< La guerra del vespro siciliano
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Capitolo I Capitolo III

CAPITOLO II.


Papa Innocenzo perseguita Corrado; e alla morte di lui occupa le province di terraferma, e turba la Sicilia. Repubblica in Sicilia. Manfredi ristora l’autorità regia; e l’usurpa. A spegner lui, la corte di Roma pratica con Inghilterra e con Francia. In fine concede i reami a Carlo conte di Angiò. Passata di Carlo in Italia. Manfredi è rotto, e morto a Benevento. Carlo prende il regno - Dall’anno 1251 al 1266.


Alla morte di Federigo, pronto il pontefice assurse a schiantar d’Italia l’emula casa sveva. E l’invidia dell’impero tenuto lungamente da quella; e ’l sospetto della possanza che traea di Sicilia e Puglia, valser tanto in Lamagna, rincalzati delle romane arti, che Corrado figliuol di Federigo, ancorchè eletto re de’ Romani, fu escluso dall’imperial seggio. A torgli i domini meridionali, papa Innocenzo rifaceasi a gridare ai popoli libertà; suscitava i baroni; esortava i vescovi e ’l clero, bandiva la remissione delle peccata a chi si levasse in arme per la corte di Roma; per brevi, per legati, ad ogni ordine d’uomini promettea pace, e godimento di tutte lor franchige sotto la protezion della Chiesa: istigazioni tentate indarno sul fin del regno di Federigo. Pur lo zelo de’ Ghibellini d’Italia, e la virtù di Manfredi, bastardo dell’imperatore1 e non tralignante dal paterno animo, fecero che Corrado, spenti i nemici del suo nome, regnasse alfine dal Garigliano al Lilibeo. Poc’oltre due anni regnò, che da morte fu colto: lasciando di sè un sol bambino per nome Corrado, cui disser poscia Corradino, perchè uscito appena di fanciullo, brillò e fu morto. Raccomandavalo il padre, com’orfanello e innocente, alla paternale carità del pontefice; e questi più furiosamente che prima riassaltava i reami suoi con seduzioni ed armi2.

Prontissima tal foco trovò l’esca, per l’odio partorito agli Svevi, e al principato con essi, da quella lor dominazione avara e rigida, spesso anco crudele, e testè esacerbata nei contrasti all’avvenimento di Corrado. I baroni tendeano a scatenarsi, pe’ vizi radicali della feudalità e i mali esempi di fuori. Increscea il freno alle maggiori città, aspiranti alle franchige di Toscana e di Lombardia, delle quali avean preso vaghezza per gli spessi commerci con l’Italia di sopra, e per sentirsi forti anch’esse di sostanze e di popolo, e ravvivate della virtù delle lettere e de’ leggiadri esercizi, che fioriron sotto Federigo. Inoltre eran use al municipal reggimento, avanzo di più felici tempi, non dileguato dalla romana conquista, nè sotto l’impero, nè forse anco per la saracena dominazione; il qual reggimento provvedendo alla più parte de’ bisogni pubblici, alla libertà politica non restava che un passo. E suol sempre all’autorità dello stato incerta o vacillante sottentrar la municipale, che più si avvicina alla semplicità de’ naturali ordini del vivere in comunanza, e i popoli, come cosa propria, l’odian manco. Però in tanto scompiglio ne crebbe la riputazione delle municipalità, e con essa la brama dello stato libero. La quale fors’era più viva in Sicilia che in terraferma, per lo numero delle città grosse, e i meglio raffrenati baroni3. Spiegò Innocenzo in tal punto il vessillo della Chiesa, correndo l’anno milledugentocinquantaquattro; occupò Napoli con l’esercito; mandò oratori e frati a sollevare i popoli per ogni luogo: ed era il re in fasce in Lamagna; il reggente straniero e dappoco; Manfredi senza forze, nè dritto alla corona. Andaron sossopra dunque i reami: chi si trovò presso al potere li die’ di piglio, dove a nome del re, del papa, del comune, e dove di niuno. Quindi a poco a poco surse Manfredi, praticò col papa, e pugnò; e morto a Napoli Innocenzo, e rifatto pontefice Alessandro IV, gioviale, dice una cronaca4, rubicondo, corpulento, non uomo da sostenere i disegni del fiero antecessore, lo Svevo, savio e animoso, a ripigliar lo stato si condusse. Ma perchè l’anarchia avea preso in Sicilia le sembianze di repubblica, e fu questo lo esempio agli ordini che gridavansi poi nel riscatto del vespro, io narrerò questo avvenimento il più largamenteche si possa su le scarse memorie de’ tempi.

Sedea vicerè in Sicilia da molti anni, e governava sì le Calabrie, Pietro Rosso o Ruffo. L’imperator Federigo da vil famigliare l’avea levato a’ sommi gradi, com’avviene in corte a’ più temerari e procaccianti. Pensò Corrado che per opera di costui gli fosse rimasa in fede la Sicilia nei turbamenti desti alla morte di Federigo; onde il fe’ conte di Catanzaro, gli prolungò il governo, e crebbegli la baldanza: chè superbamente ei reggeva, a nome del re, a comodoproprio; fattosi trapotente per dovizie e clientela, da osar disubbidire a faccia scoperta lo stesso monarca. Pertanto alla morte di Corrado, a’ rivolgimenti che seguitarono, duravane i primi impeti il conte di Catanzaro, e una certa autorità mantenea, non ostante quell’universale pendio alla repubblica; non contrastandolo, matemporeggiandosi, e procacciando in vista gl’interessi de’ popoli. Anzi con la solita audacia, nel torbido aspirò a cose maggiori. Come papa Innocenzo caldamente i Siciliani istigava a gridare il nome della Chiesa, e allettava Messina con le vecchie lusinghe di privilegi, il vicerè intrigossi con gl’inviati delle città di Sicilia a trattare col papa; proponea, rifiutava patti; e mandò al papa con gli ambasciadori di Messina, e col vescovo di Siracusa, un suo nipote; tramando sottomano farlo re di Sicilia, che dal pontefice la tenesse, e pagassegli il censo. Gonfio di questi pensieri, quando Manfredi risurto a Lucera chiamavalo all’antica obbedienza, non assentì il conte che ad una confederazione con reciproci patti. E fidavasi tra ’l principato, il pontefice, e ’l popolo traccheggiar sì maestro, che dell’un contro l’altro s’aiutasse a’ propri disegni.

Ma perchè non è felice poi sempre l’inganno, costui non valse a raggirare a lungo le siciliane città: e porse egli stesso l’occasione a prorompere; perchè volendo coprirsi con le sembianze della legittimità, finchè non fosse matura l’usurpazione, battè moneta a nome di Corrado secondo; ch’era un disdir netto la repubblica. Spezzata allora con esso ogni pratica, le città gridaron repubblica sotto la protezion della Chiesa: prima a ciò Palermo; seconda Patti, mossa dal vescovo; ed altre terre seguitaronle. Il vicerè spacciava ambasciatori a Palermo, ed eran respinti; vedea le città dell’Etna levarsi tutte, e con esse Caltagirone, che pose a guasto e a sacco i vicini poderi della corona; non restava che a tentare la forza. Raccolto dunque di Messinesi, e di quanti rimaneangli in fede un grosso di genti, il vicerè assalisce Castrogiovanni, che tentennava; e, dubbiamente difesa, la espugna. Ma quel dì medesimo Nicosia sollevasi, e poco stante molte altre terre; fino i Messinesi dell’esercito levavano in capo: una stessa brama avea preso i Siciliani tutti, nè bastava a trattenerli il veleno delle divisioni municipali. In tal disposizione d’animi, un picciolo intoppo die’ il tracollo al conte di Catanzaro. Appena ributtato da uno assalto ad Aidone, le genti sue stesse il costrinsero a tornarsi a Messina; e trovò a Messina una congiura, per disperder la quale invano affrettossi a entrare in città, invano fe’ sostenere in palagio Leonardo Aldighieri5 e parecchi altri cittadini de’ quali più temea. Infellonisce il popolo; ridomanda gl’imprigionati; e ottenutili non s’acqueta, ma reca Leonardo in trionfo; capitan del popolo il grida; «Viva il comune, fuori il vicerè!» con lui fermansi i patti, che dia alcune castella in sicurtà, e libero sen vada con l’avere e la famiglia. Così fu scacciata l’ultim’ombra della regia autorità. Partitosi il conte, il popolo saccheggiò le sue case; ed ei, non osservati gli accordi, attese in Calabria ad affortificarsi. Ma quivi lo inseguiano le armi di Messina; imbatteasi ancora in quelle di Manfredi: e, com’e’ meritava, cacciato dalle une e dalle altre, vagando senza aiuto nè consiglio, rifuggiasi in fine vergognosamente alla corte del papa.

La Sicilia intanto senz’altri ostacoli alla bramata condizione si condusse. Messina affratellata nel comun brio, diessi tutta, come città rigogliosa, alle virtù e ai vizi delle italiane repubbliche. Volle un podestà straniero; al quale uficio primo chiamò Iacopo de Ponte, romano. Presa poi dalla sete delle conquiste, assalse e spianò Taormina, ricusante d’ubbidirle; in Calabria occupò molti luoghi, e tenne vivo il suo nome. E Palermo sospinta dagli stessi umori, occupava il castel di Cefalù, e certo anco alcun’altra terra di mezzo. Ma, quel che più rileva, intesa all’universale ordinamento, avea già mandato oratore al papa a Napoli un Iacopo Salla, ad annunziare il reggimento a comune sotto la protezion della Chiesa, assentito dall’isola
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tutta. Incontanente il papa spacciò vicario Ruffin da

Piacenza, de’ frati minori: il quale era a grandissimo onore raccolto in Palermo, in Messina, e per ogni luogo, e onorato con feste popolaresche; al venir suo tripudianti gli si feano incontro cittadini, e sacerdoti, e vecchi, e fanciulli; di palme e di rami d’ulivo spargeangli il sentiero, come a liberator del paese; tutti si inebriavan di gioia e di speranza nel nuovo stato. Richiamaronsi allora un conte Guglielmo d’Amico, un Ruggiero Fimetta, ed altri Siciliani usciti fin da’ tempi dell’imperator Federigo, per umori guelfi, o di libertà. Libertà gridavan tutti: le città, terre, e castella si strinsero con patti reciproci: e su questa confederazione il vicario pontificio comandava nel nome della Chiesa. Così intorno a due anni si visse in Sicilia, dal cinquantaquattro al cinquantasei. In Puglia e in Calabria, nel medesimo tempo, fu più contrastata la dominazione tra i principi, che bramata dai popoli la libertà; perchè men disposti v’erano che que’ di Sicilia, e il papa, e Manfredi, ambo vicini, a vicenda sforzavanli a ubbidire.

E ciò sol si ritrae dagli storici de’ tempi. Quali fossero gli ordini delle novelle repubbliche di Sicilia, se popolani, se misti d’oligarchia, ne è ignoto. Forse nessuno ben saldo se ne statuì; forse come i cittadini adunati a consiglio, deliberavano per l’addietro su i negozi municipali, come i maestrali per l’addietro li amministravano, fecesi allora in tutte le altre parti del governo. I vincoli scambievoli delle città, i limiti dell’autorità del papa e del legato, i consigli pubblici che a questo fosser compagni, non ricorda la istoria; se non che abbiam documenti di concessioni feudali in Sicilia, fatte dal papa a baroni parteggianti per esso; la qual cosa dimostrerebbe piuttosto la confusione o l’usurpazione dei poteri pubblici, che l’esercizio di quelli a buon dritto stabiliti. Nè alcuno scrittore ci ha tramandato
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in che stato rimanessero i feudatari; ma li veggiamo quale appigliarsi di gran volontà a questa novazione, e quale ubbidirla tacito e torvo, aspettando tempo; talchè è manifesto, che gli umori guelfi e ghibellini divideano già il sicilian baronaggio. Mezz’anarchia fu quella, e imperfetta lega di feudatari forti e parteggianti, di città aduggiate dalle radici dell’aristocrazia e del principato; e debolmente il nome della Chiesa li rannodava. Potea il tempo consolidar quello stato, al par delle italiane repubbliche; ma il principato repente

risorto lo spense. E dalle novazioni i popoli voglion frutto più prestamente che la natura non porta; e delusi gittansi allo estremo opposto; l’invidia morde i privati; la parte che ama gli ordini vecchi rimbaldanzisce. Questo in Sicilia seguì. Risorgea Manfredi in terraferma; la parte pontificia mancava; trionfava in fine la sveva. A ciò levaronsi i feudatari, che per costume, interesse e orgoglio teneano, la più parte, pel re; i repubblicani si sgomenarono; e sì rapido fu il precipizio, che pochi anni appresso, repubblica di vanità l’appellava Bartolomeo di Neocastro.

Ondechè mentre Federigo Lancia riducea le Calabrie con un esercito per parte sveva, un altro se n’accozzò di feudatari in Sicilia. Arrigo Abate con esso entrò in Palermo; e imprigionò il legato del papa, e quanti parteggiavano per lo stato libero. Corse per l’isola poi vittorioso; ruppe a Lentini Ruggiero Fimetta, principal sostenitore della repubblica, o de’ feudi che per tal riputazione gli avea largamente dato papa Alessandro: ma a Taormina trovò Arrigo assai duro il riscontro; e si bilanciavan le sorti, se non era per la rotta che toccarono i Messinesi in Calabria. Perocchè l’esercito loro, grosso di cavalli e di fanti, osteggiando in quelle province i manfrediani, fu colto con improvvisa fazione da Lancia, quando saccheggiata Seminara sbadatamente movea per lo pian di Corona; e attenagliato tra due schiere, e con grande uccisione fu sbaragliato. Federigo Lancia a questa vittoria insignoritosi al tutto della Calabria, minacciava Messina, e con sue pratiche fomentava per Sicilia tutta la parte regia. Prevalendo questa dunque in Messina, nè restando armi alla difesa, il podestà, per dappocaggine o necessità, si fuggia; rinnalzavasi il vessillo svevo; arrendeasi a Lancia la città. Pugnaron ultime per la libertà Piazza, Aidone, e Castrogiovanni, e furono soggiogate6. Così Manfredi tutti ridusse i popoli e di terraferma, e dell’isola; e breve tratto per Corradino regnò. Poi lo scettro ripigliato col valor suo, render nol seppe a un fanciullo; diè voce che questi fosse morto in Lamagna; e creduto o non creduto, com’erede solo di Federigo, incoronossi in Palermo a dì undici agosto milledugentocinquantotto.

E fortemente regnò Manfredi; e placar non potendo a niun patto la corte di Roma, disperatamente la combattea. Si fe’ capo dei Ghibellini: rinnalzolli in Lombardia; fomentolli in Toscana; in Roma

stessa ebbe seguito, la quale non sottomessa per anco ai pontefici, e reggendosi per un senatore, avea chiamato nuovamente a questo uficio Brancaleone, uomo di alto animo, che si era, per comunanza di nimistà, col ghibellino re collegato. Per le quali cose, non bastando ormai la romana corte alla tenzone, affrettossi a compiere un antico disegno. Già fin dalla morte del secondo Federigo, papa Innocenzo, perchè non sentia nel sacerdotale braccio tanto vigore da regger Sicilia e Puglia, nè troppo affidavasi in su quegli umori repubblicani, avea cercato in ponente chi conquistasse con armi proprie lo stato, e con nome di re dalla Chiesa tenesselo in feudo, e pagassele censo, e servigio militare le prestasse. Così innalzato avrebbe in Italia un possente capo di parte guelfa
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e campion della Chiesa. Donde, mentr’ei qui chiamava i popoli a libertà, mercatavali come gregge, prima con Riccardo conte di Cornovaglia, fratel del terzo Arrigo d’Inghilterra; poi con Carlo conte d’Angiò e di Provenza, fratel di

Lodovico IX di Francia; e in fine col fanciullo Edmondo, figliuolo del medesimo Arrigo. Autentiche ne restano le bolle d’Innocenzo e dei successori suoi, le epistole dei re, che queste pratiche rivelan tutte, dalla romana corte per sedici anni condotte a cauto passo, quand’ira o terrore non la stimolavano. E indefessa con brevi o legati a sollecitare i principi, tirare a sè i cortigiani, promettere di ogni maniera indulgenze, sparnazzare le decime ecclesiastiche di cristianità tutta alla occupazione di Sicilia e Puglia, a questo bandir la croce, a questo commutare i voti presi da re e da popoli per la sacra guerra di Palestina. Spesso tra coteste pratiche, la corte di Roma per bisogno di moneta, e necessità di difendersi o voglia d’occupare alcuna provincia di Puglia, accattava danari con sicurtà su i beni delle chiese d’oltremonti; e que’ prelati sforzava a soddisfarli; ai riluttanti mostrava la folgore delle censure. Alcuna volta prendeva a permutar la bolla d’investitura con somme assai grosse di danaro: poi la brama più forte di abbatter Manfredi, rimaner la facea da cotesti guadagni. A lungo tuttavia si differì l’impresa, come superiore alle forze di cui la trattava, e disperata quasi per la potenza e virtù di Manfredi.

Di gran volontà s’era accinto a questa guerra di ventura Arrigo, cupido dell’altrui, ma dappoco, e alla Gran Carta spergiuro, perciò contrariato e travagliato da quegli indomiti propugnatori delle libertà inglesi. Arrigo fermò i patti col papa, e la investitura s’ebbe per Edmondo suo, e le armi faceasi a preparare; ma a tanti atti ne venne arbitrari e stolti, e tanto increbbero in Inghilterra le esazioni di Roma, che il parlamento pria trattenne il re dall’impresa; poi richiamandosi di questi e di mille altri torti, lo spogliò del governo, lo calpestò: e in aspre guerre civili s’avvolse il reame. Spezzavasi la pratica con Francia per niente simil cagione: chè quivi obbedienti i popoli, mite e non debole il re, d’alto animo, ristorator delle leggi, savio moderator del governo, e di pietà sì rara, che alla morte sua fu canonizzato tra’ santi. L’occupazione straniera menomava la Francia in ponente; la usurpazione de’ grandi feudatari dagli altri lati; insanguinata riposava appena da una crociata infelicissima; pur quello che più forte la distolse dalla siciliana impresa, fu l’animo del re, abborrente dal guerreggiar con cristiani, e dar di piglio nell’altrui. Però pertinacemente ricusava quel giusto: a lungo la romana corte si dondolava tra lui e l’Inglese, da forza rattenuto, non da coscienza. Ma quando vide costui prostrato, e sè stessa condotta agli estremi dai Ghibellini e da Manfredi, la romana corte, come disperata, adoprò tutt’arti a sforzar Lodovico. Drizzavasi a Carlo d’Angiò, e alla donna sua, che, sorella a tre regine, avrebbe dato la vita per cingersi un istante a fianco ad esse il diadema dei re7: e mostrava a quegli ambiziosi animi spianato ogni ostacolo, fuorchè l’ostinazione di Lodovico. Il papa indettò con vari accorgimenti tutt’uomo che più valesse a corte di Francia. Strinse il re dal lato più fiacco. Ammonivalo con lettere sopra lettere: non indurasse il suo cuore; esser ormai irriverente e prosuntuosa la ripulsa, e ch’ei laico dubbiasse a entrare in un’impresa chiarita onesta e giusta dal successore degli apostoli, e da’ cardinali suoi. Pennelleggiava la Chiesa schiantata d’Italia per Manfredi, mezzo saracino, dissoluto tiranno; l’eresia pullulante; profanati i sacri tempî; manomessi vescovi e sacerdoti; spregiati gli anatemi; chiusa la via di Terrasanta finchè la Sicilia stesse ribelle al pontefice8.Così sero all’impresa il re di Francia. Si trattavano insieme i patti della concessione, tra i quali il papa pretendeva il dominio non solo di Benevento e Pontecorvo co’ loro contadi, ma quasi tutta la regione ch’oggi comprendesi ne’ distretti di Napoli, Pozzuoli, Caserta, Nola, Sora, Gaeta, e inoltre qua e là per lo reame altre città e terre9: ma infine moderandosi da Roma il prezzo, Carlo comprò; e fu fermato il negozio con lo stesso Urbano IV; e per la sua morte, decretato solennemente da Clemente IV, francese, appena ei salì al pontificato. Urbano e Clemente seguivano entrambi l’antico studio della romana corte a mutare per lo meno in signoria feudale quell’uso di consiglio e di protezione negli affari temporali, ch’era divenuto quasi comando in vari reami cristiani; la qual signoria tentò prima in Inghilterra, poscia in Aragona, e più assiduamente su le italiane province a mezzogiorno del Garigliano. Clemente promulgò a venticinque febbraio milledugentosessantacinque la bolla, per la quale «il reame di Sicilia, e la terra che si stende tra lo stretto di Messina e i confini degli stati della Chiesa, eccetto Benevento,» furono conceduti a Carlo, in feudo dalla Chiesa, per censo di ottomila once di oro all’anno, e servigio militare al bisogno. Cento patti sottilissimi dettò il papa a vietare l’ingrandimento del re: che nè allo impero aspirasse, nè ad altra signoria in Italia, a sicurtà della romana corte, la quale il volea possente sì, ma non da soverchiare lei stessa. Con ciò mutilati i dritti del principe nelle elezioni ai vescovadi e agli altri beneficî ecclesiastici; toltigli i frutti delle sedi vacanti; tolta ogni partecipazione nelle cause ecclesiastiche, e riserbatene le appellazioni a Roma; fermata la franchigia de’ chierici dalle ordinarie giurisdizioni e dai tributi; e altre condizioni men rilevanti. Tra quegli squisiti accorgimenti di regno, si risovenne pur Clemente degli uomini del paese non suo che vendea: stipulò per loro i privilegi goduti già sotto Guglielmo II, il re più mite e giusto, e temperante dallo aver dei sudditi, che nelle siciliane istorie si registrasse10.

A furia allor si misero in punto le armi, e gli armati per la guerra a Manfredi. Corsi erano ormai diciassette anni dalla sconfitta dell’esercito crociato: ridondava la Francia di baroni, e cavalieri, e uomini d’arme, fastiditi del viver civile sotto le leggi, bramosi di operare, e di acquistar gloria e sustanze. Veniano di Fiandra per la cagione stessa altri guerrieri di ventura. Venian di Provenza, la quale appartenne negli antichi tempi al reame di Francia; spiccossene dietro la morte di Carlo Magno nel secol nono; fu feudo dello impero; poi, rompendo il debil freno, si resse per suoi conti sovrani; ed or da Beatrice, ultima di quel sangue, era stata recata in dote a Carlo d’Angiò. Quell’acerba signoria, onde la Puglia poi pianse e la Sicilia insanguinossi, spaziavasi già in Provenza: fraude e forza aveano spogliato di lor franchige repubblicane Marsiglia, Arles, Avignone: tra cupida dell’altrui avere, e tremante del suo tiranno, correa Provenza alle armi per aggrandirlo. Smugneanla di danari Carlo e Beatrice; costei fino i suoi gioielli impegnò; altra moneta fornì re Lodovico; altra ne tolse in presto il conte d’Angiò da Arrigo di Castiglia, e da mercatanti e baroni. Così raggranellando di che provvedere ai preparamenti, si raccolsono i guerrieri, ai quali il bando della croce era pretesto, scopo l’acquisto: e venivano sotto la insegna di ventura dell’Angioino, chi condotto per soldo, chi conducendo del suo un picciol drappello, quasi messa di gioco o di commercio, per guadagnar poderi nell’assaltato reame. Sommavano a trentamila, tra cavalli e fanti: e però esercito lo appellano le istorie, non masnada di ladroni, congregati di là dei monti a riversarsi in Italia, a scannar per rubare, e comandar poi, e ribellione chiamar la difesa.

Per arrisicato viaggio di mare, schivando l’armata fortissima di Manfredi, Carlo con un pugno d’uomini venne in Italia: di giugno milledugentosessantacinque prese l’uficio di senator di Roma, assentitogli temporaneamente dal papa: d’autunno le sue genti, valicate le Alpi, non trovarono riscontro nei Ghibellini d’Italia; dei quali chi fu compro, e chi tremò. E così la fortuna, che annulla d’un soffio gli umani consigli, volgea le spalle a Manfredi. Le divisioni d’Italia a lui nocquero fieramente, risorgendo i Guelfi a quelle novità; nocquegli la possanza della Chiesa; ma il voltabile animo de’ suoi baroni fu che disertollo; e la mala contentezza dei popoli, causata dalle spesse e gravi collette, dal piover degli anatemi, dai mali tanti che la lotta con Roma avea partorito. Sdegno e necessità di assicurarsi, aveano cacciato innanzi Manfredi in tutto il tempo del suo regno; nè avea ascoltato i richiami de’ popoli, che lunghi anni si sprezzano, ma suona un’ora alfine che morte ne scoppia e sterminio.

Quest’ora già rapiva Manfredi: e sentiala il grande, ma volle mostrare il volto alla fortuna. Tedeschi e Italiani accozzava, e quanti Pugliesi credea fedeli, e i Saraceni siciliani trapiantati in terraferma, che odiosi a tutti teneano a lui solo: e attendeva a ingrossare l’esercito, e temporeggiarsi col nemico, cui l’indugio era ruina. Correa rigidissimo il verno. Carlo d’Angiò con la regina, s’era incoronato già in Vaticano a dì sei gennaio del sessantasei: stringealo la diffalta di danari a vincer tosto, o sciogliere l’esercito. Ondechè difilato e precipitoso veniane, con un legato del papa, con aiuti de’ Guelfi: e a Ceperano pria si mostrò; dove tradimento o codardia sgombravagli il passo del Garigliano11, e per lieve avvisaglia schiudeagli San Germano et Rocc’Arce; e valicar gli facea senza trar colpo il Volturno. Solo a Benevento si pugnò, a dì ventisei di febbraio, perchè v’era Manfredi, nè Carlo udir volle di pace. Pugnaron, dico, i Tedeschi, e i Saraceni di Sicilia; fuggiron gli altri; vinse con grande strage l’impeto francese. Allor Manfredi avventossi tra’ nemici a cercar morte; e se l’ebbe. Tra mille cadaveri trovato il suo, gli alzarono i soldati nemici una mora di sassi; e poi pur quell’umile sepoltura gli negò l’odio del legato pontificio: e le ultime esequie dello eroe svevo, fur di gettarlo a’ cani sulle sponde del Verde.

E Napoli fe’ plauso al conquistatore: la ribellione, la rotta dello esercito, il fato del re, fecer piegare il resto di Puglia e di Calabria, e la Sicilia arrendersi; sol tenendo fermo que’ Saraceni fortissimi in Lucera. Alla grossa partironsi i tesori del vinto, tra Carlo, Beatrice, e lor cavalieri: s’ebbono quei soldati di ventura, dignità e terre. E i popoli, che per mutar di signori rado mutano al meglio lor sorti, ne avean pure l’usata speranza; parendo che nella pace s’allevierebbero i tributi, ordinati a sostenere quella pertinacissima guerra contro la corte di Roma.





  1. Manfredi nacque di Federigo, e di una nobile donna della famiglia de’ Lancia, che poi vicina al morire fu sposata dall’imperatore, divenuto già vedovo. Con questo alcuni pretendeano legittimare Manfredi.
  2. Scorrendo rapidamente i preliminari, e toccando punti istorici notissimi, io lascerò indietro le citazioni infino al cominciamento della dominazione angioina. Le noterò solo in alcun luogo più importante. Così è questo delle pratiche di papa Innocenzo a fomentare gli umori repubblicani in Puglia e in Sicilia. Esse ritraggonsi non solo dagli storici contemporanei, ma sì da’ brevi del papa, dati a 24 aprile 1246 - 23 gennaio e 13 dicembre 1251 - 18 ottobre e 2 novembre 1254, recati da Raynald, Ann. eccl., negli anni rispettivi, §§. 11 - 2, 3, 4 - 63, 64. Quod vobis sicut gentibus cœteris aliqua provenirent solatia libertatis: - universitas vestra in libertatis et quietis gaudio reflorescat: - habituri perpetuam tranquillitatem et pacem, ac illam iustissimam et delectabilem libertatem qua cœteri speciales Ecclesiæ filii feliciter et firmiter sunt muniti - queste e somiglianti son le frasi del papa.
  3. Il numero delle città grosse era considerevole in Sicilia, molto più che nel regno di Napoli, come io farò osservare in piè del Docum. II.
        È da avvertire che il di Gregorio (Considerazioni su la storia di Sicilia, lib.2, cap. 7; lib. 3, cap. 5, e lib. 4, cap. 3) non sembra molto esatto nelle sue idee su l’importanza de’ comuni siciliani, nei secoli duodecimo e decimoterzo. Forse i tempi sospettosi in cui scrisse questo valente uomo, l’indole morbida, i timori, le speranze, i riguardi di lui, ch’era istoriografo regio e prelato, lo portarono a presentare in tal guisa l’elemento democratico, se così può chiamarsi, dell’antica nostra costituzione. Sforzato dai molti documenti, egli accetta che alcune città avessero proprietà comunali, che le adunanze popolari deliberassero sopra alcuni negozi municipali, ed eleggessero alcuni officiali pubblici; accetta la tendenza, com’ei dice, pericolosissima delle nostre città alle forme repubblicane, e il sospetto che n’avea preso l’imperator Federigo, e le caute concessioni alle quali si mosse; e con tutto ciò, credendo commesso ad officiali regî il maneggio di faccende che piuttosto poteano appartenere a’ magistrati municipali, conchiude assai frettolosamente, che infino a’ tempi di Federigo imperatore non v’ebbero in Sicilia forme municipali propriamente dette; che quegli ne creò un’ombra; e che i comuni non presero stabilità e forza che ai tempi aragonesi. Io credo che ben altro risulterebbe da una ricerca de’ documenti, da una investigazione delle tradizioni storiche, da una istoria infine delle municipalità siciliane, che con tempo, spesa, fatica, si potrebbe compilare. E pur mancando questo lavoro, parmi poter giudicare l’importanza di quelle municipalità nel secolo decimoterzo: in primo luogo dalla loro tendenza repubblicana, evidente ancorchè immatura; e in secondo dall’esistenza delle adunanze popolari, le quali son certamente l’elemento più forte di governo municipale, e poco importano del resto i nomi e gli ufici dei sindichi, giurati, borgomastri o somiglianti magistrati esecutivi. S’aggiunga a questo, che il di Gregorio cita i maestri de’ borghesi ne’ tempi normanni, e poi non ne fa più caso; e che il suo argomento, fondato su poche carte, potrebbe valere forse pei tempi nostri in cui la legge municipale è uniforme e universale, ma non per que’ secoli in cui non v’erano che privilegi speciali, difformi l’un dall’altro, dati in tempi e in circostanze diverse. E ricordinsi infine le parole di Ugone Falcando egregio istorico del secol XII, che narrando la ripugnanza de’ borghesi siciliani a soffrire i dritti pretesi da qualche novello barone francese, li chiama cives oppidanos, cives liberos; e nota espressamente ch’essi godeano libertà e franchige, non juxta Galliæ consuetudinem. Il vocabolo cives liberos, usato con tal significazione, ci rende certi della esistenza delle corporazioni municipali.
        Perciò io tengo per fermo, che le nostre municipalità, avanzo de’ tempi greci, romani, bizantini, e forse non distrutte da’ Saraceni, i quali non aveano la smania di vestir tutto il mondo alla lor foggia, furono parte dell’ordine dello stato nei tempi normanni: che anzi, crescendo gli umori municipali in Sicilia sì come nella terraferma italiana l’imperator Federigo pensò ripararvi dall’una parte con le minacce, dall’altra con le concessioni: che, falliti i disegni repubblicani del 1254, le municipalità sotto Manfredi e Carlo d’Angiò continuarono ad essere un utile strumento di governo, massime nella riscossione delle entrate pubbliche, nell’armamento delle navi, de’ fanti, e simili bisogni pubblici: che nella rivoluzione del vespro senza dubbio si levarono a maggior potenza, senza mutare perciò i loro ordini semplici e gagliardi: e che sotto gli Aragonesi la esclusione de’ nobili dagli ordini municipali, e la istituzione dei giurati, furono senza dubbio grandi passi, ma non costituirono l’importanza del governo comunale, che stava nelle adunanze popolari. I giurati furono dapprima un tribunato, o un pubblico ministero, che vegliava alla retta amministrazione della giustizia nel proprio comune, e alla condotta degli uficiali regi; nè amministravano in quella prima istituzione le cose del municipio, ch’è stato per lo più un uficio insignificante, e, come dicono gl’Inglesi, «servente il tempo,» e stromento docilissimo del potere assoluto.
        Oltre a ciò è noto, che nelle monarchie feudali le nazioni furon piuttosto aggregati di vari piccioli corpi politici, che comunanza di uomini regolata dall’azione diretta del governo. Il poter sovrano in molte parti dell’ordinamento civile non operava su gl’individui, ma su i loro rappresentanti: volgeasi a ciascun corpo di vassalli feudali per mezzo del barone, a ciascun corpo di borghesi per mezzo della municipalità. Ondechè, se in tutt’altra monarchia feudale de’ secoli XII e XIII era ormai necessaria la esistenza delle municipalità, sembrerà impossibile che mancassero in Sicilia, ove la feudalità nacque sì moderata; ov’erano molte proprietà allodiali, grosse e superbe città, e perciò una vasta massa di popolazione su la quale il governo non avrebbe saputo agire senza il mezzo de’ corpi municipali, massime in ciò che risguardasse la contribuzione ai bisogni, pubblici, sia con servigio personale, sia con moneta.
  4. Chron. Mon. S. Bertini, presso Martene e Durand, Thes. nov. Anec. tom. III, pag. 732.
  5. Questo è il medesimo cognome di Dante, che si scrivea Aldigherius nel secolo XIV, come veggiamo nel comento di Benvenuto da Imola. Ma non v’ha alcuna memoria del comun lignaggio tra Leonardo Aldighieri e ’l poeta fiorentino.
  6. La narrazione di questa repubblica in Sicilia è cavata da:
    Bart. de Neocastro, Hist. sic., cap. 2, 4, 5, 47, 87.
    Saba Malaspina, in Caruso, Bibl. sic., v. 1, pag. 726 a 736, e 753, e in Muratori, R. I. S. tom. VIII.
    Nic. di Jamsilla, in Muratori, R. I. S. tom. VIII.
    Cronaca di Fra Corrado, in Caruso, Bibl. sic., v. 1, anni 1254 e 1255.
    Appendice al Malaterra, in Muratori, R. I. S. tom. V, pag. 605.
    Raynald, Ann. eccl., 1254, §§. 63 e 64, e 1256, §§. 30, 31, 32.
    Breve di papa Alessandro IV ai Palermitani, dato a 21 gennaio 1255, tra’ Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 2; pubblicato dal Pirri, Sic. sacra t. II, p. 806, dove si legge: ut per convenciones et pacciones inter civitates et castra et alia loca tocius loci Siciliæ inhitas, nec non et per privilegia super iis eis concessa, vobis in Ecclesiæ romanæ devocione persistentibus et civitati vestræ nihilum in posterum præjudicium generetur. Un altro breve papa Alessandro IV al podestà, consiglio, e comune di Palermo, dato di Laterano l’8 gennaio an. 2º, li ammonisce alla restituzione del castello, rocca, e altri beni occupati da loro al vescovo di Cefalù. Ne’ Mss. della Biblioteca com. di Palermo Q. q. G. 12; e citato dal Pirri, Sic. sacra, tom. II, pag. 806.
    Breve dato di Napoli a 29 gennaio 1255, indirizzato a frate Ruffino de’ minori, cappellano e penitenziere del papa, vicario generale in Sicilia e Calabria del cardinale Ottaviano legato.
    Bolla data di Anagni a 21 agosto 1255, al medesimo frate Ruffino, che comincia così: Eximia dilecti filii nobilis viri Roglerii Finectae fidelis nostri merita sic preeminent et prefulgent, etc. Il papa, non sapendo abbastanza premiar questo Ruggiero Fimetta, gli concedeva in feudo Vizzini, Modica, Scicli, e Palazzolo, castelli che rendeano, dice la bolla, a un di presso dugento once all’anno.
    Bolla del 27 agosto del medesimo anno al medesimo frate Ruffino. Concedesi in feudo a Niccolò di Sanducia, fratel cognato di Ruggier Fimetta e testè tornato in fede della Chiesa, il casale Scordiæ Suitan situm in territorio Lentini.
    Questi tre diplomi, cavati da’ registri Vaticani, Epistole n. 574 e 121, leggonsi in Luca Wadding, Ann. minorum, Roma, 1732, tom. III, pag. 387, 537 e 539.
    Breve di Urbano IV, cavato da’ diplomi della Chiesa di Girgenti, e pubblicato dal Pirri, Sic. sacra, tom. I, p. 704, nel quale si fa parola dell’imprigionamento del vicario frate Ruffino.
    Di costui in fine dà notizia un altro breve del 13 novembre 1254, recato dal Pirri nello stesso luogo; nel quale diploma è notevole, che il papa concedea al vescovo di Girgenti alcuni dritti del regio fisco.
    Il guasto dei poderi della corona in Caltagirone, si scorge da un privilegio in favore di quella città, dato da Manfredi, balio di Corradino; il quale è citato dal P. Aprile, Cronologia della Sicilia, cap. 27.
  7. Si narra che in una festa a corte di Francia, Beatrice, contessa di Provenza, fu cacciata dal gradino ove sedeano le due sorelle minori, regine, l’una di Francia, l’altra d’Inghilterra (la terza, ch’era assente, fu moglie di Riccardo d’Inghilterra, re de’ Romani); ond’ella si tornò dispettosa e piangendo alle sue stanze; e Carlo, saputa la cagione di questo femminile cordoglio, baciandola in bocca, le dicea: «Contessa datti pace, che io ti farò tosto maggiore reina di loro:» e ciò lo stigava oltremodo all’impresa di Sicilia.
    Gio. Villani, lib. 6. cap. 90. ed di Firenze 1323.
    Ramondo Montaner, cap. 32.
    Cron. di Morea, lib. 2, pag. 39, ed. Buchon 1840.
  8. Raynald, Ann. eccl., an. 1253 e seg.
    Si vegga altresì Hume, Storia d’Inghilterra— Arrigo III, cap. 12, dov’è citato Matteo Paris.
    Duchesne Hist Franc. Script. tom. V, pag. 869 a 873.
    I documenti delle pratiche de’ papi per la concessione del reame ad alcuno de’ principi nominati, leggonsi presso:
    Lünig, Codice diplomatico d’Italia— Napoli e Sicilia— tom. II, n. 30 a 42.
    Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, ed. Londra, 1739, tom. I, pag. 477 e seg. ove son citati questi documenti:
    3 agosto 1252.— Innocenzo IV, a re Arrigo III, tom. I, pag. 477.
    28 gennaio 1253.— Diploma d’Arrigo III, pag. 893.
    14 maggio 1254.— Innocenzo IV all’arcivescovo di Canterbury, etc., pag. 511.
    Questo è il primo documento ove si parli della concessione al principe Edmondo. Il papa comanda si accatti danaro per la impresa, con sicurtà su i beni delle chiese d’Inghilterra.
    14 maggio 1254.— Altri quattro brevi d’Innocenzo IV, pag. 512 e 513, dall’ultimo de’ quali si vede che re Arrigo era stato dubbioso a muovere contro un principe congiunto suo, e che il papa il confortava.
    22 maggio 1254.— Innocenzo IV ad Arrigo III. Che non ispenda danaro in cose profane, nè sacre, e tutto serbi alla impresa di Sicilia, p. 515. Allo stesso effetto ci è una epistola alla regina, una a Pietro di Savoia.
    23 maggio 1254. Innocenzo IV ad Arrigo III.
    31 detto. . . . .
    9 giugno . . .

    14 ottobre 1254.— Arrigo III, come tutore di Eduardo re di Sicilia a’ prelati, conti, baroni, militi e liberi nomini di questo reame, p. 530.
    17 novemb. 1254. — Innocenzo IV ad Arrigo III.
    . . . . . . 1255. — Alessandro IV. È uno scritto delle condizioni alle quali si concede il reame di Sicilia e Puglia a Edmondo, p. 893.
    21 aprile 1255. — Alessandro IV ad Arrigo III. Perchè paghi una somma di danaro, spesa dalla corte di Roma per l’occupazione di Puglia, pag. 547.
        3 maggio 1255. — Alessandro IV commuta nella impresa di Sicilia il voto preso da re Arrigo per Terrasanta, pag. 547.
        7 detto. — Altra bolla sullo stesso soggetto, p. 548.
        11 detto. — Alessandro IV scrive aver commutato alla impresa stessa il voto del re di Norvegia e de’ suoi, pag. 549.
        12 detto. — Altra bolla allo effetto stesso.
        13 detto. — Alessandro IV ad Arrigo III, p. 550.
        15 detto. — Bolla dello stesso perchè si riscuotessero da Arrigo per la impresa siciliana que’ denari in cui erano stati mutati i voti presi da molte persone per guerreggiare in Terrasanta; e si richiedessero anche dagli eredi, p. 551.
        16 detto. — Bolla dello stesso pel voto del re Arrigo III, pag. 552.

        21 detto. Pag. 553 e pag. 573
        30 novembre 1255. Per lo giuramento di Edmondo alla corte di Roma.

        5 febbraio 1256. — Alessandro IV al vescovo di Hereford, perchè sulle decime d’Inghilterra si pagassero i debiti contratti dal papa per l’impresa di Sicilia, pag. 581.
        27 marzo 1256. — Arrigo III al papa. Scrive non potere, per le turbazioni del regno suo, mandar forze in Italia, nè fare al papa il pagamento, ch’ei volea prima di ogni altro, per le spese sostenute da Roma negli assalti del regno. Era di 135,541 marchi; e dice Arrigo: _Non enim credimus quod hodie princeps aliquis regnet in terris, qui ita subito tantam pecuniam possit habere ad manus._
        Altre lettere simili a vari cardinali leggonsi a pag. 587.
    .... 1256. — Eduardo primogenito di Arrigo III, dà un giuramento per questo negozio di Sicilia, pag. 586.
        11 giugno 1256. — Alessandro IV a re Arrigo III, pag. 593.
        27 settembre 1256. — Bolla che proroga il termine dato ad Arrigo per l’impresa di Sicilia, pag. 608.
    .... detto. — Bolla che obbliga i prelati di Scozia a pagare il danaro tolto in presto dal papa per la guerra di Sicilia, pag. 608.

        6 ottobre. Alessandro ad Arrigo III, pag. 611, pag. 612.
        9 novembre.

        10 maggio 1257. — Arrigo III al papa. Scrive avere con l’arcivescovo di Morreale, legato del papa, ordinato l’impresa, e scelto il capitano, pag. 620.
        .. Maggio 1257.— Arrigo al papa. A questo effetto ha fermato pace col re di Francia.
        3 giugno 1257.— Alessandro IV al suo nunzio in Inghilterra. Riscuota il danaro tolto in presto sulle decime, non ostante il divieto del re, che già si noiava della spesa.
        E moltissime altre, che sarebbe lungo e non utile a noverare.
        Leggonsi anche questi ed altri documenti negli Ann. eccl. di Raynald, tom. II et III. Nè li ho citato, parendomi inutile replicare le autorità per fatti sì certi.

  9. Le trattative leggonsi in una bolla d’Urbano IV, data d’Orvieto il 26 giugno 1263, che contiene a un di presso le condizioni della bolla di concessione di Clemente IV; se non che il papa domandava o quelle ricche province col censo di due mila once d’oro, o, per tutto il regno, il censo di dieci mila; riserbandosi sempre Benevento. Si contentò poi di dare tutto il regno per once otto mila all’anno. Questa bolla sarà in breve pubblicata dall’erudito sig. Alessandro Teulet, che l’ha cavato dagli Archivi del reame di Francia, e me l’ha gentilmente comunicato.
  10. Lünig, loc. cit. n. 43.
        Ecco il sommario di questa bolla, data di Perugia il quarto dì anzi le calende di marzo dell’anno primo di Clemente IV.
        Discorso a lungo della concessione precedente a Edmondo d’Inghilterra, la quale si replica esser nulla, per le non adempiute condizioni, e per la mancanza di un atto in buona forma; il regno di Sicilia, con tutta la terra tra lo stretto e i confini dello stato della Chiesa, è dato a Carlo d’Angiò, che prima della festa prossima di san Pietro, vada a Roma per l’investitura, mentre il cardinale delegato a questo negozio in Francia gli darebbe un sussidio sulla decima delle chiese, e predicherebbe la croce contro Manfredi.
        Le condizioni della concessione sono:
    1. Resti Benevento alla Chiesa.
    2. Carlo, e i suoi, e gli eredi non possano avere proprietà, nè autorità in alcuna terra appartenente alla Chiesa di Roma.
    3. Diansi alcuni privilegi a Benevento.
    4. Ordine della successione, con la ricadenza alla Chiesa, in difetto di eredi legittimi e del sangue.
    5. Censo di ottomila once di oro alla Chiesa, in ogni anno; e scomuniche e caducità dal regno se non si paghi.
    6. Dopo l’acquisto del reame, in tutto o in parte, Carlo paghi alla Chiesa 50,000 marchi per le spese sostenute da lei.
    7. Presenti al papa un palafreno bianco ogni tre anni.
    8. Ne’ bisogni della Chiesa mandi 300 uomini d’arme (cioè da 900, a 1,200 cavalli) per tre mesi in ciascun anno; il qual servigio si possa rendere in vece con navi armate.
    9. I re di Sicilia e Puglia prestin omaggio ad ogni papa.
    10. Non dividano il territorio. Qui è la formola del giuramento ligio che debban rendere a Roma.
    11. Non possano essere imperatori, nè re de’ Romani, o di Teutonia, nè signori in Lombardia, o Toscana.
    12. Gli eredi loro, se eletti ad alcuna di queste signorie, lasciala.
    13. Le eredi del regno non si maritino a principi di quelle regioni.
    14. Stabilito un giuramento per le condizioni dell’art. 12.
    15. Se il re sia eletto imperatore, emancipi il figlio, e gli lasci questo reame.
    16. Simile condizione per le donne eredi del trono.
    17. La donna erede del trono non si mariti senza piacimento del papa.
    18. Esclusi i bastardi dalla successione.
    19. Il regno non si unisca mai ad altro d’Italia, nè all’impero.
    20. Caducità e scomunica, se il re occupi terre della Chiesa.
    21. Restituiscansi, sotto gli occhi di commissari del papa, i beni mobili e immobili tolti alle Chiese.
    22. Libertà delle elezioni ecclesiastiche, salvo il padronato regio. Facciansi in Roma le cause ecclesiastiche.
    23. Rivocazione degli statuti svevi contro le immunità ecclesiastiche.
    24. Immunità degli ecclesiastici da’ giudizi ordinari.
    25. E dalle gravezze.
    26. Restino alla Chiesa i frutti delle sedi vacanti.
    27. I feudatari e i sudditi abbiano le immunità e i privilegi goduti sotto Guglielmo II.
    28. Rientrino gli esuli a piacer della Chiesa.
    29. Divieto di ogni lega contro la Chiesa.
    30. Liberazion de’ prigioni sudditi del papa. Restituzione dello stato al duca di Sora. Rivocazione delle concessioni di feudi o altri beni per Federigo, Corrado, e Manfredi.
    31. Carlo venga all’impresa, con esercito non minore di 1,000 uomini di arme (contando 4 cavalli per ogni uomo di arme), 300 balestrieri, ec, ec.
    32. Venga in tre mesi dopo la concessione.
    33. Le condizioni scritte di sopra valgano pei successori di lui.
    34. E compiuta che sia l’impresa, abbia il privilegio di concessione con la bolla di oro.
    35. Non tenga per tutta la sua vita l’uficio di senator di Roma.
    36. Lascilo anzi nel termine di anni tre; e intanto lo eserciti a favor della Chiesa, e disponga per lei i Romani.
  11. Tutti questi casi della conquista di Carlo ritraggonsi da:
        Saba Malaspina, lib. 3, cap. 1.
        Ricordano Malespini, cap. 179, ambo, presso Muratori R. I. S., tom. VIII, e da molti altri contemporanei.
        Del resto ved. Muratori, Annali d’Italia, 1266.
        E ricordisi in Dante:
    A Ceperan, là dove fu bugiardo
    Ciascun Pugliese.             Inf., c. 28.

    L’ossa del corpo mio sarieno ancora
    In co’ del ponte, presso a Benevento,
    Sotto la guardia della grave mora:
        Or le bagna la pioggia, e muove ’l vento
    Di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
    Ove le trasmutò a lume spento.

    Purg., c. 3.               

Note

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