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ATTO III.
SCENA I.
Essandro, Panurgo, Morfeo.
Essandro. Oh, con quanto buon animo vi meno a casa, poiché vi veggio cosí bene adobbati e andar con tanta riputazione che sareste per darlo ad intendere ad altra persona che Gerasto.
Panurgo. Che ti par di questo mio raschiar grave e sputar tondo? che della portatura, delle vesti e de’ guanti? che del caminare? Non ti paiono nati dalla quinta essenza della pedantaria?
Essandro. Non vi manca altro se non che con gli effetti si confaccino i ragionamenti: ché ragionando di cose che non sappiate, gli respondiate con parole tanto sospese e ambigue che si possono adattare ad ogni proposito, e ti lasci cadere alle volte dalla bocca qualche parola allatinata.
Panurgo. Lascia fare a me, che ti farò veder miracoli. Ma che ti par del mio aiutante? non ti ha egli ciera di magnifico?
Essandro. Dimmi, Morfeo, che ballotte son queste che tieni in bocca?
Morfeo. Queste non solo mi servono ché, ponendole in bocca, mi contrafanno il viso; ma son composte di agli pisti, di galbano e di assa fetida ché, come il vecchio s’accosterá per ricevermi, gli farò rutti in faccia tanto puzzolenti che giudicherá essere insopportabili a soffrirsi da sua figlia.
Essandro. La lingua perché cosí di fuori, con gli occhi stralunati che pari un appiccato?
Morfeo. Accioché ogni persona si muova a vomito in guardarmi; ma tutto è una delicatura a par di quello che vo’ mostrarvi. Che vi par della campana che ho tra le gambe?
Essandro. Ah, ah, ah, a che effetto cotesto?
Morfeo. Gli darò ad intendere che per la rottura mi sieno caduti nella borsa non solo gli intestini, ma tutte le massarizie di casa ancora; accioché sua figlia esca di speranza, che non solo non sará pagata da me di grossi o di doppioni, ma né di un sol picciolo ancora.
Essandro. O Morfeo galante, antivedo la cosa, che riuscirá netta. Entrarò prima e farò con bel modo che Gerasto venghi a ricevervi.
Morfeo. Ricòrdati dirgli che siamo stracchi e affaticati e morti di fame per essermo stati mal trattati nelle osterie, accioché ne proveda benissimo.
Essandro. So che non pensi ad altro.
Morfeo. E se lo sapete, perché farvelo ricordare da me?
Panurgo. Morfeo, ricordati chiamarmi Narticoforo e tu Cintio, e avermi rispetto proprio come ti fusse padre.
Morfeo. Me ne ricordo e straricordo cosí bene che lo potrei ricordare allo ricordo istesso.
Panurgo. Ricordati ancora... .
Morfeo. Non tanti ricordi, ché ad uno che si ricorda, i troppi ricordi lo fanno smenticare; ricorda te stesso, che ne hai piú bisogno di me.
Panurgo. Io che ho caro che la cosa rieschi netta, vo prevedendo tutte le cose che ne ponno fare errare.
Morfeo. Taci e poniti in postura, la porta s’apre, eccolo. Al viso conosco che è terra da piantarvi carote, la preda sará nostra, l’incapparemo al primo.
SCENA II.
Gerasto, Panurgo, Morfeo.
Gerasto. (Quel vecchio, che viene innanzi, certo deve essere Narticoforo; quell’altro storpiato non posso imaginarmi chi sia).
Panurgo. Dopo il secondo vicolo non mi posso ben reminiscere se fusse la terza o la quarta ede.
Gerasto. O Narticoforo carissimo, voi siate il ben venuto per mille volte!
Panurgo. O Geraste, lepidum caput, voi siate il ben trovato! Cinthi fili, inchinati reverenter.
Gerasto. Questi è Cintio vostro figliuolo?
Panurgo. Ipse est e vostro famulo ancora.
Gerasto. Sii ben venuto, Cintio, figliuol mio.
Morfeo. Ben ritrovato, padre ca... ca... caro.
Gerasto. Come è cosí impedito della lingua, Narticoforo caro? come cosí sconcio della faccia? oimè, che puzza!
Panurgo. Ignoro per qual infausto numine gli venne nelle fauci un’angina e nella bocca quello apostèma, onde gli ha corrotto il fiato e toltogli la facoltá di poter ben alloquere.
Gerasto. Facciamogli tagliar quello apostèma, che qui in Napoli abbiamo valenti uomini che lo san fare.
Morfeo. Non è ma... matura, è acerba. Il vostro naso in... inco... inco... incomincia a sentir la puzza.
Gerasto. Strana infirmitá! come l’ha tutto trasformato!
Panurgo. Era il piú formoso giuvenculo che avesse la cittá di Roma, che da molte nobili matrone era chiesto in copula matrimoniale; e poi non so qual oculo maligno l’ave affascinato, overo discenso lunatico, e fatta la metamorfosi che vedete con intúito oculare.
Gerasto. In tanti anni che ho essercitato la medicina, non ho visto tal caso.
Panurgo. Il peggio è ch’è prerupto nelle parti inferne, gli è calata giú un’ernia intestinale, che non solo vi sono caduti dentro gli intestini, ma gli precordi ancora; onde l’ha fatto inabile ancora a poter fungere il munere uxorio.
Morfeo. A me è slongata cogli... cogli... cogli altri membri la borsa, e vi è dentro caduto il ca... ca... camino di urinare; onde non posso piú fu... fu... fuggire la morte.
Panurgo. Anzi l’ascosto è peggior del patente; ch’una certa egritudine, detta «lupa», gli ha devorato tutto il ventre, e in molti luoghi si veggono l’ossa denudate.
Gerasto. Mò che cosa vedo! Come l’avete voi condotto?
Panurgo. In un grabátulo, in vinti giorni; e da che vi si puose dentro, non l’abbiamo cavato se non adesso; e se gli si aggrava qui alcuno accidente, exalará l’anima. Onde exoptarei che decumbesse in un lettulo e vi si riposasse paulisper, e li facessimo qualche rimedio; e domane all’alba ambulassimo patriam versus.
Gerasto. Io gli ordinarò or ora un serviggiale, e per oggi gli faremo far dieta, che gli sará utile, ché per domani stará meglio.
Morfeo. Padre ca... ca... ...aro, quella lupa che mi ha roso la ca... ca... carne, mi è rimasta in corpo, e mi dá tanta fame che non vorrei far altro che ma... mangiare e ca... ca... caminare.
Gerasto. Voi dovete esser molto stracco del viaggio.
Panurgo. Io ho avuto una bestia sotto che pareva un Pegaseo, un Bellerofonte, ma poi quadrupedando e cespitando non si poteva movere: dálli, dálli tutto il giorno, talché per poter compir il mio viaggio son stato sforzato smontare a terra e menarmela a mano come un figliuolo.
Gerasto. Tutte queste rozze che si prestano a vettura, sono cosí stracche e piene di guidaleschi che ti cascano sotto dieci volte per ora. Che farem dunque di questo matrimonio?
Panurgo. Carissime germane, poiché per reiterate epistole trattammo questo matrimonio, venuti ad summum conclusionis, gli venne questa egritudine.
Gerasto. Non me ne potevate avisar prima che tòrvi questo travaglio?
Panurgo. Immo saepicule ve ne resi cerziore; e dubitando che voi non mi stimaste pentito dell’appuntamento, come viro probo, per mantenervi la parola — nam «verbo, ligant homines, taurorum cornua funes» — ve l’ho qui condotto.
Gerasto. Dispiacemi del vostro fastidio. Ma andiamo a riposarci, Narticoforo: questa è vostra casa.
Panurgo. Entrate, di grazia, voi.
Gerasto. Non entrarò io, se voi non entrate prima.
Panurgo. Libenter faciam per obtruncar queste vostre cirimonie napolitane, di che intendo siate uberrimamente ripieni.
Gerasto. Olá, o di casa, condurreti questi gentiluomini in queste stanze terrene.SCENA III.
Essandro, Gerasto.
Essandro. Padrone, questo è quel marito che volete dar a Cleria?
Gerasto. Sí.
Essandro. Oimè, che bestiemma avete detta! o che galante, ricco, dotto e bel giovane che dicevate questa mattina! Questi è un ospedal di cancheri! Povera signora, che non fusse mai nata!
Gerasto. Perché?
Essandro. Perché piú brutto mostro si potrebbe veder in terra? anima puzzolente, a cui con la sola vista non potria mover vomito?
Gerasto. È ricco.
Essandro. Altro ci vuole.
Gerasto. Non le fará mancar da mangiare.
Essandro. Né questo le manca in casa sua.
Gerasto. E perché è un poco infermo, non gli dará tanto fastidio.
Essandro. Le moglie vogliono questi fastidi.
Gerasto. Dargli poca dote è pur buona cosa.
Essandro. Per non scemar voi la vostra borsa, volete far sempre star vôta quella di vostra figlia. Certo che sotto dura e ingiustissima legge nascemo noi povere donne: se lo marito ha la moglie brutta, se la cangia a sua voglia; e se la moglie fa qualche scappata, subito il coltello alla gola!
Gerasto. L’ará portato un bel presente.
Essandro. Quel pendente che ha fra le gambe, deve essere il bel presente.
Gerasto. Certo ch’io non lo stimava cosí difforme, ché non l’arei fatto venire e, se posso con onor mio, lo farò tornare a dietro.SCENA IV.
Granchio servo, Gerasto, Essandro.
Granchio. Questo è il largo che m’è stato mostrato, questo è il tempio, questa deve esser sua casa.
Gerasto. Giovane, che vai cercando tu?
Granchio. Un che non ho ritrovato ancora.
Gerasto. Parla: chi è costui? forse lo troverai piú presto.
Granchio. Gerasto medico.
Gerasto. Ecco, l’hai trovato, non cercar piú. Tu chi sei? chi ti manda? che sei venuto a fare?
Granchio. Io son Granchio, servo di Narticoforo romano, che mi manda per correo innanzi, ché lo avisi come esso e Cintio suo figliuolo sono in Napoli e or se ne vengono a casa sua. Ecco, t’ho detto chi sono, chi mi manda e che son venuto a fare.
Gerasto. Tu sei un correo che corri molto tardi, ché sono arrivati prima essi che la nuova.
Essandro. (Oh, come è stato troppo veloce per me!).
Granchio. Se avesse avuto cento piedi come un granchio, non arei potuto caminar cosí veloce, come ho fatto, per giunger presto.
Gerasto. Io penso che come granchio arai caminato all’indietro.
Granchio. Se l’ho lasciati nell’osteria or ora, né si muovono se prima non gli porto la risposta! Come può esser questo?
Gerasto. Come non può essere, se è stato?
Granchio. Non vi ho trovato dunque, perché non siete quello che vo cercando. Ma io tanto cercarò che lo trovarò.
Gerasto. Anzi tu non devi esser quello che ha inviato Narticoforo a cercarmi.
Granchio. Voi come vi chiamate?
Gerasto. Gerasto de Guardati.
Granchio. Di Gabbati piú tosto.
Gerasto. Anzi, che gabba altrui.
Granchio. Però non gabberai tu me, che andrò tanto cercando che lo trovarò. Ma, di grazia, potrei entrare in casa vostra per vedergli?
Gerasto. Potrai, se non azzoppi o acciechi prima.
Granchio. Entro dunque.
Gerasto. Férmati, scostati di lá. Tu non entrerai in casa mia, ché, avendo nome Granchio, dubito che non sii granchio da dovero, che granciassi, sgraffignassi, arruncinassi con queste tue unghie di aquila alcuna cosa. La mia casa non è buca per te: non senza cagione ti han posto nome Granchio.
Granchio. A me fu posto nome Granchio, ché come avessi cento mani e cento piedi, tutti adopro in serviggio del mio padrone.
Gerasto. Piú tosto nelle casse o nella credenza del padrone; ma granchio diventi io, se ti ci fo entrare.
Granchio. Son granchio, perché gracchio troppo. Me ne vado.
Gerasto. Va’, Granchio, corrier veloce mio che corri all’indietro.
Granchio. Resta in pace, Gerasto, che gabba altri, e voi devete essere il gabbato.
Gerasto. Se tu avessi tanto caminato quanto hai parlato, saresti giunto prima; ma non è meraviglia, che i granchi hanno due bocche, una innanzi e un’altra dietro.
SCENA V.
Essandro, Gerasto.
Essandro. Ahi, misera me!
Gerasto. Fioretta mia, di che stai di mala voglia?
Essandro. Del bel marito ch’hai trovato a tua figlia.
Gerasto. N’ho ritrovato uno buonissimo a te, accettalo e farai bene.
Essandro. Di che etade egli è?
Gerasto. Della mia; e se ben è vecchio, è di forza piú d’un giovane.
Essandro. Di che fattezze?
Gerasto. Come le mie: io e quello siamo come una cosa medema. Conoscilo adesso?
Essandro. A questo marito gli sono serva indegna.
Gerasto. O come mi terrei felice se queste parole ti uscissero dal core!
Essandro. Fa’ prova di questa mia volontá.
Gerasto. Su, mano a’ fatti, ché la buona volontá senza l’opere non val nulla. Entriamo in casa in quella camera oscura.
Essandro. Non posso adesso.
Gerasto. Quando le donne non vogliono, dicono non possono.
Essandro. Or sapete che la padrona sta gelosa di noi e ci tien sempre gli occhi sopra?
Gerasto. Tu dici bene; ma andiamo in questa camera vicina, ch’io ne ho la chiave.
Essandro. Questo sí, entrate e serratevi dietro bene, ché verrò or ora a ritrovarvi.
Gerasto. Perché non adesso?
Essandro. Darò un’occhiatina per la casa, vedrò che facci la padrona, mi farò vedere, e me ne vengo.
Gerasto. Bene. Io tra tanto me ne andrò volando per una facenda: chi arriva primo, aspetti.
Essandro. Benissimo.
Gerasto. Non mi darai tu un’arra della tua bona volontá?
Essandro. Eccola. Tornate presto e serratevi dentro; e quando io batto, aprite tosto.
Gerasto. Vado.
Essandro. Io era disperato del tutto; ché, venendo adesso Narticoforo ed incontrandosi con lui, il fatto era spacciato per me. Egli pensandosi che vada a trovarlo, stará tutto oggi dentro; tra tanto con Panurgo pensaremo alcun rimedio. Poiché la fortuna mi stringe troppo, bisognano prestissimi rimedi. Né vo’ perdermi d’animo, ché la cattiva sorte sopportata con animo valoroso, suol convertirsi in buona. Se vincerò questi perigli, l’ardir sia degno d’eterna lode. O felici miei pensieri, se a tanta gloria giungerete. Ma se mi riesce contraria, io non so se la morte sará bastante rimedio a tanti mali.
SCENA VI.
Panurgo, Morfeo, Essandro.
Panurgo. Viva, viva, il fatto è riuscito assai meglio che pensavamo! Infin quella invenzione ha valuto un tesoro.
Morfeo. Largo, largo, scostatevi da me, ché con le corna non vi balzi nell’aria!
Essandro. Che cosa hai, Morfeo mio dolce?
Morfeo. Son stato in casa tanto alla mira, e m’accorsi Nepita riponere una testa di vitella cotta. Senza esser visto, l’ho rubbata e ingoiata che non ne trovará un osso. Accostatevi, ascoltate che mugghie: oha, oha.
Essandro. Bene.
Morfeo. In casa son molte robbe e s’apparecchia un banchetto da re, il tutto è in ordine, e tra poco saremo chiamati a tavola.
Panurgo. Padrone, voi state mezzo morto.
Essandro. E l’altro mezzo assai peggio che vivo, anzi son morto tutto, e non ci è altro di vivo che il core, capace e pieno d’infiniti dolori.
Morfeo. Siete forse stato in cucina, che il fumo vi fa piangere?
Essandro. Voi ridete, ché non avete ancora inteso il vostro male.
Panurgo. M’uccidete tacendo.
Essandro. Vuoi farmi un piacere, e te n’arò molto obligo?
Panurgo. Voglio.
Essandro. Ammazzami.
Panurgo. E se v’ammazzo, quando mi pagherete l’obligo?
Essandro. Quando resuscitaremo.
Panurgo. Troppo tempo ci vuole.
Essandro. Burli in cosa di tanto periglio? M’offendi sul vivo, avendomi il Cielo riserbato a tante miserie.
Panurgo. Non è da saggio ricorrere al morire, quando per altra via si può uscir da affanno. Ditemi, di grazia, che cosa vi tormenta?
Essandro. Il core m’ha pesto tutto il polmone, ...
Panurgo. Come?
Essandro. ... tanto forte è sbattuto per la paura. Le passioni me l’hanno tutto circondato e oppresso. Vorrei morir per uscir da questo intrigo.
Morfeo. Se vuoi morir tu, muori a tua posta, ch’io vo’ sempre vivere per poter sempre bere.
Panurgo. Non puoi dolerti che l’inganno non sia sottilmente trovato, accortamente esseguito e con gran credenza accettato.
Essandro. L’inganno che mostrò cosí buon principio, ha cattivo mezzo e ara pessimo fine. Quella speranza che fiorendo dava presaggio di felicissimi frutti, or è spenta del tutto.
Panurgo. La cagione?
Essandro. È venuto or ora un correo ad avisar Gerasto che Narticoforo e suo figlio se ne vengono a casa.
Morfeo. O ventura maladetta, mira a che ora e a che punto son venuti costoro per disturbare il banchetto! or non poteano venir dopo pranso?
Essandro. Orsú, che mi consigliasti a fare?
Panurgo. Tu perché avevi cosí gran voglia di farlo?
Essandro. Che isconsigliato consiglio fu quello che tu mi desti!
Panurgo. Chi avesse potuto pensare che avessero voluto venir cosí presto?
Essandro. Aiutami, ch’io moro!
Panurgo. A che voleti che vi aiuti, a dolervi?
Essandro. Oimè!
Panurgo. Oimè!
Morfeo. Oimè!
Essandro. Oimè, che mi moro di dolore!
Panurgo. Oimè, che mi moro di dolore!
Morfeo. Oimè, che mi moro di fame!
Essandro. Mi burli? hai torto straziarmi cosí.
Panurgo. Voi volete che v’aiuti a dolervi, io vi aiuto: questa è cosa di poca fatica.
Essandro. Facciamo collegio tra noi della mia vita, e consigliamoci l’un l’altro se dobbiamo fuggircene.
Morfeo. Fuggir io? non mi partirei di questa casa senza mangiar prima, se m’uccideste: sto con tanto desiderio aspettando questa cena che il collo me s’è dilungato un miglio.
Essandro. Dimmi, Panurgo, come potresti rimediare a questo?
Panurgo. Faccisi che quel che è stato, non sia stato; e quel che è per essere, che non sia.
Essandro. Non t’intendo. Rispondi, che faremo?
Panurgo. Qualche cosa faremo.
Essandro. Questo qualche cosa è niente.
Panurgo. Poiché abbiamo cominciato ad ingarbugliar Gerasto, ingarbugliamolo insino al fine.
Essandro. Come l’ingarbugliaremo?
Panurgo. Non dubitar punto, stammi allegro e lascia fare a me che mi sono trovato a magiori garbugli di questi.
Essandro. Fa’ che non sia bugiarda la speranza che ho in te.
Panurgo. Almeno non sera men bugiarda a te che ad altri.
Essandro. Ma dimmi, di grazia, che pensi fare?
Panurgo. Prima diremo cosí... . Ma questo non è piú bono, bisogna pensar un’altra cosa. Faremo cosí... . Né questo va a proposito, perché potremo incorrere in cosa peggiore.
Essandro. Parla presto.
Panurgo. Sto nel pensatoio, e mi occorrono tanti pensieri che per ogniuno ci bisognarebbe un mese a pensare.
Essandro. Son rissoluto vestirmi da maschio, e se non si voglion partir per bravure, ammazzargli. Ho fatto di modo che Gerasto stará tutto oggi chiuso, e non ci potrá impedire.
Panurgo. Questo non è male, ma seria meglio... .
Essandro. Oimè, eccoli! quel primo è Granchio suo servo, quel vecchio deve essere Narticoforo.
Panurgo. Morfeo, entra con Essandro e vèstiti da femina, attendi a quel che si dice e aiuta al bisogno.
Morfeo. L’odor delle vivande ha tratto costui cosí presto; ma tu non n’assaggierai.
SCENA VII.
Narticoforo maestro di scola, Granchio.
Narticoforo. Equidem, sive ego quidem — parenthesis, — Carcine, Carcine, vereor, io dubito che tu sii allucinato, perché con tanti reiterati verbilòqui dici ch’eravamo giunti.
Granchio. Anzi io in replicargli che non poteva essere, si fecero beffe di me che come granchio avea caminato a traverso.
Narticoforo. Dic mihi vel responde mihi: non m’hai tu invento nel luogo, illic — status in loco ubi me dereliquisti, — e con i coturni ancora?
Granchio. Sí bene.
Narticoforo. Igitur, ergo, dunque come era io in casa sua? alle premesse seguita giusta conclusione.
Granchio. Non so altro che dirvi.
Narticoforo. Tu intanto sei optumo in quanto non bevi; perché non tu assorbi il vino, ma il vino assorbe te, et ob id non sei tu, ma il vino che parla.
Granchio. Certo che bevendo non mi bevo i comandamenti del padrone, né voi per farmi avanzar tempo mi faceste bere una voltarella, come è mio costume, prima che mi parta dall’osteria; e io poco me ne curai, pensandomi che questo medico ne avesse ricevuto con un banchetto da imperadore.
Narticoforo. Io suspico certo che tu sarai entrato dentro qualche diversorio e ti arai ingurgitato qualche anfora, medimno o congio di liquor di Bacco; e cosí semisepolto nel sonno, ti sará apparso questo strano fantasma d’essere stato in casa di Gerasto, e in estasi gli facesti l’ambasciata e ancor nel somno parli meco. Onde, per saper il vero di questo fatto, bisogna che aspetti o che ti svegli dal sonno o che tu digerisca il vino e che i vapori non ascendano al cerebro.
Granchio. Ed io vi dico che vigilando fui in casa di Gerasto e vigilando feci la vostra ambasciata, e, vigilantemente e stando in cervello, mi dissero che eravate giunto e me ne féro tornare a dietro.
Narticoforo. Alter de duobus: aut tu vigilanter sei stolto aut tu dormiendo imbriaco. Però decet, oportet, bisogna che con una buona ferola ti ecciti dal sonno, ché questa è la pozione e l’antifarmaco degli ubbriachi.
Granchio. Dico il vero.
Narticoforo. Servorum est falsitates et mendacia dicere. Tanto può esser vero questo quanto tangere caelum digito!
Granchio. Giamai dissi veritá magior di questa.
Narticoforo. Proh Iuppiter, che tu mi fai excandescere di rabbia! Mira se sei un búbalo: non ci hai trovati nel luogo dove ci lasciasti? come possiamo esser giunti prima di voi stessi? Furcifer, furcifer, ti prendi piacere di ludificarmi.
Granchio. Non potrebbe essere che questa Napoli non fusse quella che cerchiamo noi? quante Napoli son nel mondo? o forse in questa Napoli fussero piú Gerasti, e abitasse in qualche altra casa e io l’avessi preso in iscambio? Ma io dubito che voi per qualche altra via piú breve di quella che ho fatto io, siate stati in casa di Gerasto, e abbiate mangiato e bevuto bene, e siate tornato prima di me; e or mi diate la baia che mi muoio di fame.
Narticoforo. Eamus, ch’io vo’ concomitarti insino al luogo; né bisogna escusarti poi: — Ita mihi videre videbatur, mi parea un altro Gerasto, e mi parea che dicesse cosí, mi pensava cosí. — Turpe est dicere: «Non putaram», perché una buona ferola fará le mie vendette. Io ti farò baiular su gli omeri da uno arcipotente bastazo, e da duo pueruli ti farò tener le gambe, ché non possi recalcitare in praeceptorem — con «ae» diftongo, — e io con un corio bubále ti fustigherò ben le natiche.
Granchio. Andiamo; e se non troverete quanto vi ho detto, vo’ che mi strappate la lingua dalle radici e il naso ancora; ma se trovarete quanto vi ho detto che sia vero?
Narticoforo. Amboduo la penitenza, perché vapulando e verberando ne straccheremo.
Granchio. Che colpa ci ho a questo, io?
Narticoforo. Non dico te, ma quello uomo nefario che sará stato áuso usurparsi il nome onorato di un tanto maestro, e luerá la pena della usurpata giurisdizione.
Granchio. Ed io se trovo qualche altro Granchio che dichi che sia me, farò le mie vendette, e massime se si ará mangiato la parte mia. Ma ecco questa è la casa.
Narticoforo. Tocca l’ostio.
Granchio. L’ho toccato.
Narticoforo. Quando il furore m’ave invaso la mente e sono divenuto furibondo, non scherzare. Battila, ti dico.
Granchio. Che colpa ci ha la porta? avete la còlera contro coloro e la volete sfogare sovra la porta?
Narticoforo. Se mi muovi la stizza, sarai lo primo a pentirti di questi futili vanilòqui.
Granchio. O che avessi un che la mi tenesse su le spalle, ché gli vorrei dar un cavallo.
Narticoforo. Taci, che s’apre da se stessa.
Granchio. Oh, come ha fatto bene a sé in non farsi battere e a me questa fatica di batterla, ché giá m’aveva sputato su le mani e stretto il pugno per gastigarla; e ne vien fuori una fantesca.
Narticoforo. Ipsa est ipse ego, ipse tu ipsa illa.
SCENA VIII.
Nepita, Granchio, Narticoforo.
Nepita. (Il rumor che fanno questi dinanzi la porta, m’ha fatto lasciar di burattar la farina. Ma chi è questo barbassoro di qua?).
Narticoforo. (Granchio, percontala, dimandala un poco).
Granchio. O bella giovane e da bene, ...
Nepita. Sei ben un tristo tu.
Granchio. ... di grazia, volgetevi a noi. Prima risponde con i calci che con la lingua: certo deve esser di razza di mulo.
Nepita. Se avessi detto d’asino, sí.
Granchio. Sí ben, di razza d’asino volevo dire.
Nepita. E tu un’altra volta lasciami stare. Ma certo che tu non serai altro che un prosontuoso, poiché arrogantemente parli e prosontuosamente tocchi.
Granchio. È cosí gran male il toccare? Tocco la tazza dove beve il mio padrone, che è d’argento; non posso toccar te?
Nepita. Pensi che se lo sapessero i miei parenti, non te ne farebbono pentire?
Granchio. Tocca tu me, ché i miei parenti non se ne curano.
Nepita. Tu sei ben un cattivo.
Granchio. Cattive son le vesti, ché, si mi vedesti nudo, ti parrei bellissimo.
Narticoforo. Tu veramente deliri e patisci di lucidi intervalli. Alloquar hominem — hic et haec homo: lo uomo e la femina. — Femina da bene!
Nepita. Oh, oh, costui mi chiama «femina da bene»: o è un asino o non deve parlar con me.
Narticoforo. Optime quidem. Deterrima muliercula, idest pessima e cattiva femina.
Nepita. Né tampoco cosí; ma dimmi «femina men cattiva dell’altre».
Narticoforo. Tibi obtemperabo. Femina men cattiva dell’altre, ditemi, state voi qui?
Nepita. Se stesse qui, non anderei caminando.
Narticoforo. Dove stai dunque?
Nepita. Dove mi fermo.
Narticoforo. Dico se sei di qua.
Nepita. Giá, non son d’oltramare o d’oltra i monti.
Narticoforo. Dico se stai in questa casa.
Nepita. Se stessi in questa casa, non starei in piazza.
Narticoforo. Vo’ saper se stai con Gerasto.
Nepita. Se sto teco adesso, come posso stare con Gerasto? Vedete se siete da poco.
Granchio. Ah, ah, ah!
Narticoforo. Tu non intendi questo mio parlare che è pieno di figure e di ornamento oratorio, da’ Greci detto «schemata». Cicero in libro De claris oratoribus: «Schemata enim quae Graeci vocant, maxime ornant oratorem, eaque non tam verbis pingendis habent pondus, quam illuminandis sententiis».
Granchio. Questa è la via d’entrar presto in casa!
Narticoforo. E si scrive con «ae» diftongo, e vien da «schima» che si scrive con «ita».
Nepita. Voi dovete essere spiritato, che parlate in tanti linguaggi; ma io perdo qui il tempo, ché non avete altro che parole.
Granchio. Abbiam fatti per te.
Narticoforo. Ascolta, di grazia, la conclusione, talché a primo ad ultimum se ho detto se state in questa casa, ho voluto ornatamente inferire se sète incola di questa casa.
Nepita. Sí che che conclusione cavo io di questo?
Narticoforo. Questo «che che» è un «cacephaton», una cacofonia; ma dite piú ornatamente: — Che conclusione caverò io di questo? — L’altre parole sono superflue... .
Nepita. Parlate onesto, se pur vi piace, che vi devreste vergognare.
Narticoforo. In che ho peccato? ...
Nepita. Andate in bordello, vi dico, e innanzi quelle donne ragionate di questo.
Granchio. Certo, queste parole l’hanno guasto lo stomaco.
Nepita. Certo, che dovete essere un bel pappalasagni.
Narticoforo. Questo vocabulo «pappalasagni» non l’ho osservato né in Spicilegio né in Cornucopia né in Calepino. Granchio, tu che sai di zergo e di furbesco, dimmi, che vuol dire?
Granchio. Che sète un grandissimo letterato!
Narticoforo. (Deve esser donna di gran spirito, conosce alla ciera i valenti uomini). Diteme se Gerasto fusse in casa.
Nepita. Non v’è; né se vi fusse, potrebbe venir a voi, perché ha in casa certi forastieri romani.
Narticoforo. Che son questi, ádvene over ospiti?
Nepita. Dico, forastieri non osti.
Narticoforo. Dico, ospiti non osti. Hic et haec et hoc hospes et advena: uomo, femina e cosa strana.
Nepita. Un certo Nasincolio o Nartincoforo, che cento cancheri sel mangino!
Granchio. Un solo possa mangiar te!
Narticoforo. Impara, «Narticoforo» bisogna dire, non «Nasincolio». È nome greco e viene «apò tú nartix», cioè «ferola», e «phoros», idest «ferens»; cioè «che porta la ferola». E come lo scettro è segno della regia podestá, cosí la ferola è segno della magistral dignitade. Ma avèrti che Narticoforo non è ancor giunto.
Nepita. Come non è giunto, se l’ho visto con questi occhi?
Narticoforo. Te allucini, te inganni.
Nepita. Cosí non fusse egli venuto mai!
Granchio. Cosí non avessimo trovata viva te!
Nepita. O s’avesse rotto le gambe per la via...
Granchio. O t’avessi rotto il collo tu...
Nepita. ... egli, suo figlio e chi fu cagion che venisse!
Granchio. ... tu, tuo padrone e chi ti dá questa creanza!
Narticoforo. Come Narticoforo è in casa, se ragiona vosco?
Nepita. Ho da burattar la farina per i maccheroni, e voi mi trattenete: lasciatemi andare.
Narticoforo. Bona verba, quaeso, ascoltiate.
Nepita. In casa voi non alloggiarete, ben potrete andar altrove.
Granchio. Bel modo di ricevere i forastieri amici del padrone!
Nepita. Se non gli farò qualche burla, non mi torrò oggi questo barbagianni dinanzi.
Narticoforo. Dammi udienza, di grazia.
Nepita. Eccovela.
Narticoforo. Ah, pedissequa, ancillula, scortulo, meretricula, che m’hai ottenebrati gli oculi con questa tua farina. Proh Iupiter, che l’avesse nelle mani per dilaniarla in mille frustuli!
Granchio. Ecco, trovate vere le mie parole. Quanto era meglio credere e non voler provare. Ella è dentro, e noi, come quelli che non entrano mai, siamo restati fuora.
Narticoforo. Il canchero che ti mangi! abi in malam crucem! Costei deve essere qualche fantesca ignorante: che sa dei fatti del padrone?
Granchio. Fate quanto volete, troverete vere le mie parole.
Narticoforo. Lasciami confabular con Gerasto, cosí vedremo chi ará ragione. Batti le valve con veemenzia, che scappino dalle fibie e contignazioni.
Granchio. E pur volete battere le porte: avete la rabbia con i padroni e la volete sfogar con le porte.
Narticoforo. Se mi fai irascere, batterò te per lei.
Granchio. Ecco s’apre di nuovo. O iudiciosa porta, quanto devi esser savia, poiché come stai per esser battuta, t’apri da te stessa.
SCENA IX.
Panurgo, Narticoforo, Granchio.
Panurgo. O amico colendissimo, ben venghi il mio Narticoforo romano!
Narticoforo. O Geraste, patronorum patronissime, dii deaeque omnes te sospitent et salvum faciant, ben trovato per una miriade di volte!
Granchio. (Costoro si conoscono: la cosa non va buona per me).
Panurgo. Dove è Cintio vostro figliuolo?
Narticoforo. Nel diversorio, ché per non essere assueto a viaggi, recumbe nel pulvinare; ma verrá quanto ocius. Ma certo, Gerastule, Gerastule lepidule, voi stesso vi lacèssite d’ingiuria, chiamandovi decrepito, ché per la Dio mercé non mi parete di quaranta anni.
Panurgo. L’aria di Napoli è cosí sottile che nasconde gli anni alle persone.
Narticoforo. Mi scrivevate aver i piedi obsessi da nodose podagre; or veggio che gli avete scarni e delicatuli.
Panurgo. Scherzava cosí con voi, intendeva per le podagre due figlie che aveva da maritare.
Narticoforo. Oh lepidum caput!
Panurgo. Ma sia come si vogli, son al vostro comando.
Narticoforo. Ecco son venuto a tòrvi questa podagra e addossarla al mio figliuolo.
Panurgo. Di questo mi doglio ben, che v’abbiate tolto invano questo travaglio.
Narticoforo. Igitur, ergo, dunque col mio solo figliuolo si potevano far queste nozze?
Panurgo. Voi non sapete che voglia inferire?
Narticoforo. Nol posso ariolare, se non lo dite prima.
Panurgo. Dico che mi dispiace che siate venuto in Napoli, non potendosi piú effettuare questo matrimonio.
Narticoforo. La cagione?
Panurgo. I giorni a dietro, medicando lo spedale degli Incurabili, o fusse l’aria infetta di quel luogo o qualche occulta specie di peste, come tengo ben fermo, mi prese tutto e mi venne un spedal di malattie adosso. Questa mia figlia mi serviva a medicarmi e a mutarmi gli empiastri; fra pochi giorni, le venne la medema infirmitá e dal bellico in giú l’ha tutta rósa e divorata, che non può piú servir per femina. E di piú, le è discesa una ernia di sotto, che è piú tosto un mostro che umana creatura; e ogni cosa che tocca infetta della medema peste. A me il male ha profundato le parti di dietro, e sono incancherite. Onde la poveretta non bisogna che piú si mariti, ma che si muoia in casa overo in un monistero, benché sian brevi i giorni suoi.
Narticoforo. Perché prima che mi fusse accinto a questo itinere, non mi avete reso cerziore di questo fatto?
Panurgo. Che strada avete voi fatta al venire?
Narticoforo. Dal Garigliano abbiam attraversata la via e venuti per Linterno, dove Scipio piangendo l’ingratitudine della patria commutò la vita con la morte. Poi, per la silva Gallinaria siamo venuti a Puteoli, detta cosí «a putore vel a puteorum multitudine» .
Panurgo. Ed io ho inviato una posta tre giorni sono per la via di Aversa e di Capua.
Narticoforo. Non mi potrete dar voi Ersilia, l’altra figlia? che parvi? refert sia l’una o l’altra, anzi mi piace piú di Cleria per non essere tanto formosa.
Panurgo. Piacesse a Dio che fusse viva, che saressimo fuora di questi intrighi! sono piú di quattro mesi che si morio.
Narticoforo. Voi non me ne avete fatto parola mai.
Panurgo. Non mi parea convenevole, trattando di matrimoni e allegrezze, mescolarvi con augúri di morti.
Narticoforo. Io non parlo sine ratione; ché — avendomi voi interpellato la lezione, ché la mattina leggeva lo sesto di Virgilio con commune applauso degli audienti, e la sera le Regole di Mancinello; e fattomi profugo da’ regni latini — dalla cittá romulea son venuto qui in Palepoli seu Neapoli con auspici di copular un mio figlio in matrimonio; e ragionandosi di ciò tra consanguinei e amici in Roma — ché per la Dio mercé vi siamo di qualche conto — e or tornando alla patria senza la nuora, pensaranno qualche cosa cattiva di me o del mio figliuolo, ché le genti sono piú acconcie a credere il male che il bene. Però mi reduco genuflexo a deprecarvene.
Panurgo. Padron mio caro, non saprei che fare per rimediarci.
Narticoforo. Geraste carissime, se forse accipiendo informazione di me o del mio figliuolo, avete inteso qualche cosa che vi spiace — perché si trovano genti che multa dicunt, — o forse la dote è troppa o la mia supellettile è poca, ditelo alla libera, ché potremo rimediare al tutto.
Panurgo. Il parentado è cosí buono ch’io nol merito, la dote posso facilmente pagarla e giá i dinari erano in banco.
Narticoforo. Non potrei io entrar in casa e veder questa vostra figlia cosí abrosa?
Panurgo. Io non posso farvi intrare in casa mia, ché per esservi dentro la peste, come vi ho detto, con accostarvi solo alla porta o toccar queste mura, vi viene adosso la medema infirmitade: onde mi dispero di non potervi onorare, come è mio debito, meno di un becchier d’acqua. Ma farò che Cleria mia venghi giú, su la porta. O di casa, fate calar Cleria mia figlia; e recate un poco d’aceto per unger le mani, acciò il tufo e l’aria appestata non infetti questi gentiluomini.
Narticoforo. Gerasto caro, accioché sappiate chi sia io, io son quello che ho commentato il Bellum grammaticale, la Priapeia di Virgilio; ridotte in compendio le Regole di Mancinello e del Valla; enucleati sensi profundissimi, reconditissimi e abstrusissimi di Prisciano; fatte postille e scòli alle Epistole di Cicerone: talché vòlito per ora virorum e per tutte le scole si parla di me. Ricordative che voi mi proponeste questo partito e io era piú avido rifiutarlo che accettarlo, ché alla mia prole non mancano matrimoni nella sua patria. Ma voi tanto mi sollecitaste e mi postulaste con iterati internunzi e chirografi, che mi facesti cadere; e or con le parole non s’accordano i fatti.
SCENA X.
Morfeo, Panurgo, Narticoforo, Granchio.
Morfeo. Che volete, pa... pa... padre caro?
Panurgo. Narticoforo caro, eccovi un poco di aceto, ungetevi le nari, togliete questa balla di profumi.
Narticoforo. O mi Deus, o Iuppiter, che mostro è questo? mi incute terrore!
Panurgo. Ecco, vedetela, miratela a vostra posta.
Granchio. A me ha fatto passar la voglia di mangiare.
Panurgo. Camina qua, Cleria mia.
Morfeo. No, no po... posso, pa... padre mio.
Panurgo. Orsú, entra in casa.
Morfeo. Vo... volete altro, pa... padre caro?
Panurgo. Non altro, figlia, coltello di questo cuore; va’ e còrcati. Non togliete, di grazia, la balla dal naso, finché non sia entrata e ventilata quest’aria rimasta infetta per il suo apparire. Avete visto mia figlia? Or vedete, da cosí bella giovane qual era, la violenza del morbo a che l’ha ridotta e come l’ha contrafatta!
Narticoforo. Che sfinge, che arpia, che Medusa con la testa crinita di serpenti!
Panurgo. Assai piú difforme è quello che cuopre la gonna, che quello che appar di fuori.
Narticoforo. Uhá, uhá, che orribil putore che vi ha lasciato: par che sia un putrido cadavere! O che pettuscolo niveo dove sta spaziando Venere con gli Amori! Ma io dubito, Gerasto, che non vogliate ludificarmi; e poiché voi la volete romper meco, io la romperò vosco. Queste non son cose di viro probo, trattar cose di onore e venir meno della parola. Io mi armerò di iambi e di endecasillabi; narrerò lo fatto in modo che la presente e la futura etade non ignori questo facinore: durerá col tempo, ché si leggeranno per i trivi publichi e per i triclini.
Panurgo. Fate quel che vi piace: non so che farvi. Perdonatemi, ho da fare a casa.
SCENA XI.
Essandro, Narticoforo, Granchio.
Essandro. (Eccolo, mi sforzerò spaventarlo talmente che sgombri questa cittá). Deh, se posso trovar uomo che me lo facci conoscere, se non il farò pentire d’aver posto piede in Napoli, voglio essere sbranato in mille parti!
Narticoforo.
Granchio, questi è un troiúgeno Ettore o un Aiace flagellifero!).
Granchio. (Ascoltiamo che dice).
Essandro. Ancora che fusse in mezzo un essercito de nemici, farò tal scempio di lui che non vo’ che lasci segno alcuno d’esser stato nel mondo. Che mi curo io di vita? che di giustizia? Dieci anni di vita piú o meno non m’importa.
Granchio. (Chi ardirebbe toccar a costui la punta del naso?).
Essandro. Mi dicono che è romano e maestro di scuola, e che si chiama Arcinfanfano. Dimandarò ogniuno che incontro, accioché per negligenza non resti di trovarlo.
Granchio. (Or so che dice di maestro di scuola e di romano. Fuggete, padrone).
Narticoforo. (Io sono insonte, non sono stato infenso ad alcuno).
Granchio. (Mirate che ciera, che guardo fiero!).
Narticoforo. (Le ciere torte e i guardi fieri non pungono né tagliano. Dimandagli un poco chi sia).
Granchio. (Non son uomo da questioni).
Narticoforo. (Sii almeno da parole).
Granchio. (A questo sí, son buono, e non ve ne farò mancar mai; ma avertite che, venendo egli a fatti, io lascio le parole).
Narticoforo. (Sará meglio arripere la fuga).
Essandro. Vien qua tu: perché fuggi?
Narticoforo. Voleva andare, amicto, exonerare il ventre delle superfluitá della digestione.
Essandro. Dimmi, tu chi sei?
Narticoforo. Né romano né ludimagistro.
Essandro. Alla puzza de’ piedi conosco che sei pedante. O tu sei quel desso o devi conoscere quel pedante ch’io cerco. Conosci tu Narticoforo romano?
Narticoforo. Ti giuro per il quaternario e per la brassica ch’io non lo conosco.
Essandro. Che quaternario? che brassica?
Narticoforo Pythagoras, philosophus philosophorum, giurava per lo numero quaternario; iuro ego similiter per numerum quaternionem. E Socrate, che fu giudicato dall’Oraculo per il sapientissimo di viventi, giurava per la brassica.
Essandro. Alla loquela e all’abito mi pari un pedante.
Narticoforo. Non aedepol, non Hercle, non certo, non son unquanco. ...
Essandro. Vien qua tu: conosci costui chi sia?
Granchio. Nol conosco né il viddi pur una volta.
Essandro. Se non mi dici chi sei, ti passerò questa spada per i fianchi.
Narticoforo. Saltem, annunciatemi, in che v’ha egli offeso?
Essandro. Non si vergogna questo pedante pedantissimo, feccia di pedanti, voler fare una mia cugina per moglie al suo figliuolo. Siamo dieci nipoti congiurati insieme di ammazzarlo, perché l’abbiamo promessa maritare con un nostro parente, e ci va la vita di tutti; e noi per non essere uccisi tutti, vogliamo uccider lui.
Narticoforo. Quid igitur faciendum?
Essandro. Fuggir subito da questa cittá.
Narticoforo. Lubenter faciam: non mi darete voi tempo ad colligendum sarcinulas?
Essandro. Abbi mezza ora di tempo. E se per disgrazia dirai nulla di ciò che ti ho detto a Gerasto, guai a te! il pezzo maggior sará l’orecchia.
Narticoforo. Mi partirò adesso adesso.
Essandro. Verremo insino a Roma ad ucciderti: non so io che abiti vicino al Culiseo?
Narticoforo. Non certo; alla Rotonda, sí.
Essandro. Cosí prometti, fa’ che l’attendi, se non..., misero te! (Io mi tratterrò da qui intorno per far un’altra bravata a Gerasto che, cosí vestito da maschio, non será per conoscermi).
SCENA XII.
Speziale, Panurgo, Morfeo.
Speziale. (Veggio un uomo innanzi la porta di Gerasto). Gentiluomo, qui m’invia Gerasto medico, che facci un serviggiale ad un forastiero ammalato. Se sete di casa, mi sapreste insegnar dove abbiti?
Panurgo. Entra in questa camera terrena, presso la scala, che lo troverai giacente infermo. Di grazia, disponetelo prima con belle parole, poi fate l’ufficio vostro.
Speziale. Volentieri. Non mi darete voi due legna, che possa riscaldar questo pignatino?
Panurgo. Fratello, noi siamo forastieri, legne non ne abbiamo; fate il meglio che si può.
Speziale. Cosí farassi.
Panurgo. (Come fui sciocco questa mattina non rispondere alcuna cosa a questo fatto; ché difficil cosa mi pare che Morfeo si conduca a farselo. Egli è tristo a tutta passata, e dubito non facci delle sue e ruini il negozio).
Morfeo. Va’ via, parteti di qua.
Speziale. Che faresti se t’apportassi alcun male, che, apportandoti la sanitá, cosí mi scacci?
Morfeo. Sia maladetta la sanitá che vien per tal via!
Speziale. Fratello, nessun male si scaccia con piacere.
Morfeo. Mi fai del filosofo ancora. Fuggi di qua e fai bene.
Speziale. Lásciatelo fare, e fai meglio.
Morfeo. Eh, va’ via!
Speziale. Eh, férmati!
Morfeo. Levamiti dinanzi, dico.
Speziale. Io non ti sto innanzi ma dietro.
Morfeo. Dici il vero, che dovunque mi volgo, mi ti trovo dietro; par che sii l’ombra mia.
Speziale. Tutto è per tuo bene.
Morfeo. Vuoi tu un buon consiglio? Vattene via ben presto.
Speziale. Vuoine tu un altro migliore? lasciatelo fare.
Morfeo. Tu sei risoluto non partirti?
Speziale. Tu indovini, se prima noi faccio. Fa’ buon animo.
Morfeo. Come ho a far per far buon animo?
Speziale. Rissoluzione: cala la testa, stringi i denti e tira il fiato a te.
Morfeo. Cosí farò.
Panurgo. (Pur alfin s’è contentato! Ma che rumore è questo?).
Speziale. Oimè, oimè! che sia ammazzato quel fabro che fece quella scure che tagliò quegli alberi che féro quella barca che ti portò in questo paese!
Panurgo. Che cosa hai, uomo da bene?
Speziale. In questa casa dicevi tu che ci era carestia di legne? ché in nessuna casa m’è accaduto mai me ne siano state date in piú abondanza né a miglior mercato né con peggior modo!
Morfeo. Ancor sei qui, brutto poltrone?
Speziale. Se non ti piaceva, non potevi licenziarmi senza cacciarmene come si cacciano i cani?
Morfeo. Sgombra, fuggi di qua!
Speziale. (Deh, se posso appuntartelo dietro, o ce lo ficcherò insino al manico o farò il brodo tanto caldo che ti scotterò tutte le budelle. Ti farò peggio che non hai fatto a me).
Morfeo. Che borbotti, sozzo asino?
Speziale. Era venuto a farti il serviggiale, non per esser battuto.
Morfeo. Che hai ad impacciarti se voglio vivere o morire? sei mio tutore?
Speziale. Era venuto qui per un carlino, non bastano quattro a medicarmi.
Morfeo. Ti duoli forse che non t’abbi dato quanto merita la tua perfidia?
Speziale. Che gran fatto era lasciarti far il rimedio? Questo ti cava tutti i cattivi umori dal corpo: ti allegerisce la testa, ti leva le fumositá dal cervello, ti mantien largo da dietro, che non arai piú male in tua vita. Il male è poco, l’utile è molto: non sète giá putto, che abbiate a vergognarvene.
Morfeo. Ben dice il proverbio: «Sei piú fastidioso del serviggiale»; ma tu avanzi tutti i serviggiali del mondo.
Speziale. Lo farò con tanta destrezza che, quando stimerai che non abbi cominciato, arò finito.
Morfeo. Orsú, io fo stima che non abbi cominciato; fa’ stima tu che abbi finito, e va’ via.
Panurgo. (Morfeo, di grazia, obedisci: non scopriamo il fatto per cosa cosí leggiera).
Morfeo. (Fattelo far tu o il tuo padrone a cui appertiene questo, accioché vi purgasse quelli umori che dice lo speziale. Che ho a far io con gli umori tuoi o con gli amori di Essandro?).
Speziale. Vorrei saper da te, vuoi o non vuoi farti questo rimedio?
Morfeo. Vorrei saper da te, vuoi o non vuoi partirti di qua?
Speziale. Non accostarti, ché giuro passarti questo alla trippa.
Panurgo. Di grazia, vattene.
Speziale. Non me n’andrò senza vendetta: almeno, gli spezzare questo pignatino in testa e gli butterò il brodo in faccia.
Morfeo. Ah, poltron asino, che m’hai cieco! se ti giungo!