gl’impediva di camminare; i cani gli attraversavano la via. Egli correva, correva, affannava, affannava, oramai non era più in tempo, era troppo tardi, donn’Angelica era già arrivata, sarebbe già partita, non avrebbe atteso. Quanto lungo il cammino, quanti ostacoli, quante difficoltà! Infine, giunto al posto, rosso, ansimante, perso, si doveva fermare: innanzi al portone, l’onorevole Oldofredi passeggiava, ironico, minaccioso, ridente. Gli rideva finanche sul volto, sanguigna, la ferita che Sangiorgio gli aveva fatta. E faceva la guardia, andava e veniva, bruttissimo, odioso, odiante, implacabile.

····················

La casa era al numero 62, in Piazza di Spagna, al primo piano. Sulla soglia del portoncino, un fioraio ambulante aveva posato il suo largo cesto pieno di fiori primaverili, le violette pallide e profumate di Parma, le rose doppie, vivissime, le giunchiglie volgari dal forte odore; e tutto lo scalino era bagnato di acqua, vi era appena posto per entrare. Mancava il portinaio, come in quasi tutti i portoncini di Piazza di Spagna; e le scalette erano oscure: il pianerottolo, dove tre porte si aprivano, era appena illuminato da un piccolo finestrino. Sulla porta di mezzo, un biglietto da visita era conficcato con due spilli, il biglietto dell’onorevole Francesco Sangiorgio. Nella piccola anticamera un po’ scura, Noci aveva messo un grande cofano da nozze, nero, antico, delicatamente scolpito, su cui era disteso un lungo e sottile cuscino di seta rossa e gialla; tre o quattro sedie di legno bruno, cupo, scolpito, e un tavolino uguale; dal soffitto una lampada di bronzo pendeva, sempre accesa, dando una falsa apparenza di notte a quell’anticamera un po’ tetra, di cui una grande tela dipinta copriva il triviale soffitto e le pareti, nascondendo le grottesche pitture e il parato di carta di Francia.

Dopo veniva il salotto che aveva un grande balcone sulla piazza, un salotto largo e luminoso, sempre pieno di sole: ma certe tende antiche, di un lampasso roseo e verdigno molto chiaro e un grande pezzo di merletto antico giallastro, innanzi al balcone, mitigavano la luce. Le pareti erano tese di un raso molto lucido color nocciuola, ma scomparivano sotto le stoffe orientali, sotto i tappeti persiani, sotto i brani di broccato vecchio, tesi, aggruppati fantasticamente, tenuti fermi qui da un grande piatto lucidissimo di ottone a sbalzo, altrove da una scimitarra artisticamente cesellata, altrove da un grande fascio di piume di pavone disposte a ventaglio. Un rosario di legno di sandalo, una di quelle lunghe collane a grani profumati, che le donne turche girano e rigirano continuamente fra le dita, per profumarsi le mani e per ingannare, con un esercizio monotono, il tempo che non vuole passare, il rosario turco che non è preghiera, ma è un piacere del tatto e dello spirito, il comboloi, pendeva da una gran parete; un grande velo biancastro a stelline d’argento, il mantello delle donne orientali, il feredjè, pendeva da un’altra. Ma la nota dominante, stranissima, era, sopra una parete, un pezzo di broccato giallo antico, qualche cosa come un oriflamma, tagliato nella larghezza e nella lunghezza da una croce che acciecava, che risaltava su tutte le mezze tinte di nocciuola, di mattone smorto, di rosa pallidissima che regnavano in quel salotto. Vi era una morbidezza profonda, mancava sapientemente qualunque mobile di legno, non un tavolino dagli angoli duri, non uno sgabello: il velluto, la seta, il raso nascondevano qualunque traccia di durezza. In certi leggierissimi vaselli opalini dei giacinti rosei, carnicini, violetti, bianchi, lilla pallidissimi; sopra un divano, da un vaso giapponese, una rosa si era sfogliata, come di languore. Dei cuscini di piume, larghi, di seta rossa, rosea, scarlatta, porporina, rosa secca, in tutte le gradazioni del rosso, dal seno della rosa bianca sino al tetro color vinoso, erano ammucchiati in un angolo: se ne poteva formare un sedile, un letto, un trono.

La stanza da letto dava pure su Piazza di Spagna, ma con due balconi: per smorzare la soverchia luminosità, oltre le tende e le cortine, tutta la stanza era parata di velluto azzurro cupo, ricamato a larghe striscie di seta bianca e di argento. Ma non vi era letto, sembrava piuttosto un altro salotto, più cupo, più severo, senza tanti ornamenti: vi era un basso e largo divano, senza spalliera, su cui era stata buttata una grande coltre di velluto azzurro, ricamata d’argento, con una cifra in mezzo, un’audacia del tappezziere, un’A lunga e sottile. Sopra vi proiettava la sua ombra una tenda azzurro cupo, tutta stellata, come il firmamento: una tenda che formava un triangolo strano, rialzato da cordoni e da fiocchi d’argento. Rallegravano quella tetraggine uno scrigno di legno di rosa, due o tre di quei mobili piccolini e civettuoli che la Pompadour amava.

In un vaso alto del Giappone, un vaso dove un uomo si poteva nascondere, una musa paradisiaca allargava le sue foglie doviziose, dalla grossa vena sanguigna: nessun’altra pianta, nessun altro fiore. E il piccolo stanzino da toilette, accanto, era parato di Casimiro bianco e di rosso, con un nécessaire d’argento brunito, segnato colle cifre di Francesco Sangiorgio: due enormi azalee bianche vi fiorivano.

In quattro giorni, cedendo alla fretta del deputato, l’artista gli aveva messo su quella casa: sulle prime Sangiorgio si era tenuto guardingo, andando ogni tanto a sorvegliare: ma la impazienza lo mordeva troppo, tutto gli sembrava troppo brutto per lei, troppo lento per il suo amore. Se ne andò via, deciso a ritornare solo quando la casa fosse finita, dormendo e sonnecchiando e sognando nel suo freddo e puzzolente quartierino di Via Angelo Custode, mentre a Piazza di Spagna preparava il nido dell’amore.

Egli vi ritornò, solo quando tutto era a posto, e ne ricevette una impressione gioconda e dolorosa. Che avrebbe ella detto? Non era troppo morbido quel salotto per la bella e composta persona, che non si abbandonava mai sopra una poltrona? Non era troppo sensuale tutto quell’Oriente per la casta fantasia della soavissima? Non erano forse troppo voluttuosi quei giacinti, fiori senza foglie, carnali in tutta la loro efflorescenza? E quell’ammasso di cuscini sanguigni e delicatamente rosati, non erano forse un invito troppo manifesto al riposo, al perfido riposo, che è l’abbandono dell’anima? La stanza da letto gli pareva bella per la sua severità: ma giammai la pura signora sarebbe entrata lì dentro. Egli era soddisfatto e turbato: aveva chiesto all’artista un quartierino destinato all’amore, e costui glielo aveva fatto. Ora quell’ambiente chiuso, sacro, quei profumi floreali ed esotici gli sconvolgevano il suo ideale: o piuttosto facevano sorgere in lui un nuovo ideale, più vivo, più umano.

····················

Qui, in questo quartierino che il lieto sole di primavera riscaldava, conquistando Piazza di Spagna dal bigio palazzo di Propaganda Fide sino al biondo palazzo dello Albergo di Londra, innanzi al caminetto dove sempre scoppiettava e divampava un fuoco di legna secca, Francesco Sangiorgio aspettava donn’Angelica. Quando l’arredamento fu finito, egli ricominciò a insistere con lei, dovunque la trovava per un minuto solo, in casa, al teatro, alla tribuna di un diplomatico, fra due porte, in un corridoio, sulla soglia di casa sua, dovunque le poteva dire una parola, dirigere uno sguardo di preghiera senza esser visto, senza essere udito. Diventava la sua idea fissa quel convegno nella casa a Piazza di Spagna, non sapeva balbettare altro, non chiedeva altro. Ella, pentita della sua concessione, ripresa dagli scrupoli, diceva ancora di no, scrollando il capo, non persuasa, diffidente di lui, dell’amore, paurosa delle strade e delle persone. Ella non parlava delle sue paure, dei suoi sospetti, ma rifiutava sempre, ostinata, vinta di nuovo dalla indolenza della donna virtuosa, guarita da quell’impeto di febbre, scampata da quel desiderio di peccato spirituale. Egli s’inaspriva, sdegnato di quei sospetti, amareggiato dalla resistenza, urtandosi colla violenza del suo temperamento e del suo desiderio contro la mitezza di donn’Angelica, spezzandosi contro quel rifiuto. Uno scontento profondo di sè e dell’amore cominciava a nascergli nell’anima: e aveva il senso di una grande ingiustizia che la donna amata gli usava. Una sera, soccombendo all’amarezza per l’ingratitudine di donn’Angelica, le disse, tremando di ira e di dolore:

«Infine.... che temete? Voi siete sicura, voi che avete l’anima invincibile: non ho io sempre fatto quello che voi volevate? Non sentite, nella vostra invincibilità, Angelica, che non correte nessun pericolo, in casa mia? La vostra difesa è in voi: e voi siete senza debolezza, senz’abbandono.»

Ella rizzò il capo, tutta rosea di coraggio e di orgoglio:

«Verrò,» disse, come una eroina sicura della vittoria.

«Quando?»

«Non so: non so bene, aspettatemi, conoscete le mie ore.»

E null’altro precisò. Non credeva di dovergli dire altro, credeva che egli abitasse proprio lì, in Piazza di Spagna e non gli costasse nulla di aspettarla, credeva alla sua divozione; come tutte le donne, calcolava solo il proprio sacrificio, non sapeva misurare quello altrui.

E tutti i giorni, in quella fine gaia di aprile, Francesco Sangiorgio andava ad aspettarla nel salottino, a Piazza di Spagna. Egli si alzava un po’ tardi, nell’ambiente scuriccio e sudicio di Via Angelo Custode, andava attorno, macchinalmente, vestendosi, bevendo la cattiva tazza di caffè che la servaccia gli portava, non toccava nè un libro, nè una penna, uscendo subito da quella brutta casa, dove si sentiva soffocare. Per istinto si recava a Montecitorio, ma non andava nei corridoi, nè alla sala di lettura: si spingeva sino alla posta, preso da una curiosità istintiva, sempre, cercando le sue lettere. Incontrava qualche collega, che gli domandava:

«Che fai, che non ti si vede più? Perchè non vieni alle sedute?»

«Lavoro, lavoro,» rispondeva lui, pensoso, passandosi una mano sulla fronte.

Oppure:

«Siete stato in Basilicata, Sangiorgio? E quelle relazioni, per l’inchiesta agraria, saranno a buon termine?»

«Sì, sono stato in Basilicata,» rispondeva lui, arrossendo, imbarazzato, per un minuto, dalla bugìa. «Le relazioni.... presto, presto saranno finite,» soggiungeva vagamente, «....è un lavoro che mi affoga...»

Ma cercava di evitare questi incontri, non sapendo mentire, turbandosi innanzi a queste risorgenti voci della coscienza: e se ne andava, leggendo le sue lettere, senza intenderne il senso, preso da una grande indifferenza innanzi a quelle domande dei suoi elettori, innanzi a quelle raccomandazioni dei sindaci, pressanti, insistenti, noiose. Sino a un mese prima, era stato un deputato freddo, ma compito, rispondendo sempre, a tutti, talvolta il giorno stesso, non curandosi delle persone poco influenti, saggiamente rendendo servigi ai grandi elettori, a tutti coloro che potevano essergli utili, appagando costui con una promessa, per qualcuno ottenendo quello che desiderava, in realtà non disgustando nessuno. Ma tutti quegli affari gli erano prima tornati indifferenti, ora lo seccavano, lo irritavano: egli pensava solo a quel nido odoroso dove forse, in quel giorno, la dolce signora sarebbe venuta, rimetteva in saccoccia, con un moto nervoso, quelle lettere e andava a far colazione, presto, alle Colonne, solo solo, assorbito dal suo pensiero, immerso in una contemplazione buddistica dell’amore. Mangiava senza vedere: e se a un tratto la coscienza gli rimproverava di non rispondere alle lettere urgenti, si faceva portare della carta, il calamaio e la penna, e scriveva frettolosamente, brevemente, sopra un angolo del tavolino, lasciando raffeddare la bistecca.

Ma dopo un paio di lettere, la stanchezza, l’impazienza lo vincevano: e pagava il conto, andava via subito. Talvolta le lettere scritte gli restavano in tasca due o tre giorni, le dimenticava, non servivano più.

All’una era sempre in Piazza di Spagna, comprando dei fiori da tutti i fiorai, caricandosi di rose, di giacinti, di mammole, infilando subito il portoncino, preso da un’ansietà, quasi che donna Angelica dovesse essere là ad aspettarlo, lei, mentre egli aveva la chiave in tasca.

Subito, l’ambiente calmo, ricco, felice del quartierino gli procurava una sensazione di benessere. Là, certo, sarebbe venuta donn’Angelica: lo aveva promosso, sarebbe venuta. E si metteva ad accendere il fuoco, accovacciato per terra, come uno sposo premuroso e innamorato: non era contento, se non quando la catasta divampava, donn’Angelica adorava il fuoco vivo, che rallegra le fibre e riscalda il cuore.

Poi girava per la casa, metteva fiori nei vasi, cambiandovi l’acqua, buttando via quelli appassiti, nella piccola cucinetta vuota: e certe volte mutava posto a un fascio di giacinti, univa le mammole alle rose, le disuniva, mai contento, occupandosi a quel lavoro d’amante con un grande ardore. Girava per la casa: sempre la stanza da letto, con quel grande divano basso e molle, gli dava un crollo ai nervi. Ritornava in salotto, accanto al fuoco, al fuoco casto e familiare, al fuoco che purifica e che è l’immagine dell’anima nobile. Ivi aspettava.

Per fortuna, la contemplazione del fuoco è un grande diletto per gli spiriti pensosi e raccolti; così Francesco Sangiorgio poteva dominare, quasi cullare, la sua impazienza, poichè donn’Angelica non veniva.

Passando in quel salotto, accanto al caminetto, cinque o sei ore al giorno, solo solo, senza osare di muoversi, egli aveva imparato a seguire tutta la vita del fuoco, dalla lieve scintilla che si comunica, si propaga, si dilata, si dilata, sino alla vampa larga e crepitante: dalla incandescenza viva e forte, sino alla scintilla che si va restringendo, si appanna, muore. L’occhio suo, macchinalmente, in quei lunghi pomeriggi primaverili, soffocanti di dolcezza, seguiva la vita, l’accensione, la morte di ogni tizzo: e mentre tutta l’anima sua invocava e aspettava donn’Angelica, consumandosi come lui, con gli stessi ardori, gli stessi avvampamenti, gli stessi languori smorenti a poco a poco. Le maggiori ore di fiamma erano dalle quattro alle sei, in cui donn’Angelica avrebbe potuto venire: allora nel cuore dell’uomo e nel fondo del caminetto, era tutto un bruciare altissimo, una temperatura dove tutto si strugge, il coraggio e il metallo.

Ella poteva capitare da un minuto all’altro, era forse per le scale, si fermava sul pianerottolo, esitante, tremante: ed egli chiudeva gli occhi, nel sussulto caldo e febbrile di quell’idea: ogni giorno, dalle quattro alle sei, l’eccitamento dei nervi diventava acutissimo; e in quelle due ore l’incendio di una catasta di legna lambiva le pareti del caminetto. Poi veniva l’imbrunire: il desiderio e la speranza s’illanguidivano nel cuore dell’amante, accasciati in un sopore, s’illanguidiva il fuoco nel caminetto: cadeva la luce, cadevano le vampate, la cenere bigia del crepuscolo discendeva sulla terra, sull’uomo, sull’amore, sul fuoco. Egli usciva di là, ogni sera, alle sette e mezzo, fra il freddo della strada e della sera che lo colpiva: fra il freddo del disinganno che era in lui. Andava, smorto, tutto raggricchiato, con le mani in tasca e il capo chinato sul petto, come un miserabile febbricitante, che ha addosso il ribrezzo del male, come un giuocatore che ha perduta l’ultima sua partita.


E così, come il giuocatore che ogni giorno si abbatte nella sua delusione, ma ogni notte ritrova le forze per sperare e per giocare, più ardimentoso, più audace, l’amatore avvilito nella sua speranza ritrovava la sera al cospetto di Angelica la fede nell’Amore. Non la vedeva che fra la gente, non poteva quasi mai parlarle, ma lo sguardo di lei gli diceva sempre, esortandolo alla pazienza, alla rassegnazione:

— Aspettami, aspettami ancora: verrò.

Il giorno seguente, malgrado una voce scettica che gli parlava nell’anima, malgrado tutte le delusioni passate, egli andava a chiudersi più presto nel quartierino di Piazza di Spagna. Era una follia sperare che ella avesse potuto venire prima delle due: ma, nella sua impazienza, egli arrivava ogni giorno più presto, penetrando nel salotto a mezzodì col bel sole meridiano di aprile, ne usciva alla sera, sempre più tardi, alle otto. Alle volte, accanto al fuoco semispento, un assopimento lo prendeva, come quelli che colgono i febbricitanti: sonnecchiava, sognava quasi, svegliandosi in sussulto, credendo di aver udito squillare il campanello. Non era nulla: donn’Angelica non veniva. E in quell’attesa, un grande cruccio lo teneva: quando non doveva aspettare, immobile e solitario, donn’Angelica; quando non vi era ancora l’idea del quartierino, egli, in quelle ore, aveva la libertà di cercarla dovunque, al Parlamento, a una conferenza, a un ricevimento, a una passeggiata; poteva trovare un pretesto per andare, finanche, un minuto, in casa di lei: poteva, in mancanza di meglio, parlare di lei, un minuto, con don Silvio. Ma ora no. Mentre ella andava e veniva, forse a villa Borghese, forse a una visita di amiche, forse a una seduta parlamentare, mentre ella beava di sua presenza le donne, gli sciocchi, gli indifferenti, e il primo imbecille capitato poteva vederla, salutarla, parlarle: egli, che l’amava, che la desiderava, che viveva soltanto per lei, era ridotto all’inazione, all’impotenza, solo solo, fra quattro pareti, martoriato da due pensieri:

— Dove sarà? Verrà?

Prima, quando non vi era ancora l’idea del quartierino, egli faceva ancora parte del consorzio umano. Andava, veniva fra le gente, dominato da un sol pensiero, è vero, ma infine avendo tutte le apparenze dell’esistenza. I colleghi lo incontravano, discutevano con lui di politica, egli li ascoltava, macchinalmente, rispondeva loro, come un musicista che suona a orecchio; fingeva d’interessarsi ancora alla sua vecchia passione, — era ancora vivere, quello. Ma, ora, fra lui e la politica, fra lui e la vita, una grande divisione era accaduta: egli compariva un minuto solo a Montecitorio, di buon mattino, per quell’abitudine di aprir la posta, poi il quartierino di Piazza di Spagna ingoiava quel pensiero e quell’azione, sequestrava l’attività e l’attenzione di Sangiorgio. Tanto che, alla sera, quando si metteva in giro, per cercare donn’Angelica, egli ricascava nella vita, come un trasognato, non sapeva nulla, non aveva inteso e visto niente, non aveva parlato con nessuno, non aveva letto i giornali, aveva l’aria rimbecillita: tanto che sul conto suo cominciavano a correre di questi giudizi:

«Quel Sangiorgio! pareva una forza, ma che delusione....»

«Tutti così i meridionali: gran fuoco di paglia che non illumina, nè riscalda...»

«Uomo finito, Sangiorgio...»

Sentiva egli questo ghiaccio che gli si formava intorno, questo abbandono del pubblico, questo uscire dalla vita pubblica: aveva il senso di questo dissidio fra il suo spirito e la politica: intendeva che ogni giorno di assorbimento nel nuovo ideale consumatore lo allontanava, per migliaia di miglia, dai vecchi ideali: tutto intendeva.

Non cieco, no: non acciecato, ma veggente e volente il sacrificio. Non vittima mormorante parole di disperazione, non ribelle che oltraggia il tiranno: ma martire soddisfatto, felice, che vede scorrere con delizia tutto il miglior sangue delle sue vene. Anzi, più il suo amore gli toglieva, più cresceva il suo ardore: maggiore il desiderio del sacrificio. Così, una specie di lugubre, dolorosa voluttà lo colpiva, quando al mattino soleggiato egli abbandonava le vie piene di gente e il lavoro e il movimento e la vita, per andare a rinchiudersi in una stanzetta, ed aspettare. Come il fanatico adoratore di Buddha, egli saliva o discendeva tutti i cerchi dell’annichilimento, sino all’astrazione completa e amarissima, sino al nirvano pieno di dolore.

····················

Era nel primo mattino odoroso di maggio, nel chiarore allegro, fra lo scampanio festoso che veniva da Trinità dei Monti. Egli era entrato nel suo tempio, carico di rose, ma col viso pallido ed emaciato: e quella freschezza umida dei fiori, quel loro colorito di salute e di bellezza, urtava con colui che li portava, triste e infermiccio come una serata di ottobre carica di miasmi. Egli metteva al posto le rose, con quell’aria quasi infantile di dolore che fa tanta pietà, per quanto più è ingenua e silenziosa. Quando un lieve tocco del campanello gli sconvolse i nervi, lo fece arrossire, gli mandò le lagrime agli occhi: caddero le rose sul tappeto.

«Sono io, io,» disse, a voce bassa, donn’Angelica, entrando.

Ella non si guardò neppure intorno, entrò subito nel salotto, si buttò sopra una poltrona, mormorando ancora:

«Sono io, sono io.»

Egli restava ritto innanzi a lei, contemplandola con gli occhi inumiditi dalle lagrime, nulla osando dire, non avendo neanche il coraggio di ringraziarla.

La dolce donna aveva tenuta la sua promessa, ella non poteva mentire: col maggio odoroso, col mese delle rose, delle preghiere a Maria Vergine, ella era venuta, la divina. Non lei era dunque la Madonna a cui si offrono le rose? Senza dire niente, egli, preso da un moto improvviso, andò raccogliendo per casa tutte le rose, sparse per terra, già semiaperte nei vasi, e con un gesto gentile e delicato, senz’altro soggiungere, gliele andava gettando in grembo, tanto che la stoffa di un bigio chiaro del vestito ne rimase coperta.

«Ho tardato, ho tardato assai,» mormorò ella, chinando il capo a quella pioggia di fiori, «ma non ho potuto...»

E fece un gesto vago, di donna oppressa. Egli la pregò di cessare, con lo sguardo e col cenno della mano: non lei aveva bisogno di giustificazione innanzi a lui. Ed era così profonda la consolazione della sua presenza in quella casa, così completa la felicità del suo cuore, che nulla voleva la turbasse, nulla di amaro, nulla che sonasse rimprovero. La dolce donna, vestita di un tenerissimo color bigio, con una lieve piuma bianca sul cappello, con una velettina bianca sugli occhi che ne aumentava la giovanilità della fisonomia, posava compostamente, con le ginocchia coperte di rose, con una mano inguantata di grigio, abbandonata in grembo, perduta fra le rose; l’altra manina inguantata pendeva fuori del bracciuolo con le dita chiuse, come se avessero lasciate sfuggire qualche cosa. Egli sedette là accanto, sollevò lievemente quella manina inerte, la portò alle labbra, la baciò, con un soffio; parve che non se ne accorgesse.

«È bello, qui,» disse lei, placidamente, come se si trovasse in visita da un’amica, «è molto bello.»

«Mi sembrò udirvi dire che amavate Piazza di Spagna,» disse lui.

«È la strada che più amo, avete fatto bene a venir qui. Io non ho potuto, mai: non ho trovato. Quella vecchia Roma, dove io abito, è così triste, così triste! Per questo esco sempre: ogni volta che io esco, per quanta fretta abbia, passo sempre per Piazza di Spagna.»

«Venite a star qui, in questa stanza,» disse lui, sorridendo, come se scherzasse.

«Vorrei, se potessi,» rispose ella, con molta semplicità. «Ma non posso: debbo restare laggiù, nell’ombra. Che sole che ci è qui! Sulla soglia delle porticine si vendono dei fiori: anche qui, entrando, ne ho visti. Pare che trabocchino dalle case. Mi pare che in questa piazza sieno tutte case di felici: tanto sole, tanta primavera, tanta bellezza! Non siete felice voi, amico?»

«Sì,» disse lui, profondamente.

«Iddio vi assista,» diss’ella a voce bassa, congiungendo le mani, come se pregasse.

Acuto l’odore delle rose di maggio. Ella ne odorò una a lungo.

«E in fondo alla piazza, per contrasto a tanta chiarezza, ai bei palazzi bianchi, alle ricche botteghe d’oggetti d’arte, quanto è mai strano quel grande palazzo bigio, severissimo, su cui stanno scritte le parole: Propaganda Fide! — Propaganda Fide! non vi sembra che queste due parole abbiano qualche cosa di vasto e di misterioso, che si allarghino repentinamente per tutto il mondo? Io spero che voi siate credente, amico.»

«Se voi credete, io credo, Angelica.»

«È così volgare essere atei! La religione è bella, è buona, vale molto più di molte cose che il mondo apprezza. Siete mai stato in qualche chiesa di Roma?»

«Ho visto le basiliche per curiosità di arte.»

«Sì, sì, sono grandi chiese vuote, non servono a nulla. Bisogna vedere le piccole chiese di Roma, quelle che servono per pregare. Ve n’è una quassù, la Trinità, dove cantano le monachelle, ogni domenica, dietro la grata: che soavità di canto! Non le vedete, vi sembrano anime esalante il loro amore e il loro dolore. Ci andremo una volta insieme, dite, nevvero?»

«Se voi volete, io ci verrò.»

«Io vorrei che pensaste quello che penso, amico mio: vorrei che sentiste quello che sento. Non indovinate, forse?»

«Vi voglio tanto bene, indovinerò,» disse lui, con quella soffocazione di voce che gli veniva quando le parlava del suo amore.

«Non dite questo,» ella mormorò arrossendo come una fanciulla, «avevate promesso di non dirmelo.»

«È che, talvolta, ciò è più forte di me. Lasciatemelo dire, qualche volta, Angelica: siate dolce, voi che siete la dolcezza. Io vi voglio tanto bene, tanto bene, che me ne muoio. Sono solo, non amo altri, non debbo amare altri, voglio bene a voi, Angelica.»

E vedendolo diventare rosso di passione, ella non gli disse più nulla, ma leggermente, come l’ala di un uccello, come una foglia d’albero, agitata dalla brezza, gli agitò la manina sul volto. Egli tacque, come un fanciullo vergognoso, un po’ sorridente, un po’ imbronciato, sentendosi rinfrescare il viso da quel soffio. Ella sorrise, con una certa malizia ingenua, prima di fargli questa domanda:

«È vero che avete amato donna Elena Fiammanti?»

«No, mai.»

«Allora ella ha amato voi?»

«No, neppure.»

«Voi non mentite mai, mi pare?»

«Mai.»

«Eppure ella deve avervi amato, credo. Sembra una donna leggera, volubile, ma deve avere il cuore molto buono, molto affettuoso. Io non la vedo quasi mai, ella preferisce la compagnia degli uomini a quella delle donne. Proprio mai le avete voluto bene?»

«Io non ho voluto bene a nessun’altra donna che a voi, Angelica.»

«Non parliamo d’amore, amico. Me lo avete promesso. Se io ne parlo, non mi rispondete: lasciatemi dire, non m’interrompete. Io ho bisogno di pensare ad alta voce, accanto a una persona che m’intenda, che abbia per me dell’affetto, che mi compatisca. La pietà, anzitutto: voi sarete pietoso per me, nevvero, amico?»

«Angelica, Angelica, non dite questo...»

«Perchè, vedete, io sono come una bimba, talvolta, io dimentico la mia parte di donna grave, di persona seria. Io ridivento una creatura timida e paurosa, superstiziosa, sognatrice, piena di stravaganze puerili, di capricci inevitabili. Io sono serena, pel mondo, questo è il mio dovere, questo è il mio obbligo: ma nell’ora bizzarra, nell’ora della tristezza indefinibile, delle gioie impensate, che niuno sa spiegare, io ho bisogno che qualcuno abbia pietà di me. Avrete voi pietà di me, amico?»

E quasi a pregarlo, giunse le mani, gli rivolse gli occhi supplicanti: egli si chinò, un minuto, sulla fronte dolce e bianca, la baciò così lievemente, che parve un soffio, ma con tanta amorosa pietà, con tanta innocenza di amore, che ella, commossa, si mise a piangere silenziosamente.

«Non piangete, Angelica,» diss’egli, dopo un poco, con una voce tramutata, «non piangete.»

«Lasciatemi piangere, lasciatemi: mi fa piacere, è uno sfogo: a casa non posso piangere mai. Ora.... ora non piangerò più, vedrete, mi passerà.»

Egli non insistette, parendogli di togliere un conforto alla povera donna: ma le lagrime che le correvano per le guance gli procuravano un grande spasimo, erano per lui un dolore acuto e un’acuta seduzione, lo vincevano con la irresistibile voluttà dell’angoscia. Mentre ella parlava, placida, sorridente, come se fosse nel proprio salotto o in visita nel salotto di un’amica e non chiusa con un amante in una casa recondita, dove nessuno sarebbe mai venuto a disturbarli, egli poteva dominare il suo temperamento d’uomo, sino al punto di non chiederle nulla, sino al punto di non parlarle di amore: ma quando ella, dopo aver parlato del suo cuore ferito insanabilmente, dei suoi sogni perduti, della sua giovinezza morta per sempre, piangeva, piangeva su questa tomba, quando egli la sentiva singhiozzare lievemente, immota, come una bambina che soffra, allora egli non poteva resistere alla tentazione di prendersela nelle sue braccia, di tenersela stretta a sè, per sempre, sino alla ultima ora.

Sangiorgio chinava il capo per non veder più quel viso solcato di pianto, quel petto che si gonfiava e alenava, come quello di un uccellino: ma stanca, ella si acchetò, lentamente, conservando ancora la malinconia di chi ha pianto, il profumo delle lagrime. Guardava il merletto del suo fazzoletto molle di lagrime e taceva.

«Perdono, amico,» disse, dopo, come se allora soltanto si ricordasse che egli era là.

«Non lo dite... non sono io il vostro amico?»

«Ohimè, sono una triste amica, io,» soggiunse ella con un sorriso mesto: «non vi allieterò certamente la vita. Val meglio perdermi che guadagnarmi, ve lo assicuro.»

«Io vi amo così, io vi amo come siete, io vi amo per questo,» soggiunse lui, con una certa violenza. Ella tacque un momento, guardando la striscia di sole meridiano che attraversava la tendina di merletto di un giallo antico e si distendeva sul tappeto, sino al mucchio di cuscini di seta rossa che aspettavano una bella donna stanca. E un pensiero le venne, ella si alzò di scatto:

«Vado via,» disse.

«No, no,» egli mormorò, smarrito, come se non si attendesse mai a quello schianto.

«Debbo andare,» rispose ella, seria.

«Perchè?» chiese egli, infantilmente.

«Per questo,» ed era ritornata al sorriso, per la ingenuità della domanda.

«Restate ancora, siete giunta adesso.»

«È un’ora, è già tardi, debbo andare.»

«Un altro poco, un’altro pochino,» insisteva lui, nella puerilità del suo amore.

«Non posso, ve lo assicuro, sono restata già troppo.»

«Che vi fa un altro pochino?»

«Nulla mi fa, ma a che serve? Un minuto di più, cinque minuti di più, che vi fanno?»

«Non mi tormentate, Angelica, siate buona, concedetemi altri cinque minuti.»

«Rimarrò, ma esigete troppo,» diss’ella, crollando il capo, come una mamma che concede, sforzata, una chicca al fanciulletto che strepita.

E stettero fermi, presso la porta del salotto, una innanzi all’altro, ella come annoiata e impaziente di andar via, egli come imbarazzato e pentito di averla trattenuta. A un tratto un pensiero cattivo contrasse il viso di Sangiorgio:

«È vero che non volete tornar più?»

«Tornerò, tornerò,» mormorò ella, facendo per uscire, parendole che già fossero passati quegli eterni cinque minuti.

«Oh, non lo dite, voi non tornerete, non volete tornar più,» riprese lui, tutto agitato, incapace di resistere a questa idea; «perchè ingannarmi? Ora ve ne andate, ma non ritornerete più, lo so, qualcuno me lo ha detto, dentro di me.»

«Ritornerò, ritornerò,» continuava a dire ella, con la sua voce dolce e ferma che aveva il potere di calmarlo. E per dargli la tranquillità, lo tenne per un momento sotto la freschezza del suo sorriso, sotto la serenità del suo sguardo.

Egli si placava, mansuefatto.

«Promettetelo, allora, che ritornerete: potete promettermelo?»

«Ve lo prometto.»

«Per la cosa o per la persona che più vi interessano nel mondo?»

«Per la cosa o per la persona che più mi interessano nel mondo, ve lo prometto.»

«Quando tornerete?»

«Questo non posso dirvelo: non posso venir sempre: quando potrò, verrò.»

«Sta a voi, Angelica, di tornar presto. Ma non potreste dirmi, così, un giorno, un’ora?»

«A che serve? Vi duole l’aspettarmi? Non siete qui in casa vostra?»

«Sì, sì: ma ditemi almeno un giorno...»

«Non vi piace l’aspettarmi forse? Avvi alcuna cosa che vi piace di più?»

«Nessuna, Angelica, nessuna.»

«Ebbene?»

«Ebbene, se sapeste, per chi ha la dolcezza di aspettarvi, Angelica, quale amarezza è il non conoscere nè il giorno, nè l’ora in cui arriverete! Questo ignoto è un tormento, è un incubo, è una sofferenza così grave, nel cuore, nel cervello, Angelica, che se la sapeste, vi farebbe una grande pietà. Doveste anche ingannarmi o non potere, ditemi un giorno!»

«Oggi è domenica,» ella disse, pensando, «nè domani, nè dopo domani, nè mercoledì, il mio tempo è preso crudelmente. Verrò giovedì, sì, giovedì, credo di poter venire giovedì.»

«Non prima?»

«Chissà! forse potrei, un minuto, in uno di questi tre giorni... ma giovedì, sicuramente. A rivederci, amico.»

«Oh restate!...» egli gridò, trattenendola per la mano.

«È una fanciullaggine: a rivederci,» e fuggì per le scale, come liberata.

Immediatamente egli sentì come mancarsi la vita: pareva che tutto il sangue gli fosse andato via, per una ferita. Non dette neppure un’occhiata al salotto dove erano stati, al posto dove si erano seduti accanto: prese il cappello e scappò via, nella necessità di raggiungere Angelica, nella folle speranza di raggiungerla. La piazza, piena di sole, nel mezzogiorno, lo abbagliò: e istintivamente si buttò per via dei Condotti. Ma non vedeva in niuna parte il bel vestito bigio e la veletta bianca: a mezza strada tornò indietro, si mise a correre verso Propaganda Fide, quel nome gli era rimasto, si perdette per S. Andrea delle Fratte, la Mercede, San Silvestro, come istupidito, come colui che ricerca con cura un oggetto, che sa sicuramente di avere smarrito.

Ma la cara figura parea si fosse dileguata nel sole, poichè dopo aver battuto tutte le vie che circondano Piazza di Spagna, correndo, spronato da una necessità invincibile, Sangiorgio non arrivò a ritrovarla. Camminò ancora per un’ora, pel Babuino, per Due Macelli, Via Sistina, villa Medici, il Pincio, in preda a una febbrilità che non gli faceva sentire la stanchezza, lasciandosi vincere dall’idea folle che a quell’ora donn’Angelica avesse avuto voglia di passeggiare, dopo di essere stata un’ora con lui: si trovò in Piazza del Popolo, solo solo, a un tratto calmato, con le gambe stanche, con la testa piena di confusione. Doveva esser tardi, molto tardi; gli parea che fosse passata una lunga giornata piena di avvenimenti, sentiva la stanchezza morale e fisica delle grandi giornate della vita umana: cavò l’orologio. Era appena l’una e mezzo: l’altra metà del giorno rimaneva innanzi a lui vuota. Macchinalmente, pian piano, obbedendo a un antico istinto, si avviò pel Corso, alla Camera, con un’aria annoiata, non guardando neppure le belle romane borghesi che ritornavano dall’ultima messa, non riconoscendo neppure qualcuno che lo salutava, in quel lieto polverio luminoso della domenica di maggio. Andava al Parlamento, ma non sapeva neppure se vi fosse seduta, era domenica: a ogni modo, andava lì per rifugio, non sapendo dove buttare il suo corpo e il suo spirito. Gli sembrava tutta nuova, tutta estranea la gente che incontrava, e come egli la guardava, sorpreso di tante facce esotiche, pareva che anche costoro lo guardassero sorpresi, non conoscendolo. In quell’ora, il viavai dei deputati, intorno Montecitorio, era continuo, era un salire e discendere di coppie d’amici, di gruppetti di uomini politici che avevano fatto colazione insieme alle Colonne, al Parlamento, al Fagiano, alle Sorelle Venete: Sangiorgio scambiava qua e là dei saluti, come trasognato. Li vedeva discorrere, li udiva discutere: passando accanto a loro, afferrava dei brani di discussione, ma non intendeva nulla. Per fortuna, ci era seduta, quel giorno.

Sedette al suo posto abituale, ordinando per consuetudine fisica le carte che aveva innanzi, udendo la voce del segretario Sangarzìa, piccola ma sonora, leggere il processo verbale. Di che si trattava? Questa voce gli sonava confusa nella mente, quelle parole gli sembrava di averle udite altra volta, ma quando? Gli costava uno sforzo enorme il raccapezzarsi: era come colui che, vissuto per un certo tempo in un crescente esaltamento dei nervi, si abbandona poi a una stanchezza profonda, nell’esaurimento di tutte le sue forze. Assisteva a quella seduta, con la testa fra le mani, cercando di afferrare il suono e il senso di tutto quello che vi si diceva, ma era troppo sfinito, un torpore l’aveva invaso, aveva paura di addormentarsi. Uscì nei corridoi, a fumare un sigaro. L’onorevole di Carimate, il simpatico signore lombardo, presidente di una commissione agraria, gli corse incontro:

«Ebbene, Sangiorgio, e la relazione?»

«La relazione... già... quando si sarebbe dovuta presentarla?»

«Ma, una settimana fa: siamo in grave ritardo. Io vi ho cercato dovunque, non avete avuto due miei biglietti?»

«No, nulla,» rispose egli, mentendo.

«E ieri, ci hanno attaccati! Ho dovuto rispondere io, come presidente. Siete stato ammalato?»

«Molto ammalato.»

«Si vede. Curatevi, Sangiorgio. Non avreste per caso le febbri?»

«Credo.»

«Curatevi. E quando potremo essere pronti?»

«Non saprei... fra otto giorni, forse... Ve lo dirò.»

Egli rientrò nell’aula, avendo già scossa da sè la penosa impressione della menzogna. Si parlava ancora, l’onorevole Bonora, un deputatino nuovo e noioso che parlava di tutto, seccava la Camera. Il presidente, dal suo seggio, fece un piccolo cenno amichevole a Sangiorgio: costui scese e andò a stringergli la mano.

«Ammalato?» domandò il romagnolo, dai leali occhi bruni.

«Un poco.»

«Perchè non chiedere un congedo?»

«Lo chiederò: ne ho bisogno.»

E ritornò al suo posto, esausto. Una irritazione sorda cominciava a nascere in lui. Erano le cinque, gli pareva di stare da un secolo in quella Camera. Sandemetrio, il deputato abruzzese e Scalìa, il siciliano, parlavano accanto di un duello fra un giornalista e un deputato; chiesero il suo parere: egli fece vedere la sua indifferenza.

Tutte quelle voci alte o basse finirono per dargli un gran fastidio. Aveva caldo, ora: si sentiva male, in quell’ambiente: vi soffriva, non poteva più respirare. Uscì precipitosamente, prese una carrozza, difilato si recò al suo quartierino di Piazza di Spagna. Ivi si buttò a braccia aperte sulla poltrona dove Angelica si era seduta, appoggiata, e vi pianse su tutte le sue lagrime.

VI

Angelica mancava, quasi sempre, agli appuntamenti. Talvolta, alla sera, offrendogli una tazza di thè, gli diceva, in fretta, sottovoce: «Domani, alle due.»

«Certo?» domandava lui, già deluso varie volte.

«Certo: non ne dubitate.»

E avendo fede in quella parola, la notte, la mattina seguente, di quella parola viveva.

Venivano le due: ella non veniva; egli cominciava per credere a un ritardo, pazientava, non si levava dal suo posto, per andare sino al balcone. Poi lo vinceva la incertezza: e infine, come calava la sera, in quel soave mese di maggio, egli perdeva ogni speranza, si abbatteva in un accasciamento.

Quando la rivedeva, bella, serena, rosea, senza una preoccupazione al mondo, amabile con tutti, prodiga di amabilità, un grande rancore misto di tenerezza, di rimpianto, gli si affondava nell’animo.

Giammai, giammai ella avrebbe saputo la misura del suo amore e delle sue sofferenze. Ella non si scusava o lo faceva con una parolina vaga, detta fuggendo, con una intonazione di voce, con un discorso fatto a un’altra persona, dove raccontava le infinite noie della sua giornata — ed era sempre un concerto, una conferenza, una visita agli asili, una funzione pubblica, noiosa o inutile, che glielo avevano impedito.

Così, l’amarezza di Sangiorgio cresceva, vedendo quanto poco gli appartenesse quell’anima, ma ella gli versava, in tutta la serata, la dolcezza di certe occhiate velate, ella lo teneva sotto la lucentezza blanda del suo sorriso, gli domandava un libro, o il suo ventaglio, o il suo fazzoletto con tanta mitezza di voce, insomma ella era per lui così femminilmente beatificante, che alla fine della serata egli era vinto: nella sua debolezza, mentalmente, le chiedeva perdono di averle serbato rancore.

Ma, ogni tanto, ella si rammentava del povero solitario che l’aspettava, chiuso in una casa, in quella primavera crescente, che era così dolce godere per le vie di Roma e per le sue ville e pei suoi colli fioriti. Ella capitava a Piazza di Spagna, improvvisamente, in un’ora imprevista, la mattina alle dieci, alle sette della sera, quando egli era per uscire, non aspettandola più: una volta, con una di quelle lunghissime piogge di maggio fra i primi lampi della elettricità estiva, elle venne. Così, per il suo arrivo imprevisto, donn’Angelica dava sempre una scossa profonda all’anima di Sangiorgio: egli non si poteva abituare a quelle visite, fatte quando non aveva più speranza di riceverle, quando era immerso nell’abbattimento della delusione o in quell’ebetismo che hanno gli esseri assorbiti da un sol pensiero; la sazietà non arrivava per lui, poichè ogni nuova apparizione di donn’Angelica gli sembrava una grazia singolare, una gemma del suo tesoro spirituale. E quando ella veniva, in quel primo minuto di consolazione, la fastidiosa, crucciante piaga dell’aspettazione inutile si guariva miracolosamente, l’uomo contristato, sofferente, ammalato, risorgeva, come Lazzaro evocato dalla tomba dalla forte voce di Gesù.

Tutto preso dalla sua amorosa realtà, egli si scordava di quello che aveva sofferto per la sua amorosa visione: e nel cospetto dell’amata, egli non sapeva che adorarla, che inginocchiarsi innanzi a lei, baciarle le mani, umilmente, ringraziandola d’essersi ricordata di lui, come il cristiano che dopo un periodo di travagli, sopportati senza mormorare, batte la fronte sulle pietre della chiesa per una piccola grazia ottenuta. E donn’Angelica rimaneva al posto dove l’amore di Sangiorgio l’aveva elevata, dove ella sapeva restare con la sua forza di temperamento e di carattere, una nicchia alta e solinga, inarrivabile, inattaccabile, tabernacolo di virtù e di purità, donde ella poteva degnarsi di abbassare gli occhi su colui che l’amava, poteva sorridergli, tendergli le mani, lasciarsi baciare l’orlo dell’abito, divinità pietosa, senza che però nessuna di queste degnazioni le offuscassero menomamente l’aureola, senza che la pietà arrivasse mai a umanizzarla, a femminizzarla. Quanto veniva da lei, era una grazia; dalle sue mani piovevano rose; ella portava con sè la felicità. Niente altro ella doveva fare che esistere, apparire, sorridere, scomparire: questo ella faceva.

Sicchè la personalità di Sangiorgio sempre più scompariva. Angelica non si occupava di quello che egli avesse pensato o sentito o sofferto, mentre ella non era venuta; non gli chiedeva nulla di lui, delle sue ore, delle sue occupazioni, dei suoi desiderii; non aveva nessuna curiosità di conoscerlo. Gli dava del voi, era questa la sola familiarità; lo chiamava Sangiorgio, poichè quel nome di Francesco era troppo volgare, troppo antipatico: e lui che sentiva questa volgarità e quest’antipatia, se ne doleva, ma non osava pregarla di chiamarlo per nome.

Seduta accanto a lui, guardando la grande croce di velluto nero che tagliava la stoffa di broccato giallo, con una vivacità e nello stesso tempo con una cupezza di tinta passionale, ella si piaceva di parlargli, lungamente, lungamente, vedendo l’estasi con cui egli l’ascoltava. Angelica obbediva a quel continuo bisogno di espansione che hanno le donne, per le piccole e per le grandi cose; a quella necessità di sfogo, che butta tante donne sui gradini di un confessionale, che crea tante amicizie fittizie con altre donne, che fa loro ricercare un confidente anche in un uomo, nulla curandosi dell’effetto di queste confidenze.

Quanto ella aveva da dire, ella ridotta a un continuo silenzio, dalle preoccupazioni politiche, dall’età, dal natural carattere ironico di don Silvio! Quanto ella aveva da dire, ella a cui la posizione di suo marito proibiva di legarsi in amicizia con nessuna donna del suo mondo! Ed ecco, ella aveva trovato un confidente, il migliore dei confidenti, sempre felice di ascoltarla, sempre pronto a darle ragione, sempre disposto a compatirla, sempre disposto ad ammirarla, sentendo nelle sue parole il suono e il motto, il senso aperto e la intenzione, quello che essa diceva e quello che essa pensava; egli era l’interprete migliore, quello che le donne cercano, l’uomo che tutto vuol sapere, la cui curiosità è insaziabile, che intende tutto, che è indulgente per tutti i piccoli torti, che trasforma e glorifica le più piccole virtù, che fa di una parola una poesia, di una frase una emozione e di una bontà un eroismo, — l’uomo che ama.

Seduta accanto a lui, nella pace di quel salotto profumato di fiori, fra i molli colori e le pieghe ricche, profonde, persuaditrici d’intimità delle stoffe, fra quella bizzarra intonazione di oggetti esotici, perduti gli occhi in un punto luminoso, d’oro, di un tessuto, ella gli parlava di sè, del suo cuore, delle ineffabili tristezze che niuno doveva sapere, che lui sapeva, delle piccole gioie spirituali, i brevi godimenti che si narrano solo a sè stessi o alla più intima persona.

La delusione di Angelica, dopo il matrimonio, non era stata improvvisa, ma graduale, continua, discendendo ogni giorno di più, per una via di piccole amarezze, sino alla indifferenza e alla solitudine; le oneste speranze di felicità coniugale, i bei sogni puri di amore lungo e tranquillo, la fiducia di un’anima leale, si erano frantumati, sgretolati, miseramente, contro la grande, ardente, egoistica passione di don Silvio: la politica. Non era la catastrofe di un minuto solo, la immensa catastrofe che atterra, ma da cui si solleva, per forza naturale, l’anima forte: era lo stillicidio quotidiano che scava, che scava, che fa solco, che consuma finanche la durezza e la freddezza della pietra.

Molto aveva da narrare donn’Angelica, per fare la storia della sua vedovanza spirituale: e la lagnanza, infinita, variava musicalmente su tutti i toni della malinconia.

Non accusava apertamente, ella, no: non una parola di violenza, d’ingiuria, le usciva dalle labbra: ma tutto quello che diceva era una recriminazione dolente e semplice, era la storia di una oppressione crescente e schiacciante, raccontata con una grande delicatezza di parole, ma con un senso interminabile di mestizia.

Egli ascoltava, Sangiorgio: e vedendola immersa in quella storia, così presa da quella che era stata la lenta sciagura del cuore, non aveva il coraggio d’interromperla mai, non osava neppure dirle quanto l’avrebbe adorata, se il destino gli avesse concesso il supremo bene di averla per moglie.

Avidamente, egli raccoglieva, da quelle labbra adorate, i dettagli, minutissimi, di quelle piccole angosce quotidiane, fremendo a ognuna di esse, sentendo quello che essa aveva sentito: egli s’impregnava di quella storia, che quasi quasi diventava la sua, dove sempre più si perdeva la sua individualità: quando ella, eccitata dai propri racconti, vedendo il pallore e la emozione di colui che l’ascoltava, arrossiva e a stento frenava le lagrime, egli provava, per ripercussione, la stessa sensazione.

Più in là di lei, egli andava in un solo sentimento: donn’Angelica non odiava don Silvio, ella non sapeva odiare, ma era uscita per sempre dal suo cuore, ella non poteva amarlo, poichè egli non aveva saputo amarla, ella non poteva rispettarlo, poichè a troppe transazioni, a troppe viltà costringe la passione politica, — ma non l’odiava, no, gli era indifferente. E diceva questa piccola frase della indifferenza con tanto distacco freddo, con una così glaciale semplicità, che Sangiorgio ne rabbrividiva di paura, pensando che forse quella frase che uccide si potesse applicare a lui.

Ma egli andava più innanzi di Angelica, egli era uomo e odiava don Silvio, come tutti coloro che amano veramente. Egli lo odiava cordialmente, in tutte le forme, materiali e morali, come un nemico e come un uomo cattivo, come un rivale fortunato e come un essere spregevole, lo odiava al punto da desiderarlo vinto, avvilito, insultato, disonorato, morto. Egli gli aveva presa donn’Angelica: egli ne aveva inaridita l’anima, l’aveva resa delusa e incapace di nuove illusioni, infelice e diffidente della felicità, non l’aveva amata e le aveva tolta la facoltà di amare; egli, egli aveva ancora in suo potere Angelica. E Sangiorgio odiava don Silvio, questo marito, con la collera, la gelosia, il disprezzo e la ingiustizia dell’amante che ama veramente.

····················

Ma non solo questo narrava donn’Angelica, in quelle visite a Piazza di Spagna: con quella ingenuità infantile delle donne che ignorano il peccato, con quella incosciente, ma pericolosa lealtà che rassomiglia tanto alla provocazione e alla civetteria, ella si abbandonava a quelle confidenze picciolette di sensazioni, di usi, di consuetudini, di gusti che formano la base della vita femminile.

Sangiorgio conosceva, ora, minutamente, tutta la giornata di donn’Angelica: a tutte le ore, chiudendo gli occhi, egli si poteva figurare quello che facesse, tante volte ella gli aveva narrato le occupazioni predilette.

Malgrado andasse tardi a letto, ella si alzava presto la mattina, per abitudine giovanile di settentrionale che mai aveva potuto smettere: niuno entrava in camera sua, neppure la cameriera. Angelica ci teneva che nessuno penetrasse nel suo nido dove ella aveva pensato, sognato, dormito, nella notte: non gli pareva a lui, Sangiorgio, che la stanza da letto fosse un sacrario, dove nessun profano dovesse penetrare? — Sì, gli pareva bene, ella faceva benissimo, — rispondeva lui, turbato assai, con un calore che gli mordeva lo stomaco. Donn’Angelica non si lasciava pettinare e vestire dalla cameriera che quando andava ai balli: ella odiava quelle mani servili affaccendate attorno al suo corpo; quel chiacchiericcio volgare, quel contatto delle dita coi suoi capelli, le urtavano i nervi, la disgustavano: per molto tempo, da giovanetta, dandole fastidio, nel pettinarsi, la lunghezza delle trecce, ella le aveva fatte tagliare, portando i capelli corti, la zazzerina riccia e bruna di un’adolescente.

Un giorno, mentre parlava di ciò, sottovoce, come in sogno, Sangiorgio la pregò umilmente di sciogliersi i capelli, non ne aveva mai vista la lunghezza: ella disse di no, semplicemente, non avrebbe mai avuto tempo di riacconciarseli, ci voleva un’ora. Egli la pregò di nuovo, invano: glielo promise per un altro giorno, quando avesse avuto più tempo da restare.

Dopo l’acconciatura, donn’Angelica passava un paio d’ore nel suo salottino, accanto alla sua stanza, leggendo, suonando, scrivendo, sempre sola.

Ella rispondeva alle sue amiche di lassù, alle persone che le dirigevano delle suppliche, alle raccomandazioni: ella scriveva rapidamente, sempre sulla carta bianca, senza emblemi, senza motto, senza cifra: tutto questo, che le altre donne prediligevano, le sembrava una chincaglieria, una volgarità.

Egli la pregò, un giorno, di scrivergli qualche cosa sopra una carta, un rigo solo; non aveva mai avuta una parola scritta da lei: ed ella lo avrebbe fatto, forse, ma Sangiorgio girò inutilmente pel quartierino, non trovò nè un calamaio, nè una penna, nè un foglio di carta, — in quella casa destinata all’amore, logicamente, mancavano le cose destinate allo studio, agli affari, a tutto quello che non è l’amore.

Ella osservò, sorridendo, che egli non scriveva mai dunque? No, non scriveva mai, amava soltanto: e Angelica, sempre sorridendo, gli fece cenno di tacere, non voleva udir parlare di questo, non sarebbe più tornata, se continuava.

E le adorabili, provocatrici confidenze continuavano: alle undici e mezzo don Silvio e donna Angelica si ritrovavano per la colazione.

Ella aveva sempre molta fame, la mattina; come tutte le persone sane e giovani ella avrebbe amato di stare con un essere giovane e allegro come lei, chiacchierando, ridendo, in quell’ora lieta del giorno: ma don Silvio era sempre livido, in quell’ora, di collera o di noia mattutina, non aveva mai fame, la febbre della politica gli rodeva il fegato e lo stomaco, e sempre leggeva giornali, lettere, scriveva a tavola, come nel suo salone di palazzo Braschi, come alla Camera, come dappertutto.

Oh, ella preferiva alla compagnia di quel magro, vecchio, ostinato divoratore di giornali, di lettere, di telegrammi, che lasciava raffreddare sul piatto la sua costoletta, che dimenticava di mangiare le frutta, nel primo accesso giornaliero del suo morbo, ella preferiva la solitudine, col sole che si allungava sulla tovaglia, col suono di un pianoforte poco lontano, col ronzìo di qualche moscone nel meriggio che si faceva caldo. E presa da un capriccio bizzarro di donna virtuosa, ella proponeva a Sangiorgio di andare, una mattina, presto, col sole, in campagna, in una di quelle piccole osterie, dalla terrazza coperta di un pergolato, dove la vite si arrampica, a far colazione insieme, come due scolari che hanno marinata la scuola.

«Ma perchè mi tormentate, perchè mi dite questo?» le chiedeva lui, con un dolcissimo rimprovero.

«Vi tormento io?...»

«Voi non ci verreste mai...»

«Ci verrò, ci verrò...» mormorava lei, vagamente, sorridendo ancora al suo sogno infantile.

Dopo colazione, alle due, donn’Angelica cominciava la sua vita di ministressa, di donna che si deve al pubblico, le corse pei magazzini, le compre: ella amava i vestiti semplici, il nero era il colore che preferiva. Anche lui, Sangiorgio, preferiva il nero, così l’aveva vista vestita la prima volta, alla stazione, il giorno in cui era arrivato a Roma.

Poi venivano: tutta la parte femminile della politica, le visite fatte e ricevute, le commissioni di patronato, le associazioni di carità, i concerti di beneficenza, i ricevimenti diplomatici, le inaugurazioni, le conferenze, le premiazioni, tutta questa roba noiosa, lunga, senza causa, esteriore, vernice lucidissima sopra il cartone, ossequio fatto a Sua Eccellenza, nulla per sè, nulla per lo spirito: ella odiava tutto questo; oh, come sarebbe stata felice di essere la moglie di un uomo tranquillo, intelligente, che la febbre della politica non divorasse, a cui il potere sembrasse una ignobile burletta, a cui l’esser ministro paresse quello che è, il passaggio da giudice a imputato, il banco dei colpevoli!

«Moglie vostra, Sangiorgio,» soggiunse.

«Oh Angelica!...» disse lui con un accento singolare.

Ma ella non intese nulla. Gli rivelava tutta la sua vita, gli diceva tutto. Sangiorgio la conosceva: ma ella non conosceva Sangiorgio.

····················

E un mutamento avveniva in ambedue. Angelica si assuefaceva oramai a queste visite, essa veniva spesso, disinvolta, come se capitasse a un ritrovo di amiche: neppure un’ombra di emozione, neppure il minimo imbarazzo. Sangiorgio ne interrogava il viso, ogni volta: era sereno, senza che lo turbasse nè paura nè vergogna.

Veniva, si sedeva, come in una casa qualunque, non un palpito nella voce, non un tremito nella mano, nulla della donna che commette un’azione furtiva, nulla che indicasse l’inganno fatto. Oramai ella non trovava più difficoltà a venire, le pareva una cosa semplice, naturale; capitava sempre, fra due visite, usciva dalla Camera, andava dall’ambasciatrice di Russia, era venuta per un momento, un momento solo, prima di salire all’ambasciata; capitava fra due affari, uscendo dalla sua sarta che era in Piazza di Spagna, per andare da Janetti a comperare un oggetto e veniva a chiedere il consiglio di Sangiorgio sopra un vestito, sopra uno scrignetto del Rinascimento. Una volta, crudelmente, comparendo, gli disse:

«Son passata di qui, per caso; ho pensato che forse eravate in casa, sono salita...»

Un’altra volta egli era dietro ai vetri, guardando nella piazza, temendo di aprire per non farsi riconoscere, soffrendo del caldo: ella passava per la piazza, col suo bel passo ritmico, guardando le botteghe e i viandanti. Egli trabalzò, avrebbe voluto chiamarla, gridare, per farla venir su, ma non ne ebbe il coraggio, gli mancò la voce: ella se ne andava, se ne andava, senza voltarsi: a un certo punto, ella parve ricordarsi, si voltò, dette un’occhiata a quei balconi del primo piano, vide dietro i vetri quella faccia pallida e ardente, sorrise, tornò indietro, salì su, come quando si va da un’amica, che si è vista sul balcone, — crudelmente, crudelmente. Quei convegni con un uomo che l’amava, in una casa appartata, in un salotto dove nessuno poteva penetrare, non avevano per lei nessun sapore di colpa, di tradimento.

Erano un’abitudine. Gli stringeva la mano come se lo incontrasse in una passeggiata; si faceva riabottonare il guanto, come in una festa da ballo; lo guardava francamente, negli occhi, come quando egli era nel salotto dell’Apollinare; gli parlava di cose profonde o di cose frivole, egualmente, come capitava; gli dava da leggere le lettere che si trovava in tasca; lo consultava sugli affari di famiglia; si era familiarizzata, come da amico ad amico, senza parlar mai più dell’amore, senza pensarvi più, con una franchezza ingenua e feroce.

Non così Sangiorgio. Quella familiarità continua, quelle confidenze intime, quei colloqui solitari, in una stanzetta calda, con la bella signora del suo cuore, quella mano che ella gli lasciava baciare, quel braccio che si appoggiava così mollemente sul suo, quei capelli ondulanti sulla fronte che ella gli lasciava accarezzare; tutta questa umanità muliebre penetrava nel suo sangue e nei suoi nervi, rievocandone la forza e la gioventù.

Era un uomo, infine: e quando quel viso adorato si piegava sul suo, vicinissimo, per dirgli qualche cosa; quando sentiva l’odore di quei capelli salirgli al cervello; quando quel corpo sottile si arrovesciava sulla poltroncina sotto l’impeto di un singhiozzo, o per la scossa di una fresca risata; quando quella fronte bianca s’inchinava sotto il peso di una preoccupazione, — egli era lì lì per prendere Angelica nelle braccia, dolcemente, furiosamente, ma tenacemente.

Troppo la divina immagine era diventata buona, familiare, amichevole, perchè egli non sentisse la donna in lei, con tutte le sue attrazioni, con tutte le sue seduzioni; troppo vivevano insieme, soli, sicuri, perchè egli restasse sempre il cristiano che adora passivamente; troppo era vero e grande l’amore suo, perchè non mirasse, finalmente, ad avere, tutta sua, quella donna.

Invano egli voleva scacciare quella tentazione, richiamandosi all’anima i primi dolci tempi purissimi, quando l’amore fluttuava nei campi dell’idea e del sentimento: che anzi, troppo grande essendo stata la dedizione, ecco, adesso era impossibile levarsi Angelica dal sangue e dai nervi.

Invano, invano: l’assorbimento dell’anima, assoluto, buddistico, di cinque mesi, aveva portato con sè anche l’assorbimento di un solo desiderio; il temperamento robusto, sobrio, semplice, invano usciva da quella contemplazione spirituale, non sapendo volere altro. Ed erano lotte quotidiane per non far leggere la verità ad Angelica negli occhi desiosi, per non farle intendere il tremito delle labbra desiose, per impedire alle braccia desiose di stringerla in un abbracciamento. Era uomo, infine: e combatteva con la disperazione interna tanto della vittoria quanto della sconfitta. La dolce donna gli sorrideva, accostava il suo viso a quello di lui, gli parlava sottovoce, inconscia, crudele e innocente: egli soffocava, chiudeva gli occhi, come se si sentisse perduto. Aveva promesso, aveva promesso: ma ella, perchè non intendeva? Ma non era donna dunque? Ma perchè giocare con quel cimento? Aveva promesso: ma era un uomo, non poteva durare a quella lotta. Come non capiva Angelica? Non avrebbe mai capito? Fino a quando sarebbe durata quella croce? Ecco, il tormento era superiore alle sue forze, tenerla accanto, bella, giovine, amata, nel silenzio, nella solitudine, — non poteva no, mancare alla sua promessa, ma glielo avrebbe detto, gli risparmiasse questo calice, lo abbandonasse, non venisse più...

Era un giorno di giugno, quand’ella, parlando di un’acconciatura di capelli, si ricordò di avergli promesso di fargli vedere disciolti i suoi.

«No, no,» mormorò lui.

«E perchè?» chiese ella, ingenuamente.

«Mi farebbe male.»

«Male?»

Nulla egli rispose: ella ridendo si tolse il cappello, cavò via tre forcinelle bionde, il pettine di bionda tartaruga e scosse i bruni capelli per le spalle, ridendo ancora, come una bimba che fa un giuoco.

«Come son belli, come son belli!» diceva egli con voce semispenta, pigliandone ogni tanto una ciocca, e baciandola.

«Si può entrare in camera vostra, per acconciarsi?» diss’ella, balzando in piedi, tutta rosea e fresca sotto quel manto.

Non era mai entrata lì dentro, non ne aveva mostrata la curiosità: ma ora non aveva neppure aspettata la risposta, era già entrata, familiare, confidente, senza sospetto. Pure era rimasta colpita innanzi a quell’azzurro listato di argento, così serio e così amoroso nel medesimo tempo. Si passava fra i capelli il pettine biondo, macchinalmente, senza guardarsi nello specchio Pompadour, come se pensasse a tante cose mai pensate. Accanto a lei, Sangiorgio non parlava. Poi, ella chinò un minuto gli occhi sulla coltre di velluto azzurro, vide la lettera maiuscola che vi era ricamata, vide quell’audacia e diede un leggiero grido di angoscia: guardò negli occhi di Sangiorgio e la verità le fu palese. Muta, raccolse i capelli sulla nuca, uscì di camera, rimise il cappello, prese i guanti, uscì senza volgersi indietro.

VII.

Sotto il portone di Montecitorio, Francesco Sangiorgio s’indugiava, mentre dietro a lui gli uscieri avevano man mano spento il gas della biblioteca, delle sale di lettura e di scrittura, degli uffici: egli guardava il cielo stellato estivo e la piazza, non sapendo decidersi a ritornare in casa. Un’alta figura magra, venendo dagli Orfanelli, gli si accostò, traendosi di bocca il sigaro, piegando un po’ le spalle:

«Buona sera, Sangiorgio,» gli disse. «Siete libero?»

«Buona sera, don Silvio. Libero.»

«Ho da dirvi qualche cosa.»

«Andiamo al ministero, allora?»

«No, no, non al ministero.»

«... A casa vostra?»

«Neppure. Preferisco venir da voi, Sangiorgio,» ribattè il ministro, brevemente, rialzando il capo.

«A piacer vostro,» rispose Sangiorgio, con lo stesso tono di voce, avendo inteso tutto. «Andiamo.»

Si avviarono per Piazza Colonna, taciturni, fumando i loro sigari, guardando le loro ombre che si disegnavano in terra, in quella notte lunare. All’angolo di Via Cacciobove, Sangiorgio volle voltare.

«Di qua?» domandò don Silvio, con un dubbio.

«Già.»

«Non abitate voi, Sangiorgio, in Piazza di Spagna, numero 62?»

«Avete ragione, don Silvio,» soggiunse ancora Sangiorgio, con freddezza.

Camminarono pel Corso, sempre senza parlarsi, incontrando quelli che uscivano dai teatri estivi, il Quirino, il Corea, l’Alhambra, e che malgrado la notte, riconoscendo l’alta statura del vecchio ministro, se lo indicavano, sottovoce, voltandosi ancora a guardarlo, pigliando Sangiorgio per un segretario, per un impiegato. Andavano lenti lenti. A Via Condotti non incontrarono più nessuno: nessuno a Piazza di Spagna. Il portoncino numero 62 era chiuso, ma Sangiorgio aveva la chiave, sebbene non ci fosse mai venuto di notte: per le scale oscure egli accese un fiammifero, don Silvio veniva di dietro, sempre fumando. Nell’anticamera l’antica lampada a olio, perpetua, gettava delle ombre tragiche sul nero cofano di nozze, di legno scolpito, sulle sedie dalla spalliera alta; nel salotto dove mai lume era stato acceso, Sangiorgio si trovò imbarazzato, girava col fiammifero in mano, non sapendo come far la luce; alla fine trovò un sottile candeliere di bronzo, pompeiano, in cui tre candele rosee erano infitte, e le accese. Si sedette, dirimpetto a don Silvio, già seduto; costui aveva buttato il sigaro sul pianerottolo, lasciato il cappello in anticamera e teneva il capo abbassato sul petto: di nuovo, la lente pendeva sul soprabito, don Silvio era in uno dei suoi momenti di raccoglimento.

«Io aspetto, don Silvio,» disse Sangiorgio, frenando a stento l’impazienza della sua voce.

«Pensavo, Sangiorgio,» cominciò quietamente il ministro, «quanto il desiderio di ammazzarmi debba essere violento in voi.»

«Molto violento.»

«Da oggi, poi, deve essere irresistibile.»

«Irresistibile.»

«Avete torto, Sangiorgio,» soggiunse don Silvio, con molta dolcezza. «Perchè mi uccidereste? Sono vecchio, vecchio assai: quello che voi non farete, farà naturalmente la morte.»

«Don Silvio!...» gridò l’altro, colpito improvvisamente.

«È così: ho settantadue anni, ma ho vissuto la vita di tre uomini. Sono stanco e rifinito, dentro, come nessuno s’immagina. Cadrò, quandochessia, di un colpo solo. Mi potreste esser figlio, Sangiorgio: non vorreste uccidere vostro padre, voi, per raccoglierne l’eredità.»

«Don Silvio, don Silvio, non dite!...»

«Lasciatemi dire. Per questo non ci batteremo insieme, quantunque in me fosse forte il diritto di farlo e in voi grande il desiderio. Eppoi, saremmo ridicoli: io, così presso alla tomba, pretendendo aver risentimenti e passioni da giovanotto: voi così giovane, non avendo la pazienza di aspettare. Ridicoli, mai. Capisco la tragedia, in simili cose, quando vi è l’amore e la gioventù: non capisco la farsa. Meglio il disonore che la burletta, Sangiorgio.»

«È vero, è vero.»

«Eppoi... vi è Angelica...» soggiunse il vecchio marito pronunziando quel nome con una infinita soavità.

Fu un silenzio prolungato, in quel piccoletto tempio dove la dea, assente, regnava sempre, invisibile.

«Angelica è buona, non deve soffrire. Quando oggi ella si è buttata nelle mie braccia, tremante di paura, scongiurandomi di salvarla — e non tremate voi di gelosia, Sangiorgio, ella è una figliuola per me, — io che sapeva tutto il suo segreto, l’ho lasciata dire, poichè quel pianto, quei singhiozzi, quella disperazione erano lo scoppio della sua rettitudine, erano lo spettacolo di una coscienza che si ribellava contro il male.»

«Voi sapevate il suo segreto, tutto?»

«Sì, dal primo giorno. Ella non rammentava bene se fosse venuta qui, la prima volta, il due o il tre maggio, ma io sapevo bene che era venuta una domenica, due maggio; ella mi ha confessato di esser venuta qui una quindicina di volte, ma io sapevo meglio di lei che erano diciotto le volte che ci era venuta: sono ministro dell’interno. Ma non le ho fatto rimproveri, come non ne faccio a voi. Voi avete ragione di amarvi.»

Sangiorgio alzò il capo umiliato per guardare negli occhi il vecchio marito malinconico.

«Naturalmente,» riprese costui. «Angelica è bella, è giovane, è intelligente, avrebbe bisogno di una persona giovane, come lei, tutta a lei dedicata, che la sapesse apprezzare in tutte le sue belle e buone qualità, che vivesse con lei la vita in comune, la vita dello spirito e del cuore: invece ha un vecchio inaridito, scettico, distrutto, che ha una vecchia e ardente passione da alimentare, l’ambizione, la passione esigente, concentrata, rabbiosa di quelli che hanno passato i quarant’anni.

«È naturale che Angelica preferisca voi a me: voi stesso, che volete e sapete ancora amare, che non avete ambizione, che non conoscete ancora questa febbre dell’anima che mai non si cheta, che avete il cuore pieno di fiducia e la fantasia piena di entusiasmo, voi preferite a tutto questa dolcissima ebbrezza dell’amore. Chi vi darà mai torto? Siete voi i più saggi, noi siamo i pazzi, noi meritiamo di essere burlati e ingannati, noi combattiamo per una illusione volgare, voi per una divina realtà! Io non posso rimproverarvi.»

Sangiorgio ascoltava, con la faccia fra le mani, senza rispondere.

«E poi...» riprese don Silvio, come se parlasse a sè stesso, «l’uomo, questa gran cosa, questa potenza, questa forza, questo complesso di forze, ha una legge che ne limita gli sforzi. Farai questo e non altro, dice questa legge, se non vuoi riuscire mediocre, inefficace in ambedue. Una sola passione potrai nutrire, forte, intensa, profonda: un solo ideale potrai desiderare, alto, lontano, inafferrabile; e la tua anima si dovrà consacrare tutta a questa unica passione, nulla te ne dovrà distrarre, e la tua volontà si dovrà intieramente concentrare nel desiderio dell’unico ideale, se vuoi raggiungerlo. L’amore, l’arte, la politica, la scienza, queste grandi efficienze umane, queste altissime forme di passione e d’ideale, vanno ognuna per sè, solitarie, tanto vaste che appena appena il misero spirito di un uomo può abbracciarne una sola. Non si è scienziato ed artista, non si è uomo politico ed amante, ammeno di non essere mediocre nelle due cose che si vogliono fare. Bisogna scegliere: le grandi forme umane dello spirito e del cuore sono egoistiche e chieggono grandi sacrifizi...»

····················

«Qual’è il desiderio di donn’Angelica?» chiese brevemente Sangiorgio, riscotendosi dalla lunga meditazione in cui era stato immerso.

«Che voi partiate da Roma, Sangiorgio,» rispose don Silvio.

«Partirò. Per molto tempo?»

«Pel maggior tempo che vi è possibile.»

«Darò le mie dimissioni. Potrò rivedere donn’Angelica? Non ho in questo momento neppure l’ombra del cattivo pensiero, domandando ciò.»

«Ella desidera non vedervi.»

«Bene. Le potrò scrivere, almeno?»

«Ella vi prega di risparmiarla: intenderete il suo riserbo.»

«Ditemi, Don Silvio, in nome di Dio, per questa ora che è la più dura della mia vita, non siete voi che la costringete a tutto questo? È ella libera?»

«Ve lo giuro, figliuol mio, ella è libera,» disse dolcemente don Silvio, «a nulla la costrinsi. Voi potete vederla, se volete non mi opporrò. Ma sarà meglio per voi non vederla,» soggiunse, con profondità.

«Soffre ella?»

«Ha sofferto.»

«Che dice ella di me?»

«Conta sul vostro amore.»

«Bene. Ditele che parto, che non ritorno più. Addio, don Silvio.»

«Addio, Sangiorgio.»

E sulla porta della strada, nella notte, si licenziarono.

«Sentite, ancora, don Silvio. Sapevate che amavo donn’Angelica, che ella veniva da me e non temeste nulla?»

«Io conosco donn’Angelica,» rispose don Silvio, con un accento profondo, allontanandosi.

Francesco Sangiorgio intese: come don Silvio, ora, egli conosceva donn’Angelica, la donna che non sapeva amare.

····················

Era scivolato, durante la seduta, negli appartamenti del presidente, non volendo lasciarsi vedere. Di là gli aveva scritto un biglietto, offrendo le sue dimissioni, per motivi di salute; un biglietto secco secco, senza nessuna spiegazione. Nel consegnare la lettera all’usciere, un gran tumulto era accaduto nei suoi nervi, un fiotto di sangue parea lo soffocasse: dopo averlo visto scomparire dietro la porta, egli si era rovesciato sulla poltrona di raso giallo, invecchiato, affralito, come se uscisse da una malattia di dieci anni. Aspettava, aspettava, non osando muoversi, non osando girare in quella Camera donde egli, in quel giorno, volontariamente si esiliava: temeva di farsi vedere, come un colpevole, temeva d’intenerirsi, temeva di buttarsi per terra a piangere su tutto quello che moriva in lui in quel giorno. L’usciere ritornò, con un biglietto del presidente: la Camera, come si usa, a richiesta dell’on. Melillo, gli accordava un congedo di tre mesi. Ma non capivano, dunque, che voleva andarsene? L’agonia, dunque, doveva ricominciare? Dovette scrivere di nuovo al presidente: assolutamente, era ammalato, non poteva più fare il deputato. Ora passeggiava su e giù, nel salotto presidenziale, come un leone in gabbia: e ogni volta che arrivava presso la stanza da letto, un senso d’invidia lo afferrava.

Lì dietro, sopra un lettuccio, dove era stato trasportato, colpito da un morbo improvviso mentre discuteva alla Camera, aveva agonizzato un atleta giovane e audace della finanza; lì aveva avuto il supremo bene di poter morire, come un soldato sul campo di battaglia: e Sangiorgio invidiava questo morto. L’usciere ritornò: la Camera accettava le dimissioni, vista l’insistenza; — il presidente aggiungeva qualche amichevole parola di rimpianto, augurando buona salute. Era tutto: ed era finito. Macchinalmente Sangiorgio cercò la medaglina, il suo orgoglio, il suo amuleto, e fra le mani gli parve erosa, assottigliata, come se l’avesse consumata un fuoco. E uscì di là, lentamente, resistendo al forte desiderio di guardare un’altra volta le sale, i corridoi, gli ambulatori, la biblioteca, la buvette, i saloni degli uffici; uscì senza rivederli, avendo paura d’incontrare troppi deputati, di dover dare troppe spiegazioni, di dover stringere troppe mani — e lo sentiva, sì, lo sentiva, se qualcuno, il primo capitato, gli diceva addio, egli sarebbe scoppiato in singhiozzi, senza vergogna, come un fanciullo a cui è stata chiusa la porta della casa paterna. Meglio andarsene, come un indifferente, come un cattivo servo che non si ringrazia e non si saluta, che non vuol ringraziare e non saluta.

A un tratto, sulla piazza di Montecitorio, sentì come un vuoto profondo in sè, attorno a sè. Gli pareva di non aver più nulla da fare, di non dover andare più in nessun posto, di non dover più vedere nessuno: tutte le cose, le persone, i fatti avevano subito come una scolorazione. Non voleva nè camminare, nè mangiare, nè parlare, nè pensare, tutto gli sembrava inutile, tutto: istintivamente si recò all’Angelo Custode, nel vecchio quartierino dove l’estate accumulava tanta polvere, e al nauseante odore dei bacherozzi univa tutti gli altri cattivi odori che venivano dal cortiletto; là si buttò sul letto, bocconi, con la faccia morta nei cuscini, con le mani abbandonate, nella inerzia mortale. Non aveva cercato di rivedere Angelica: a che sarebbe servito? Forse che qualche cosa in lei o nell’amore si sarebbe mutato, rivedendola?

Tutto era inutile, tutto. Aveva un forte debito col tappezziere, un altro con una banca popolare, la necessaria rovina che porta con sè ogni amore onesto, ma illecito: ma che gliene importava? Avrebbe pagato, forse, quando avrebbe potuto, in un tempo vago: o se no, la rovina, tanto peggio, nulla poteva più commuoverlo, tutto era inutile, tutto. Non aveva voluto neppur rivedere il quartierino di Piazza di Spagna, tutto profumato e caldo ancora della presenza di Angelica, non aveva voluto baciare il posto ove ella si era seduta: le memorie doveano inabissarsi nel passato, le testimonianze del passato dovevano perire. Non aveva neppure voluto fare un giro per Roma, per la città prediletta, per la città dei suoi sogni, che lasciava fra due ore.

Nulla serviva più a nulla: tutto era inutile, tutto.

Giacchè tutto era finito, meglio sprofondarsi sul gramo tettuccio del quartierino mobigliato, fra il sudiciume e i cattivi odori; meglio non vedere, non sentire più nulla, poichè tutto era finito. E certo era un sonnambulo colui che andava su e giù, nello stanzone della stazione, avendo preso un biglietto di seconda classe per un paesello ignoto della Basilicata, poichè non gli bastavano i quattrini a comperarne uno di prima: era un sonnambulo che non vedeva le persone e le urtava, mentre aspettava la partenza del treno per Napoli; che non badava nè alla sua valigetta, nè al venditore ambulante che gli offriva i giornali, nè al vento estivo che facea vacillare le fiammelle a gas; era un sonnambulo colui che cercava il suo posto, sospinto dalla voce dell’impiegato.

Che lungo sogno! Ai primi sbuffi del treno che parte, un grande colpo nel cuore che sveglia quel pallido sonnambulo; egli si affaccia allo sportello e vede Roma, nera, alta, immensa, nei suoi sette colli che brillano di lumi; e ritira il capo, si abbatte sul sedile, come morto. Poichè, in verità, Roma lo ha vinto.


fine.

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