Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione dall'inglese di Ernesto Ragazzoni (1896)
1846
Questo testo fa parte della raccolta Edgar Allan Pöe




LA GENESI D’UN POEMA





La Genesi di un poema (The philosophy of composition), l’analisi, la ricostituzione che Pöe ha fatto della composizione del suo «Corvo», è una delle più strane rivelazioni che autore abbia mai ideato: è un brano di fine umorismo, forse una mistificazione d’uomo di genio; chè per parte nostra non crediamo che il Corvo sia stato composto con si esatta geometria nel cervello.

In questa «Genesi» troveremmo tutt’al più la filosofia di quanto può essere chiamata la «meccanica» della «produzione», ma il lavoro primordiale dell’artista, l’intima concezione dell’opera, resta pur sempre a cercarsi nell’ispirazione.

Quando nelle sue veglie solitarie Pöe concepì e scrisse il «Corvo», quale meraviglia che, nella sua delicata sensibilità, egli abbia pensato di nascondere al malevolo e profano sguardo degli indifferenti tutta l’anima che vi aveva trasfuso?

È per questo, forse, che egli pubblicò il suo capolavoro sotto un pseudomino, e che volle sviare ogni traccia dalla sua origine con una mirabile finzione. Qui, ancora una volta, brilla tutta la finezza di osservazioni e l’acutezza di analisi della mente che ha creato il William Legrand dello «Scarabeo d’oro», e l’Augusto Dupin della «Lettera rubata».




La genesi d’un poema





I.


Carlo Dickens, in un articolo che in questo momento ho sott’occhio, parlando di un certo studio che altra volta io ebbi occasione di fare sul meccanismo del «Barnaby Rudge», così si esprime:

«Sapete voi, sia detto fra parentesi, che Godwin scrisse il suo «Caleb William» incominciando dalla fine? Sicuro! egli cominciò ad avviluppare il suo eroe in una rete di difficoltà che costituiscono la materia del secondo volume, e poi, per comporre il primo, si diede ad immaginare come avrebbe potuto giustificare quanto aveva già scritto».

Che questo sia veramente stato il procedimento usato dal Godwin, io ne dubito; anzi il cenno che egli ci lasciò sul suo lavoro, non è tale da confermare l’opinione del sig. Dickens, tuttavia l’autore del «Caleb William», da quel perfetto artista che era, non avrebbe certamente esitato a riconoscere tutta l’eccellenza di un consimile metodo di composizione e tutto il vantaggio che, in ogni caso, ne avrebbe potuto trarre.

Ed infatti è evidente che un’idea qualunque di narrazione, degna veramente del nome di idea, deve essere elaborata e ponderata profondamente, in vista del fine cui si tende, prima ancora che la penna abbia toccato la carta.

Non è che coll’avere sempre avanti agli occhi il completo svolgimento del lavoro, che noi possiamo dare a un disegno di composizione la sua indispensabile fisonomia di conseguenza e casualità, curando che tutti gli avvenimenti, e particolarmente l’intonazione generale, convengano in modo diretto allo sviluppo della nostra concezione.

C’è, a mio avviso, un errore radicale nel metodo generalmente usato per comporre una novella.

Talvolta è la storia che fornisce un argomento; talvolta è un accidente qualunque della giornata, oppure, nel migliore dei casi, è l’autore che, inspirato da qualche combinazione di episodii interessanti, fa di quelli lo sfondo dell’opera sua e scrive, riservandosi di colmare poi colla descrizione, col dialogo ed anche con opportune riflessioni personali, le lacune del fatto e dell’azione che potessero, di pagina in pagina, farsi più evidenti.

Per me la prima di tutte le considerazioni è quella di un effetto a produrre.

Sempre in vista l’originalità (chè s’ingannerebbe a partito chi credesse di poter far senza questo mezzo tanto evidente quanto facile per ottenere che il lettore s’interessi ad un’opera), sempre in vista l’originalità, anzitutto mi dico: Fra gli innumerevoli effetti od impressioni che il cuore, l’intelletto, o, per parlare più generalmente, l’anima, è suscettibile di ricevere, quale sceglierò io nel caso presente?

Fatta anzitutto la scelta del soggetto, poi quella dell’effetto che voglio produrre, mi dò a ricercare se è cogli episodii della narrazione, o colla forma da usarsi, che io posso meglio riuscire; se con episodii volgari e con uno stile speciale; se con episodii singolari e con una forma ordinaria, o se con una eguale singolarità di fatti e di stile.

Poi cerco intorno a me (o più spesso in me) quali combinazioni di fatti e di stile possano meglio aiutarmi a creare l’effetto voluto.

Spesso ho pensato quanto sarebbe interessante un articolo di Rivista, in cui un autore qualunque volesse — o meglio potesse — narrare il procedimento che egli ha gradatamente seguìto in una qualsiasi delle sue composizioni sino al completo suo svolgimento. Non saprei dire il perchè un siffatto lavoro non sia stato finora dato al pubblico: la vanità degli autori c’entra forse per qualche cosa.

Il maggior numero degli scrittori — i poeti sopratutto — amano meglio lasciar credere che essi compongono in una specie di esaltazione, di estasi, di rapimento, e si vergognerebbero se il pubblico, gettando uno sguardo dietro la scena, potesse contemplare l’indeciso embrione del loro pensiero: la decisione presa solo all’ultimo momento; l’idea, tante volte travista, ribellarsi per tanto tempo prima di lasciarsi cogliere in piena luce; le frasi già arrotondate e poi gittate con disperazione perchè inadattabili; la scelta prudente, i rifiuti, le raschiature rabbiose e le penose interpolazioni; infine tutti i congegni, i meccanismi, gli spedienti, i trabocchetti, le truccature, i belletti, che, in novantanove casi su cento, costituiscono tutto l’apparato scenico dell’istrione letterario.

Oltrecciò non è facile per un autore il rifare la via da lui seguìta per svolgere completamente un concetto le idee, sorte nella mente alla rinfusa, furono seguìte e scordate nella stessa maniera.

Io però non provo ripugnanza nè difficoltà a richiamare alla mia mente il cammino progressivo, le fasi per cui è passata una qualunque delle mie composizioni e ad analizzarle; e poichè l’interesse di questa analisi e di questa ricostruzione (che io ho sempre considerato come un desideratum in letteratura) è del tutto indipendente dall’interesse reale supposto nella cosa analizzata, così non mi s’accuserà di mancare alle convenienze se svelo qui il modus operandi, mediante il quale ho potuto costruire uno dei miei lavori.


II.


Scelgo il Corvo, siccome uno dei più conosciuti. Voglio persuadere il lettore che nessun punto della sua composizione è dovuto al caso od alla ispirazione, e che l’intera opera ha proceduto grado a grado alla sua soluzione colla rigida logica di un problema di matematica.

Tralascio, perchè non riguardante il poema per sè stesso, le circostanze in cui mi nacque l’idea di comporre un poema che soddisfacesse, ad un tempo, il gusto dei lettori, e le esigenze della critica.

Ciò premesso, comincio la mia analisi:

La prima considerazione fu quella della dimensione. Se un lavoro letterario è lungo, così da non poter essere letto tutto in una volta, bisogna che l’autore si rassegni a perdere l’effetto prodigiosamente importante che risulta dall’unità d’impressione.

Infatti se sono necessarie, per la lettura, due sedute, fra queste s’interpongono le mille cure delle vita, e, ciò che si chiama l’insieme, viene distrutto d’un colpo solo.

Ma poichè, caeteris paribus, nessun poeta può privarsi di ciò che vale al proprio intento, non rimane che a vedere se nella lunghezza si possa trovare un qualche vantaggio che compensi la perdita d’unità.

E, subito, rispondo: No!

Quello che si dice un lungo poema, in realtà non è altro che una successione di poemi corti, o, meglio, di effetti poetici brevi.

È ovvio ripetere che un poema è solo poema quando solleva l’anima e le procura una intensa emozione. Da ciò la necessità fisica della breve durata comune a tutte le eccitazioni interne.

Per questa ragione una buona metà almeno del Paradiso perduto non è che pura prosa, non è che una serie di emozioni poetiche interrotte, inevitabilmente, da depressioni corrispondenti; l’opera tutta essendo privata — a causa della sua eccessiva lunghezza — di quell’elemento artistico così importante che è l’armonia o l’unità dell’effetto.

È pertanto evidente che nella dimensione v’è un limite preciso per tutte le opere letterarie, e questo limite è che la loro lettura possa essere compiuta in una sola seduta.

Quantunque certi generi di composizione in prosa — ad esempio il Robinson Crusoë — non reclamino il limite dell’unità di lettura, non ci sarà tuttavia mai vantaggio a sorpassarlo in un poema.

Ma, pur restando nel limite, la lunghezza di un poema deve trovarsi in rapporto matematico colla importanza del soggetto, vale a dire, coll’elevazione o coll’eccitazione cui esso trascina; ed in altri termini, colla quantità del giusto effetto poetico di cui può colpire uno spirito.

A questa regola non v’è che una sola condizione restrittiva, ed è che una certa quantità di durata è assolutamente indispensabile per la produzione di un effetto qualunque.

Fissate queste considerazioni così che questo grado di eccitamento non avesse a riuscire troppo superiore al gusto popolare, e non troppo al disotto delle esigenze della critica, concepii subito l’idea della lunghezza conveniente alla mia opera, una lunghezza di cento versi circa. In realtà, non ve ne sono che cent’otto.

Il mio pensiero si fermò poi a studiare ed a riflettere sulla scelta della impressione da produrre, e qui credo opportuno di osservare che a traverso di questo lavoro di costruzione, avevo sempre avanti agli occhi l’idea di comporre un’opera apprezzabile universalmente.

Sarei portato troppo lungi dal mio soggetto immediato se qui volessi darmi a dimostrare una cosa su cui più d’una volta ho insistito, e cioè che il Bello è il solo dominio legittimo della poesia.

Dirò tuttavia qualche parola per chiarire alquanto il mio pensiero, che qualche amico s’è affrettato a travisare.

Il piacere più intenso, più elevato, il più puro, non si trova, io credo, che nella contemplazione del Bello.

Quando si dice la Bellezza s’intende, non precisamente una qualità, come i più suppongono, ma un’impressione; in poche parole, si ha in mente quella violenta e pura elevazione dello spirito — non dell’intelletto più che del cuore — che ho già notato e che è il risultato della contemplazione del Bello.

Ora io dico che la bellezza è il dominio della poesia, poichè è legge evidente dell’arte che gli effetti debbono necessariamente nascere da cause dirette, che gli obbietti devono essere conseguiti coi mezzi più adatti, nessuno essendosi ancora mostrato così sciocco per negare che l’elevazione singolare di cui parlo sia più facilmente ottenibile col mezzo della poesia.

L’obbietto Verità, o soddisfazione dell’intelletto, e l’obbietto Passione, o eccitamento del cuore, benchè essi pure, sino ad un certo punto, alla portata della poesia, sono assai più facili ad ottenersi mediante la prosa.

Infatti la Verità richiede troppa precisione, e la Passione troppo abbandono.

(Quelli veramente appassionati mi comprenderanno).

La verità e la passione sono quindi assolutamente contrarie a quella Bellezza, che non è altro, lo ripeto, che l’eccitamento ed il dolce entusiasmo dell’anima.

Ben inteso che da ciò non consegue affatto che la passione, od anche la verità, non possano essere con vantaggio introdotte in un poema, imperocchè esse possono servire a secondare e ad aumentare l’effetto generale, come le dissonanze in musica, per contrasto; ma il vero artista si studierà sempre, in primo luogo, di ridurle a prestazioni favorevoli allo scopo prestabilito e poi di sollevarle, per quanto potrà, in quel nimbo di bellezza che è l’atmosfera e l’essenza della poesia.

Considerato quindi il Bello come il solo dominio del poeta, passai in seguito a domandarmi qual fosse il tono della sua più alta manifestazione.

La risposta fu facile.

Ogni esperienza dimostra che questa intonazione è quella della tristezza.

Infatti una bellezza, di non importa qual specie, nella sua espressione suprema, invita inevitabilmente al pianto un’anima sensibile.

La melanconia dunque è il più legittimo dei tòni poetici.


III.


Determinate così la lunghezza e l’intonazione del mio poema, mi misi a ricercare, per via d’induzioni del tutto comuni, una qualche curiosità artistica ed interessante, di cui potessi servirmi come di chiave per la sua costruzione; di qualche perno, su cui far girare la mia macchina.

Meditando attentamente sopra tutti gli effetti di arte conosciuti, o, più propriamente, sopra tutti i mezzi d’effetto (la parola intesa nel suo senso scenico), non potevo a meno di riconoscere immediatamente che nessuno era stato più generalmente impiegato che quello del ritornello.

La generalità del suo uso bastava a convincermi del suo valore, e mi risparmiò la necessità di sottometterlo all’analisi.

Considerai tuttavia che, essendo il ritornello ancora allo stato primitivo, era suscettibile di perfezionamento. Così, come lo si usa comunemente, il ritornello, non solo è limitato alla poesia lirica, ma anche il vigore della impressione che deve produrre, dipende unicamente da una potenza di monotonia, tanto nel suono, quanto nel concetto.

Il piacere che ne risulta non proviene altro che dall’identità e dalla ripetizione.

Io stabilii di variare l’effetto, allo scopo di aumentarlo; di restare, cioè, generalmente fedele alla monotonia del suono, mentre alteravo continuamente quella del pensiero: vale a dire, io mi promisi di produrre una serie continua di effetti nuovi per mezzo di una serie di applicazioni variate del ritornello, mantenendolo però, in se stesso, sempre immutato.

Perchè l’applicazione potesse essere continuamente variata, è chiaro che questo ritornello doveva essere breve, altrimenti si sarebbe incontrata una insormontabile difficoltà nel variare di continuo le applicazioni di una frase un po’ lunga.

La facilità delle variazioni sarebbe stata naturalmente in proporzione della brevità della frase. Ciò mi condusse tosto a scegliere una sola parola come il miglior ritornello possibile.

Ventilai, dopo questa decisione, la questione relativa al carattere di questa parola.

Avendo stabilito che ci sarebbe stato un ritornello, ne conseguiva la divisione del poema in stanze, ciascuna terminante col ritornello.

Questa posa, questa fermata doveva essere naturalmente sonora e suscettibile di un’enfasi prolungata. Tale considerazione mi portò a scegliere l’o lungo, come la vocale più sonora, combinata coll’r, come la consonante la più robusta.

Essendo per tal modo determinato il suono del ritornello, dovevo scegliere una parola che lo racchiudesse, e nello stesso tempo si accordasse, il più possibilmente, con quella melanconia che avevo adottato come intonazione generale del poema.

In questa inchiesta sarebbe stato assolutamente impossibile il non cadere sulla parola Nevermore (mai più): fu infatti la prima parola che mi si parò alla mente.

Il desideratum seguente fu: Quale sarà il pretesto per l’uso continuo della parola mai più?

Notata la difficoltà che provavo a trovare una ragione plausibile e sufficiente per questa ripetizione continua, non mancai di accorgermi che questa nasceva unicamente dall’idea preconcetta che questa parola, così ostinatamente e monotonamente ripetuta, doveva essere profferita da un essere umano; che insomma la difficoltà consisteva a conciliare questa monotonia col funzionamento della ragione nella creatura destinata a ripetere la parola.

Concepii allora l’idea di una creatura non ragionevole, e pure dotata di parola, e, naturalmente, un papagallo mi si presentò prima alla mente; esso però fu ben presto detronizzato da un Corvo, questo potendo pure profferire qualche motto ed accordandosi assai più colla intonazione voluta.

Ero dunque infine giunto alla concezione di un Corvo — uccello di cattivo augurio — ripetente ostinatamente la parola — mai più — alla fine di ogni stanza, in un poema di intonazione malinconica, e di una lunghezza di un centinaio di versi circa.

Allora, sempre senza perdere di vista la perfezione possibile in tutti i punti, mi domandai: Di tutti gli argomenti melanconici, quale è il più malinconico, secondo l’universale intelligenza? — La morte! — risposta inevitabile. E quando, mi dissi, quest’argomento, il più malinconico, è anche il più poetico?

Da quanto ebbi già occasione di spiegare, si può facilmente indovinare la risposta: Quando egli si fonde intimamente colla Bellezza.

La morte quindi di una bella donna è incontestabilmente il tema più poetico del mondo, ed è in pari tempo fuor di dubbio che il labbro più appropriato a svolgerlo è quello di un amante desolato.

Mi rimaneva allora a combinare queste due idee: Un amante piangente la sua innamorata morta, ed un corvo ripetente continuamente la parola mai più.

Bisognava combinarle; ed avendo sempre presente l’idea di variare ad ogni volta l’applicazione della parola ripetuta, il solo mezzo possibile per una tale combinazione mi parve quello di immaginare un corvo, serventesi della parola stessa, per rispondere alle domande dell’amante.

E fu allora che m’accorsi, ad un tratto, della facilità che da ciò mi veniva offerta, per l’effetto che dal mio poema mi ripromettevo, vale a dire la produzione dell’effetto mediante il ritornello.

Capii che potevo far volgere la prima domanda, a cui il corvo doveva rispondere mai più, come un luogo comune; la seconda, come qualche cosa di meno usuale, la terza, qualche cosa di meno comune ancora, e così di seguito fino a che l’amante, tratto alla fine dal suo abbandono dal carattere lugubre della parola, e dal pensiero della riputazione sinistra dell’augello che la pronuncia, si trovi agitato dalla superstizione e lanci pazzamente delle richieste di un carattere affatto differente; domande appassionate ed interessanti pel suo cuore; domande rivolte un po’ per un sentimento di superstizione, un po’ per quella disperazione singolare che trova una voluttà nella sua tortura, e ciò non già perchè l’amante creda al carattere profetico e demoniaco della bestia (chè la ragione gli dimostra non ripetere se non una lezione lungamente udita ed imparata), ma perchè egli prova una frenesia a formulare le sue domande ed a riceverne in risposta il mai più sempre atteso, ferita ripetuta e tanto più deliziosa, inquantochè essa è insopportabile.

Vedendo dunque questa facilità che mi era offerta, o, per meglio dire, che mi s’imponeva nel progresso della mia composizione, giunsi alla domanda finale, alla questione suprema, alla quale il mai più doveva servir di suprema risposta; questa domanda, cui il mai più fa la replica la più disperata, la più orrenda, la più dolorosa possibile.


IV.


Qui dunque potrei dire che il mio poema aveva trovato il suo principio — dalla fine, come dovrebbero cominciarsi tutte le opere d’arte ― imperocchè fu allora che presi per la prima volta la penna e scrissi la stanza che segue:


     O profeta, urlai, profeta, spettro o augel, profeta ognora!
          per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora,
          di’ a quest’anima se ancora, nel lontano Eden lassú,
          potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
          a una Vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!
                                                                      Mormorò l’augel: Mai più!

Composi questa strofa, prima per stabilire il grado supremo dell’intonazione del poema e poter, a mio agio, variare e graduare, secondo la loro gravità e la loro importanza, le domande precedenti dell’amante, poi per stabilire il ritmo, il metro e la struttura generale della stanza, così da poter graduare le stanze che dovevano precedere in modo che nessuna avesse a sorpassare quest’ultima per effetto ritmico.

Se io, nel lavoro di composizione che doveva seguire, fossi stato tanto maldestro da costruire stanze più vigorose di questa, mi sarei studiato, deliberatamente e senza scrupolo alcuno, ad indebolirle così, da non guastare l’effetto del crescendo.

Non sarà inutile che io dica qui qualche parola sulla verseggiatura. Il mio scopo era, come sempre, l’originalità. Perchè l’originalità sia stata tanto dimenticata nella tecnica della versificazione, è una delle cose per me più inesplicabili. Ammesso anche che non possa esservi gran che di varietà nel ritmo stesso, è però evidente che le combinazioni possibili di metro e di strofa sono infinite, eppure, per secoli e secoli, nessuno ha mai escogitato, in fatto di versificazione, qualche cosa di originale.

Il fatto è che l’originalità (eccetto nelle anime di forza affatto insolita) non è per nulla, come qualcuno suppone, cosa di istinto o di intuizione.

In tesi generale, per trovarla, convien cercarla laboriosamente, e, benchè essa sia un attributo positivo delle classi più elevate, è meno lo spirito di invenzione che lo spirito di negazione, che ci fornisce i mezzi per conseguirla.

Certo io non pretendo ad alcuna originalità nel ritmo e nel metro del Corvo. Il primo verso di ogni stroffa è trocaico, il secondo si compone di un ottonario acatalettico, alternato con un eptametro catalettico, che, ripetuto, diventa ritornello al quinto verso, e termina con un tetramento catalettico.

Per parlare senza pedanteria, i piedi impiegati sono trochei — una sillaba lunga seguìta da una sillaba breve ― il primo verso della stanza è composto di otto piedi di tale natura, il secondo di sette e mezzo, il quinto pure di sette e mezzo, il sesto di tre e mezzo.

Ora ciascuno di questi versi, preso isolatamente, è già stato impiegato.

L’originalità consiste nell’averli combinati nella stessa stanza.

Nulla che possa, anche da lungi, rassomigliare a questa combinazione, è stato fin qui tentato.

L’effetto di questa combinazione originale è aumentato anche da qualche altro effetto inusitato ed assolutamente nuovo, tratto da una applicazione più estesa della rima e della alliterazione.

La questione da risolvere in seguito era quella della maniera di mettere in comunicazione l’amante ed il corvo, e perciò doveva essere determinato il luogo.

Sembra che l’idea, che, in questo caso, avrebbe dovuto da sè presentarsi al pensiero, sarebbe stata quella di una foresta o di una pianura, ma a me è sempre parso che uno spazio stretto e chiuso sia assolutamente necessario per l’effetto di un incidente isolato, e gli dia quell’energia che una cornice aggiunge ad una pittura.

In ogni modo c’è sempre il vantaggio morale, restringendo il quadro, di restringere anche l’attenzione, e questo vantaggio, non occorre dirlo, non dev’essere confuso con quello che può essere trattato dalla semplice unità di luogo.

Risolvetti dunque di mettere l’amante nella sua camera, in una camera santificata per lui dai ricordi di quella che vi aveva vissuto.

La camera è addobbata riccamente, e ciò in vista di soddisfare alle idee già ricordate intorno alla bellezza, come il solo e vero tema della poesia.

Determinato il luogo, mi occorreva introdurvi il corvo, e l’idea della finestra era inevitabile.

Che l’amante supponga, prima, che il battito delle ali contro la persiana sia invece un colpo battuto alla porta, è un’idea che mi è nata nel desiderio di accrescere, coll’attesa, la curiosità del lettore, e per porre così l’episodio incidentale della porta spalancata dall’amante, che non vede che tenebre, e che in quel momento può ammettere l’idea fantastica che sia lo spirito della sua innamorata, quello che è venuto a bussare alla sua porta.

Ho fatta la notte tempestosa, in primo luogo, per spiegare questo corvo cercante un rifugio, poi per creare l’effetto di contrasto colla tranquillità materiale della camera.

Parimenti ho fatto appollaiare la bestia sul busto di Minerva, per creare il contrasto tra il marmo e le penne.

Si capisce che l’idea del busto mi venne suggerita unicamente dall’idea del corvo. Il busto di Minerva (Pallas) venne scelto pel suo intimo rapporto coll’erudizione dell’amante, ed anche per la sonorità della parola Pallas.

Verso la metà del poema, ho di nuovo approfittato della forza del contrasto per preparare l’impressione finale.

Perciò diedi all’entrata del corvo un aspetto fantastico e quasi comico, per quel tanto almeno che l’argomento me lo poteva permettere:


          Egli entrò con gran strepito di penne
          . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
          Ei non fece inchin di sorta, non fe’ cenno alcun, ma giù,
          come un lord, od una lady, si diresse alla mia porta.

Nelle due stanze che seguono, il disegno è ancor più manifesto:


     Quell’augel d’ebano allora, così tronfio e pettoruto
          tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto,
          e, sebben spiumato e torvo, — dissi — un vile non sei tu
          certo, o vecchio, spettral corvo, della tenebra di Pluto!
          Qual nome a te gli araldi danno a corte di re Pluto?
                                                            Disse il corvo allor: Mai più!

     Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse
          la parola, e, benchè quelle fosser sillabe sconnesse,
          trasalii, chè, in niuna sorta di paese fin qui fu
          dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta,
          un augello od una bestia aggrappato ad una porta
                                                            Con un nome tal: Mai più!

Preparato così l’effetto finale, abbandonai immediatamente l’intonazione fantastica per un’altra più severa e più profonda. Questo mutamento di forma comincia subito col primo verso della stanza che segue quella sopra citata:


          Ma severo e grave il corvo più non disse, e stette come
          s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome,

Da questo punto, l’amante non scherza più; egli non s’avvede neppur più che vi sia del fantastico nell’attitudine dell’uccello. Egli parla di lui come di un

feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto,

egli sente i di lui occhi riempirlo di spavento.

Questa evoluzione del pensiero, questa immaginazione nell’amante, ha per iscopo di prepararne una analoga nel lettore, di guidarlo alla scena suprema che sta per avvicinarsi il più direttamente ed il più rapidamente possibile.

Col finale propriamente detto, espresso dal — mai più — del corvo, risposto al quesito finale dell’amante (se cioè egli troverà l’innamorata in altra vita), il poema, nella sua fase più chiara, più naturale — un semplice racconto — può essere considerato finito.

Fino a questo punto le cose sono rimaste nei limiti del comprensibile, del possibile.

Un corvo ha ritenuto, a furia di averla sentita ripetere, una sola parola: mai più; ed essendo sfuggito alla sorveglianza del suo proprietario, è ridotto, sulla mezzanotte, durante l’imperversare di un turbine, a chieder l’asilo ad una finestra da cui brilla ancora una luce: la finestra di uno studioso, immerso nei libri, e nel ricordo di una innamorata morta.

La finestra si spalanca, egli entra, va ad appollaiarsi nell’angolo più adatto, fuori dalla portata immediata dello studioso, che, divertendosi dell’incidente e del bizzarro contegno dell’ospite, gli domanda, scherzando, e senza neppure attendersi una risposta, il suo nome.

Il corvo, interrogato, risponde col suo ritornello: — mai più — parola che trova un’eco malinconica nel cuore dello studioso; e questi, esprimendo ad alta voce i pensieri che gli sono suggeriti dalla circostanza, è colpito di nuovo dalla ripetizione del — mai più.

Lo studioso si lascia andare a congetture dettate dal caso, ma egli è spinto ben tosto, dall’ardore del suo cuore, a torturare sè stesso, e così, per una specie di superstizione, a proporre all’uccello domande scelte per modo che la risposta attesa, l’intollerabile mai più, debba recare a lui, amante solitario, la più tremenda messe di dolore.

È in questo senso del cuore, spinto a limite estremo, che il racconto, in ciò che io chiamo la sua prima fase, la fase naturale, trova la sua naturale conclusione, e nulla fin qui si è mostrato che esca dai limiti del possibile.

Ma, in soggetti adoperati in tal guisa, con qualunque abilità essi lo siano, con qualunque lusso di incidenti che si possa supporre, c’è sempre una certa asprezza, una crudità che stona all’occhio dell’artista.

Due cose sono continuamente richieste: l’una, una certa misura di complessità o più propriamente di combinazioni; l’altra, una certa quantità di spirito suggestivo, qualche cosa come una corrente sotterranea del pensiero, non visibile, indefinita.

È quest’ultima qualità che dà ad un’opera d’arte quell’aspetto opulento, quell’apparenza solenne che noi, troppo sovente e scioccamente, confondiamo coll’ideale.

È l’eccesso nella espressione di un sentimento che non deve essere che accennata, è la manìa di fare della corrente sotterranea di un’opera, la corrente visibile e superiore, che cambia in prosa, ed in prosa della specie la più volgare, la pretesa poesia dei sedicenti trascendentalisti.

Sicuro di queste mie opinioni, aggiunsi le due stanze che chiudono il poema.

La loro natura suggestiva è destinata a penetrare tutto il racconto che precede.

Il filo sotterraneo del pensiero si lascia scorgere per la prima volta in questi versi:


          Strappa il becco dal mio cuore, abbandona quella porta
                                                            Mormorò l’augel: Mai più!

Si noterà che le parole «dal mio cuore», racchiudono la prima espressione metaforica del poema.

Queste parole colla risposta mai più, dispongono la mente a cercare un senso morale in tutto il racconto sviluppato anteriormente.

Il lettore comincia a considerare il corvo come emblematico; ma non è poi che all’ultimo verso dell’ultima strofa che gli è permesso di vedere distintamente l’intenzione di fare del corvo il simbolo del Ricordo funebre ed imperituro:


     E la bestia ognor proterva, tetra ognora, è sempre assorta
          sulla pallida Minerva, proprio sopra alla mia porta.
          Il suo sguardo sembra il guardo d’un Dimon che sogni, e giù
          sui tappeti, il suo riflesso tesse un circolo maliardo;
          e il mio spirto stretto all’ombra di quel circolo maliardo
                                                            Non potrà surger mai più!

E. R.

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