< La giraffa bianca
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11. Caccia agli elefanti
10. In marcia 12. Sulle orme della giraffa bianca

11.

CACCIA AGLI ELEFANTI


Traversato il fiume, in un luogo ove era guadabile, la carovana riprese la marcia verso il nord, per giungere nei luoghi frequentati dalla giraffa bianca. Il paese che percorrevano era oltremodo selvaggio, interrotto da grandi foreste che ostacolavano assai l'avanzarsi del carro e da fiumi impetuosi, dove i buoi correvano di frequente il pericolo di annegare.

Per tre giorni la carovana continuò a salire verso il nord, in direzione di Uguchah, attraversando parecchie catene di colline; poi al quarto si accampò presso una vasta capanna quasi rovinata, che si trovava sul margine d'una immensa prateria.

— Riposiamoci qui qualche giorno — disse William. — Questa casa è disabitata e possiamo prenderne possesso; provvederemo intanto a riparare il nostro carro, le cui ruote hanno assai sofferto, e a rinnovare le nostre provviste, essendo terminata la carne secca.

I due tedeschi ed i loro negri si fermarono mezza settimana nella capanna, provvedendo alle riparazioni necessarie al carro.

William mise a profitto quella fermata per esplorare i dintorni e procacciarsi non poca selvaggina, che poi veniva tagliata in liste sottili e messa a seccare al sole. Aveva anzi sorpreso un grosso branco di antilopi di quella specie chiamata dai coloni olandesi springbooks, animali grandi quanto un'antilope comune, coi fianchi e la coda d'un giallo brillante e la groppa bianca. Questi animali sono anche oggidì numerosissimi nella Colonia del Capo e nelle regioni vicine e vivono in branchi immensi, che contano sovente parecchie migliaia d'individui. Sono emigratori, perciò intraprendono dei lunghi viaggi per cercare pascoli più abbondanti. Sono così poco astuti, che si lasciano facilmente uccidere senza cercare di sottrarsi alle palle dei cacciatori, sicché i coloni del Capo ne fanno sovente immensi massacri.

Seccata la carne e accomodato il carro, la carovana si mise in marcia verso il nord, passando fra ubertose praterie, interrotte, di quando in quando, da gruppi di splendidi alberi e da baobab di dimensioni enormi. Tre giorni dopo giungevano sul margine di un grandissimo bosco, che dovevano attraversare per raggiungere i luoghi frequentati dalla giraffa bianca. William era disceso da cavallo per isgranchirsi le gambe, quando vide sul suolo umido della foresta larghe impronte che subito riconobbe.

— Dottore, — disse — di qui sono passati degli elefanti.

— Saranno già molto lontani — rispose lo scienziato.

— No, dottore; queste orme sono freschissime. Vi piacerebbe assaggiare un piede d'elefante cucinato al forno od un pezzo di proboscide? Vi assicuro che sono bocconi da re.

— Ed i pericoli non li contate, William?

— Gli elefanti sono meno pericolosi di quello che generalmente si crede.

— Anche i leoni non sono pericolosi, secondo voi.

— Fermiamoci qui e andiamo a cercare questi elefanti.

— Verrà con noi anche Kambusi?

— È completamente guarito ed è un cacciatore valente, quindi non gli farò l'ingiuria di lasciarlo a guardia del carro.

— Credete che potremo raggiungere questi elefanti?

— Scommetterei che si sono radunati presso lo stagno.

— Quale stagno? — chiese il dottore.

— Quello che si trova in mezzo a questa foresta e che ho visitato parecchie volte, uccidendo gran numero d'animali.

— Allora sono con voi. Cacceremo a cavallo?

— No, preferisco lasciar qui i cavalli.

Avvertirono Flok di vegliare sui buoi, potendo esservi dei leoni e dei leopardi nei dintorni, si munirono di polvere e palle e si misero in cammino, seguendo il largo sentiero aperto dagli elefanti.

Quei colossi avevano tracciato una vera via in mezzo alla foresta, rovesciando gli alberi che impedivano loro il passaggio e sfondando i cespugli. Le orme poi erano visibilissime e parevano fatte di recente.

I tre cacciatori, nel più profondo silenzio, marciarono per circa un'ora, addentrandosi sempre più nel bosco; poi William fece segno ai compagni di fermarsi. In mezzo alla foresta si erano uditi dei tonfi, come se delle masse enormi si fossero tuffate in un vasto bacino.

— Sono gli elefanti che si bagnano — disse William.

— Saranno molti? — chiese il dottore.

— Possono essere anche una trentina.

— E noi oseremo assalirli? — domandò lo scienziato con voce spaventata.

— Tenteremo d'isolarne uno e lo uccideremo. Mirate alle giunture delle spalle, diversamente i vostri proiettili non produrranno alcuna ferita grave.

— Siete ben audace, William!

— Non sarei diventato cacciatore senza un po' di audacia. Seguitemi e tenetevi sempre in mezzo ai cespugli.

— Purché gli elefanti non ci inseguano.

— Staremo all'erta.

I tre cacciatori, scambiate queste parole, si avanzarono senza far rumore, tenendosi in mezzo alle piante per non farsi scoprire.

Dopo quindici minuti, attraverso ai cespugli videro un vastissimo stagno, nelle cui acque si bagnavano e s'infangavano dieci o dodici elefanti di enorme statura. Come tutti sanno, questi pachidermi sono gli animali più colossali, non essendo superati da nessun altro in grossezza.

Ne esistono di due specie: quelli asiatici e quelli africani. L'asiatico è in genere più sviluppato del suo fratello d'Africa; ve ne sono però di questi ultimi che superano di gran lunga i primi, raggiungendo dimensioni straordinarie. Quelli d'Africa differiscono dagli altri per l'immensità dei loro orecchi che si riuniscono al di sopra delle spalle, per le zanne molto più lunghe e più pesanti, per la fronte che è convessa invece di essere concava e per gli zoccoli dei piedi posteriori, nei quali ne hanno soltanto tre invece di quattro. Gli elefanti africani vivono allo stato selvaggio e dopo i Cartaginesi nessuno ha mai pensato ad addomesticarli.

Vien data loro una caccia spietata per averne i denti, i quali pesano sovente quattrocento libbre, e la carne, cioè i piedi e la tromba soltanto, giacché il resto del corpo è coriaceo. Abbondano nel centro dell'Africa, lungo il Nilo, nel Senegal e nella Colonia del Capo; però diventano sempre più scarsi a causa delle incessanti cacce che danno loro i cacciatori d'avorio. Come quelli asiatici amano le vicinanze dell'acqua e dormono appoggiati ad un albero, il quale è sempre lo stesso. Ordinariamente vivono in truppe numerose, ma vi sono anche i solitari, scacciati non si sa per quali motivi dai loro compagni, e questi sono i più pericolosi, essendo d'umore irascibile.

Gli elefanti che si bagnavano sulle rive dello stagno erano tanto assorti nei loro giuochi da non accorgersi della presenza dei cacciatori. Si bagnavano vicendevolmente vomitandosi addosso l'acqua che assorbivano colle proboscidi, si inzaccheravano di fango, si urtavano per rovesciarsi nello stagno.

— Si divertono — disse William al dottore. — Giacché non sospettano di nulla, sceglieremo la nostra vittima.

A cinquanta passi da loro se ne stava un maschio di statura enorme, il quale pareva incaricato di vegliare sulla truppa. Invece di prendere parte ai giuochi dei compagni, aspirava l'aria colla tromba e guardava da tutte le parti, mostrando una certa irrequietezza. Forse si era accorto della vicinanza dei cacciatori.

— Quest'animale è a buon tiro e ci presenta la fronte — disse William. — Miriamolo tutti e tre e facciamo fuoco.

— E gli altri? — chiese il dottore.

— Quando udranno gli spari prenderanno la fuga. Siete pronti?

— Sì — risposero Kambusi e il dottore.

Tre colpi di fucile rimbombarono nell'istesso momento. Gli elefanti che si bagnavano, spaventati da quelle detonazioni, si slanciarono nello stagno attraversandolo di corsa e scomparvero in mezzo agli alberi. Il maschio invece, ferito da più palle, aveva mandato un barrito terribile e si era voltato dalla parte donde erano partiti i colpi. Vedendo il fumo ondeggiare ancora sopra i cespugli, si precipitò innanzi dimenando la proboscide. Era terribile a vedersi. Correva come un cavallo slanciato al galoppo, tutto rovesciando sul suo passaggio. William, vedendolo sempre in piedi, aveva gridato:

— Fuggite!

Tutti e tre si erano messi a correre in mezzo al bosco; ma l'elefante, che non doveva essere stato ferito gravemente, li aveva veduti e si era slanciato fra le piante coll'impeto d'una bomba. Nessuna pianta resisteva a quella massa enorme. Solamente un baobab avrebbe potuto arrestarlo.

William, temendo di venire raggiunto, aveva ricaricato il fucile e, celatosi dietro a un albero, fece nuovamente fuoco, colpendo il gigante in mezzo alla fronte.

L'animale parve più sorpreso che sconcertato da quel nuovo saluto. Scosse le lunghe orecchie dimenando la testa e mandò fuori un suono pari a quello d'una grossa canna d'organo.

William ed i suoi compagni approfittarono di quella breve fermata per cercare un solido riparo all'impeto dell'animale.

L'elefante non tardò a riprendere la corsa mandando barriti terribili. Correva sempre più velocemente, sfondando la muraglia di verzura, deciso a vendicarsi. William era giunto intanto dinanzi ad un enorme baobab, dove si erano già fermati i suoi compagni.

— Arrampicatevi! — gridò.

Kambusi prese il dottore e lo sollevò fino al primo ramo, poi si arrampicò a sua volta; ma nel fare quell'esercizio fu costretto ad abbandonare il fucile. Anche il dottore aveva già lasciato a terra il suo. William, vedendo che l'elefante continuava la sua pazza corsa e comprendendo che non gli avrebbe lasciato il tempo di arrampicarsi sull'albero, tentò di arrestarlo con una terza palla.

Si nascose dietro ad una pianta vicina, puntò la carabina che aveva nuovamente ricaricata e la scaricò contro il colosso a dieci passi di distanza. Il gigantesco elefante, colpito sotto la gola, s'impennò pel dolore acuto provato nel ricevere la nuova ferita e si fermò un momento, come se fosse stato preso dal terrore.

— Presto, padrone! — gridò Kambusi porgendogli la mano.

William con un salto si innalzò fino al primo ramo, ma nella fretta anche a lui cadde di mano la carabina.

— Padrone, siamo senza armi! — gridò il negro spaventato.

William stava per lasciarsi cadere al suolo onde raccogliere l'arma, quando si accorse che l'elefante lo avrebbe schiacciato. Con un secondo slancio si aggrappò ad un altro ramo, innalzandosi rapidamente.

Un momento dopo l'elefante passava sotto il baobab e ne sferzava impetuosamente i rami colla proboscide.

Non trovando i nemici, passò di corsa e si fermò cinquanta passi lontano. Poi tornò indietro e, accortosi che i tre cacciatori erano in mezzo ai rami dell'immenso albero, si appoggiò contro il tronco per rovesciarlo. Fatica inutile. Quell'albero aveva un tronco così grosso che venti uomini non sarebbero stati capaci di abbracciarlo. Ci sarebbero voluti dieci elefanti per sradicarlo e forse non sarebbero bastati.

Riconoscendo finalmente l'inutilità dei suoi sforzi il pachiderma andò a sdraiarsi a cinquanta passi dall'albero, mandando barriti terribili. L'animale soffriva per le ferite riportate. Aveva ricevuto cinque palle e quella che lo aveva colpito alla gola doveva essere micidiale. Il sangue gli colava in gran copia sulla ruvida pelle.

— Starà molto a morire? — chiese il dottore.

— La sua agonia può durare anche quarantotto ore — rispose William. — Che bella prospettiva! Se potessimo riprendere le nostre carabine.

— Non provatevi nemmeno, padrone — disse Kambusi, vedendo che William guardava con occhi ardenti i fucili. — L'elefante non ci perde di vista.

— Zitto! — esclamò in quel momento il dottore.

— Perché? — domandò William.

— Mi pare che qualcuno si avanzi attraverso le piante.

— Sarà qualche animale.

Aveva appena detto quelle parole quando si udì una fortissima detonazione. L'elefante si era alzato, mandando un barrito orribile. Cercò di fare alcuni passi, poi cadde sulle ginocchia vomitando sangue dalla proboscide, si rovesciò su di un fianco e spirò.

— Flok! — gridò William.

Un uomo che non era il negro apparve fra i cespugli, tenendo in mano uno di quei lunghi e pesanti fucili che usavano ancora alcuni anni or sono i boers del Capo di Buona Speranza.

Era un individuo un po' attempato, coi capelli e la barba brizzolati, di statura imponente, le spalle larghissime e le braccia grosse e nerboruto.

Alzò il suo largo cappello di feltro e salutò i tre cacciatori, gridando:

— Mi pare di esser giunto in buon punto.

— Van Husk! — gridò allegramente William.

— Siete voi, amico? — gridò il cacciatore con voce lieta. — Non supponevo mai di trovarvi qui e assediato da un elefante. In che modo un cacciatore abile come voi si è lasciato imporre da quel bestione?

— Era indemoniato, Van Husk; gli ho sparato contro tre colpi di carabina senza riuscire ad ucciderlo.

Così dicendo si lasciò scivolare a terra e andò a stringere la mano al gigante, che poi presentò al dottore, dicendo:

— Un bravo olandese, mio amico.

— Sono lieto di conoscervi, signore — soggiunse lo scienziato, stringendo la mano che gli veniva porta.

— Che fate qui, Van Husk? — chiese William.

— Spiavo gli elefanti che vanno a bagnarsi sempre nello stagno. Volevo impadronirmi d'un paio di zanne.

— Le avete già, l'elefante è morto.

— Non appartengono a me — rispose l'olandese. — Non sono stato il primo a far fuoco, né a scovare l'animale.

— Ve le lasciamo volentieri, amico; a noi sarebbero d'impaccio. Non è vero, dottore?

— Noi non cacciavamo quel colosso per le sue zanne, bensì per assaggiare una delle sue zampe.

— Se non vi rincresce la mangeremo insieme; poi verrete nella mia fattoria a pranzare. Voi la conoscete, William.

— E so che vi si mangia assai bene — rispose il giovane cacciatore.

— Andiamo all'accampamento — disse il dottore. — Là almeno avremo qualche bottiglia da vuotare.

— Manderemo poi i nostri negri a tagliare i due denti — disse William. — Intanto prendiamoci un piede e un pezzo di proboscide.

Kambusi, aiutato dall'olandese, tagliò non senza fatica i pezzi indicati; poi tutti fecero ritorno al carro, dove Flok li aspettava guardando i buoi e i cavalli onde impedire loro di allontanarsi. L'olandese fece scavare una buca molto profonda che doveva servire di forno, la fece scaldare per bene con legna ben secca; poi, quando il fuoco fu consumato, depose sulla cenere calda il piede ed il pezzo di proboscide. Fece quindi riempire la buca con terra, e riaccendere sopra un altro fuoco che fu mantenuto per due ore intiere.

— Questo è il forno africano — disse William al dottore.

— E cuoce bene? — chiese questi.

— Perfettamente. Potrete constatarlo fra poco.

— Un sistema comodo e spiccio, specialmente quando ci si trova in piena foresta.

Trascorse le due ore, l'olandese fece esumare i due pezzi d'elefante, i quali erano stati precedentemente avvolti in foglie di banano bagnate. Un odore delizioso, che fece allargare le nari al dottore, si sparse all'intorno.

— Che ne dite, dottore? — chiese William.

— Io dico che non ho mai sentito un profumo così squisito.

— A tavola! — esclamò in quel momento l'olandese.

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