Questo testo è stato riletto e controllato. |
LA FISICA SPERIMENTALE
DOPO GALILEO
CONFERENZA
DI
Alberto Eccher.
Giammai pensiero salì più accetto nelle sfere dell’infinito di quello di Galileo nel tempio di Pisa, quando il lento oscillare della lampada, pur mostratosi le migliaia di volte a tanti distratti fedeli, fu per lui il baleno di luce con cui “l’infinita sapienza, il sommo amore„ lo trasse alle meravigliose scoperte, che resero attonito il mondo intero, e furono base incrollabile d’ogni umano progresso.
E giammai il genio fu maggiormente torturato di quanto non lo fosse in Galileo stesso; costretto dalla perfidia degli uomini, dalle vessazioni dei Gesuiti, dal risentimento di un Papa a ritrattare verità, che luminose gli irradiavano nella mente, e svelavano agli uomini il mirabile assetto dei mondi, le cause ed il succedersi dei fenomeni.
Il forte pennello del Barabino, troppo presto all’arte rapito, che fa rabbrividire con papa Bonifazio VIII e fremere col Cristoforo Colombo al consiglio di Salamanca, fa pensare davanti al Galileo in Arcetri. — Tu vedi il nobile vegliardo, quasi a sedere sul letto, spento lo sguardo indagator dei cieli, rassegnato, e tutto intento a dettare ai suoi discepoli una dimostrazione, che colla posa stessa delle mani ti rende evidente.... E, quanto sieno interessanti le cose che espone, lo desumi dall’atteggiamento dei discepoli che, protesi verso di lui, pendono dal suo labbro. Nè l’età, nè le sofferenze, nè le persecuzioni hanno fiaccato quell’indomita energia.... Ma la terra, liberata ormai dall’immobilità cui la dannava la Bibbia, roteando negli spazi infiniti, invita lo spirito del Galileo a bearsi nelle superne sfere.... e ne reclama la spoglia.... o papa Urbano VIII s’affretta a mandare al sommo filosofo l’apostolica benedizione.
La vita, il pensiero, il martirio del sublime maestro furono con robusta eleganza di forma, con profondo sentimento filosofico, tratteggiati l’anno scorso, in questa sala ospitale, dal chiarissimo professore Del Lungo, ed io sciuperei opera così armonica qualunque cosa aggiungessi; ma non potevo non prender le mosse dall’instauratore della scienza nuova, per ragionare dei progressi della fisica dopo la di lui morte.
Vasto è l’argomento per poter essere condensato nel breve volger di un’ora; quantunque non intenda farvi una dissertazione sull’eccellenza del metodo sperimentale, e come esso abbia riformato dalle fondamenta e studio e costumi e vita.
Lo che mi parrebbe altrettanto utile fatica, quanto il pretender d’aggiungere maestà alla splendida Cupola del Brunellesco, incastrandovi una modesta pietruzza. La bontà del metodo è provata dai progressi della scienza, che poggia, cupola meravigliosa, sul tempio eterno del vero; di quei progressi, che sono nel sentimento di tutti noi, e che ci permettono di vivere di vita intensiva, accelerata, direi quasi lo spazio di un secolo nel breve giro di pochi anni.
Come all’affaticato spirito riesce gradito il ricordo dei primi anni, il rammentare le cose allora imparate, le impressioni ricevute; ed anzi il passato, sotto la nuova luce di lunga esperienza ricomparendo, torna fonte di nuove impressioni e di più larghe vedute; così a Voi, gentili, di cui la presenza è prova del culto che portate alla scienza, non riuscirà discaro ch’io rammenti i primi passi, le prime scoperte della fisica, fattasi ora matrona. Giacchè non va dimenticato, che solo con Galileo incomincia il metodo sperimentale, e che di quanto ci fu tramandato dagli antichi nel campo della fisica, ben poche cose rimangono, e si riducono a semplici osservazioni di fatti. Nessuna teoria che possa reggere all’analisi moderna, se ne togli il concetto atomistico de’ Greci; e delle leggi dedotte da speculazioni dello spirito, ben poche ressero alla prova dei fatti. E d’altra parte, mai la più piccola esperienza torna invano, ogni più minuto fatto acquisito alla scienza, quando non sia causa diretta, come spesso avviene, di grandi scoperte, è un elemento importante che attende con molti altri la mente superiore che sappia coordinarli, o trarne qualche nuova teoria, ricca di deduzioni ed applicazioni.
Concedete quindi, che passi in rapida rassegna le conquiste più salienti della scienza in Italia nell’avventurato secolo XVII, e fin verso l’ultimo terzo del secolo XVIII, sì scarso di risultati di fronte al primo.
Sparito il divino maestro, i prediletti discepoli, custodi del suo pensiero, sorgono banditori del nuovo evangelio.
Benedetto Castelli, nobile Bresciano, in Roma stessa, lui, frate di Montecassino, difende apertamente le dottrine astronomiche del Galileo. Ancora nel 1615 era sceso in campo contro il Della Comba ed il Di Grazia per sostenere le vedute del Maestro sull’idrostatica, e pubblicava nel 1628 la sua opera “Dimostrazioni geometriche della misura delle acque correnti„ nella quale per il primo espone chiaramente i principii del moto delle acque nei canali e nei fiumi; opera che lo rese tanto celebre da valergli da Urbano VIII la cattedra di matematiche in Roma e la direzione di importanti lavori idraulici, condotti a termine con esito felicissimo. — E come aveva aiutato Galileo nelle osservazioni astronomiche, in cui era espertissimo, ideò il metodo della proiezione per render visibili le macchie solari, senza offesa della vista, ed introdusse, per avere maggior chiarezza, i diaframmi nei cannocchiali.
Preludio alle ricerche che resero celebre nel nostro secolo il modenese Melloni, sperimentò pel primo sul calorico raggiante, avvertendo come i corpi in maggiore o minor grado si riscaldino a seconda dello stato di lor superficie e colore. Nè va taciuta l’idea di raccogliere quello, che fu poi detto lo spettro magnetico, dato dal disporsi su d’un diaframma della limatura di ferro attirata da poli di sottoposta calamita; metodo al quale tutt’oggi si ricorre por mostrare le linee di forza, nello studio delle macchine dinamo elettriche.
Fu il Castelli che spinse Bonaventura Cavalieri Bolognese, dell’Ordine dei Gesuati, da tempo soppresso, a dedicarsi alle matematiche, ed a frequentare in Pisa le lezioni del Galileo, per passar poi ad insegnare nell’Università stessa della sua patria.
Nell’opera del Cavalieri “Geometria indivisibilibus continuorum nova quâdam ratione promota„ trovansi gettate le basi del calcolo infinitesimale, intravveduto già, per testimonianza dello stesso autore, dal Galileo. Mentre nei libri “De speculo ustorio„ ed “Exercitationes Geometricae„ il Cavalieri ci dà mirabile saggio delle sue nozioni nel campo della fisica, trattando, come nessuno prima di lui, il problema della ricerca delle distanze focali nelle lenti concave e convesse.
Soli due anni dalla morte del gran Maestro veniva a mancare, in età non grave, il coraggioso Castelli; e tre anni appresso, a soli 49 anni, anche il Cavalieri.
Nè meno inesorabile scese la morte a colpire il più caro fra i discepoli del Galileo, Evangelista Torricelli, faentino, mancato esso pure noi 1647 nella verde età di 39 anni.
Seguiva il Torricelli in Roma le lezioni dell’abate Castelli, quando nel 1638 venne alla luce il trattato del Galileo “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze„ sul qual trattato compose un’opera che presentava, sotto rinnovellata forma, le teorie sul moto dei gravi. Sottoposto il manoscritto dal Castelli al Galileo; già cieco ed aggravato dagli anni, e più dalle infermità, il nobile vegliardo espresse il vivo desiderio di conoscerne l’autore, per affidargli il cómpito di ultimare i due ultimi dialoghi del suo trattato; e nell’ottobre del 1641 il Torricelli venne ospite del Galileo in Arcetri, e più che ospite gli fu discepolo, collaboratore, e consolatore carissimo. Troppo breve tempo fu dato al giovane Torricelli di abbeverarsi a quella fonte inesauribile d’ogni umano sapere; ma i tre mesi che passò presso il Maestro lasciarono profonda impronta nell’amato discepolo.
Morto il Galileo, per le premure del Granduca, accettò di trattenersi in Firenze in qualità di matematico della Corte, succedendogli nella cattedra.
Fu ancora nel 1643 che ideò lo strumento pel quale, più che per tutte le altre opere, il nome suo passò glorioso alla posterità: il Barometro. È nota la leggenda del pozzo a Boboli, nel quale l’acqua aspirata per tromba non arrivava che a sole 18 braccia di altezza, e la risposta del Galileo al Granduca che l’aveva interpellato: che se nei libri di Aristotile era scritto che la natura aveva orrore del vuoto, o se il fatto mostrava che l’acqua non saliva più su, voleva dire che quest’orrore aveva per limite per l’appunto le 18 braccia date dall’esperienza. Certo che se Galileo dette tale risposta lo fece per evitare contestazioni, o possibili noje a sè stesso, prigioniero dell’Inquisizione, col contradire all’autorità di Aristotile. Ma l’aver conosciuto l’equilibrio dei liquidi in vasi comunicanti, o l’aver dimostrato che l’aria pesa, prova chiaramente che aveva pensato alla risoluzione del problema, non accontentandosi di quanto ne aveva scritto ne’ dialoghi, ne’ quali parlando della resistenza della colonna liquida al rompersi, ammette che, analogamente ad un filo metallico che tirato in alto, giunto ad una certa lunghezza pel proprio peso si strappa, altrettanto avvenga della colonna d’acqua al limite di braccia 18. — La tromba era già un barometro ad acqua; non por questo fu meno felice l’idea del Torricelli di sostituirvi il mercurio riducendo così lo strumento a comode proporzioni; idea che, svelata all’amico Viviani, fu da questi subito tradotta in atto, ottenendo per l’appunto quanto l’acuto ingegno del Torricelli aveva divinato.
Lo stesso Torricelli, sperimentando col suo strumento, pose in chiaro il variare dell’altezza della colonna barometrica col mutare del tempo, se pur non anche lo scendere della colonna col crescere dell’altitudine, benchè di tale esperienza generalmente si riconosca illustratore il Pascal.
È questa del Barometro tale una felice intuizione, sì ricca di utili applicazioni, che basta da sola alla gloria di un uomo, benchè certo al Torricelli avran costato assai più fatica e studio lo altre opere sue “le Lezioni accademiche„ ed il “Trattato del moto dei gravi„ nel quale prende a studiare l’efflusso dei liquidi, determinandone con raro acume le leggi, che ancor oggi portano il di lui nome. E nel campo sperimentale s’occupò assai della costruzione dei cannocchiali, nell’eseguire i quali fu reputato eccellente, e del perfezionamento del microscopio semplice, valendosi come lente di palline di vetro soffiato alla lampada. Quale Accademico della Crusca lesse a quel nobile consesso un suo lavoro sul tema “La gloria dopo la morto è un nulla e non vale la pena che ci diamo per raggiungerla. Dopo la morte tutti gli uomini sono egualmente celebri.„
Strano argomento per un Torricelli, di cui il nome resterà eterno nella storia dell’umano progresso.
Ultimo dei discepoli che maggiormente il Galileo aveva prediletto, di tutti il più giovane, il Viviani non contava alla morte del sommo maestro che soli 20 anni. Mente acuta, animo aureo, applicatosi con ardore allo studio della geometria, comprese come solo Galileo fosse in grado d’avviarlo a forti studi e procurò di farne la conoscenza. Galileo, già cieco, l’accolse coll’usata benevolenza, e l’ebbe caro come un figlio; e Viviani non solo trasse sommo profitto dal tempo passato nella famigliarità del maestro, ma conservò por lui immensa gratitudine ed affetto, ascrivendo a suo special vanto potersi chiamare “l’ultimo dei discepoli del Galileo.„
Morto il maestro ne trovò un secondo nel Torricelli, o più che maestro un amico, al quale prestò valido aiuto nell’eseguire le esperienze, compresa quella del Barometro da esso, secondo il concetto del Torricelli, condotta.
Nel 1659 pubblicò la divinazione dei sette primi libri del celeberrimo Apollonio Pergeo sulle sezioni coniche, ritenuti perduti. Por somma fortuna il Borelli riuscì a rintracciare nella biblioteca di Firenze un manoscritto arabo, portato dall’Oriente dal gesuita Golius, contenente appunto i sette primi libri di Apollonio. Tradotti in latino comparvero nel 1661, e si trovò che il Viviani, non solo aveva indovinato il pensiero di Apollonio, ma aveva anzi trattato l’argomento in modo più generale del famoso geometra greco. Successo nel 1666 al posto da tempo vacante per la morte del Torricelli, fu eletto membro della Società Reale di Londra, fondata nel 1660, e dell’Accademia di Parigi costituitasi nel 1666. Anzi Luigi XIV gli accordò una pensione, che Viviani impiegò nell’ornare la casa sua, posta in via dell’Amorino, con iscrizioni, basso rilievi, ed un busto in onore del sommo maestro. Dobbiamo al Viviani una “Vita del Galileo„; una relazione speciale sull’applicazione del pendolo agli orologi, e tanti altri scritti: e fu membro attivissimo dell’Accademia del Cimento.
Mori nel 1703 amato, stimato, venerato da tutti, e fu sepolto in Santa Croce; lasciando per testamento alla famiglia Nelli, erede per maggiorasco, l’obbligo di erigere un suntuoso monumento al suo divino Maestro. Ad onta di una sorda opposizione da parte dei Monaci, nel 1737 fu inaugurato in Santa Croce il monumento, e con solennità vi furono composte le ossa del Maestro, e del riconoscente discepolo.
Un senso di melanconica pietà, oltre i quattro principali discepoli del Galileo, i quattro evangelisti della scienza, mi porta a ricordare anche il figlio di lui Vincenzo. L’importanza d’un regolatore del tempo por lo studio de’ fenomeni astronomici e terrestri e per la determinazione sopra tutto delle longitudini, era talmente compresa dal Galileo, che l’aveva portato ad adattare al pendolo dei leggerissimi congegni di ruote dentate per segnare il numero delle oscillazioni. Il moto alle ruote venendo impresso dal pendolo stesso, dopo un certo tempo questo doveva fermarsi. L’ideale era dunque che il pendolo non dovesse servire che a regolare il tempo, e che la forza motrice del congegno fosse da esso indipendente. Si trattava di applicare il pendolo all’orologio già esistente, anzi tanto perfezionato
Che l’una parte l’altra tira ed urge |
E negli ultimi anni di sua vita Galileo, già cieco, col Viviani, e sopra tutto col figlio Vincenzo ragionando, era venuto a stabilire il come di tale applicazione, quale risulta anche dal disegno fattone da Vincenzo, il quale, come colui che assai esperto era nelle arti meccaniche, volle da sè costruire il congegno; per lo che richiedendosi assai più tempo che se ricorso fosse ad artefici, disgrazia lo incolse colla morte del padre prima che a termine l’avesse portato. Solo nell’aprile 1649 riprese Vincenzo la costruzione dell’Oriuolo, avendosi fatto da meccanico apprestare il materiale occorrente, e lavorando di propria mano ad intagliare le ruote o lo scappamento. Messo assieme funzionava, e fattolo vedere al Viviani con esso convenne di alcuni perfezionamenti da apportarvi. Ma pur volendo ultimare in ogni sua parte l’orologio già lavorato, vi si diede d’attorno con raddoppiata lena in tal modo, che colto da violentissima febbre il 16 maggio stesso anno moriva. Disgrazia e fatalità, che privò l’Italia nostra del vanto d’aver prima applicato il pendolo agli orologi, in quanto generalmente ne vien data lodo all’Huyghens, certo preclarissimo ingegno, che costruì, sia pure più perfezionato, il suo orologio solo nel 1657. Non è qui il caso di recare argomenti, e molti ne esisterebbero, in favor nostro, ma è a deplorarsi, che non ci sia stata resa giustizia, e riconosciuta come nostra anche l’applicazione del pendolo agli orologi.
Il fascino del metodo galileano, che sull’evidenza de’ fatti innalza l’uomo alle più alte speculazioni, aveva tratto a sè le menti più eletto di quell’epoca gloriosa e doveva avere solenne manifestazione nella “Accademia del Cimento„. Unire lo forzo e “Provando e Riprovando„ leggere finalmente nel libro della natura le mirabili pagine che ci tien spiegate davanti.
Prima fra le Accademie scientifiche, surse nel 1657, sotto la presidenza del Principe Leopoldo. La componevano: Giovanni Alfonso Borelli, Candido Del Buono, Paolo Del Buono, Lorenzo Magalotti, Alessandro Marsili, Antonio Oliva, Francesco Redi, Carlo Renaldini, Vincenzo Viviani.
E, cosa mirabile, e non mai più ripetutasi presso altre accademie, tanto era l’ardore delle ricerche sperimentali, e tale la persuasione, che solo dall’attenta osservazione dei fenomeni scaturir potessero le leggi che li governano, che tutti gli accademici lavoravano di comune accordo, costituendo quasi un’unica personalità, quella dell’Accademia, sicuri così che ben difficilmente sarebbe sfuggita all’attenzione di molti qualche circostanza importante e capace di modificare i risultati dell’esperienza. Così è che nell’aureo libro “Saggi di naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento„ (Firenze 1667), e compilato dal Magalotti, si descrivono magistralmente le singole esperienze, senza mai accennare chi ne abbia avuta la prima idea, come se fossero state da tutti, in comune, pensate. E degno di osservazione si è pure che nello stesso libro dei “Saggi„ è detto: non entrare nelle abitudini dell’Accademia il discutere sulle cause dei fenomeni. Fosse il dubbio di incorrere nella disapprovazione eventuale di Roma, o la coscienza che delle teoriche ne erano state escogitate anche troppe, o ciò che mancava era una raccolta di fatti inconcussi, certo è che gli accademici s’attennero fedelmente al loro motto “Provando e Riprovando„. A più di due secoli di distanza è sempre con un senso di ammirazione che si leggono quelle pagine dei “Saggi„, cardini della nuova scienza, e vi si impara ancor oggi a condurre con acume e diligenza somma le esperienze.
Non riuscirà discaro che per sommi capi rammenti i principali risultati cui è giunta quell’accolta di preclari ingegni.
Incominciano i saggi colla descrizione degli strumenti di misura, e loro uso. Termometro, Igrometro, Pendolo, Barometro.
Il primo, inventato ancora nel 1597 dal Galileo, che pensò subito d’applicarlo alla medicina, per riconoscere il grado di febbre degli ammalati; da termoscopio che era, fu trasformato in vero termometro, prima riempito con acqua, poi con alcool. Portava i gradi marcati con piccolo perline di vetro sulla canna stessa, come i migliori nostri termometri, invece che su tavoletta a parte, ed era con tanta arte costruito che, sebbene i punti di graduazione della scala fossero mal definiti col massimo freddo e massimo caldo di Firenze, tuttavia i diversi termometri, specialmente cinquantigradi, riuscivano perfettamente paragonabili fra loro. Nel 1830 si potè, confrontandoli col termometro Reaumur, ricavare dalle osservazioni meteorologiche di quell’epoca, come il clima della Toscana non sia venuto mutando. La fissazione dei punti estremi della scala coll’immergere il termometro nel ghiaccio che fonde, o tenerlo nel vapore che si svolge dall’acqua bollente, sotto pressione di una atmosfera, è posteriore all’Accademia, dovuta però ad uno dei suoi membri, il Rinaldini.
Quanto all’Igrometro, è noto il fatto dell’architetto Fontana, che nel 1586 riuscì a metter ritto l’Obelisco sulla Piazza San Pietro in Roma bagnando le corde; e sulla contrazione appunto delle corde, però di minugia, inumidite, fondò Santorio il suo primo Igroscopio. Quello dell’Accademia del Cimento invece, chiamato Mostra umidaria, è un vero igrometro a condensazione, dove, invece di cogliere il punto d’appannamento, come negli strumenti recenti, si misura la quantità d’acqua condensatasi in un dato tempo sopra un cono vuoto di metallo, riempito con un miscuglio frigorifero.
Segue la descrizione del Pendolo, e di un orologio a pendolo, “su l’andar di quello che prima d’ogni altro immaginò il Galileo, e che dell’anno 1649 messe in pratica Vincenzo Galilei suo figliuolo„; prova maggiore che realmente l’applicazione de’ pendoli agli orologi è invenzione italiana.
Quanto al Barometro esso servì loro, non solo per misurare le variazioni di pressione nell’aria; ma ben anche come apparecchio per eseguire un vuoto assai migliore di quello ottenibile colle macchine pneumatiche di quel tempo. E nel vuoto Torricelliano sperimentarono: se il suono si propaga; so la calamita attira; se l’ambra strofinata si elettrizza; come vi muoiano gli animali; se l’alzarsi dei liquidi nei tubi capillari è influenzato dalla presenza dell’aria, e molte altre. E dopo 200 anni noi siamo ritornati alla macchina pneumatica a mercurio, la più perfetta di tutte, che permette delle rarefazioni così forti da dar luogo ad una serie di nuovi fenomeni illustrati dal Crookes.
Il servizio meteorologico si considera generalmente come un’istituzione moderna; esso, per merito sopra tutto dell’Inghilterra, fu sistemato ed allargato così, che i servigi che presta, anche nel campo pratico, sono immensi. Centinaia di bastimenti ogni anno vengono risparmiati dal bullettino che, volando sul filo elettrico, precede la bufera. Ma nel campo scientifico il poter tutti i giorni, ad ora fissa, tracciare la carta delle condizioni meteorologiche di gran parte del mondo, chi sa a quali risultati potrà portare. Frattanto non dimentichiamo, che le osservazioni metereologiche sono gloria italiana. Fin dal 1654 furono colla massima regolarità eseguite nel Convento degli Angeli a Firenze; a Vallombrosa, a Cutigliano, a Bologna, a Parma, a Milano, a Varsavia, ad Innsbruck sotto la direzione generale del padre Luigi Antinori teologo del Gran Duca. Esiste fra gli altri un registro che contiene cinque osservazioni al giorno per lo spazio di oltre sedici anni.
Sono poi descritti nei Saggi diversi areometri; la palla d’oncia, ecc., ecc., strumenti che ancor oggi potrebbero prestare utili servigi alla scienza.
Interessantissime sono le esperienze sul congelamento dell’acqua nelle quali pei primi gli accademici fecero uso di miscugli frigoriferi, quali neve con sale, o sal nitro, o spirito di vino; oppure neve e sale ammoniaco, ottenendo con tale combinazione il massimo freddo. Fecero scoppiare sfere di materie differenti riempite d’acqua facendola ghiacciare, e mostrarono come questa, prima di solidificarsi si dilati. Esperimentando col ghiaccio, ne collocarono un grosso pezzo avanti uno specchio ustorio, nel foco del quale un termometro segnava un abbassamento di temperatura; prova che il freddo, come il caldo, si riflettono colla ben nota legge.
Per confutare la teoria dell’antiperistasi, della reazione cioè sviluppata da un corpo, che al primo riscaldarlo dovrebbe raffreddarsi, e viceversa, eseguirono le ben note esperienze immergendo un grosso termometro nell’acqua calda, e mostrando che al primo istante l’alcool realmente discende, ma non perchè si sia raffreddato, sibbene perchè maggiore è la dilatazione del recipiente, e l’opposto avvenire immergendo il termometro nell’acqua fredda. In questa occasione, volendo meglio mostrare come tutti i corpi si dilatino pel calore, idearono l’esperienza, più generalmente nota sotto il nome di anello di S’ Gravesande, che dall’Accademia invece dovrebbe prendere il nome. Anzi, usando coni di diverse materie, che portati alla stessa temperatura, entravano più o meno in un anello misurato, determinarono il coefficiente di dilatazione dei corpi.
Nè riuscendo a comprimere l’acqua nelle sfere metalliche assoggettate alla pressione del torchio, conclusero per l’incomprensibilità, come generalmente si crede; sibbene che a loro non era riuscito di comprimere l’acqua, che preferiva trasudare dalle pareti del recipiente; mettendo così in evidenza la porosità dei metalli. Anche l’errore della leggerezza positiva confutarono; facendo vedere che un pezzo di sughero, immerso nell’acqua, non sale quando gli si tolga la pressione del liquido dal disotto; mentre avrebbe pur dovuto salire se si fosso trattato di una leggerezza positiva.
Nei “Saggi„ sono riportate anche le esperienze sulla velocità di propagazione del suono eseguite ancora nel 1656 da Viviani e Borelli. Non così felicemente riuscirono gli Accademici nel tentativo di misurare la velocità di propagazione della luce, la quale si mostrò poi così enorme da raggiungere 300,000 chilometri al 1". Ma è degno di nota che l’abbian tentato.
In altro capitolo gli Accademici si occupano del cambiamento di colore dei liquidi, specialmente della tintura di torna-sole, che con un acido, succo di limone, aceto, acido solforico, arrossa, e riprende il colore primitivo se trattata con una base, usando essi l’oleum-tartari, soluzione di potassa.
Rimarchevoli sono pure i fatti citati dall’Accademia in sostegno dell’idea emessa ancora da Galileo sulla resistenza dell’aria; che cioè un proiettile sparato da maggiore altezza produca minore effetto che da altezza minore; o ciò per il maggiore tragitto attraverso l’aria, come in fatti trovarono; e l’altro che nello stesso intervallo di tempo cadono a terra una palla sparata orizzontalmente da una certa altezza ed un’altra che nello stesso istante dello sparo sia lasciata libera a sè stessa.
Per convalidare il principio di inerzia, che un corpo persevera nello stato di quiete o di moto in cui si trova, finchè una forza non ve lo tolga, adattarono sopra un carro tirato da sei cavalli un saltamartino con palla da una libbra, disposto verticalmente, e sopra strada piana o diritta facendolo velocemente correre, e sparando, trovarono che la palla veniva a cadere poco dietro il carro, benchè questo avesse percorso dallo sparo alla caduta, oltre le 70 braccia; però tanto più addietro rimaneva quanto maggiore era il tempo passato fra lo sparo ed il ricadere della medesima; e ciò per la maggior resistenza opposta dall’aria in più lungo tragitto.
Va pure notato come gli Accademici avessero una giusta idea di quella che loro stessi chiamarono “capacità calorifica„. Presero due termometri di dimensioni perfettamente eguali e li riempirono, cosa da notarsi, uno di mercurio l’altro d’acqua. Immergendoli simultaneamente in molta acqua calda, osservarono che il termometro a mercurio era il primo a raggiungere l’equilibrio di temperatura, seguo che richiedeva minor quantità di calore dell’acqua. È strano che, avendo già usato il mercurio in questa esperienza, non l’adottassero per costruire i termometri. Forse furono trattenuti dall’aver visto che si dilata meno dell’alcool. A conferma della prima esperienza sulla capacità calorifica, ne eseguirono una seconda. Versarono pesi eguali di diversi liquidi, portati alla stessa temperatura, sopra quantità eguali di ghiaccio, e trovarono che se ne fonde più o meno col variare del liquido. Come si vede si trovarono gli Accademici di fronte alle calorie di fusione, al così detto calorico latente; ed è maggiormente a deplorarsi l’Accademia abbia finito sì presto, perchè questo, come altri argomenti, sarebbero stati in modo esauriente studiati, ed avrebbero assicurato a noi il vanto di altro scoperte.
Degli Accademici individualmente troppo lunge sarei tratto a ragionare. Tuttavia non posso passare sotto silenzio il napoletano Borelli, altrettanto profondo erudito, quanto appassionato e forse impetuoso carattere, finito nell’indigenza in Roma; lui, già discepolo di Castelli, professore a Messina, professore a Pisa, membro attivissimo dell’Accademia del Cimento, matematico, fisiologo, fisico, astronomo, filosofo ed autore di oltre 13 opere, di cui, por non citare che le culminanti, “Dei moti naturali dipendenti dalla gravità„ — “Del moto degli animali„ opera da consultarsi tutto dì sull’argomento, e “Teoria delle stelle Medicee, dedotta da cause fisiche.„
In quest’opera omette per primo l’idea che i satelliti di Giove s’aggirino intorno al pianeta in causa di una mutua attrazione; ma sgraziatamente non generalizza la sua ipotesi, nè ricerca le leggi di questa attrazione. — E così la legge di Gravitazione, che regola il moto de’ corpi celesti, dopo aver arriso all’Italia, si posa, aureola invidiata, per mano del Newton sul capo dell’Inghilterra.
Degno di menzione è pure il Magalotti, gesuita, già discepolo del Viviani, autore delle lettere scientifiche ed erudite, conoscitore di molte lingue, parlatore e scrittore chiarissimo, o segretario dell’Accademia. I “Saggi di naturali esperienze„ bastano da soli a testimoniare della di lui valentia.
Nè va taciuto del Redi, forse più noto pel famoso ditirambo, che per le esperienze fisiche da esso eseguite, per quanto fosse assiduo e diligente accademico, medico rinomatissimo, naturalista, fisiologo.
Quanto progresso di lavoro sperimentale, e quale promessa di larga messe per l’avvenire! Era quella del Cimento tale accademia, che si sarebbe detto sfidare l’avversità de’ tempi; ed invece, dopo soli nove anni di vita, d’un tratto fu spenta. Sagriticata dal suo presidente alla paura ed alla prepotenza di Roma. Ahimè! Quam parva sapientia regitur mundus. Pensare che un’accademia di nove scienziati, che non fanno che interrogare scrupolosamente la natura e registrarne i responsi, dà tanta ombra da far paventare ne rimanga scossa la fede, ne soffra la Religione! E d’altra parte non erano i Medici da tanto di resistere alle pressioni di Roma; essi che tenevano il potere da Clemente VII soffocatore delle libertà fiorentine, e già macchiati dell’ignominia d’aver consegnato Galileo all’inquisizione. Il principe Leopoldo s’ebbe il cappello da Cardinale e l’Accademia fu sciolta.
Ma è con sentimento di profonda ammirazione e rispetto, e con orgoglio di italiani che noi entriamo a visitare la Tribuna di Galileo, che racchiude, oltre i ricordi del sommo filosofo, ampia raccolta degli strumenti creati od usati dall’Accademia del Cimento. Vero santuario, dove il pensiero liberamente spaziando, s’ispira ai più alti ideali della scienza rigeneratrice.
Dell’Accademia stessa facevano parte, come membri corrispondenti, Ricci, Cassini, Montanari, Rossetti, Falconieri, e fra gli stranieri Stenone, Thèvenot, Fabbri. Non trovandosi i loro lavori inseriti nel libro dei “Saggi„ che non riporta che le esperienze eseguite in comune dagli Acdemici “Operatori„ darò qui un breve cenno dell’opera dei due principali, Cassini e Stenone; chè diversamente non avrei occasione di rammentarli nel seguito di questa rassegna, ristretta alla sola fisica.
Gian Domenico Cassini nacque nel 1625 in Perinaldo, contea di Nizza, da antica famiglia del patriziato senese. A soli 25 anni succede al Malvasia, sulle comete, ritenendole o come stelle, o come pianeti in formazione. Due anni appresso rettifica la meridiana segnata nel 1575 da Ignazio Dante in San Petronio. In seguito papa Alessandro VII lo sceglie arbitro nelle controversie fra Ferrara e Bologna, causate dalle inondazioni del Po, e più tardi sostiene contro il Viviani, che era per Firenze, gli interessi del Papa a proposito dello inondazioni della Chiana. In tale occasione assiste in Firenze alle tornate dell’Accademia. Nel 1665 nelle “Lettere astronomiche„ dirette al Falconieri “Sopra la varietà delle macchie osservate in Giove, e loro diurne rivoluzioni„, spiega il variare di dette macchie ammettendo che Giove roti sul proprio asse in ore 9,56’. Nel febbraio 1666 fa la stessa osservazione per Marte, e calcola la rotazione avvenga in 24 ore 48’, e nell’ottobre trova che ciò si avvera anche per Venere. In questo frattempo pubblica pure le osservazioni e le tavole dei satelliti di Giove. Quest’ultime fecero tale impressiono su Picurd, che stimò fortuna per la Francia poter avere così insigne astronomo; e tanto insistè presso il ministro Colbert, da indurlo ad offrire al Cassini il posto di astronomo reale, e direttore dell’erigendo Osservatorio astronomico, nominandolo nello stesso tempo membro dell’Accademia. Declinò da prima il Cassini l’onorifica offerta; ma alla fine, pensando forse che il favore che godeva presso il papa Alessandro VII anche Galileo l’aveva goduto presso Urbano VIII, il che non aveva impedito, che fosse consegnato all’Inquisizione e condannato, a gran malincuore si decise ad accettare, per poter con maggior tranquillità e sicurezza continuare i suoi studi prediletti. Nel 1669 si portò a Parigi, dove pubblicò non meno di 165 memorie di astronomia, 11 di fisica, sei opere, lasciandone altre tre incomplete; fra l’altre una cosmografia in versi italiani. Como Galileo, verso la fino della sua laboriosa carriera, perdè il bene supremo della vista, e placidamente ad 87 anni si spense.
nella cattedra di matematiche in Bologna e nel 1653 pubblica le osservazioni fatte assieme al marcheseNella direziono dell’Osservatorio gli succede, da prima il figlio minore Giacomo, poi il nipote Cesare Francesco, da ultimo il pronipote Giacomo Domenico, che lascia nel 1793 l’Osservatorio, e muore a 97 anni nel 1845. E così l’Italia, oltre ad altri scienziati, dà alla Francia quattro generazioni di astronomi, e contribuisce in tal modo a propagarvi il culto delle scienze che ebbe culla da noi. La Francia a sua volta diffonde nel ’700 l’amore alle scienze in Germania, e nel secolo nostro la Germania evangelizza alla scienza la Russia.
Dello Stenone, benchè di origine danese, dirò pure brevemente; non tanto perchè fu membro corrispondente dell’Accademia del Cimento, quanto per l’importanza degli argomenti da esso trattati, ai quali fornì materia la Toscana stessa, che lo accolse cittadino.
Anatomo o fisiologo distinto, nel 1666 lascia Parigi, e latore di lettere di raccomandazione di Thèvenot per Borelli, si fissa in Firenze, dove s’accaparra subito, per le eminenti sue qualità, la stima e l’affetto di tutti gli scienziati. Da Luterano passa alla religione cattolica, e Ferdinando II lo prende al suo servizio e gli permette di continuare le ricerche anatomiche e fisiologiche nell’arcispedale di Santa Maria Nuova. Pubblica gli elementi di miologia, ne’ quali spiega la natura, la struttura, l’azione dei muscoli. Come molti dei convertiti, diventa cattolico ardente, scrive dotte dissertazioni su quistioni di fede, e viene in conseguenza nominato Vescovo in partibus, e più tardi Vicario Apostolico del Nord. Lascia quindi lo studio dell’anatomia e della fisiologia, per dedicarsi interamente alla mineralogia ed alla geologia, scienze da lui, si può dire, fondate, e dà alle stampe l’opera sua più importante “De solido intra solidum naturaliter contento„ In essa rammenta le doppie piramidi del quarzo, i cubi della pirite, gli ottaedri del diamante, le tavolette esagonali del ferro oligisto..... e fa specialmente osservare che, se fra cristallo e cristallo della stessa materia possono apparire delle differenze, sopra tutto nella grandezza delle facce, resta però costante l’angolo che esse fanno fra di loro; gettando così le basi della cristallografia.
E studiando la crosta terrestre trova che è costituita da strati paralleli sovrapposti, depositati certo dalle acque, contenendo essi quantità di resti organici e specialmente di conchiglie marittime, fossilizzati; per cui in origine detti strati dovevano essere orizzontali. Ma mostrandosi ora ondulati, inclinati, mischiati, devono aver agito potenti cause, quali eruzioni vulcaniche, avvallamenti, terremoti, per produrre tanto sconvolgimento. A periodi di maggiore attività vulcanica seguirono periodi di calma, ed il mare ricoprendo ogni cosa, depositò nuovi strati, che anch’essi sconvolti hanno dato luogo al sollevamento ed all’inabissarsi di altre montagne. Nella Toscana distingue non meno di sei periodi.
Come fervente cattolico si sforza di mostrare che le deduzioni cui è giunto non sono contrarie a quanto narra la Bibbia; ma evidentemente non dà alle sue proposizioni lo svolgimento intravvisto dall’acuta sua mente. Nei limiti impostisi, sia per convinzione personale, sia per forza di circostanze, nessuno però ha cosiderata la geologia da un punto di vista più largo, nè ha emesso tante nuove idee, confermate in seguito dai fatti.
Eppure l’opera sua rimase presso che ignorata, e solo nel 1831 il celebre geologo Elie de Beaumont, dandone un ampio estratto in una memoria inserita negli Annali delle scienze naturali, la rivendica ai dovuti onori. Più fortunato di Galileo, Stenone potè morire in pace, senza vedere i suoi scritti posti all’indice; chè l’opposizione di Roma alle vedute della geologia, e più dell’antropologia, è nota. Il che non arresterà il cammino della scienza, che per essere verità è religione.
Negli ottant’anni del periodo galileano e dell’Accademia del Cimento l’Italia brilla di vivissimo splendore, e sorge maestra a tutto il mondo. Disciolta l’Accademia segue un’epoca di continuo decadimento.
Le esperienze però descritte nei “Saggi„ è naturale che non rappresentino tutto quanto in quell’epoca fortunata fu acquisito alla scienza. Ma, se era doveroso rispetto rammentare i lavori dell’Accademia nell’ordine stesso nel quale furono eseguiti, riescirà forse più chiaro raggruppare le ricerche che ebbero luogo in seguito a seconda del tema trattato.
Dell’esperienza sui tubi capillari eseguita dall’Accademia del Cimento per provare se la pressione atmosferica influisca sul fenomeno, ho già detto; giova notare che i fenomeni di capillarità furono per primo osservati dal sommo Leonardo da Vinci, e direi quasi riscoperti e studiati con amore dall’Aggiunti, che spiegò con essi l’ascendere dei liquidi nei vasi dell’organismo, il nutrirsi delle piante, il conservarsi dei fiori in molle, il cibarsi dello variopinte farfalle a mezzo della proboscide.... Fu l’Aggiunti caro oltremodo al Galileo. Chiamato dalla Veneta Repubblica a coprire la cattedra del gran filosofo in Padova, preferì restarsene professore a Pisa dove, rapito alla scienza, morì nel 1630 giovanissimo, correndo la sua età col secolo. Le osservazioni però meglio approfondite sui fenomeni capillari, e sulle attrazioni e ripulsioni fra corpi galleggianti, a seconda della forma dei menischi, sono dovuto al Borelli, che le esegui e pubblicò all’infuori dei lavori fatti in comune nell’Accademia del Cimento.
Son note le lagrime Bataviche, goccioloni di vetro rapidamente raffreddato che vanno in briciole quando si rompa l’estremità della loro codetta; nè si conosce chi primo le abbia prodotte. Dall’Olanda entrarono nel mondo scientifico, e di lì il loro nome. Dobbiamo a Gemignano Montanari, nato in Modena nel 1633, uno studio su dette lagrime “Speculazioni fisiche sopra gli effetti dei vetri temperati„ nel quale per primo dà come causa del fenomeno la forte tensione superficiale del vetro. Le così dette Bocce di Bologna, che si rompono lasciandovi cadere un pezzettino di pietra focaja, sono assai posteriori, e furono illustrate dal Balbi, professore di fisica a Bologna nel 1740.
Una delle curiosità scientifiche del seicento, ed intorno alla quale tutti più o mono si affaticarono, si fu la fosforescenza. Ancora Aristotile e Plinio conoscevano la luce fosforescente emessa da certi insetti, da materie in putrefazione, dal mare. Plinio parla di pietre luminose “carbunculus, selenites„ delle quali non conosciamo la natura; ed Alberto il Grande sapeva come il diamante, moderatamente riscaldato, emetta luce all’oscuro. Era pure noto che lo zucchero, il quarzo e qualche altra materia, sfregati fra loro, o pestati, danno una leggera fosforescenza.
Nel 1604 Vincenzo Cascariolo, calzolaio bolognese, occupandosi a tempo perso di alchimia, calcina, fra i carboni, della pietra tolta alle falde di monte Paterno, e s’accorge che, esposta preventivamente ai raggi del sole, e ritirata in luogo oscuro, si mostra luminosa. È il così detto fosforo di Bologna, un solfuro di Bario ottenuto dalla riduzione a mezzo del carbone dello spato pesante.
Non è a dirsi quanto rapidamente si propagasse la scoperta, che offerse tema di studio allo stesso Galileo e a tant’altri suscitando una gara per trovare nuove materie fosforescenti. In tal modo se ne avvantaggiò la chimica colla conoscenza di altri corpi, quali il fosforo di Baudoin, il fosforo di Homberg, il vero fosforo ottenuto nel 1669 da Brand, il fosforo di Canton....
E già che siamo a ragionare di ricerche che sì strettamente si collegano colla chimica, mi sia concesso, ad onore di un nome caro a noi tutti e alla scienza, degno pronipote di illustri antenati segnalatisi nello studio della natura, di rammentare le esperienze, eseguite verso il 1694, da Targioni ed Averani sulla combustione del diamante. Fra i molti, un bel diamante di 8 grani, esposto ai raggi del sole concentrati colla grossa lente da Benedetto Bregans donata nel 1690 al Gran Duca Cosimo, e tutt’ora esistente nella Tribuna del Galileo, dopo 28 1/2 minuti completamente bruciò, mostrandosi così, nulla più nulla meno di un pezzetto di puro carbone, ma cristallizzato. Anche Francesco di Lorena Granduca di Toscana all’estinzione della casa Medici, e che fu poi Francesco I di Alemagna, fece trattar col fuoco per oltre a 6000 fiorini di diamanti, nella speranza di fonderne diversi piccoli in uno grosso, e trovar modo così di rifornire l’esausta sua cassa. Ma i diamanti andarono in fumo, o per essere più precisi, combinandosi coll’ossigeno, svanirono nell’aria, sotto forma di anidride carbonica.
Nell’agosto 1609 Galileo presenta il primo cannocchiale al Senato di Venezia. Nel 1617 immagina il suo “Celatone„, due cannocchiali fissati ad una specie di morione, per poter con questo binocolo osservare da una nave i satelliti di Giove allo scopo di determinare le longitudini. E già che siamo in pieno seicento, mi sia concesso aggiungere: e dopo aver spaziato por le vie del cielo, il binocolo ci serve ora ad ammirare le stelle della terra.
A quello del Galileo subentra ben presto il cannocchiale astronomico, ideato dal Keplero.
Oltre Galileo, e come abbiamo veduto il Torricelli, riuscì pure eccellente costruttore di cannocchiali Eustachio Divini di San Severino, al quale si deve anche un importante perfezionamento del microscopio, che rese più chiaro e di maggiore ingrandimento col comporre di due lenti ciascuno, tanto l’obbiettivo che l’oculare.
A lui rivale nella costruzione de’ cannocchiali era Giuseppe Campani, romano, che portò la distanza focale degli obbiettivi fino a 136 piedi, e fornì a Luigi XIV lo strumento, con cui il celebre Cassini scoprì i satelliti di Saturno. Anzi, ad una speciale disposizione delle lenti dell’oculare, che s’usa tutt’ora, è rimasto il nome di “Oculare Campani„.
Nè va dimenticato come il primo a sostituire alla lente obbiettivo uno specchio concavo fosse Niccola Zucchi di Parma, che costruì il primo telescopio riflettore nel 1616.
Tuttavia, mentre l’Italia fornisce per lungo tempo i migliori cannocchiali, e l’Accademia del Cimento splende di viva per quanto breve luce, le osservazioni astronomiche, somma gloria del Galileo, colla partenza del Cassini, giacciono pressochè trascurate.
Fatale influenza di Roma che schiaccia nell’Italia asservita ogni aspirazione alla ricerca del vero. In Francia invece sorge il grande Osservatorio di Parigi ultimato nel 1672; in Inghilterra quello famoso di Greenwich inaugurato nel 1675; in Germania quello di Berlino fondato nel 1700.
L’invenzione del cannocchiale e del microscopio a prima vista sembra culminante, e tale da aver fatto fare alla scienza dell’ottica un passo gigantesco. Se noi giudichiamo dai vantaggi recatici dai due importantissimi strumenti, certo dobbiamo collocarli al primo posto.
Col cannocchiale spazia lo sguardo nell’immensità de’ cieli. Dal caos della Bibbia, dove la materia allo stato aeriforme riempie l’infinito, si vien formando nella fuga dei secoli il cielo stellato, ed ogni stella fissa avrà i suoi pianeti, composti di egual materia, per quanto vari in grandezza, temperatura, condizioni di moto. E a tutta l’infinita varietà de’ corpi celesti presiederanno le leggi immutabili dell’indistruttibilità della materia, della conservazione dell’energia, dell’attrazione. Perchè in natura non esiste ripulsione; tutto è infinita sapienza, sommo amore.
Attraverso l’immensità dell’etere giunge a noi, sotto forma di raggio luminoso, il fremito del più remoto astro; quel raggio è il saluto del lontano fratello alla sorella la terra. Quel raggio, rifratto da un prisma nel cannocchiale, è il messaggero che narra la storia del cielo.
Mirabilissima potenza dell’ingegno umano! Il quale, armato del microscopio scende nelle infinite latebre di una goccia d’acqua, e vi discerne miriadi di esseri organici, come lo stelle nel firmamento, e li distingue, li classifica, e trae argomento a combatterli, per risparmiare lutti e sventure. E con attento occhio osservando, spia la costituzione della materia cerebrale, e se gli venga fatto di scoprire il mistero del pensiero, di quest’atto fisico, che fa turbinare in sì piccolo spazio l’immensità del creato.
Eppure, per l’invenzione dei due importantissimi strumenti, nota già essendo la rifrazione, la teoria dell’ottica non si è avvicinata di un passo alla spiegazione dei fenomeni luminosi; non ha che messo a disposizione delle scienze nuovi e potenti mezzi di ricerca.
Trovare la causa del perchè un bastone tenuto obliquo nell’acqua sembri spezzato, lo spato islandico faccia vedere doppi gli oggetti, o le piume del collo d’un piccione compariscano iridescenti: ecco un problema assai più interessante per la teoria dell’ottica di tutti i microscopi e cannocchiali.
E per fortuna, l’onore d’averlo risolto spetta ad un nostro italiano che per primo gettò le basi della teoria delle ondulazioni luminose.
Francesco Maria Grimaldi, nacque nel 1618, morì nel 1663 in Bologna sua patria. Apparteneva all’ordine dei Gesuiti, e l’importantissima sua opera “Phisico-Mathesis de lumine, coloribus et iride aliisque adnexis, libri duo„ non comparve in Bologna che due anni dopo la di lui morte. Contenendo essa nuove teorie avrà forse dubitato dell’accoglienza che avrebbe potuto trovare presso i suoi superiori, e temuto non avesse a suscitargli contro delle persecuzioni. Contemporaneo del Cavalieri, entrambi coltivarono di preferenza l’ottica, il primo, trattandola dal lato matematico, Grimaldi da quello sperimentale.
Facciamo entrare in una stanza oscura, attraverso un foro praticato nelle imposte, un fascio di raggi solari, ed interponendo una sottile asticina opaca raccogliamo la luce su d’uno scremaglio. Dovressimo osservare un’ombra contornata dalla sua penombra; invece si trova che l’ombra fisica è più larga di quella geometrica, e contornata da frange colorate e da frange oscure. Quest’è la prima esperienza del Grimaldi. La seconda che si potrebbe enunciare “luce aggiunta a luce dà tenebre„ è la seguente: pratichiamo nell’imposta due forellini vicini uno all’altro, e raccogliamo la luce a tale distanza, che i due fasci si sovrappongano in parte. Ciascuno dei forellini da solo darebbe un disco luminoso più chiaro nel mezzo che ai bordi; agendo insieme invece, dovrebbero dare due dischi luminosi, colla parte sovrapposta più chiara. In realtà la parte centrale è più chiara, ma comparisce limitata da bordi oscuri che vengono così a cadere in parti dove ogni disco per sè avrebbe dovuto essere luminoso.
Su queste due esperienze, in apparenza così poco concludenti, si esercita l’ingegno del Grimaldi per trarre i fondamenti della teoria delle ondulazioni. Infatti solo due movimenti di ordine inverso, condensazione e rarefazione, fase positiva e fase negativa, possono elidersi, e dare mancanza di luce o bordi oscuri, e nella prima esperienza frange oscure. Se ciò che entra dai fori non fosse un movimento, ma qualche cosa di materiale, là dove cade in maggior copia, si dovrebbe aver sempre più luce.
Grimaldi paragona il modo di propagarsi della luce a quello delle onde generate da un sasso sulla superficie dell’acqua, e suppone un fluido leggerissimo, che urtato dal corpo luminoso, trasmetta vibrando la luce. Anzi intravede, facendo un paragone col suono, che, come in acustica al maggior numero di vibrazioni corrisponde un suono più acuto, in ottica alle vibrazioni più o meno rapide del corpo luminoso corrisponda luce diversamente colorata.
In altro capitolo, a maggiore conferma del suo modo di vedere, analizza il caso di luce bianca, che per effetto di semplice riflessione può comparire colorata, ciò che realizza facendo riflettere un fascio di luce da una lamina di metallo finemente striata, ottenendo così l’iride, o lo spettro, da lui stesso chiamato di diffrazione.
Ed è a questo medesimo sistema che, usando gli splendidi reticoli del Roland, noi ricorriamo presentemente per avere lo spettro normale del sole; spettro nel quale leggiamo a chiare note la costituzione e natura del sole stesso. L’iridescenza del collo del piccione non è che un fenomeno dello stesso ordine, e la luce si riflette su d’una superficie, per la conformazione delle piume, finemente striata.
Mirabilissima deduzione questa del Grimaldi, che in altra epoca avrebbe sollevato il plauso universale, e rimase invece affatto dimenticata, finchè d’oltre monte non fu rimessa in onore, ampliata, perfezionata.
Degne di speciale menzione sono pure le esperienze del Grimaldi sul fenomeno così detto della dispersione della luce; sull’iride cioè che si ottiene facendo rifrangere la luce del sole in un prisma. Fu esso che pel primo mostrò come il fascio di raggi luminosi, attraversando il prisma, s’allarghi, e che considerò i colori come dipendenti dalla luce che illumina i corpi; che ammise una diversa velocità di propagazione del moto vibratorio in rapporto al numero delle vibrazioni, e che previde la luce propagarsi con minore velocità nei corpi più rifrangenti.
Pochi anni dopo Grimaldi, il Newton illustrò ampiamente il fenomeno della colorazione della luce nei prismi, ed emise per ispiegare i fenomeni ottici la famosa teoria delle emanazioni, considerando la luce come qualche cosa di materiale che, al pari dell’odore, esali dai corpi.
Nessuna meraviglia quindi che l’opera del Grimaldi, che riteneva la luce una forma di moto vibratorio, rimanesse affatto negletta di fronte all’immensa autorità di cui godeva il Newton. Il Göthe, nella sua teoria dei colori, chiama il Grimaldi versato in tutte le sottigliezze della dialettica, e giudica poco serio il di lui lavoro.
Del resto quanto possa l’autorità di un uomo per ribadire degli errori ed arrestare per un certo tempo il progresso, se anche non ne avessimo avuto un grande esempio in Aristotile, ne avressimo uno nel Newton.
Nel 1690 Huyghens dà alle stampe il suo “Trattato sulla luce„. In esso, per ispiegare il fenomeno della doppia rifrazione ricorre alla teoria delle ondulazioni, e tanto, e sì profondamente la svolge da poter render ragione colla stessa di tutti i fenomeni ottici allora conosciuti. Ebbene, il lavoro dell’Huyghens, per quanto profondo e persuasivo, rimase affatto dimenticato. Nè valse a tirarlo dall’oblio l’autorità dell’Euler che dal 1746-1752 prese a difendere la teoria delle ondulazioni. — Nel 1801, Young, facendo meglio risaltare il principio delle interferenze luminose, la sviluppa ancora più ampiamente. Ma perfino il suo lavoro rimase non curato. Solo noi 1815 riuscì a Fresnel, sostenuto da Arago, contro Biot e Poisson, partigiani del Newton, di rivendicare la teoria delle ondulazioni; illustrandola colla famosa esperienza degli specchi, che portano il di lui nome, e sviluppandola al punto che, infine, fu da tutti accettata. — Quasi duecento anni occorsero, perchè la più bella teoria della fisica potesse trionfare, e con essa fosse reso il dovuto onore al Grimaldi suo divinatore. Anzi, se si tien conto che la teoria delle ondulazioni ha bandito finalmente dalla fisica i fluidi imponderabili, creati per mascherare la nostra ignoranza; che magnetismo, elettricità, calore, luce, azione attinica, non sono in grazia alla medesima che fenomeni della stessa natura, diversi solo per numero di vibrazioni; che tutto dunque giudicato alla stregua di sì splendida teoria, si unifica; trovo la concezione del Grimaldi altrettanto fondamentale per la fisica, quanto il principio di inerzia del Galileo per la meccanica, la legge di gravitazione del Newton per l’astronomia, la teoria atomica del Dalton per la chimica. — Materia o moto, indistruttibilità di quella, conservazione e trasformazione di questo. Unità nell’infinita varietà.
Fra i molti problemi intorno ai quali si esercitarono maggiormente i fisici del 600, abbiamo visto figurare la pressione dell’aria, la sua dilatazione pel calore, l’ebullizione dei liquidi, la forza elastica del vapore. — Ed ecco come da un complesso di nozioni pian piano acquisite alla scienza sorge poi tale un’invenzione, che ha sconvolti gli usi della vita, rotte le barriere fra le nazioni, rialzato l’operaio dalla materialità del facchino a dignità d’uomo pensante, rinnovellate le industrie; — intendo parlare della macchina a vapore.
Naturalmente essa non poteva uscire completa dalla mente di un solo, e tutte le nazioni fanno a gara per attribuirsi la lor parte di merito.
Da noi non mancò qualche tentativo por adoperare il vapore come forza motrice. Ragionando sull’eolipila di Erone Alessandrino, il Porta, ancora nel 1601, si domanda in quante parti d’aria, come allora chiamavasi il vapore, si trasformi un dato volume d’acqua, e riesce con un semplicissimo apparecchio a sollevar l’acqua, per sola pressione di vapore. Nel 1629 Giovanni Branca, architetto della chiesa di Nostra Donna di Loreto, pubblica un trattato “Delle macchine artificiose, tanto spirituali che animali di molto artificio per produrre effetti meravigliosi„ nel quale propone che una grossa eolipila getti il vapore contro una ruota a palette, destinata a far muovere un piccolo mulino. Ma qui finiscono i titoli nostri per l’applicazione diretta del vapore quale forza motrice. Non va dimenticato però, che le esperienze o le leggi su cui la portentosa macchina posa, quasi tutte in Italia per primo furono eseguite o dedotte.
Era in Inghilterra, dove l’attività industriale è più fiorente, che maggiormente si sentiva il bisogno di utilizzare le forze della natura. Nel 1655 il marchese di Worcester pubblica le sue cento invenzioni, ed ottiene un brevetto per una macchina a vapore atta a sollevar l’acqua.
Nel 1681 e seguenti, l’infelice Papin, dopo aver soggiornato qualche tempo in Inghilterra, comprende il vero spirito delle macchine a vapore, inventa la pentola che porta il di lui nome, la valvola di sicurezza, e giunge persino a mandare un battello sul Weser, por morir povero e dimenticato in una soffitta, fra i rottami delle sue macchine. — Segue Savary nel 1698. Con Newcomen e Cowley nel 1705 ci troviamo di fronte a una vera macchina a vapore che aspetta il suo perfezionamento da Watt, per correre con Stewenson e Fulton da un capo all’altro del mondo.
Vediamo ora l’Italia, che ha dato per prima il melodramma, costruito il pianoforte, perfezionato tant’altri strumenti; “la terra dei fiori, dei suoni, dei carmi,„ quanto abbia prodotto nel campo dell’acustica.
Ancora nel XI secolo Guido d’Arezzo inventa le note, e le nomina colle prime sillabe d’ogni versetto dell’Inno di San Giovanni. — Giuseppe Zerlino, nato a Chioggia nel 1540, e Vincenzo, padre del Galileo, scrivono di musica teorica; ma la parte fisica dell’acustica incomincia solo con Galileo Galilei. Fu esso a dimostrare che per corde eguali ed egualmente tese, la durata di oscillazione è proporzionale alla loro lunghezza. Provò pure che l’acutezza del suono sale o scende col crescere o diminuire delle vibrazioni. Avvertì, che strisciando dolcemente con un dito bagnato il bordo d’un bicchiere, contenente dell’acqua, si ottiene un suono, e fin che esso dura la superficie dell’acqua si increspa, producendo una specie di stella. E si domanda: se non sarebbe possibile fissare queste figure acustiche per poterle con più agio studiare. Rammenta allora l’esperienza occorsagli con una lastra di ottone, che messa in vibrazione e cospersa di rena, questa si disponeva in una serie di linee distribuite con simmetria. Sono le belle figure illustrato poi dal Cladni, e note sotto il di lui nome; ma prima d’ogni altro ottenute dal Galileo.
Ho già detto delle esperienze eseguite in Firenze dal Borelli e dal Viviani, e riportate nei “Saggi„ sulla velocità di propagazione del suono, che dettero per risultato un valore di ben poco differente da quello ammesso presentemente. Nè so comprendere come di queste nostre esperienze non si faccia mai cenno nei libri di fisica italiani, ne’ quali si riportano regolarmente quelle eseguite in Francia. — Va pure notato che il primo a mostrare come la velocità di propagazione del suono aumenti col crescere della temperatura fu il medico Bianconi.
I risultati delle esperienze da esso eseguite a Bologna a temperature di -2 a +28° R. sono riportati in un opuscolo “Della diversa velocità del suono„. (Venezia, 1746).
Newton, che introdusse pel primo l’analisi matematica nelle quistioni acustiche, calcolò teoricamente la velocità di propagazione del suono; ma trovò che risultava solo 5/6 di quella data dalle esperienze. Per metter d’accordo i due risultati furono escogitate numerose ipotesi; ma il primo che accennò alla vera causa fu il nostro Lagrange, senza però svolgere completamente l’idea balenatagli. Sicchè durante tutto il settecento la quistione interessò in sommo grado tutti i cultori delle scienze, e solo nel 1816 La Place mostrò che realmente bisognava recare la correzione ideata dal Lagrange; perchè, mentre la temperatura dell’ambiente non varia col propagarsi delle onde sonore, compensandosi il freddo prodotto dalla rarefazione col maggior calore prodotto dalla compressione, questa variazione di temperatura nelle parti dell’onda modifica però l’elasticità dell’aria, e con ciò la velocità di propagazione del suono.
Un altro problema della più alta importanza, che si proposero, non solo i cultori della fisica, ma ben anco i maestri di musica, i matematici, i filosofi, fu quello di trovare la ragione, perchè due suoni armonizzino quando fra i numeri delle loro vibrazioni esista un rapporto semplice, mentre in caso diverso, o se il rapporto semplice è appena alterato, riescono dissonanti.
Fortunatamente alla risoluzione del problema contribuirono in larga parte due italiani.
Verso la metà del seicento Marigni inventa la sua “Trombetta Marina„, che viceversa non era poi una trombetta, e nemmeno un istrumento a fiato, bensì una specie di grosso sonometro. Su d’una cassa di risonanza di forma piramidata era tesa una corda, che dava una nota stridula, somigliante a quella di una trombetta, in causa del tremito della staffa cui era raccomandata la corda contro la cassa stessa sulla quale posava leggermente.
A mezzo del suo strumento mostrò, non solo che si può ottenere dalla corda un seguito di note i cui numeri di vibrazione crescono come la serie dei numeri interi; ma ben anco che queste medesime note accompagnano la fondamentale, e si possono percepire separatamente, toccando leggermente la corda in vibrazione alla sua metà, terzo, quarto, ecc. Sono questi i toni armonici, o meglio superiori, dai quali appunto, oltre il timbro musicale, dipende anche la consonanza. E coi medesimi, a definire l’armonia concorrono, o li suppliscono se mancanti, i suoni detti di Tartini.
Nacque Tartini nel 1692 a Pirano d’Istria, e fu destinato al sacerdozio. Ma lasciò ben presto la teologia per la legge, anzi, per essere più precisi per la scherma, sua passione favorita. Ammogliatosi segretamente, appena s’accorse d’essere incorso nella collera dello zio, il cardinale Cornaro, abbandona la moglie, e si ritira nel convento di Assisi. La calma del chiostro e sopratutto la compagnia d’un bravo monaco, esperto in musica, risvegliano in lui una latente passione per quest’arte geniale, così che in due anni diventa famoso nel suonare il violino. Calmatosi lo sdegno dello zio, lascia il convento, e in un concerto a Padova rapisce talmente gli uditori, che la sua fama corre da un capo all’altro d’Italia.
Nel 1714 avverte che quando si suonino ad un tempo due note, se ne percepisce una terza più bassa; per esempio: con un DO3 ed un LA3 si sente un FA2.
Chiamò questo nuovo tono, dato dalla combinazione degli altri due “il suo terzo suono„; e fu poi detto di Tartini.
Ora questi terzi toni, quando il rapporto fra le due note che li generano non sia preciso, possono dar luogo ai battimenti, segnano quindi la disarmonia e suppliscono là dove mancano i toni superiori. Interessante si è il sapere che Tartini nel suo “Trattato di musica secondo la vera scienza dell’armonia„ (Padova 1754) e nella “Dissertazione dei principi dell’armonia musicale contenuta nel diatonico genere„ (Padova 1767), non solo parla del suo terzo suono, ma espone l’idea che desso concorra nel definire l’Armonia.
Ed appunto sui toni armonici messi per primo in evidenza dal Marigni, sui battimenti illustrati dal Saveur, o sui toni di Tartini, detti poi di “sottrazione„ fonda Helmholtz la mirabile, e semplice sua teoria della consonanza.
Nel campo del magnetismo e dell’elettricità, all’infuori delle poche cose tentate dall’Accademia del Cimento, scendiamo fino a Beccaria prima di trovare qualche lavoro d’una certa importanza. Nel 1753 pubblica un’opera “Dell’elettricismo naturale ed artificiale„ e nel 1775 una seconda “Sull’elettricità atmosferica a cielo sereno„; preludio agli importanti lavori eseguiti poco appresso in Italia. È poi noto come una delle esperienze per mostrare la sede dell’elettricità sui buoni conduttori si faccia ancor oggi a mezzo d’un apparecchio chiamato “Pozzo di Beccaria„. Anche Tiberio Cavallo napoletano, eseguì, sopratutto in Inghilterra, molte osservazioni sull’elettricità atmosferica, che assaggiava a mezzo di un suo elettrometro.
I progressi della fisica e dell’elettricità in ispecie nell’ultimo quarto del 700 si collegano troppo strettamente colle prime scoperte del 1800, per poter essere qui con utilità, sia pur di volo accennati.
Quanto cammino lo svolgersi dell’umano pensiero!
Alle incerte notizie d’una civiltà orientale, a quelle più sicure dei Caldei e degli Egiziani ecco sovrapporsi la splendida civiltà greca, speculativa ed artistica per eccellenza, che ci tramanderà con Aristotile il vangelo scientifico su cui giureranno per lunghi secoli le generazioni future, o con Anassagora e poi Epicuro l’idea Atomistica, che rifatta sulle basi dell’esperienza, sarà leva potentissima allo sviluppo dello scienze e della Chimica in modo particolare.
Coll’invasione degli Arabi vediamo dispersa la famosa scuola Alessandrina, e tesori di sapere, sopratutto nel campo filosofico e matematico perduti. E mentre la più fitta tenebra della barbarie pare voglia stendersi per ogni dove, ecco gli Arabi stessi, che si fanno cultori delle scienze, danno novello impulso agli studi astronomici e chimici, e risvegliano, co’ profughi greci, il culto alle scienze anche in Occidente. Ma breve è il periodo, e strana cosa, un popolo giunto rapidamente ad un elevato grado di civiltà, torna pressochè nomade alle sue terre.
Per lunghi secoli nelle Università che s’erano venute formando per prime in Italia, dove maggiore era il bisogno d’emanciparsi dai ceppi d’un’istruzione, diretta solo da ecclesiastici, non si insegna che ciò che dagli antichi ci pervenne, non si riconosce che Aristotile. Epoca ingloriosa, appena marcata di quando in quando da qualche accenno a novità, subito represso.
Ma l’aurora dell’Umanesimo spunta appena in Italia, che già le arti e la letteratura, con gigantesco progresso illuminano della luce più viva i secoli XIV, XV, XVI; nè la scienza può rimanere estranea a questo ridestarsi di ogni attività, e con Galileo getta le basi di quella filosofia positiva, che, caratterizzata dal motto della Accademia del Cimento Provando e riprovando sarà base incrollabile allo svolgersi ulteriore dell’umano pensiero. Splendida epoca, orgoglio nostro, ed in modo particolare di questa terra toscana, sorriso d’Italia.
Che vale l’opporsi dell’oscurantismo prepotente? Avrà i suoi martiri anche la scienza, e saran seme di novello progresso.
E se le persecuzioni diraderanno le file dei cultori delle scienze in Italia, sorgeranno i Newton, gli Huyghens e tant’altri, a strappar nuovi segreti alla natura, chè la scienza è universale.
Certo l’amore del natìo loco fa rimpiangere che al periodo glorioso di Galileo e dell’Accademia del Cimento, abbia fatto seguito un lungo volger di anni scarso, in confronto alle altre nazioni, di mosse, benchè non privo di nobili ingegni che a quando a quando gettarono sprazzi di luce foriera di nuovi veri.
E la sua parte nel decadimento scientifico d’Italia, specialmente nella prima metà del 700, va data alle condizioni politiche della penisola.
La parte meridionale oppressa da un governo superstizioso e sleale, che si regge sull’ignoranza de’ popoli, a grande stento, e scarsamente diradata dalle sapienti divinazioni del Vico, e dalle animose riforme del Tanucci.
La media Italia in balìa di una corte pontificia, dove anche la geniale od austera personalità di pontefici come i XIV Benedetto e Clemente, s’infrange contro l’assolutismo del dogma e la tirannìa degli ordini religiosi.
In Toscana fiacco il costume, fiacco lo studio, sonnolenta l’intera esistenza per colpa di un governo, tanto più biasimevole quanto più illuminato.
I Ducati covo di tiranelli altrettanto impotenti quanto prepotenti.
L’Austria che spadroneggia nel milanese, ed agogna ad assoggettarsi l’Italia intera, non mai sazia di asservire al suo ibrido governo quante più nazionalità le venga fatto.
A Venezia una Repubblica oligarchica, intente le menti più elette a conservare un potere che si veniva fiaccando.
E nel piccolo Piemonte, la futura speranza d’Italia.
Non dissimile l’Italia dalla Germania, colla differenza che i molti stati che componevano quest’ultima, erano almeno retti da Principi tedeschi, e che la riforma di Lutero vi aveva spirato un soffio di vita nuova, mentre l’Italia era alla mercede dell’Austria e della potenza papale nemica del progresso.
E così è che la Germania come l’Italia ben poco producono nel campo scientifico durante la prima metà del settecento; e di pari passo colla scienza decadono l’arte, la letteratura, la filosofia.
Epoca di reazione e rilasciatezza ben triste, e tale da far dubitare se il nuovo metodo di indagine sperimentale potesse riuscire ad emancipare il pensiero, e guidar l’uomo sulla feconda via del progresso.
Ma la forza del progresso è inesorabile e come fiumana trattenuta da improvvisi scoscendimenti per poco ristagna, per irrompere con maggior impeto e più veloce alla meta; così l’umano pensiero, che attraverso a mille ostacoli, sulla base del positivo rifà la strada de’ secoli passati, e dalle leggi della natura assurge alle cause supreme, non torturando coi dogmi; ma persuadendo coi fatti; non seminando livore, odio, vendette; ma brillando iride di pace a tutti i popoli.
E già sorgono, precursori di nazionale risveglio, i grandi poeti, e nuovi veri, destinati a portare una profonda rivoluzione nella vita delle nazioni ed a dare al secolo nostro un’impronta per la quale andrà famoso ai futuri, spuntano all’orizzonte.
Il lento oscillare della lampada nella cattedrale di Pisa fu poca favilla che gran fiamma seconda e con Galileo illuminò il mondo intero.
L’inconsciente contrarsi della rana nel gabinetto del Galvani è scintilla che sprigiona dall’acuta mente del Volta la portentosa pila.
Un filo elettrico attraversa la sala. Milioni di vibrazioni ogni secondo lo agitano. Trasmetteranno esse a dinamo potenti, dalle quali alla lor volta furono suscitate, un raggio moderno di sole, rapitogli dall’acqua, che nell’amplesso dell’Oceano evapora e si solleva, per ricadere pioggia benefica su monti, dai quali rive, torrente, fiume, precipitando, confida a congegni meccanici la sua preda? Oppure un raggio di sole antico, che per potenza di piccolo seme immagazzinò nelle vetuste piante, ora fossilizzate, l’energia di tempi remoti, quando l’uomo non ancora calcava la terra di cui scruta ora i segreti?
E quel raggio di sole trascinerà esso per erta pendice il fardello dell’uomo nel suo incessante affaticarsi? aiuterà, apprestandogli i mezzi, il lavoratore nella lotta per la vita? fornirà a popoli oppressi l’arma della difesa, o servirà a ribadire tormento di guerra, le loro catene? Per quel filo passerà la voce armoniosa dell’amicizia o quella stridula dell’interesse? la dolce voce del conforto, o quella rauca della calunnia? Detterà quel filo le burrascose vicende della politica, o le pacifiche conquiste della scienza?!
Io vorrei che quel filo trasmettesse in questo momento a ciascuno di voi i miei più vivi ringraziamenti per la benevola attenzione prestatami, e riportasse a me l’eco del vostro gentile compatimento.