< La guerra del vespro siciliano
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Prefazione Capitolo II


LA GUERRA

DEL

VESPRO SICILIANO.


CAPITOLO PRIMO.

Intendimento dell’opera. Viver civile del secolo XIII. Potenza della Chiesa e della corte di Roma. Condizioni d’Italia e dei reami di Sicilia e di Puglia infino alla metà del secolo. Federigo II imperatore, e papa Innocenzo IV.

La riputazione della forza, per la quale si tengon gli stati, mutabilissima è; donde avvien talvolta, che la cosa pubblica, quando più irreparabilmente sembra perduta, d’un tratto ristorasi, per virtù di principe, o impeto di popolo. Splendono allora egregi fatti in città e in oste, cresce a tanti doppi la potenza della nazione, e spezzansi ingiuriosi legami stranieri, si abbatte al di dentro una viziosa macchina, e in riforme salutari si assoda lo stato. Questa, al veder de’ savi, è la gloria vera delle genti. Questa è degna che si riduca spesso alla memoria loro, per francheggiare gli abbattuti e vergognosi animi. Del rimanente, che portan gli annali de’ popoli, se non disuguaglianza di leggi, o inefficacia e avarizia, atroci guerre, paci bugiarde, sedizioni, tirannidi, e sempre pochi che vogliono e fanno, moltissimi che si lagnan solo, e immolato il ben comune da contraria tendenza delle cupidigie private? E sarebbero argomenti da ammaestrar gli uomini sì, ma di tal dottrina, che li volge a disdegnosa accidia, anzi che prontarli a virtude.

Però mi son proposto, io Siciliano, di narrare la mutazion di dominio, che seguì nella mia patria al cader del secolo decimoterzo. E in vero, lasciati i tempi rimoti troppo, difformi per costumi, religione, linguaggio, e tutt’altra parte di civiltà, veggo dal milledugentoottantadue infino al trecentodue le glorie maggiori della Sicilia; e venti anni innanzi un tal eccesso di tirannide, che rade volte si è sopportato l’uguale: nè parmi che alcuno scrittore abbia tutto abbracciato questo memorevol periodo, nè dirittamente investigatolo, nè degnamente descritto. Ciò non presumo compier io, ma certo vi porrò ogni sforzo. Non asconderò nè l’amore, nè l’ira; perchè uomo invano promette spogliarsene ove narri i fatti degli uomini. Ben mi guarderò che quelle passioni non mi tirino a sfigurare la storia contro mia volontà; nè dico del falsarla, che sarebbe, secondo il fine, o fanciullaggine o malignità e colpa sempre, anche verso la patria, cui van ricordate con ugual candore le virtù, gli errori e i misfatti, i lieti e i tristi giorni delle generazioni che tennero un tempo questi nostri medesimi focolari. Io so, che scrivendo di età lontane, spesso viensi, come dice un felicissimo ingegno, a far l’indovino del passato. Ma mi studierò a dare alla immaginativa il men che si possa. E perchè i fatti, e là dov’essi manchino, le induzioni, abbiano saldo fondamento, non ritrarrò i primi altrimenti che da scrittori contemporanei o diplomi1. Delle memorie repugnanti tra loro, seguirò quelle di maggior autorità, sia per sè medesime, sia perchè si accordino con le necessità degli uomini e de’ tempi.

E su i tempi rivolgendo indietro lo sguardo, io non dirò, per esser cose a tutti notissime, nè gli ordini del governamento feudale che ingombrava l’Europa, nè i vizi di quello, nè i passi che moveansi alla riforma nel secolo decimoterzo. Quali nascer possono da poter civile, non già diviso ma senza misura fatto a brani e fluttuante, da estrema disuguaglianza ne’ dritti e negli averi, e poco men che universale ignoranza, deturpata religione, leggi impotenti, e uso alla violenza, e necessità della frode; e tali erano i costumi: nè la riforma, dubbia e tarda, li moderava per anco. Necessaria è per natura, nei costumi de’ popoli, una mescolanza di buono e di tristo, della quale per leggi ed esempi mutansi alquanto le proporzioni, e non si spegne pur mai nessuno degli elementi; ma in quella età forse al peggio si traboccava, sopra il biasimo de’ tempi nostri. Certo egli è, che in tal mezza barbarie, sciolti gli uomini dalla menzogna delle infinite forme, che oggidì ne inceppano a ogni passo nel viver domestico e civile, le grandi passioni, o buone o triste, più rigogliose sorgeano, e più operavano.

Tra così fatti uomini, tra la divisione e debolezza degli stati, il sacerdozio giganteggiava; raccogliendo i frutti della mansueta pietà dei tempi apostolici, del fervore delle prime crociate, della ignoranza lunghissima dei popoli. Fu la religione di Cristo nei secoli di mezzo sola luce e conforto ai buoni; seguita anco dai pravi, perchè feano a metà: calpestavanla nelle opere, la onoravano della fede e del culto, a quetar la cieca paura delle loro coscienze. I ministri perciò dello altare, crebbero di riputazione, crebbero di ricchezze; chè vantaggiavano inoltre i laici per lume di scienza, e adopravan destri ambo le chiavi, e non pochi la purità del Vangelo contaminavano con la superstizione, che ai barbari è più grata. A puntellarsi di loro autorità pasceanli i grandi; i popoli indifesi teneano a loro, credendo trovar sostegno, e in realtà ne davano: ma soprattutto fu la corte di Roma che consolidò la smisurata possanza. Perchè assicuratosi non disputato comando su le chiese d’Occidente, le medesime arti che adopravan quelle in minor campo, spiegò ardita e sapiente tra i reami; nel cui scompiglio tenne dritto il corso a’ suoi disegni; trapassò dai dommi e dalla morale, ai civili negozi. Indi, fortificandosi a vicenda il papa e ’l clero, questo per tutta Europa imbaldanziva e prevaleasi, come milizia di possente dominazione; quegli, come capitano d’immense forze, sopra ogni altro principe si levò.

Non è che molti umori non sorgessero contro la romana corte nel secolo decimoterzo. Perciocchè un desiderio novello movea gl’ingegni; prendeansi a ricercar tutte le parti dell’umano sapere; si arricchiano i savi di antiche lettere e dottrine: i quali, ancorchè pochi dapprima, e più radi ove lo stato più discostavasi da libertà, per ogni luogo pure la scintilla del sacro fuoco accendeano. Sollevaronsi pertanto gl’intelletti più audaci a meditare sulla mistura delle due potestà, a contemplare i costumi del clero; nè fu lieve incitamento la gelosia de’ reggitori degli stati, svegliata da tanti fatti. Quindi mostravano già il viso alla corte di Roma que’ ch’erano più avvezzi a’ suoi colpi; il gregge provocato, si voltava con aspri insulti contro il pastore; gli anatemi, per troppo usarsi, perdean forza; pensavano gli uomini e parlavano arditamente di cose tenute in pria sacre come la fede istessa. Nascean così le idee, che Dante tuonò di tal forza; e a fatica si faceano strada tra le inerti masse, dove allignarono infine, e amari frutti portarono alla corte di Roma.

Ma queste opinioni ristrette a pochi, se urtavano talvolta la sua possanza, non la menomavano per anco nel tempo ond’io scrivo. Mentre le ambizioni de’ chierici passavano ogni misura, mentre cupidigia, e simonia, e libidine lussureggiavano nella vigna del Signore, tremavan del clero i popoli, e il successor di Pietro stendea la mano su i reami e su i re. Che se tal fiata prevalse la brutal forza sulla morale, la prepotente opinione fece risorger tosto più gagliardo il pontefice. Sì il veggiamo oltremonti levare a sua posta il vessillo de’ re o de’ popoli, ed accender guerre, e cessarle, e trar tesori, e dove moderare le dominazioni, dove dare o strappar corone: quanto più lontano, più venerando e terribile. In Italia intanto, trasportato dai turbini delle contese civili, più fiero pugnava coll’oro di cristianità tutta; e chiamava straniere nazioni, e opponea l’una all’altra; t’innalzava oggi, diman ti spegnea.

Avvegnachè il bel paese già si disputava acerbamente tra la Chiesa e l’impero. Dietro la occupazion di Carlo Magno e degli Ottoni, la più parte d’Italia era rimasa sotto la signoria feudale degl’imperatori d’Occidente. Succedettero i dappoco a quei forti; i grandi feudatari laceraron l’impero; tosto divenne nulla o nominale di qua dalle Alpi la tedesca dominazione. E in questo, crescea la Chiesa, e confortava gl’Italiani alla riscossa, con lo scritturale spirito di uguaglianza e di libertà. In questo, la industria, il commercio, le scienze, le lettere rinasceano in Italia a mutare le sorti del mondo. Quegli esercizi, quelle discipline, trasser fuora dalla cieca moltitudine di plebi, vassalli, e nobili minori, un’ordine nuovo: il popolo, ch’è solo fondamento ad uguaglianza e viver libero. Donde, volgendo prestamente la feudalità all’anarchia feudale, e questa nel nuovo ordine imbattendosi, sursero nel secolo undecimo repubbliche mercantesche; nel seguente e nel decimoterzo, la Lombardia e la Toscana fioriron di città industri e guerriere, che scosso ogni giogo, si governarono a comune: e i feudatari si fecero cittadini o condottieri, alla lor volta richiedendo il sostegno delle città divenute più forti. E quando il reggimento di pochi o di un solo occupava alcuna città, d’altra fatta esso rinasceva, e meno tendente a barbarie; perchè non più n’era fondamento la ignava necessità del vassallaggio, ma la divisione o l’inganno de’ cittadini; i quali, se metteansi il giogo sul collo, non mutavano i modi del vivere, nè perdeano la virtù di affranchirsi. Rinnovellandosi in tal guisa gli ordini civili, fortificossi la virtù guerriera; si rianimarono le virtù cittadine; si apersero gl’ingegni agli alti concetti della filosofia e della politica; una forza ignota agli oltramontani solidamente feroci, scorse di nuovo per le vene dell’italian popolo, stato dianzi signore del mondo. Il perchè gagliardamente ributtaronsi gl’imperatori accaniti con loro masnade a ripigliare il dominio; ma non tolleraronsi gli ordini, che poteano scacciarli per sempre. E ’l rapido accrescimento dell’ordine popolare ne fu cagione. Perocchè in altre nazioni, generandosi lentamente, fu adulto assai secoli appresso, quando la monarchia, domi i baroni, avea consolidato e reso uno il reame; onde il popolo, riscotendosi, fu animato da virtù nazionale. Ma in Italia surse mentre province e città erano più stranamente divise dall’anarchia feudale; laonde, non veggendo altro che i propri confini, quei popoli presero umori e virtù municipali. Operose virtù, che prodigiosamente aumentarono la possanza di ogni città; ma tolsero al tutto che l’universale in reggimento durevole s’assestasse. Così se in alcuna provincia si feano accordi a comune difesa, nè alle altre si estendeano, nè duravano oltre l’immediato bisogno. Difformi i reggimenti, e mutabili, e incerti; e qual città si ricattava, qual ricadea sotto immane tirannide. Brulicavano in Italia cento e cento piccoli stati, pieni di passioni, di vita, di sospetti, di nimistà; pronti a servir ciecamente ad ambizioni maggiori, che nel parteggiare trovavan campo, e più rinfocavano a parteggiare.

Ondechè la corte di Roma, conscia delle sue forze, agognò alla dominazione, or mettendo innanzi concessioni e diritti, or sotto specie di farsi scudo a libertà; e gl’imperatori tedeschi, com’e’ poteano, al racquisto del bel giardino sforzavansi. Elettivo allora di Germania il re, che re de’ Romani per vanità pur s’appellava, e imperatore, quando assentialo il papa, arrogantesi dar questo titolo e questa corona; ma disputata e mutila, sotto il gran nome de’ Cesari, l’autorità. Tenean ogni possanza in Lamagna i grandi feudatari, e le città libere; indocili, gelosi, di lor franchige superbi. Donde nè gagliardi, nè continui gli sforzi degl’imperatori su l’Italia; imprese di venturieri, non guerre di poderosa nazione: e scorati e stanchi avrebbero forse i Tedeschi lasciato quest’ambizione, se l’Italia medesima non si fosse precipitata ad aiutarli con quella maladizion delle parti, i cui nomi a maggior vergogna si tolsero da due case tedesche. I Guelfi allo inerme pontefice, gli altri allo straniero lontano, davan fomite e forza; tra loro atrocemente dilaniavansi; e a questo eran paghi, di libertà, di servitù non curandosi. E quasi non bastassero a lor passioni insociali quelle divisioni, le tramutavano in altre di nomi e sembianze diverse; nelle repubbliche vi si mescolavano le usate parti di nobili e popolani: era per tutto una confusione, una rissa brutale. Così stoltamente sciupossi quel nerbo di valor politico ond’era rigogliosa l’Italia; l’Italia si preparò secoli, e chi sa quanti? di servitù senza quiete.

La Sicilia, e la penisola di qua dal Garigliano poco diverse dagli altri popoli italiani per gente, linguaggio, tradizioni e costumi, reggeansi pure con altri ordini. Mentre nel rimanente d’Europa la progenie settentrionale, perdute le virtù de’ barbari, ne ritenea solo i vizi, ebbe la Sicilia, al par che la Spagna, il dominio degli Arabi, culti se non civili, attivi e pronti come popolo testè rigenerato. La regione di terraferma, or invasa dai barbari, or dagli imperatori greci ripigliata, divideasi in vari stati, sotto reggimenti diversi, alcun dei quali pigliava la forma delle nascenti repubbliche italiane, quando una man di venturieri normanni venuta a difendere, si fe’ occupatrice, e istituì gli ordini feudali. Altri di questa gente passando in Sicilia allo scorcio del secolo undecimo, e scacciando i Saraceni, nimicati dagli altri abitatori per la diversa religione e lo straniero dominio, fondaronvi un novello principato, e primi recaronvi la feudalità2. La quale, perchè in Europa già piegava a riforma, qui surse più civile e giusta; temperandola ancora la virtù e riputazione di Ruggiero duce de’ vincitori, la influenza delle grosse città, e i molti poderi che s’ebber le chiese nelle prime caldezze della cristiana vittoria, le proprietà allodiali, le ricchezze, il numero de’ Saracini venuti a patti più che spenti, e de’ cristiani stessi di Sicilia. Così il conte Ruggiero, principe di liberi uomini, non capo di turbolento baronaggio, e vestito dell’autorità di legato pontificio, ch’è infino ai dì nostri egregio dritto della corona di Sicilia, fortemente e ordinatamente il nuovo stato reggea. Titolo gli diè poi di reame un altro Ruggiero, figliuolo del conte, posciachè con le arti e con le armi tolse Puglia e Calabria agli altri principi normanni; e dai baroni quivi più possenti, e dal papa, e dallo imperatore, gagliardamente difesele con le siciliane forze. Quindi fu gridato dai parlamenti, e in fine, per amore o per forza, riconosciuto dal papa, re di Sicilia, duca di Puglia e di Calabria, principe di Capua. Costui ritirando ver la corona l’autorità dei magistrati, contenendo i baroni, assestò il reame con ordini civili, ravvivò le industrie, e vittoriosamente adoprò fuori le armi sue.

Due forze turbarono questa novella monarchia siciliana: che furono, il baronaggio non sì gagliardo da mettere al nulla l’autorità regia, ma baldanzoso abbastanza da provocarla; e la corte di Roma, la quale attirò i nostri principi nelle contese italiane, or chiamandoli in sostegno, or vantando dritti su lor province, e combattendoli apertamente. Pure la monarchia, per la virtù della sua prima fondazione, stette salda a que’ colpi; si ristorò con migliori leggi sotto il secondo Guglielmo; e avrebbe potuto per avventura dopo lunga neutralità alzare un vero vessillo italiano, e messi giù lo imperatore e il papa, da sè occupare o proteggere tutto il paese infino alle Alpi: ma essa dal sangue normanno passò per nozze a casa sveva3, che tenea di que’ tempi lo impero. Indi la potenza di Sicilia e di Puglia prese le ingrate sembianze di ghibellina: e dopo il regno dello imperatore Arrigo, che per essere stato breve ed atroce, nulla operò, vidersi questi due reami avvolti nella gran lite d’Italia. Perchè dal cominciamento al mezzo del secolo decimoterzo regnovvi Federigo II imperatore, prò nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotor delle lettere italiane, costante nemico di Roma.

Raffrenò Federigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi; chiamò nei parlamenti nostri i sindichi della città; represse nondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente i magistrati, vietò, primo in Europa, i giudizi ch’empiamente chiamavan di Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle dei Normanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la sua gloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa la necessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsene alla guerra di fuori.

Dondechè mentre i due potentati acerbamente si travagliavano con le astuzie, con le armi, con gli scritti, e, incontrando varia fortuna, or fean sembiante di venire agli accordi, or più feroci ripigliavan le offese, crebbero nei reami di Sicilia e di Puglia pericolosissimi umori; come avviene dal troppo tender l’arco che i governanti fanno, sperando che pur sempre si pieghi. Innocenzo IV, pontefice di altissimi spiriti, se ne accorse, e principiò a gridare il nome di libertà, non che alle cittadi dell’Italia di sopra, ma nei reami stessi di Federigo. E varcato già a mezzo il secolo decimoterzo, aspirava sì gagliardamente alla vittoria, che, convocato un concilio in Lione, denunziavagli la deposizione dallo impero; e tutte contro il magnanimo Svevo ritorcea le folgori sacerdotali.



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  1. Sconoscerei un dovere se non facessi qui menzione degli aiuti, che ho trovato a queste ricerche nella Biblioteca comunale di Palermo e nel regio archivio di Napoli. La biblioteca palermitana, dotata un dì largamente dal comune, arrichita di libri da molti cittadini, ristorata dal sommo Scinà, ed ora fiorente per lo amore e l’intendimento con cui la governano i presenti deputati, mi è stata schiusa come a chiunque; ma il valore de’ bibliotecari ha agevolate le mie ricerche; e massime debbo renderne merito al sacerdote don Gaspare Rossi, lodatissimo per non comune perizia, erudizione, memoria.
        Una permissione del ministero degli affari interni mi die’ adito al regio archivio di Napoli: ove trovai molta cortesia in quanti reggono questo prezioso stabilimento, e in particolare nell’erudito professore signor Michele Baffi, capo dell’uficio al quale appartengono i diplomi svevi e angioini.
  2. Così scrivo non ignorando pure che alcuno abbia voluto veder concessioni feudali in tempi più rimoti; fantasie, come giudica il di Gregorio, non solidi ragionamenti. D’altronde è da distinguere feudalità da aristocrazia. Questa, dove più, dove meno, fu a un di presso in tutti gli stati. La feudalità nacque, come sa ognuno, dallo stabilimento de’ barbari settentrionali, e fu un particolare modo di governo di ottimati misto di monarchia.
  3. Chiamerò così, secondo l’uso comune, la dinastia degli Hohenstauffen, duchi di Svevia.

Note

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