< La fantesca
Questo testo è stato riletto e controllato.
Atto IV

ATTO V.

SCENA I.

Apollione solo.

Apollione. Veramente la nostra vita è tutta piena di travagli, né si può prometter l’uomo che faticando sempre nella gioventú, possi nella vecchiezza riposare; ché quando stimi giá esser accomodato del tutto, allora da ogni parte vengono pericoli inopinati per turbarci il viver quieto. Avea un fratello chiamato Carisio Fregoso, il quale sbandito da Genova sua patria per cose di Stato, son quindici anni che non ne ho inteso novella; e mi lasciò in casa un maschio detto Essandro. Vengo in Roma, e per non esser costui un giorno andato alla scuola, promisi di batterlo: fuggí di casa mia tre anni sono, né ne ho potuto piú saper novella; solo ho inteso che era qui in Napoli e che stava in casa di un medico detto Gerasto, vestito da fantesca. Io non posso imaginarmi altro, perché vi stii, se non per qualche trama amorosa, onde potrá facilmente capitar male. Io per veder se posso rimediare prima che si venghi a questo atto, non ho voluto risparmiar fatica in soccorrerlo. Me ne andrò informando di lui e di sua casa.

SCENA II.

Speziale, Santina, Nepita.

Speziale. (Chi arebbe pensato mai che Gerasto, stimato fin qui vecchio da bene, or sia entrato in ghiribizzi d’amore? È venuto in bottega con la maggior fretta del mondo, ché avesse fatte certe pilole, di che io ne ho una ricetta mirabile, e ché gli le porti subito in casa, ché m’arebbe dato la mancia).

Santina. (Io non ho visto tutto oggi mio marito, e Fioretta non è in casa: dubito di qualche trama). Nepita, vien fuori, fammi compagnia.

Nepita. Vengo, eccomi.

Speziale. Madonna, sète voi di questa casa?

Santina. Sí bene.

Speziale. Date queste pilole a Gerasto, e ditegli che non l’ho potuto recar piú presto.

Santina. Che pilole son queste? per qual infirmitá?

Speziale. Certe pilole che m’ha chieste per esser gagliardo in una battaglia amorosa che vuol far con una sua serva.

Santina. Chi ha detto a te questo?

Speziale. Me l’ha detto lui, mentre stava mescolando la composizione.

Santina. Come si chiama questa sua serva?

Speziale. Garofoletta o Rosetta, se mal non mi ricordo.

Santina. «Fioretta» vuoi tu dire?

Speziale. Sí, sí. Ditegli che il modo d’oprarle è questo: che s’ingiotta queste, poi mangi una libra di pignoli e beva vernaccia fina, non altro, ché fará facende.

Santina. Come potrá ingannar sua moglie?

Speziale. Mi disse che erano venuti certi forastieri ad alloggiar seco, e che la casa era sozzopra e la moglie non poteva attenderci; e che presso la sua casa aveva una camera terrena oscura dove avea ella promesso venirci.

Santina. Non deve egli amar molto la moglie, poiché tanto l’ingiuria.

Speziale. Mi dice che sua moglie è una macra, brutta come una strega e vecchia; e che la vorrebbe veder tanto sotterra quanto ora sta sovra terra, e che non vede mai giunger l’ora che la morte gli la toglia dinanzi, tanto è ritrosa, superba e fastidiosa e rincrescevole. Ma io l’ho insegnata un’altra ricetta per farla divenir umile e benevole e di buona creanza.

Santina. E come è questa ricetta?

Speziale. Che la mattina quando è nuda nel letto, le dii a bere un poco d’acqua di legno, poi le freghi la schena con un poco di grasso di frassino o di quercia; e se alla prima volta non facessi l’effetto, che continui la ricetta finché guarisca bene.

Santina. Nepita, io non confido d’andar a piedi fin alla commare, e mi duole la gamba: va’ a tormi il mio bastone.

Nepita. Vado.

Santina. Chi t’ha imparato cosí bella ricetta? n’hai ancor fatta la pruova?

Speziale. La prima volta la provai a mia moglie, ed è riuscita miracolosa; poi l’ho insegnata a molti miei amici, e tutti m’han riferito che fa effetto grande.

Nepita. Eccolo, padrona.

Speziale. Che diavolo hai meco, vecchiaccia fradicia? che t’ho fatto io che mi batti?

Santina. Vo’ che tu facci esperienza con questa tua ricetta: arai meglio creanza.

Speziale. Ritorni di nuovo? che hai meco, ti dico? non accostarti, vecchia indiavolata!

Santina. Perché non fece effetto la prima volta, la vo’ continuare finché guarisci, ché abbi meglio creanza: non vo’ che dii questi consigli contro me.

Speziale. Che consigli io ho dato contro te? dove ti conobbi mai? ho detto di sua moglie, non di te.

Santina. Io son sua moglie.

Speziale. Che sapevo io che tu eri sua moglie? certo, che è assai piú di quello che lui n’ha raccontato. Un’altra volta oggi in questa maladetta casa ho patito disgrazie e ne son stato maltrattato!

SCENA III.

Santina, Nepita.

Santina. Che dici, Nepita? non l’hai inteso con le tue orecchie? comporterò io d’esser cosí mal maritata? Non la passerá certo senza vendetta: io vo’ aventarmegli adosso come una cagna.

Nepita. Or questo no, padrona: fategli ogni altro dispiacere e lasciate questo.

Santina. Vo’ cavargli gli occhi e troncargli il naso con i denti.

Nepita. Cavargli gli occhi e troncargli il naso ben potete, ma non por mano ad altro.

Santina. Non ti par buona vendetta?

Nepita. A me, padrona, no. Io gli renderei pan per focaccia.

Santina. Taci, ché sei una pazza. Vorrei piú tosto esser stracciata da mille lupi, che esser tócca da un sol uomo che non fusse mio marito.

Nepita. Io vorrei piú tosto esser straccata da mille uomini, che esser tócca da un sol dente di lupo.

Santina. S’egli ha rotto le leggi del matrimonio, non l’ho rotte io né le romperò finché viva. Egli lo meritarebbe certo; ma io vo’ mirar me non lui. Una donna deve far conto del suo onore.

Nepita. L’onor non è bianco né rosso, che si possa vedere: l’onore sta nell’opinion degli uomini, però bisogna farlo secreto. È meglio esser tenuta bona e non esserci, ch’esser contaminata senza effetto.

Santina. Tu desii la morte a me. Vo’ che paghi questo cattivo desiderio con l’ossa tue. Ecco la casa terrena. Sta serrata a pèstio, la spezzerò a calci: l’ira mi prestará forza.

Nepita. Per iscampar da questo cattivo influsso, tuo marito deveria far come quello animale che si strappa i suoi genitali e gli butta a’ cacciatori per salvar la sua persona, ché è ricercato sol per quelli. Ma io ti dico, padrona, ch’egli andrá per la decima e ci lascierá lo sacco.

Santina. Che vuoi dir per questo?

Nepita. Io ben m’intendo.

Santina. La porta s’apre: eccolo venir fuora tutto rosso, la serra dentro di piú. Mira come sta stracco e affaticato.

Nepita. Ascoltiamo di grazia, padrona, che dice. Giá non vi può scappare, che non facciate le vostre vendette.

SCENA IV.

Gerasto, Santina, Nepita.

Gerasto. Misero e infelice Gerasto, che meglio ti fossi posto ad arare che ad amare, che misera fortuna è questa che hai tu oggi incontrata?

Nepita. (Dice che s’allegra della buona fortuna che ave incontrata oggi).

Gerasto. Veramente tutte le sciagure corrono dietro la vecchiezza, come le mosche a’ cani magri. Ed il mio dispetto è l’allegrezza e la festa che ne fará mia moglie del fatto mio.

Nepita. (Dice che è in festa e allegrezza a dispetto di sua moglie).

Gerasto. Non tanta furia, ascoltate bene!

Santina. Non posso piú tenermi! Ahi, vecchio rimbambito brutto, disgraziato fantasma, non so chi mi tiene che non ti cavi gli occhi dalla testa con queste dita, e con i denti non ti tronchi il naso dalla faccia!

Nepita. (E tu savia, che mutasti opinione a non strappargli i fatti suoi!).

Gerasto. (Or questa sí, che è magior disgrazia della prima! Dovunque mi volgo, mi trovo aviluppato in nuovi guai).

Santina. Che dici adesso, bel fanciullino, innamorato galante, valente gallo che vuol calcar due galline, e hai un piede nella fossa e un altro nel cataletto, vecchio col capo tutto bianco?

Gerasto. O capo rosso o verde che sia, moglie, ti prego che m’ascolti, e vedrai che non t’ho offeso come stimi.

Santina. Tu, vecchio fradicio... .

Gerasto. So che vuoi dire: traditore, infame, manigoldo, e pur ancora. Hai ragione! Ascolta, ché d’oggi innanzi cessaranno le discordie fra noi mentre vivremo. Ascolta, moglie mia cara... .

Santina. Che mia? or son tua moglie cara; poco innanzi era strega, macra, puzzolente: tu non arai a far piú meco.

Gerasto. Io non dico questo, che tu abbi a distorti dal tuo proponimento; ma ascolta, e poi inteso il tutto, fammi castrare, ch’io starò piú paziente d’un agnello, e se non basti tu sola, chiama i parenti, gli amici, i vicini e Nepita ancora, ch’io perdono a tutti.

Nepita. Padrona, di grazia, ascoltate, che certo sará altro di quel che pensate.

Santina. Ragiona presto, finiamola: ti vo’ dar questa sodisfazione prima che facci la festa di fatti tuoi.

Gerasto. Sappi per certo, moglie mia cara, ch’io son stato innamorato di Fioretta, e per dirtelo chiaro, arei pagato la robba, i figli e la vita, per godermi una volta lei, ...

Santina. Lo so meglio di te, non bisognarla che lo dicessi a me.

Gerasto. ... e v’ho fatto mille tradimenti per averle le mani adosso. ...

Santina. Ma poco ti ha valuto.

Gerasto. ... Oggi vedendo l’occasione che la casa andava sozzopra, la feci prender da certi amici e la feci condurre in questa camera terrena oscura, e io mi serrai con lei. Ella stava dubbiosa e timida, come la volessi uccidere; e io con le piú dolci parole che sapeva, dicea: — Dolce Fioretta mia, cara mia moglieretta, core, vita, occhi! ...

Santina. Mira il furfante con quanto sapor lo dice!

Gerasto. ... L’abbraccio e mi sento pungere il mustaccio, come fusse uomo. Alfin le stava inginocchiato denanzi; ella tira a sé i piedi e mi dá una coppia di calci sul petto e mi fa cascar supino in terra, che mancò poco non mi scavezzassi il collo. ...

Santina. Sia maladetto quel «poco»!

Gerasto. ... Pur facendo animo a me stesso, innamorato e pesto, come meglio posso, dicendo che calci di stallone non fanno male a giumenta, con maggior rabbia e ardore torno alla battaglia. ...

Santina. Mira come me lo dice onestamente! Taci, taci, vecchiaccio senza vergogna! parti cosa onorevole ragionar di queste sporchezze?

Gerasto. ... Ascolta, di grazia. ...

Santina. Non vo’ ascoltare, so che vuoi dire.

Gerasto. ... Anzi men sai che voglio dire, né imaginartelo puoi giamai. ...

Santina. Forse il giardinetto cominciava a spuntar fuori l’erbe piccine?

Gerasto. ... Che erbe piccine? anzi, mi diè tra mano..., mi vergogno dirtelo.

Santina. Ti dovevi vergognar di farlo.

Gerasto. ... Dico ch’era piú maschio ch’io, tanto maschio che n’aresti fatto tre maschi.

Nepita. Se fussi gravida, mi sgravidarei: l’ha narrato con tanto sapore che m’ha fatto venir la saliva in bocca.

Santina. Oimè, che dici?

Gerasto. Quanto ascolti.

Nepita. Alfin, tu serai stata la ruffiana a tua figlia, ché la tenevi in gelosia sempre serrata con lei.

Santina. Ahi, che mirandola oggi in fronte gli leggeva il commesso peccato! Ma chi avesse potuto pensar questo? Infelice me, disgraziata me!

Gerasto. Taci e fa’ rumor manco che puoi, acciò le corne che avemo nascoste in seno, non ce le ponghiamo in fronte, e altri imparino a nostre spese. Egli m’ha detto che è gentiluomo genovese di Fregosi, e si contenta star prigione finché si pigli informazione di lui; e se è vero, se gli dii per moglie, perché ella, non men che lui, lo desidera ardentemente.

Nepita. Credetelo, ché è cosí; perché dicea mia madre che queste radici han gran virtú di farsi amar dalle donne.

Gerasto. Taci, vattene a casa. Io l’ho serrato qui dentro; or andrò a certi gentiluomini genovesi miei amici e mi informerò di lui con molta destrezza.

SCENA V.

Santina, Nepita.

Santina. O figlia, figlia, che infelice fortuna è questa che tu hai incontrata!

Nepita. Sventura ti pare ritrovarsi con un giovane bello, di diciotto anni, nel fior degli anni suoi? oh, l’aveste incontrata voi, padrona, questa sventura!

Santina. Taci, porca, pensi che tutte le donne sieno cattive come sei tu? Frena la tua lingua cattiva.

Nepita. Cattiva lingua vi pare quella che dice il vero? Vedete vostra figlia che ha manco anni di voi ed è stata piú savia di voi, che se l’ha tenuto tre anni in camera e non ha fatto saper cosa alcuna né a te né a me. A fé, che le fanciulle d’oggi san piú dell’attempate del tempo antico.

Santina. Tu non solo sei di cattiva lingua ma di peggiori operazioni; e se non lasci le baie, ti romperò la testa.

Nepita. O che l’avesse incontrata io questa sventura, ché non l’arei fatto saper né a voi né a vostra figlia, e me l’arei saputo goder questo tempo.

Santina. E chi può guardarsi da simil sciagura? entrar un giovane prosontuoso, vestito a donna, in una casa onorata per disonorarla?

Nepita. Sarebbe assai bene farsi un officiale che, quando se avessero a tor le fantesche, le ponessi le mani sotto per veder se son uomini o femine. A che giova tener le donne serrate in camera con porta e fenestre e chiavistelli, se i giovani se trastullano con loro sotto altro abito?

Santina. Apri la porta: entriamo.

SCENA VI.

Gerasto, Panurgo, Tofano.

Gerasto. Non posso cavarti di bocca una parola vera di questo fatto?

Panurgo. Certo, Gerasto, che voi non pigliate la cosa per il suo verso.

Gerasto. Che vuol dir che non piglio la cosa a verso? Tu non rispondi a proposito.

Panurgo. Che volete che vi risponda se non quello che sempre vi ho detto?

Gerasto. Che m’hai tu detto mai se non certe parole che l’una non attacca con l’altra?

Panurgo. Certo non è la cosa come pensate, vi dico.

Gerasto. O che tu mi fai rodere di rabbia! — La cosa non è come pensate..., non la pigliate a verso! — Io non posso cavar costrutto di quel che dici.

Tofano. (Se ben miro quell’uomo che parla con quel vecchio, è quello amico a cui Alessio mio padrone manda le vesti).

Gerasto. Che rispondi?

Panurgo. Dico che quando questa mattina... .

Gerasto. Non ti domando di questo, io.

Tofano. Gentiluomo, Alessio mio padrone vi manda le vesti che questa mattina gli chiedeste con tanta istanza; ...

Panurgo. (Oh, cancaro! questo è il servo di Alessio che porta le vesti). Sí, sí bene, t’ho inteso: tornale indietro e diteli ch’io lo ringrazio.

Tofano. ... che lo perdoniate se non l’ha potuto mandare piú presto; ...

Panurgo. Basta, vatti con Dio.

Tofano. ... che vi volevate vestir da dottore, ...

Panurgo. Vattene, che non servono piú.

Gerasto. Lascialo parlare, che te importa?

Tofano. ... ché volevate ingannar un certo medico.

Panurgo. (Che ti sia cavata di bocca quella lingua traditora!).

Gerasto. Che medico? che dice di medico?

Panurgo. Non dice nulla.

Gerasto. Parla. Che dicevi di medico?

Tofano. Dico che... .

Gerasto. Che cosa «dico che»?

Tofano. Voi mi toccate il gomito; che volete da me?

Panurgo. Chi ti tocca, asinaccio?

Tofano. Adesso mi tocchi il piede. Omai m’avete storpiato.

Panurgo. Non si vuol partir questa bestiaccia!

Tofano. Dove volete che vada?

Panurgo. Va’ in buona ora!

Gerasto. T’ho visto con gli occhi miei che lo tocchi e cenni, e mi hai fatto entrar in maggior suspetto. Vien qui, uomo da bene: chi invia queste vesti?

Tofano. Io, quando questa mattina... , subito che... .

Gerasto. Che quando, che mattina, che subito? Vai pensando qualche trappola!

Panurgo. Io dico...

Tofano. Lascia dire a me.

Gerasto. Taci tu; di’ tu: lo vo’ intendere da lui non da te.

Panurgo. Vi dará ad intendere qualche bugia.

Gerasto. Non hai ad impacciartene tu. Parla, giovane.

Tofano. ... che volevan vestire un truffatore per dar ad intendere ad un medico; ...

Panurgo. Io, ah?

Tofano. Tu, sí.

Panurgo. Tu devi stare imbriaco, tu sogni: non partirai che non ti rompa la testa, prima. Mira che viso, come sa ben fingere una bugia!

Gerasto. O non posso levarmi costui da torno! Vedo che cominci a tremare. Lèvati di qua; vien tu qui, segui il tuo ragionamento: la vo’ intender da capo.

Panurgo. (O veritá, che quanto piú l’umana forza cerca avilupparti e sommergerti sotto terra, tanto tu piú lucida e piú netta risorgi a suo dispetto! Il fatto è spacciato per me, non ci è piú rimedio).

Tofano. ... perché volevano disturbare certo matrimonio, e tutto ciò per far serviggio ad un giovane, vestito da fantesca, che faceva l’amore con la figlia di quel medico. Onde pregò caldamente il mio padrone, che si è affaticato tutto oggi per trovarle: l’abbiamo servito, e or ce le reco.

Panurgo. M’hai servito da vero e meriti la mancia!

Tofano. Mi volete dar la mancia che m’avete promesso, se vi avessi...?

Panurgo. Meritaresti un capestro che t’appiccasse, come non ti mancherá!

Tofano. Vi ringrazio della mancia e della buona volontá.

Panurgo. La volontá è conforme al tuo merito.

Tofano. Vi lascio.

Panurgo. Vattene col diavolo!

SCENA VII.

Gerasto, Narticoforo, Panurgo.

Gerasto. Ben, bene, queste cose se danno ad intendere a pari miei? Arpione, Tenente, Graffagnino, pigliate questo, legatelo, bastoneggiatelo ad usanza d’asino.

Narticoforo. Vi veggio, Gerasto, in gran travagli con costui.

Gerasto. Sappi, Narticoforo caro, che son stato tutto oggi aggirato per cagion di costui, il quale è stato fonte, origine e principio d’ogni garbuglio e d’ogni male.

Narticoforo. Ben, come si sta galante uomo?

Panurgo. Si sta in piedi.

Narticoforo. Sei o non sei tu? sei uno o sei alcuno?

Panurgo. Io non son io né mi curo esser io, né vorrei che alcuno fusse me.

Gerasto. Mira che faccia di avorio! mira che volto!

Panurgo. Mi par che con questo volto possa star dinanzi ad ogni grande uomo.

Gerasto. Or che diresti o faresti, se non avessi detto e fatto quel che hai fatto e detto? Io ti darò in mano della corte e del boia che ti facci dar di capo in un capestro, non senza le debite cerimonie prima, della mitra, dell’asino, della scopa, di fischi e riso di tutto il populo.

Panurgo. Sono in vostro potere, fate di me quel che vi piace; e se questo vi par poco, giungetevi altrotanto, ch’io soffrirò ogni supplicio. Ma di grazia, ditemi, di che vi dolete di me?

Gerasto. Come! di che mi doglio di te? Barro assassino, senza vergogna e senza coscienza, ti par poco portarmi un furfantello storpiato con la lingua di fuori, e farmi scacciar di casa un uomo onorato, per favorir un prosontuoso sfacciato che vestito da fantesca tendeva insidie all’onor della mia casa?

Panurgo. Confesso esser vero quanto dite; ma quello che è fatto, non è stato comandato dal mio padrone? conviene al servo far ciò che gli comanda il suo padrone.

Gerasto. Conviene ad un uomo da bene non dispiacere ad alcuno per far piacere ad un altro.

Panurgo. Lece al servo far ciò che vuole il padrone.

Gerasto. Questo servo ne pagherá la penitenza.

Panurgo. Purché il padrone sia ben servito, soffrirò ogni cosa con pazienza.

Gerasto. Serai appiccato come meriti.

Panurgo. Viverò almeno eterno.

Gerasto. Purché il boia ti scavezzi il collo, io non mi curo che vivi eterno.

Panurgo. Di questa morte molto me ne glorio e vanto.

Gerasto. Te ne vanterai nell’inferno fra gli dannati tuoi pari.

Panurgo. Seguane quel che si voglia, vo’ piú tosto che tu ti penti d’averme usato impietá, ch’io di non aver fatto il mio debito.

Gerasto. I padroni, se ben patiscono spese, carceri, esili, disaggi, sempre la scappano alfine; i servi pagano sempre.

Panurgo. Quanto piú viverò libero e con men travagli, tanto io morrò piú sodisfatto.

Gerasto. Perché non facevi un buon officio, avisarmi dell’inganno?

Panurgo. Usando buon ufficio a te, l’usava male a lui. Che ragion voleva che avessi lasciato di servire il padrone che l’amo, per servir te che non so chi sii?

Gerasto. Mi risponde da filosofo: or non ti par egli un Socrate?

Narticoforo. (Certo che non è uomo dozzinale. La forza della virtú è cosí grande che passa anche ne’ nemici). Se ben io son stato lacessito d’ingiurie da te, il tutto ti condono.

SCENA VIII.

Apollione, Gerasto, Narticoforo, Panurgo.

Apollione. (Mi dicono tutti che abita qui d’intorno. Forse costoro me ne sapranno dar novella). Gentiluomini, mi sapreste dar voi nuova di Gerasto di Guardati?

Gerasto. Niuno ve ne può dar piú certa nuova di me, perché io son detto. Ma che volete da me?

Apollione. Saper solo se in casa vostra fusse una fantesca chiamata Fioretta, che son tre anni che si partí di casa mia.

Gerasto. Chi sète voi che me ne dimandate?

Apollione. Son Apollione de Fregosi suo zio, che vo tre anni disperso per averne novella.

Gerasto. Certo avete una nipote molto onorata e da bene!

Apollione. Tutto è per vostra cortesia, ché, stando in casa onorata come la vostra, stava sicuro che contagione di pessimi costumi non l’arrebbono corrotta.

Gerasto. Ditemi, di grazia, il vero — ché confidando nella bontá, che mi par conoscere nell’aria vostra, voglio crederlo, — di che qualitá è questa vostra nipote?

Apollione. Se ben l’uomo deve sempre dir il vero, mi par pur gran sfacciataggine dir una bugia che potrá esser facilmente scoverta, essendo qui infiniti gentiluomini genovesi che ve ne potranno chiarire. Suo padre e io siamo fratelli, di patria genovesi, della famiglia di Fregosi, che per negozi appertinenti a Stato, quando si fe’ l’aggregazion di nobili in Genova, fummo sbanditi. Mio fratello con taglia di tremila ducati se ne fuggí; e son quindici anni che non se ne intese piú novella se sia vivo o morto. Giá sono accommodate le cose della patria molti anni sono; e io cercando di lui, venni con la casa in Roma; e per un mal serviggio promettendo io di battere mia nipote, questa si partí di casa tre anni sono, che non ne ho inteso piú nulla se non pochi mesi sono, che era in Napoli in casa vostra. Onde partitomi di Roma, son qui venuto per saperne novella.

Gerasto. Come è suo nome, e del padre?

Apollione. Suo nome Essandro, suo padre Carisio, io Apollione; e se ben perdemmo in quel conflitto molte robbe, pur non siamo tanto poveri che in casa nostra non sieno trentamila ducati.

Panurgo. O fratello carissimo, Apollione desiato sí lungo tempo di rivedere! benedetti questi legami di carcere e le disgrazie, poiché in esse mi tocca di rivederti!

Apollione. Tu dunque sei Carisio mio fratello? o che dolcezza è questa! sogno io o vaneggio?

Gerasto. Ah, ah, ah!

Narticoforo. Ah, ah, ah! certo che sogni e vaneggi.

Apollione. Per che cagione?

Gerasto. Questi che voi non conoscete, si trasforma in qualunque uomo ei vede: per uscir dall’intrigo dove adesso si ritrova, subito s’ha finto tuo fratello.

Apollione. Ogniun crede facilmente quel che desia: il desiderio immenso di trovar mio fratello me lo fe’ subito credere.

Panurgo. Deh, Apollione mio caro, non mi raffiguri tu ancora? ha potuto tanto l’assenza ch’abbi posto in oblio la mia conoscenza?

Gerasto. Oh, vedete come piange, vedete che lagrime spesse!

Narticoforo. Se fusse donna, non arebbe cosí le lagrime a sua posta.

Apollione. Veramente or ti raffiguro, fratello: perdonami se prima non son venuto a far il debito ufficio ch’io doveva.

Gerasto. Férmati, ché tu proprio desii d’essere ingannato. Questi a me, che son Gerasto, ha dato ad intendere che sia Narticoforo; a costui, che sia me; ad un servo, per tòrli certe vesti, l’ha fatto credere ch’era un dottor di legge; or per iscampar dal periglio dove si trova, dice che è tuo fratello.

Panurgo. Non si chiamò mia moglie Zenobia? né ti raccomandai questo figlio di duo anni, piangendo in braccia, quando partimmi?

Apollione. Questo che dice è vero, e a me par mio fratello.

Panurgo. Non hai tu un segnale nella schena, ché avendoti in braccio, quando era piccino, ti fei cadere e percotere in una pietra aguzza, di che giacesti duo mesi in letto e ancor ne devi aver la cicatrice?

Apollione. Questo è mio fratellissimo. O fratello ricercato e desiderato!

Narticoforo. Può esser che tu voglia essere cosí credulo?

Apollione. Chi non è uso a mentire, crede ogniun che dica il vero. Ma io tocco la veritá con le mani.

Narticoforo. Io non posso imaginarmi uomo piú perfidioso di te: questi è un «doli fabricator Epeus», è un altro Ulisse che fece il cavallo igneo per prender Troia. Tu ne sei stato admonito prima, che persuade a ciascun che sia lui.

Apollione. Amici, mi ha dati certi segni che non può saperli altri che lui.

Gerasto. Sappiate che tiene le spie per tutte l’osterie, per star informato de’ fatti di ciascuno e persuadergli quello che vuole.

Panurgo. Ed è possibile, Apollione mio, fratello, che vogli prestar piú fede a costoro che all’istessa veritade?

Apollione. Amici, la forza del sangue è cosí grande che si fa conoscere da se stessa: io mi sento tutto il sangue commosso.

Narticoforo. Ancor potrebbe esser vero quel che dice, e noi non cel crediamo. Questo acquista chi è uso a mentire: che dicendo il vero non gli è creduto. «Qui semel malus, semper praesumitur malus in eodem genere mali».

Apollione. Questi è veramente mio fratello; né fu tanta la pena che ho sentito in questa sua assenza, che non sia maggior la gioia che adesso ho che lo riveggo. Gerasto, padron caro, costui è padre di chi sta in casa vostra.

Gerasto. Talché ugualmente e dal padre e dal figliuolo son stato assassinato?

Panurgo. E può esser che io sia stato ruffiano a mio figlio?

Apollione. Gerasto caro, sappiansi l’ingiurie che stimate aver ricevute da noi, accioché possiamo far le debite sodisfazioni.

Panurgo. L’ingiuria che l’ho fatta, è questa: che per far serviggio a mio figlio, allor mio padrone, prestatomi il nome di Narticoforo romano, che è questo gentiluomo, entrai in casa sua; e poi prestatomi il nome suo, mi feci conoscere a questo per Gerasto e lo scacciai dalla casa che non era mia. Che grande ingiuria è questa, ch’io ne meriti tanto castigo? Si prestano ogni giorno vesti, vasi d’argento ed altre cose che pur si logorano; né per questo se ne ha molto obligo a chi le presta. Per avermi io servito di vostri nomi per due ore, e or ve li restituisco sani e salvi e senza mancamento alcuno, dite che gran premio ne volete, ché son per pagarlo. Vi vo’ prestare il mio nome di Carisio per un anno, per quattro e dieci, e non ne vo’ cosa alcuna né che me ne abbiate pur un minimo obligo.

Narticoforo. Certo che sète uomo frugi e di molta comitate: d’oggi innanzi vi vo’ per ero e per amico.

Apollione. Vengasi di grazia all’altra ingiuria che avete ricevuta.

Gerasto. L’altra è questa: che vostro nipote, vestito da fantesca, è stato in casa mia; e mia moglie per gelosia di me, pensandosi che fusse femina, l’ha fatta dormir sempre in camera con mia figlia. Oggi è scoverta l’alchimia, l’ho prigione, mi son consigliato con gli amici e parenti se lo debba uccidere o consignarlo in man della giustizia.

Apollione. Sia benedetto Iddio che ci ha fatto giungere a tempo di remediarci! Orsú, Gerasto caro, l’indegno atto e l’offesa che ha usata contro te, n’è stato cagione amore; ché ben sapete che amore e ragione mai potero apparentare insieme, e la legge d’amore è romper tutte le leggi e non servar legge ad alcuno. Poiché amor l’ha ridotto a questo termine, vagliaci il vostro senno e prudenza a rimediarci. Poiché cosí è piaciuto a lui, piace ancora a noi che sia sua moglie; e credo che non abbiate a ritrarvene a dietro, essendo mò noi de Fregosi, casa cosí nobilissima, e tanto piú abbiamo sol questo nipote il qual sará erede di trentamila scudi. Egli è bello tra giovani non men bella che sia vostra figlia; e se egli ne è di foco, ella n’è di fiamma; s’egli arde per lei, ella ne è arsa e incenerita per lui; e s’egli ha dato il core, ella l’anima. Facciasi.

Gerasto. Ed io poiché non posso rimediare al mio onore altrimente, è forza che me ne contenti: io gli perdono né vo’ che muoia, non perché egli sia degno di vita — ché dovea farmela chiedere ordinariamente e non con trappole macchiarmi l’onore; — ma lo fo per non dare a te suo padre e a te suo zio cosí acerbo dolore che avereste della sua morte. Orsú, diasi Cleria ad Essandro e Ersilia a Cintio, purché ne sia contento Narticoforo: con questo patto però, che abbi tempo duo giorni ad informarmi di voi; ché se ben all’aspetto conosco che siate di buona qualitá e conosco che sia vero quanto dite, pur per non esser tassato per leggiero da parenti e amici, cerco questo spazio di tempo.

Narticoforo. Io mi contento e plus quam contento che sia Ersilia di Cintio, ché quella piú di Cleria io exoptava.

Gerasto. Io ti scioglio, Carisio caro; e ponendoti tu in mio luogo, credo che essendo onorato, come ti stimo, aresti fatto altrotanto a me. Ma chi è quello cosí contrafatto che mi avete condotto in casa?

Panurgo. È un piacevolissimo buffone che altro di danno non ara potuto fare alla casa che di alcuna cosa da mangiare. Eccoci per rimediare al tutto.

Gerasto. Orsú, perché l’inganno avea abbagliato a tutti e ci sono occorsi atti e parole in pregiudicio commune, si perdoni l’un l’altro.

Narticoforo. Cosí si facci.

Panurgo. Cosí si facci.

Gerasto. La mia casa sará commune a tutti; se ben non posso onorarvi come si conviene, supplisca dal mio canto l’affezione. Narticoforo, mandáti a chiamar Cintio.

Narticoforo. Olá, togli questa crumèna, paga l’oste, che ti dii le valiggie, e mena teco Cintio in questa casa.

Panurgo. Vi chieggio una grazia, Gerasto, che possa baciar mio figlio, gli dia questa allegrezza e non lo facci piú disperare.

Gerasto. Eccovi la chiave; quella è la stanza terrena.

Apollione. Entriamo.

SCENA IX.

Panurgo, Essandro, Morfeo.

Panurgo. Essandro, padron mio caro, come state?

Essandro. Accompagnato da una amarissima compagnia di pensieri.

Panurgo. Non domandi di tuoi successi?

Essandro. Per allungar la speranza! Ma pur che novelle?

Panurgo. Cattivissime, maledettevolissime. Tu sei...

Essandro. So che vuoi dire: — Misero e serbato dal Cielo a crudelissime passioni!

Panurgo. Gerasto n’ha scacciati di casa, dato Cleria a Cintio; e or si fanno le nozze.

Essandro. Giá son caduto e morto!

Panurgo. Come?

Essandro. Tu parli cortelli e lancie; la tua lingua m’ha trapassata la gola come un pugnale.

Panurgo. S’è inviato a dir a Sua Eccellenza; e fatto tòrre informazione del successo, ha dato ordine che tu sii giustiziato.

Essandro. M’hai tornato vivo, ché non fu mai piú cara morte, perché d’ora innanzi arei sempre aborrita la vita.

Panurgo. Ascolta fin al fine.

Essandro. Non posso ascoltare, perché attendo al fatto mio.

Panurgo. Questi sono i fatti tuoi.

Essandro. I miei fatti sono annodarmi un capestro al collo e strangolarmi.

Panurgo. Ascolta, dico.

Essandro. Il mal cresce, la speranza è mancata, il disio è fatto maggiore, il consiglio disperso: non ascolto piú niuno, ragiono con la morte che sotto varie imagini mi scorre dinanzi. Giá è persa la medicina che sola mi poteva recar salute; molte vane speranze m’han lusingato fin qui; or pongo fine allo sperare, non ingannarò piú me stesso.

Panurgo. Vòlgeti a me.

Essandro. Ho annodata la fune e or me l’adatto al collo.

Panurgo. Chi t’ave imparato, il boia?

Essandro. La disperazione! Vuoi tu alcuna cosa dall’altro mondo?

Panurgo. Sí, sí, vo’ che mi porti una lettera a mio padre, che li bacio le mani e desio saper come stia.

Essandro. M’allonghi la vita! giá salo la scala e annodo il capestro al trave.

Panurgo. Te terrò per i piedi, non ti farò salire.

Essandro. Scherzi con la morte non con me. Adesso mi butto.

Panurgo. Non buttarti cosí presto. Ecco spezzato il capestro: perché non lo tentavi prima che adoperarlo? Volemo che la fortuna s’appicchi lei con quel capestro che apparecchiava per voi?

Essandro. Fai errore trattener la morte, con beffe, ad un misero.

Panurgo. Allegrezza, allegrezza!

Essandro. Hai torto darmi la baia, ch’io non t’offesi, che io seppi mai, e t’ho in luogo di padre e non di servo tenuto.

Panurgo. La via che avevi presa per gir all’altro mondo, lasciala, e prendi quella per gir alla casa di Cleria, che è tua moglie.

Essandro. Come moglie?

Panurgo. In carne e ossa.

Essandro. Burli in cosa dove va la vita.

Panurgo. È venuto Apollione tuo zio e riconosciutosi con tuo padre; son stati d’accordo con Gerasto e ti han concessa Cleria.

Essandro. Deh, perché mi burli e aggiungi beffe a beffe?

Panurgo. Allégrati della mia allegrezza adesso, come io mi son allegrato della tua: ch’io ho ritrovato mio figlio.

Essandro. Chi è tuo figlio?

Panurgo. Vieni in casa e lo saprai, ch’io non vo’ tanto prolungar il tempo che possi abbracciare e stringere la tua Cleria piú che una tanaglia.

Essandro. Il misero non crede a nulla che di ben gli sia detto.

Panurgo. Vieni, corri, vola e vedi il tutto vòlto in allegrezza.

Essandro. Rispondi a quanto ti domando, parla piú chiaramente il tutto: Cleria è fatta mia?

Panurgo. Sí.

Essandro. Gerasto m’ha perdonato?

Panurgo. Sí.

Essandro. È venuto mio zio Apollione?

Panurgo. Sí.

Essandro. Mio padre ancora?

Panurgo. Sí.

Essandro. Ad ogni cosa che ti domando: sí, sí, sí. Mi tratti da bestia, da asino.

Panurgo. Sí, sí, sí: te l’ho detto e stradetto mille volte.

Essandro. Oh, come sí orribil tempesta si è mutata in un subito in sí placida e tranquilla quiete! O felici miei pensieri, a che gloria giunti sète! O felice sole, che hai apportato il piú lieto giorno per me e ore cosí felici!

Panurgo. Dove vai, Morfeo?

Morfeo. A chiamar Essandro. Che tardi? tutti sono a tavola, si fa banchetto reale, le minestre si raffreddano e non vogliono cominciar senza te.

Essandro. Deh, perché non ho l’ali da volare, o Cleria, o mio padre, o mio zio!

Morfeo. Spettatori, la cosa è riuscita a miglior fine di quello che noi speravamo e che abbiamo saputo ordinare: bisognano alcuna volta i disordini, accioché si venghi agli ordini. E se la favola vi è piaciuta, fate segno di allegrezza.



Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.