Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto III | Atto V | ► |
ATTO IV.
SCENA I.
Narticoforo, Gerasto.
Narticoforo. (Heu, misero Narticoforo, tu stai in un pelago di ancipiti pensieri! A me duole partirmi senza far molti consci della ingiuria con che m’ha lacessito Gerasto; e se non mi parto, quel suo nipote vuol trucidarmi: io sono tra Cariddi e Scilla!).
Gerasto. (Fioretta non è in camera: andrò in casa, gli farò cenno che venghi, e vedrò se gli forastieri han pranzato e se si riposano).
Narticoforo. (Costui deve esser forastiero in questa cittá, perché va alla casa appestata e la batte per entrare). O viro probo, arrige aures a quel che dico.
Gerasto. O son sordi o dormono.
Narticoforo. Perché battete quel ostio con tanta veemenzia?
Gerasto. Perché ho voglia d’entrare.
Narticoforo. Voi dovete esser forastiero e l’arete presa in cambio.
Gerasto. Or questa è bella, che un forastiero dica ad un cittadino che è forastiero, e gli vogli insegnar la sua casa!
Narticoforo.
Heu fuge crudeles terras, fuge littus avarum!
Gerasto. Perché mi dite voi questo?
Narticoforo. In questa casa ci è la peste, e ponendovi la testa dentro o toccando la porta, s’apprende.
Gerasto. Penso che voi vogliate darmi la baia.
Narticoforo. Vuoi tu un buon consiglio? scòstati da quella porta, perché ti appestará.
Gerasto. Vuoi tu un miglior consiglio? non trattar di quello che non sai, altramente sarai giudicato di poco consiglio e di manco cervello.
Narticoforo. Or giudica temet ipsum di poco cervello e di poco consiglio, ché parvipendi l’ottime admonizioni di chi ti dice che questa casa è pestifera e ti importa la vita.
Gerasto. Che peste? chi t’ha riferito questo?
Narticoforo. Il padron istesso di queste edicole.
Gerasto. A che proposito il padron di queste case ti l’ave riferito? certo costui sará scemo di cervello.
Narticoforo. Lubenter faciam. Commorando io in Roma, mi scrittitò molte lettere, chiedendo copular una sua figlia in matrimonio con un mio figlio; e giá d’accordo, piú con la sua che con la mia sodisfazione, mi chiama che venghi col mio figlio a tor la sposa. Vengo, e lascio i miei consanguinei che mi venghino ad incontrar con la nuora; adesso mi dice che me ne ritorni.
Gerasto. Certo costui non può essere uomo da bene, perché vien meno della sua parola. Ma che ragioni assegna egli?
Narticoforo. Dice che medicando agli Incurabili s’attaccò la peste, ed egli l’ha attaccata a sua figlia nelle parti pudibonde e l’ha tutta guasta, che non vi è rimasto segno del sesso; e che a lui gli è venuta da dietro — o stomacali o peste, — che è tutto rovinato. E poi m’ha mandato un suo abnepote o trinepto a minacciarmi, se non mi parto fra mezza ora, di voler uccidermi.
Gerasto. Che cosa è trinepto?
Narticoforo. Non sapete voi la linea della consanguineitá? «Est nepos cuius relativum est avus, sic proavus cuius relativum est pronepos, sic abavus cuius relativum est abnepos».
Gerasto. Non mi curo saper questo io.
Narticoforo. Ascolta, ché non so come puoi tu vivere senza saper questo.
Gerasto. Seguite la cagion della peste.
Narticoforo. Alfin, per giungerlo, gli dico che mi facci copia di veder quella sua figlia che aveva; e mi disse che avea commutato la vita con la morte.
Gerasto. Perché non vi facesti mostrar quella sua figlia appestata?
Narticoforo. Lo chiesi; e venne fuori con certe tumefazioni nella bocca, con una ernia di sotto, che non so se Tesifone o Megera potesse essere piú difforme di lei. E allora mi disse che mi fusse scostato dalla casa, perché era pestifera.
Gerasto. Questa mi pare una forfantaria e indegna di uomo da bene; e ne meritarebbe castigo. Però vi prego, se è però lecito, dirmi il nome, acciò ci possiamo guardar da lui.
Narticoforo. Lubentissime faciam. Suo nome è Gerasto di Guardati.
Gerasto. Gerasto de Guardati! come, quando e dove fu questo?
Narticoforo. Hic, in questo luogo; illic, in quel luoco; istic, per qua: poco innanzi, come v’ho detto.
Gerasto. Gerasto di Guardati ti ha detto che ha una sua figlia con una fistola dinanzi, ed egli un’altra di dietro?
Narticoforo. Certissimo, quello che ascolti.
Gerasto. Come sta fatto questo Gerasto che tu dici?
Narticoforo. Gracilescente, col collo obtorto, con oculi prominenti, strabbi e di color fosco.
Gerasto. Dio me ne guardi che Gerasto fusse cosí fatto! Tu mi hai dipinto un appiccato. Gerasto è tutto di contrarie fattezze: che è grasso, collo corto, naso schiacciato, colorito; e per non tenerti a tedio, io son Gerasto di Guardati. Né mai viddi te se non adesso; né ebbi io fistola dietro mai, né mia figlia innanzi, se non quella che ci ha fatto la natura istessa; e se lo luogo di mia figlia fusse men onesto, or la snuderei; e se io non stessi nella strada publica, or ora mi slacciarci le calze e te lo mostrarci in prospettiva, accioché con gli occhi tuoi vedessi il tutto. Né io ho nipote né trinepote che possa pormi legge: e tutto è mentita quanto hai detto.
Narticoforo. Ho detto il vero, piú vero di quel vero che tu dici.
Gerasto. È ben vero che ho promesso a Narticoforo romano, onoratissimo uomo, dar mia figlia Cleria per moglie a Cintio suo figlio, e a lui sta a menarsela in Roma quando gli piace; e tu devi esser di cattiva lingua.
Narticoforo. Poco anzi con encomi egregi onorasti Narticoforo ludimagistro, e or ricanti la palinodia chiamandolo semifatuo e mentitore.
Gerasto. Ho lodato Narticoforo; ho detto mal di te.
Narticoforo. Ego sum Narticoforus «fama super aethera notus».
Gerasto. Tu Narticoforo romano?
Narticoforo. Ipsissimus Narticoforus.
Gerasto. Se tu sei Narticoforo e te ho lodato, mi sono ingannato e ne mento per la gola.
Narticoforo. Non mi sono ingannato io di te, che ho detto quel che sei.
Gerasto. Narticoforo e suo figlio sono in casa mia; e ti farò veder la veritá quando vorrai.
Narticoforo. Quando venne in tua casa Narticoforo?
Gerasto. Poco innanzi; han pranzato e or si stanno a riposare per lo viaggio fatto.
Narticoforo. Narticoforo e suo figlio sono in casa tua?
Gerasto. Quante volte vuoi tu sentirlo?
Narticoforo. Potrei vedergli io?
Gerasto. Per vincer col vero la tua perfidia, vo’ che gli veda. Olá, o di casa, fate venir Narticoforo e suo figlio fuori. Ti farò veder la mia veritá.
Narticoforo. Qui non può esser veritá alcuna; né vedrò altrimente Narticoforo se non vedo me stesso, né Cintio mio figlio se non vado nel diversorio dove l’ho lasciato.
SCENA II.
Morfeo, Gerasto, Narticoforo.
Morfeo. Che dimandate pa... padre ca... ca... caro?
Gerasto. Ecco il suo figlio Cintio.
Narticoforo. Questa non è l’indole di mio figliuolo.
Gerasto. Questo forastiero ha caro vedervi.
Morfeo. Chi è questo fo... fo... forastiero?
Narticoforo. Profecto desio saper chi voi sète.
Morfeo. Io Ci... Cintio romano.
Narticoforo. Di chi sète figlio?
Morfeo. Di Na... Na... Nas... Nasincolfino romano.
Narticoforo. Narticoforo vuoi tu dire? Che arte egli essèrce?
Morfeo. Maestro di sco... sca... sce..., mastro di scola.
Narticoforo. Pensava volessi dir mastro di solar scarpe. Che sei qui venuto a fare?
Morfeo. A sbo... sbu... sbosar la figlia di questo me... men... medico.
Narticoforo. Di quanto hai detto, tu menti del tutto.
Morfeo. Sbu, sbu.
Narticoforo. Oimè, che putore! che cosa è questo che m’hai buttato in faccia?
Morfeo. È ro... rotta la postema: è lo san... sangue e la mar... marcia.
Narticoforo. Oimè, che fetulenzia, che cloaca è questa!
Morfeo. Ti giuro... .
Narticoforo. Non giurare a chi non crede al tuo giuramento. Parteti di qua; se non, mi partirò io.
Gerasto. Entra, Cintio mio caro. Ecco, hai pur visto esser vero quanto ti ho detto.
Narticoforo. Mio figlio non è cosí fatto: è un Adone, un Ganimede, immo centies piú bello dell’uno e dell’altro. Questi è un deforme Tersite. Proh Iuppiter, questa Napoli deve essere qualche terra incantata, dove gli uomini diventano altri di quel che sono; onde son ancipite come si trovano qui uomini che non solo mentiscono chi sono, ma s’usurpano i nomi e le condizioni d’altri.
Gerasto. Ed è possibile che in Roma si trovino uomini cosí ignoranti e di sí fatta condizione che non si voglino persuadere che altri non sieno quelli che sono, e or si vogliono far conoscere per quelli che non sono?
Narticoforo. Non fu inteso mai il piú insigne mendacio in questa machina mundiale!
Gerasto. Perché sei incredulo?
Narticoforo. Anzi, tu bugiardo?
Gerasto. Questa tua barba bianca m’ave ingannato.
Narticoforo. La tua ciera m’ha detto la veritá. Mira faccia di boia!
Gerasto. Mira faccia d’appiccato! stolto ignorante!
Narticoforo. Mentiris per guttur! oh avessi la mia ferola, ché ti vorrei far pentire di quanto hai detto.
Gerasto. Ti risponderei con le mani, se avessi qui un bastone, e ti impararci la creanza.
Narticoforo. Tu la creanza a me? il quale con publico stipendio lègo una lezione estraordinaria alla Rotonda di versi di Mancinello di costumi? Pensi che per esser qui forastiero non abbi in questa cittá alcun amico? o abbi la crumèna cosí vacua che non possa far pentirti del tuo stultiloquio? Condurrò io qui or ora il capitan Dante, hispanus Hector, e ti farò conoscere quanto importi usar ingiuria a chi non la meritò mai.
Gerasto. Né tu mi trovarai qui solo. Ma ben hai fatto a partirti, ch’essendo scemo di cervello, con un bastone ti volea far tornar savio. Mira che sorte di uomini vanno per lo mondo, mira che cantafavole! Diceva la casa mia essere appestata, che lui era Narticoforo e ch’io non fusse Gerasto; alfin volea che Cintio non fusse figlio di Narticoforo.
SCENA III.
Essandro, Gerasto.
Essandro. Voi sète Gerasto medico, eh?
Gerasto. Io son; che volete per questo?
Essandro. Avete voi avuto rissa con un maestro di scola?
Gerasto. Con uno che per tale si volea far conoscere.
Essandro. Va ragionando per le strade con quanti uomini da bene incontra, con dir che Gerasto de Guardati è un medicacavalli, castraporci, maneggiator di sterco e d’urina.
Gerasto. Egli ne mente, ché in ogni conto son miglior di lui.
Essandro. Dice che ave un asino in casa, se li volete medicar i testicoli.
Gerasto. Oh, che mi vien tanta rabbia che, se fusse qui, vorrei fargli veder chi son io.
Essandro. Dice che vi chiamate messer Orinale.
Gerasto. Son uomo da spezzarcene cento nel volto, di urina putrefatta.
Essandro. Dice che voi solete patir di una certa infirmitá bestiale e che l’avete richiesto..., mi vergogno dirlo.
Gerasto. Egli ne mente insin dentro al suo cervello e quanti lo credono.
Essandro. Va adesso a trovar un capitan spagnolo bravissimo, chiamato Dante, perché dá bravissime bastonate.
Gerasto. Sotterrerò lui e chi vuol difenderlo, di bastonate. Ma io non sono di sí poca stima in questa cittá che non abbi una dozzina di spagnuoli a mio comando.
Essandro. È rissoluto ammazzarvi in ogni modo; e penso sará qui tra poco.
Gerasto. Egli mi troverá qui piú tosto che pensa.
Essandro. Io vo’ a dirglilo.
Gerasto. Né io sarò cosí sciocco che, venendo egli accompagnato, mi voglia far trovar qui solo. Menarò meco el capitan Pantaleone spagnuolo, che lo medico gratis.
SCENA IV.
Capitan Dante, Narticoforo.
Dante. Ahora decidme cuantos mil hombres quereis que yo envie á los infiernos.
Narticoforo. Uno uomo solo, vecchio decrepito, veternoso e silicernio.
Dante. Ah, cuerpo de mis males! mirad lo que me dice, por vida de quien soy, que me agraviais en elio, que haya yo de atreverme á matar un viejo podrido, moho de la tierra, no es posible, porque solo en el desenbainar de esta mi espada, es tanto el aire que hace, que es bastante para hacer hundir una nave. Y al solo moto de mi persona se estremece la tierra como si por ventura fuera un terremoto. Y en fin soy tal que donde hinco mis ojos, pego fuego.
Narticoforo. Non m’era ancora pervenuto ad aures cosa alcuna di queste tue prove.
Dante. Pues, ¿como no habeis oido por estos mundos mis grandes valencias?
Narticoforo. Nunquam, non mai.
Dante. ¿Sabeis porquè? en solo poner mano á mis armas, el temblor de los enemigos es tan grande que luego vereis huir quien por acá y quien por acullá, quien se nasconde y quien muere de temor; y de esta manera jamás ninguno vee lo que yo hago.
Narticoforo. Dunque, io son nato secundis avibus, ché mai non m’accadde vederlo.
Dante. Pues, decid de que muerte quereis que le hagamos perecer: toma este librecillo donde están dibujadas seiscientas suertes de muertes, escoje cual quereis que le hagamos provar.
Narticoforo. Per dirvi il vero, non vorrei mandarlo all’orco.
Dante. ¿Que horca? Valgate todos los diablos, ¿que soy yo por ventura verdugo, que tengo de ahorcar?
Narticoforo. Orco, idest, cioè alle case di Dite, nel Tartaro abissale: cioè che non vorrei ucciderlo.
Dante. ¿Como si dijese cortarle un brazo, las piernas, o llevarle medio casco?
Narticoforo. Non tanto, no.
Dante. Pues, ven acá: quiero yo que le hagamos una burla.
Narticoforo. Dic sodes, dite di grazia.
Dante. Sabed que yo tengo una espada de corte tan delgada y sutil que, dándole por detrás muy diestramente, le cortaré la cabeza con tanta destreza que apenas sentirá si es pulga que le morde; y andará sin saber que está descabezado, y cuando irá por abajarse, caerá la cabeza acá y el cuerpo acullá, y así se le saldrá afuera la sangre y el ánima.
Narticoforo.
Purpuream vomit ille animam sanguine mistam,
Vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.
Ma questa mi pare una deterrima burla per lui.
Dante. Quereis que le haga morir con un resuello o con un esternudo.
Narticoforo. Dunque, si può interficere un uomo con queste cose?
Dante. Espera, que os lo quiero hacer ver, ahch, ahch.
Narticoforo. Apage, apage, non vo’ veder questa esperienza, io.
Dante. Non puedo yo obras obrar con mis manos con tanta lijereza que donde toquen no despedacen carnes y huesos de tal manera que se pueden hacer salchichas de ellas; pero matemosle con un espanto.
Narticoforo. Come con lo spavento?
Dante. Yo me paro el rostro en acto tanto fiero y espantable que non hay hombre que en viéndome no se hiele de cabeza á pies de temor, y que no le venga la cuartana.
Narticoforo. Dubito che la quartana non la facciate venire a me.
Dante. Cuando vuelvo mi cara, cerrad los ojos y no temais.
Narticoforo. Cosí farò.
Dante. Pues, ¿donde está este, que hemos de enviar á los reinos de Pluton? Á las armas, cuerpo de quien me parió, que es esto? Ya es hora de almorzar y no he matado una docena de hombrecillos; porque juro que en diez años no he estado tan ocioso como ahora.
Narticoforo. Qui abbiamo avute le risse e le altercazioni.
Dante. ¿Habeis hecho tañer las campanas á muerto?
Narticoforo. Non io.
Dante. Andad, que no es mi costumbre poner mano á la espada sino que primero la haga tañer. Ppu, ¡ya me viene el hedor de su cuerpo podrido!
Narticoforo. Vo dunque. Mi allargarò piú tosto per il timor che mi assale.
Dante. Ahora bien, andad, que yo entretanto sacaré mi.
SCENA V.
Essandro, Narticoforo, capitan Dante.
Essandro. Ancor sei qui, pedantaccio? non m’hai tu promesso partirti?
Narticoforo. «Arma virumque cano». Capitan Dante, mio Ercole alexicaco, aiutami!
Dante. ¡Holá! quien va allá, tenganse y hinquense de rodillas, y hinchad, que os quiero dar un sopapo, si no juro por vida de quien soy que os mataré á puros boffettones, que por ser vos un muchacho, no sois hombre para mi.
Essandro. Vien qui, mascalzone, ch’io ti vo’ far conoscere che son miglior uomo di te.
Dante. Yo te la doy por vencida, que en la cuenta de poltrones eres mejor que yo.
Essandro. Fatti innanzi, poltronaccio.
Dante. No me venga ninguno con bravadas, que en solo poner mi brazo en postura hago caer los hombres muertos. Y yo haré que essa palabra te cueste más que el queso á los ratones.
Essandro. Volta la faccia qua, codardo.
Dante. Los diablos me te trajeron delante.
Essandro. Non sei una gallina tu? rispondemi.
Dante. Anda, majadero, que si yo fuera gallina, con essos tus puntapies ya me habrias quebrado los huevos en la madrecilla.
Essandro. Che vai facendo per questa strada?
Dante. La calle es comun, y puedo pasear como cada uno.
Essandro. È commune, se tu hai da appicarti in quella. Dimmi, che vai facendo per qua?
Dante. Voy en busca de un amigo.
Essandro. Farai come quello che gioca, che va buscando danari e trova bastoni. Ma cosa è questa che tu altro hai qui sotto?
Narticoforo. Il mio verbere, la mia fustiga, il mio baculo magistrale.
Essandro. Con questa fustiga fustigherò te, ché per adesso io non mi vo’ imbrattare le mani di sangue di pedante.
Narticoforo. Gentiluomo de indole prestantissima, «cedant arma togae»: non far questa ingiuria a questa toga venerabile.
Essandro. Vien qua tu, alzami costui su le spalle.
Dante. Soy para esso muy flaco de lombos.
Essandro. Finiamola, poltronaccio.
Dante. Dadme essas manos, ¡con todos los diablos!
Narticoforo. Ah, gentiluomo — ti vo’ comporre un ottastico di versi scazonti, coriambici, anapestici, proceleusmatici, e vo’ che dichino ne’ capiversi il tuo nome, — non far ch’io vápuli come un putto!
Essandro. Ti vo’ proprio vapular come un putto.
Narticoforo. Avertite che fate falso latino: ché «vapulo» est verbum deponens, idest quod deponit significationem activam et retinet passivam: però «ego vapulo», io son battuto; non «vapulo», io batto.
Essandro. Tu stai a cavallo e impari lo falso latino a me! Ma questa mattina io ti ho dato lo latino; e adesso vo’ che lo facci a cavallo, e voglio che numeri le bòtte con la tua bocca, e come fai errore, cominciarò da capo.
Narticoforo. Fermate, di grazia; non cominciate ancora. Come volete che numeri, adverbialiter: semel, bis, ter; overo numeraliter: unus, duo, tres; overo ordinaliter: primus, secundus, tertius?
Essandro. Non tante parole: stendi le gambe; se non, che te le farò tener da un fachino.
Narticoforo. Fate almeno che mi reminisca l’interiezioni dolentis.
Essandro. Taf.
Narticoforo. Heu, unus!
Essandro. Taf.
Narticoforo. Uhá, duo!
Essandro. Taf.
Narticoforo. Oh, tria!
Essandro. Tif, taf, tif.
Narticoforo. Heu, oh, uhá, quater: a quatuor usque ad centum sunt indeclinabilia.
Essandro. Vuoi partirti?
Narticoforo. Mi partirò quanto ocius; se non, vo’ essere trucidato.
Essandro. Lascialo calar giú. Avèrti, ascolta bene: all’altra, io ti passerò questa spada per i fianchi.
Narticoforo. Oh, come m’hai difeso, capitan Dante! ti dovereste piú tosto chiamar capitan Recipiente che Dante!
Dante. ¿Parecete cosa conveniente que yo ponga mano á las armas para reñir con un rapaz, con un mancebo? ¿no sabeis vos que no es costumbre los leones pelear con ratones, sino con animales feroces? ¡Ponedme á combatir con hombres bravos y vereis lo que sabré hacer!
Narticoforo. Ecco il mio inimico!
SCENA VI.
Pantaleone spagnolo, Gerasto.
Pantaleone. ¿De manera que no sabeis como me llamo?
Gerasto. Non io.
Pantaleone. El capitan Pantaleon, destruidor de castillos, asolador de ciudades, dejarrettador de ejércitos y desplanta campaña.
Gerasto. Potrebbe essere che fussi sfrattacampagna, perché spesso fuggi.
Pantaleone. Porque hallándome en medio de un ejército de enemigos, así siego piernas, cabezas, brazos y cuerpos, como el villano segador siega el trigo con la hoz; y cuando yo combato, es menester que haga tres cosas á un mismo tiempo: con el brazo derecho cortar hombres al través; con la izquierda tener alto el broquel para defenderme de los brazos, piernas y cabezas que llueven por el aire; y con los puntapies apartar los cuerpos destrozados, para que no me cerquen á la redonda y me sepulten vivo.
Gerasto. Dunque, non bisogna starvi molto vicino?
Pantaleone. Antes huir luego, porque alguno de estos miembros cortados no te coja y te meta en las entrañas de la tierra. Yo me llamo Pantaleon matador de panteras y leones; y quando tengo alguna entre las manos, la desuello corno se fuera oveja, y me visto de la piel y me voy entre los bosques y me junto con ellos, y juntándome azgo una con una mano y otra con la otra por los pezcuezos, y doyles con las cabezas de tal manera que le hago saltar los huesos por los ojos; y como otros van á cazar pájaros y liebres, yo voy á cazar panteras y leones.
Gerasto. Piú tosto a caccia di cappe e ferraioli.
Pantaleone. Ahora escucha esta otra caza.
Gerasto. Non piú, di grazia.
Pantaleone. Escucha, viejonazo, si no vate ahorca.
Gerasto. M’andrò piú tosto ad appiccare che ascoltarne piú.
Pantaleone. ¿Pero donde están los ejércitos de estos tus enemigos?
Gerasto. Io non ho inimicizia se non con un solo che será qui tosto.
Pantaleone. ¿Un solo, ah? ¿o más de uno? juro por esto poderoso brazo y por esta tajadora espada, con la cual he hecho tantas hazañas en essas nuevas y vejas Indias, que si no fuesses pobre hombrecillo te enviaría por embajador de las ánimas dañadas.
Gerasto. Per adesso non ho altri inimici.
Pantaleone. Pues, no es menester poner mano á la dorlindana: con el puño solo, con un dedo, con un soplo, con un pelo de mis barbas, le haré más agujeros en lo cuerpo que no tiene un hervidero. Pero decidme, ¿esta mañana ha dicho la de mi tierra este tu enemigo?
Gerasto. Non so qual sia questa di tua terra.
Pantaleone. Por causa mia han ãnadido á la: de Pantaleon.
Gerasto. Non l’ha detta certissimo.
Pantaleone. Peor por él.
Gerasto. Ma ecco l’inimico, e porta seco un altro bravo. Bisogna menar le mani, signor capitan Pantaleone.
Pantaleone. Teneos, que me pongo en orden: ¡ay de mi! que haré, que juro si me pegan las haldas traseras de la camisia, cierra los ojos, para que el resplandor de la espada no te haga cegar.
SCENA VII.
Narticoforo, capitan Dante, Gerasto, capitan Pantaleone.
Narticoforo. Ecco il vecchio mio inimico, capitan Dante; bisogna mostrar valore!
Dante. Boto a Dios que soy la mayor gallina covarde que hay en el mundo. Pero yo dissimularé cuando pudiere.
Pantaleone. Yo estoy aqui.
Dante. Y yo también estoy aqui.
Pantaleone. ¡Sus, á las armas!
Dante. ¡Sus, á las manos!
Pantaleone. Llegaos, fanfarron.
Dante. Llegaos, picarazo.
Pantaleone. Sino os llegais vos, llegareme yo.
Dante. Yo os vendré á encontrar.
Pantaleone. ¿Pero que hace esta mi espada tanto tiempo en la vaina?
Dante. Yo quiero que provais una estocadilla de esta mi chabasca que sabe mejor hallar la via del coraaon que la tienta del cirujano la herida.
Pantaleone. ¡Ay, pecador de mi! la sangre me se hiela y el corazon me da más badajadas, que el reloj de Palacio.
Dante. Yo tiemblo de temor. Esfuérzate, traidor, y haz de las tripas corazon.
Pantaleone. Oh, serán más duras tus carnes y huesos que esta mi espada.
Dante. ¡Oh cuanto tardo á matarte! pues tengo menester d’essos tus huesos para hacer un par de dados.
Pantaleone. Y yo he menester de esse tu pellejo para hacer un zurron de traer naipes.
Dante. Esta stocada no repararas, que passará una torre, aunque sea la de Babilonia, de una parte á otra.
Pantaleone. A este revés no tendrás reparo, que juro portará una galera por través.
Dante. Yo te arrebataré d’essos cabellos, y te arrojaré cinco jornadas más acullá de los montes Pirineos.
Pantaleone. ¡Ah, villano montañero!
Dante. ¡Ah, ladron ciudadano!
Pantaleone. Oh, beso las manos de V. M., señor capitan don Juan Hurtado de Mendoza, de Ribera, de Castilla.
Dante. Beso á V. M. mil veces las manos y los pies, señor capitan don Pedro Manriquez, Leyna, Guzman, Padilla y Cervellon.
Pantaleone. ¿Pues como en estas partes y tanto tiempo que no le he visto?
Dante. Vengo de las Indias del Perú, donde habiendo yo acabado de conquistarlas, dejado he en aquellas partes muy grandes palacios y rentas, y por remuneracion de mis servicios me ha dado el rey don Felipe un capitanazgo de infantaria en este reino, con ventaja de quinientos mil maravedis; y mientras los venía á gozar, los bandoleros me desbalijaron por el camino; y por esta desgracia me hallo en la manera que me veís.
Pantaleone. Y yo también me he hallado en la conquista del reino de Portugal, y por merced de mis grandes y señalados servicios susodichos, me tiene aqui entretenido con paga conveniente á mi persona.
Dante. Pensaban estos viejonazos que por los hijos de puta de sus ojos bellidos nos habriamos aqui de agujiar y despedazar.
Pantaleone. Si, por cierto, allanado estaba la cuenta.
Gerasto. Forastiero, questi bravi per non azzuffarsi e porsi a pericolo di ferirsi, si sono accordati insieme.
Narticoforo. Cosí mi pare, e videre videor trattato da un barbagianni.
Gerasto. Poco anzi diceva che si chiamava Pantaleone e or dice che si chiama don Pedro Caravaial.
Narticoforo. Oh, come arei a caro che la rabbia che avevamo contro noi, la disfogassimo contro loro!
Gerasto. Io son del medesimo parere.
Narticoforo. Io ho sotto il mio baculo magistrale.
Gerasto. Io ho un legno qui presso.
Narticoforo. Orsú, diamogli adosso!
Gerasto. Adosso!
Dante. ¿Que haceis? teneos, viejos mohosos, picaros ¡á tras, á tras!
Pantaleone. ¡Válame Dios, que estos vellacones no quieren irse de mi presencia, que juro que si pongo mano á la mi espada, os haré mil pedazos!
Gerasto. Ah, furfanti!
Narticoforo. Ah, poltronacci!
Pantaleone. ¡Teneos, teneos!
Gerasto. Orsú, la rabbia l’abbiamo sfogata con costoro.
Narticoforo. Sí bene; ma io exoptava dilucidarmi del vostro fatto.
Gerasto. Ecco, sia lodato Iddio, chi ci torrá d’ogni dubbio.
Narticoforo. Ecco chi ne può dilucidar del tutto.
SCENA VIII.
Panurgo, Gerasto, Narticoforo.
Panurgo. (Che sieno maladetti quei corbi che non ti cavaro quelli occhi, ché non m’avessero veduto. Eccomi incappato nella rete che ho teso. Se fuggo gli pongo in maggior suspetto: o che contrasto che nascerá fra noi tre!).
Gerasto. Signor Narticoforo, oh come vi veggio volentieri!
Narticoforo. Signor Gerasto, oh come opportune advenis!
Panurgo. (Che farò, che dirò? o bugie correti a monti, a diluvi per liberarmi da questo incontro). Voi siate gli ben trovati!
Gerasto. Signor Narticoforo, di grazia, dite, chi sète voi?
Narticoforo. Signor Gerasto, di grazia, dite, chi sète voi?
Panurgo. Desidererei saper ben prima da voi: sapete chi sia io?
Gerasto. Io lo so bene.
Narticoforo. Ed io ancora mi penso saperlo quam optume.
Panurgo. Dunque, se lo sapete, perché me lo dimandate?
Gerasto. Lo dimando per sapere se sei me.
Narticoforo. Ed io ancora flagito, posco, peto, rogo saper se sei me.
Panurgo. Con una risposta sodisfarò ad ambiduo. Io essendo me, non posso essere né te né lui.
Gerasto. La differenza che avemo fra noi, è se siate me o lui.
Narticoforo. Sí bene, non desidero saper altro se non se sète lui o me.
Panurgo. Diavolo, fammi essere altro se non che io.
Gerasto. Questo sappiamo bene; noi disiamo sapere voi chi sète.
Narticoforo. E per questo vi dimandiamo: voi chi sète?
Panurgo. Io son io, né posso esser altro che io.
Narticoforo. (Questi m’ave ottuso e retuso il cervello e postomi in tanta ambage che omai non so discernere se io sia io o un altro). Se tu sei me, io non posso esser io; e se io non son io, sarò un altro; e quello chi è o chi fu? Se tu non vuoi dirci io chi sia né costui né tu stesso, dicci almeno, chi sei di noi duo?
Gerasto. Di grazia, fatene questo piacere, chi sei di noi duo?
Panurgo. V’ho detto dieci volte ch’io son io e voi sète voi, né io posso essere alcun di voi.
Narticoforo. Oh, non posso far rispondere costui ad petita! Volgeti a me, parlami sine perplexitate: sei Gerasto come hai detto a me, o Narticoforo come hai detto a costui?
Panurgo. Mira con che arroganza mi parla! hai tu qualche imperio sovra di me, che sia forzato a dirti io chi sia? Io son chi piace essere a me.
Narticoforo. Io non mi curo che tu sia chi piace essere a te, ma non vorrei che dicessi che sei me.
Panurgo. Che dunque vorresti, ch’io non fusse niuno?
Narticoforo. Anzi, che non foste ad un tratto tre.
Panurgo. Orsú, fatevi tre pezzi di me, e ognuno si pigli la parte sua.
SCENA IX.
Pelamatti, Facto, Panurgo, Gerasto, Narticoforo.
Pelamatti. Tanto sará l’andar cercando questi per Napoli?
Facio. «Come Maria per Ravenna». Ma tu chi miri?
Pelamatti. Facio, colui che ragiona con quei vecchi, mi par colui che mi tolse le vesti.
Facio. Mira bene che non facci errore.
Pelamatti. Egli è certissimo. Non vedete che le tien sovra?
Facio. Giá le conosco. Taci tu, lascia dire a me. Galante uomo, vi vorrei dir due parole.
Panurgo. (Oimè, costui deve essere il padron delle vesti! o terra, apriti e ingiottimi vivo!). Sto ragionando con questi gentiluomini di cose d’importanza.
Facio. Adesso adesso vi spediremo.
Panurgo. (Che farò per scappar dalle mani di costoro?).
Facio. Vorrei sapere se sète Facio, dottor di leggi.
Panurgo. Perché me ne dimandate?
Facio. Ho buona relazion di voi, vorrei servirmi di voi per avocato. ...
Panurgo. (Bene, che non è quel pensava!).
Facio. ...Voi dunque sète Facio?
Panurgo. Io son Facio, vi dico; ma, di grazia, parlate piú basso.
Facio. Ch’io parli basso? parlerò tanto alto che m’oda tutto lo mondo. Menti che tu sii Facio, ché Facio son io, e tu col farti me, mi togliesti le vesti mie.
Panurgo. Saran vostre, se me le pagherete; e voi pigliate errore.
Facio. Error pigli tu, se pensi che voglia pagar il mio.
Panurgo. Fermatevi, non m’usate forza.
Facio. È lecito usar forza a tòrre il suo dove si trova.
Panurgo. Voi forse pensate che sia una bestia?
Facio. Bestie stimaresti tu noi, se ti lasciassimo la robba nostra.
Panurgo. Tanto fusse tua la vita! Ma ascoltate.
Facio. Che vuoi che ascolti? Pelamatti, pela tu questo matto, toglili le vesti; e se non si lascia pelare, peliamolo a pugni.
Pelamatti. Lascia, ladro assassino!
Panurgo. Voi mi spogliate in mezzo la strada e mi chiamate ladro assassino.
Gerasto. Mira con quanta prosonzione costoro lo trattano male!
Narticoforo. Devono esser genti senza vergogna o non lo devono conoscere o l’aran preso in cambio.
Panurgo. Ah, ah, ah! or m’accorgo che tutti e tre siamo ingannati. Ascoltate. I giorni a dietro da maestro Rampino mi feci far certe vesti da dottore; e aspettando questa mattina le vesti, vedo questo giovane che le portava sotto. Dimando: — Di chi sono? — mi risponde: — Di Facio. — Io che mi chiamo Famazio, pensai subito che avesse smenticato il nome, ché sono simili Fazio e Famazio; e me le presi per mie. Ma or che m’avveggio, avea fatto un bel guadagno! ché dove il mio panno è finissimo e val dieci scudi la canna, questo appena val cinque. Ma per mostrar che son gentiluomo, andrò a maestro Rampino e gli dirò che vi dia le mie vesti per tutto oggi — ch’or mi rincresce spogliarmi, — e fra tanto vi darò trenta scudi in pegno, dove queste non vagliono quindici.
Facio. (Pelamatti, tu hai fatto contro il tuo nome: ti pensavi pelar un matto e pelavi un savio). Datemi gli trenta scudi in pegno per tutto oggi, e mi contento; delle vostre vesti io non me ne curo altrimenti.
Panurgo. Conoscete voi quel medico?
Facio. Conosco benissimo.
Panurgo. Vi contentate ch’egli ve gli dii per me?
Facio. Contento. Ma perdonateci, di grazia, se non sapendo questo, fusse trascorso piú del dovere.
Panurgo. Gerasto, vedete quel galante uomo?
Gerasto. Vedo.
Panurgo. È scemo di cervello. Venendo da Roma, lo trovai nell’osteria; e ragionando come si suole, dicendogli che veniva in casa di un medico famoso, mi pregò che l’introducesse a voi che lo guarissi d’una infirmitá che patisce, non so se umor maninconico o discenso lunatico. Parla sempre di vesti, di trenta scudi, di pegni e simil cose, e le replica mille volte; ma le dice con tanto proposito che lo giudicaresti un filosofo. E alcune volte il giorno gli piglia questa pazzia — quando, credo, si muove quello umore, — onde ti viene adosso e ti vuol spogliar le tue vesti con dir che sieno sue, che è una cosa mirabile.
Gerasto. Certo che veggendolo strapparvi le vesti da dosso con tanta furia, lo giudicai pazzo maniaco; e giá mi par pentito del suo errore, che vi ha chiesto perdono: deve patir di lucidi intervalli.
Panurgo. E vi promette trenta scudi per mancia.
Gerasto. Lo guarirò per amor vostro, non vo’ premio altamente.
Panurgo. Ma avertite che non intende molto bene: bisogna alzar la voce ragionando con lui.
Gerasto. Farò come volete. Ma bisogna aver alcuni con me, ché bisognando lo ligassero. Trattenetelo un poco, ch’or ora serò qui.
Panurgo. Gentiluomo, Gerasto è andato a tor i trenta scudi, ché non se gli trovava adosso; or será qui.
Facio. Aspetterò quanto volete, non ho fretta.
Panurgo. Ma eccolo. Gerasto, sète contento voi per i trenta scudi?
Gerasto. Contento, anzi vi servirò adesso adesso, che anderemo in casa: voi restate meco.
Facio. Volentieri.
Panurgo. Orsú, io vi lascio insieme, ch’io vo per una cosa importantissima e serò a voi tra poco. (Signor Facio, ragionando con lui, parlate alto, ché non intende troppo bene).
Facio. (Cosí farò).
Narticoforo. (Egli si parte senza sapersi ancora se sia Gerasto o Narticoforo).
SCENA X.
Facio, Gerasto, Narticoforo.
Gerasto. Idio vi facci sano!
Facio. E voi sano e contento!
Gerasto. Accostatevi, galante uomo.
Facio. Voi giá vi contentate per i trenta scudi?
Gerasto. Mi contento non tanto per i trenta scudi, quanto per farvi vedere un miracolo di una mia ricetta, che un todesco, a cui avea fatte molte carezze in casa mia, morendo, me ne lasciò erede: con duo soli lattovari, non piú.
Facio. Che lattovari, che tedeschi, che ricette?
Gerasto. Dico che vi servirò tra pochi giorni.
Facio. Dico che li voglio adesso.
Gerasto. Che cosa?
Facio. I trenta scudi in pegno delle mie vesti che colui, partendosi da voi, mi vi lasciò in pegno.
Narticoforo. (O poveretto, giá comincia a ferneticare!).
Gerasto. Che scudi, che pegni, che vesti?
Facio. Dico i trenta scudi che mi avete promessi per le vesti.
Gerasto. (Il male è di piú cura ch’io non pensava. Mira come parla alto! ne deve stimar sordi).
Narticoforo. (Deve essere proprietá dell’egritudine).
Gerasto. (Non so che dice di trenta scudi e di vesti e di promesse. Non credo che un sacco intiero d’elleboro basterá per purgarlo).
Facio. (Costui da vero è sordo: parlerò tanto alto che m’intenda). Dico che mi date i trenta scudi per che colui che si parti da voi — Famasio o Famosio che si chiama, — mi ve lasciò in pegno per le mie vesti. Intendetemi adesso o volete che parli piú alto?
Gerasto. Io non dico che non intendo la voce, ma non intendo quel che dici.
Facio. Che parlo ebreo, greco o arabico, che non m’intendi?
Gerasto. Parli come me, ma non intendo che dici di trenta scudi e di vesti.
Facio. Tu sei peggio che sordo, ché il peggior sordo è quello che non vuole intendere. Tu sarai forse pentito di aver fatto sicurtá di trenta scudi, e fingi non intendere.
Gerasto. Che sicurtá? che pentire? che trenta scudi?
Facio. Come trenta scudi? Dico che avendomi promesso...
Gerasto. Parole.
Facio. ... trenta scudi...
Gerasto. Se non l’hai meglio di questa, ...
Facio. ... in iscambio delle mie vesti, ...
Gerasto. ... tu sei matto da dovero.
Facio. ... avendomegli promessi dinanzi duo testimoni, ...
Gerasto. Tu erri in grosso.
Facio. ... serò atto a farmeli pagare.
Gerasto. Arai a far con un tristo come tu sei.
Facio. Non mi prometteva io ciò da questa tua vecchiaia.
Narticoforo. (Voi sapete che è capto di mente, e par che andate in contumelie).
Facio. Son uomo di tòrvi le vesti da dosso.
Gerasto. Ecco il furore! o voi, toglietelo stretto e ligatelo che non si muova, che gli vo’ dar un lattovaro in casa.
Facio. Che volete da me voi, furfanti? A dispetto di...
Gerasto. Riponetelo dentro, ché vo’ curarlo.
Facio. ... ché pensava aver a trattar con un cattivo, or ne ho ritrovato un altro peggio!
Gerasto. Se non parli come devi, ti torrò io la pazzia da capo, ché a medicare un pazzo ci vuole un pazzo e mezzo.
Facio. Cosí mi fai tu ingiuria?
Gerasto. L’ingiuria la fai tu a me.
Narticoforo. (Costui mi par che parla a proposito).
Gerasto. (Non ti disse colui, che sapea la sua natura, che parlava tanto a proposito che ogniuno lo giudicava savio?).
Narticoforo. (Chi sa forse ora fusse tornato in sè?). Dimmi, uomo frugi, conosci che sei sano?
Facio. Voi duo vi sète accordati insieme, e non sète pazzi ma ribaldi.
Narticoforo. Sodes, quaeso, di grazia, fatelo dislegare, lasciatelo libero; ché, l’animo mio se va ariolando la cosa e l’uno non intende l’altro, forse saran veri i fantasmi che mi van per la mente, e quel scurrile sicofanta ci ará ingannato con le sue sicofantie. Or ditemi voi, di grazia, che vi ha dato ad intendere colui che si è partito?
Facio. Questa mattina venendo Pelamatti, servo di maestro Rampino sarto, a portarmi certe vesti nuove — che volea cavalcar per Salerno, — costui gli diede ad intendere che eran sue e che egli era Facio, ch’era io, e si tolse le vesti mie. Poi, cercando a ventura per Napoli, gliele avemo trovate adosso: e volendo torcele, mi pregò che le lassassi per tutto oggi, che mi arebbe dato costui per securtá di trenta scudi; e avendomegli lui promessi, l’ho lasciato andare.
Narticoforo. Or parlate voi, di grazia.
Gerasto. Ed a me ha detto che eravate pazzo e che sempre avevate in bocca trenta scudi, vesti e pegni; e mi pregò da parte vostra che vi avesse guarito, ché mi volevate dar trenta scudi per premio; e che eravate sordo, però avessi parlato un poco piú alto.
Facio. Un’altra volta arò perse le vesti mie! Dove lo cercarò? In un punto ha raddoppiati tre: non gli deve bastar lui solo, vuol servir per tre persone.
Gerasto. Ah, ah, ah!
Narticoforo. Ah, ah, ah!
Facio. Voi forse ridete di me?
Narticoforo. Anzi, noi ci ridemo di noi stessi. A costui ha dato ad intendere ch’era me, a me ch’era costui: e cosí ha sicofantati tre.
Gerasto. Di piú, ha portato un mostro in casa con dir ch’era Cintio suo figliuolo: io ho tenuto voi per pazzo, non conoscendovi; poi, m’ave inviato un giovane, che questi diceva mal di me: ed è stato cagion, penso, d’azzuffarci insieme.
Facio. Che si fará dunque delle mie vesti?
Gerasto. Io arò pensiero di ricovrarle da lui, inviarvele in vostra casa; ché se ben egli ingannandovi ve l’ha promesse da mia parte, or che stimo lui un tristo, ve le prometto da senno, che vo’ un poco informarmi del tutto.
Facio. Dunque io vi cerco perdono se sono troppo con voi trascorso in parole.
Gerasto. Dove è Cintio vostro figliuolo?
Narticoforo. L’ho lasciato nel diversorio. Io nol condussi meco, perché il mio servo mi referí che voi l’avevate extruso di casa, con dirgli che Narticoforo era prima giunto.
Gerasto. Inviate a chiamarlo. Questa è vostra casa, ché in vostro nome colui se n’era fatto possessore.
Narticoforo. Ed io per tal la reputo. Vale.
Facio. Oh, povere vesti perse due volte!
Gerasto. Non dubitate, venite di qua e l’arete. Ma chi piglia i fastidi per fastidi, entra in un mar di fastidi; però non vorrei io tanto ingolfarmi in questi fastidi, che lasciassi passar l’occasione che ho desiderata mille anni. Fioretta m’ha promesso aspettarmi in questa camera, e giá due ore sono: deve star a disagio. O me felice, or corrò il frutto tanto desiderato! Ma qui non è niuno. Ella è vergine e si deve vergognare venir da lei; e se ben muore per me, la vergogna la fa restia. In somma, se non ci la conduco per forza, non verrá da lei giamai. Io ho questi amici, la farò tor per forza e menar qui dentro; ma mi meraviglio che lo speciale non v’ha condotti quei lattovari che l’ho fatti far per trovarmi gagliardo con Fioretta. Ma eccola dinanzi la porta: o voi, prendetela e di peso menatela in questa camera terrena.SCENA XI.
Essandro, Gerasto.
Essandro. (Oimè, ecco Gerasto e mena genti seco! Certo gli è palese il mio fallo: prima che m’uccida, será meglio gli chieda perdono!).
Gerasto. Toglietela! che fate?
Essandro. Che volete da me infelice? chi sète voi?
Gerasto. Infelice son io che muoio di rabbia per amor tuo.
Essandro. In che t’ho offeso?
Gerasto. Non meritava la conscienza che ho in te, che mi avessi cosí ingannato.
Essandro. Diasi colpa ad amore la cui legge è fuor d’ogni legge: conosco l’errore e, il confesso, merito la penitenza, ne chiedo perdono.
Gerasto. Cosí farò io a te: dopo l’errore ne chiederò perdono.
Essandro. Questi sono errori di giovani.
Gerasto. Ti farò conoscere che sono piú giovane che tu non pensi.
Essandro. Amor fu colpa del tutto.
Gerasto. Non è amore ove si toglie l’onore.
Essandro. Quel che è fatto non può farsi che non sia fatto.
Gerasto. Accomodaremo questo fatto poi con un altro fatto.
Essandro. Merito per ciò, dunque, d’esser ucciso?
Gerasto. Ucciso, no; ferito di punta, ben sí, se il pugnale non mi vien meno, almeno finché ne serò satollo.
Essandro. Sète voi tanto crudele?
Gerasto. A te è una pietá l’esser crudele.
Essandro. Sei tu tanto ingordo del mio sangue?
Gerasto. Non è sangue che si sparga con maggior dolcezza di questo.
Essandro. Abbi pietá della mia gioventú!
Gerasto. Tu della mia vecchiezza!
Essandro. Avertite che sono nobile.
Gerasto. Se fussi di schiatta d’imperadori, non lascierei di far quello che m’ho proposto di fare.
Essandro. (Proverò fargli bravate, poiché col buono non posso ottener nulla). Gerasto, avèrti che la disperazione fa assai: tu non la passerai né mi offenderai senza vendetta.
Gerasto. A tuo dispetto, andrai di sotto, se ben fussi una Ancroia, una Marfisa bizarra.
Essandro. Son giovane, ho piú forza che non stimi: ancorché mi ponessi sotto, ho le braccia cosí robuste e la presa tanto gagliarda che ti romperò le reni e ti farò sputar l’anima.
Gerasto. Non potrai altro che farmi ingrossare il fiato e buttar fuori il sangue e l’anima.
Essandro. Poiché sei cosí bravo, perché non vieni meco da solo a solo? perché con queste genti?
Gerasto. Di questo ti assicuro, che il nostro duello sará da solo a solo. Non ho tolti questi per paura di te, ma per condurti qui dentro con manco rumore. Ma a solo a solo, all’oscuro e dentro un forno combatterò con te.
Essandro. Con che armi combatteremo?
Gerasto. Con l’ordinarie: tu con le tue, io con le mie.
Essandro. Lasciameti dir due parole.
Gerasto. Il meglio che potresti fare è tacere; e se pur sono svergognato in casa, non mi svergognar qui nella strada publica. Portatela dentro.
Essandro. Oimè!
Gerasto. Oh, come piange! non deve aver urinato questa mattina, ché le donne quando vogliono lacrime in abondanza per ingannare alcuno, la mattina non urinano. È vergine, la poveretta, e pensa che quel fatto sia qualche gran cosa, almeno d’andarne un mese zoppa; ma dopo ne será piú contenta che mai. Le vergini, se le richiedi, arrossiscono, e stimano la vergogna nelle parole, no ne’ fatti. Ma perché trattengo me stesso? O mia Fioretta, o mio giardino vergine, ecco che vengo a còrre cosí bel fiore.