Questo testo è incompleto. |
◄ | Capitolo IV | Capitolo VI | ► |
CAPITOLO V.
Relazioni straniere di Carlo I d’Angiò. Crociata e trattato di Tunisi. Carlo aspira all’impero greco. S’ingrandisce in Italia. È raffrenato da Gregorio X. Disegni di Niccolò III e nimistà di lui con Carlo. Pretensione di Pier d’Aragona al reame di Sicilia: supposte pratiche di lui per mezzo di Giovanni di Procida. Preparamenti di guerra in Aragona. Esaltazione di Martino IV. Armamenti di Carlo per l’Oriente. Sentimento nazionale manifestato in Italia contro i Francesi. Novelli aggravi che soffrono i Siciliani: richiami, umori, disposizioni loro. 1266-1282.
Dal governamento interiore or trapasseremo alle brighe di fuori, senza
le quali non sarebbero tutte spiegate le cagioni del vespro; perchè
l’infrenabile ambizione di re Carlo fu quella che gli suscitò contro i
potenti offesi o minacciati, e insieme condusse a disperazione i
sudditi, torturati per supplire a sforzi che di gran lunga passavano
il poter loro. Ebbe Carlo dalla liberalità di san Luigi la contea
d’Angiò; quelle di Provenza e di Forcalquier, dal matrimonio con
Beatrice; i domini italiani, dal papa e dal proprio valore: e tal
prosperità invasò tutto d’ambizione l’animo suo, nato a questo;
foltissimo e costante anzi caparbio nel volere; audacissimo
all’eseguire; non risguardante a giustizia nelle cose politiche, e
manco nelle civili e private; non mitigato dal più fugace sentimento
d’umanità; per temperanza religiosa, o abitudine e disposizione del
corpo, non isvagato da amori; brusco nel tratto; spiacente e ingrato
fino ne’ cattivi versi che dettò; avaro, rapace, durissimo al rendere;
non severo però nè scarso co’ satelliti della sua ambizione. Crebbe da
fanciullo nelle armi; seguì il fratello alla prima impresa d’Affrica;
acquistò chiaro nome in guerra per valore, e anco per le qualità della
persona da spirar nella moltitudine fidanza o terrore: un robusto, grande, dal volto nasuto, olivastro, spirante fierezza, non
composto mai a sorriso, sobrio, vigilante; e solea dir che i
dormigliosi ne perdon tanto di vita. La quale austerità e attitudine
alla guerra sembran le sue sole virtù: e più sarebbe stata la
religione, se non l’avesse inteso a suo modo: riverire il sacerdozio
quando non gli contrastasse ambizione; donare a monisteri; erger
chiese; e credere che si serve a Dio con ciò solo, calpestando il
vangelo nei sublimi precetti della carità. Per tali vizi e virtudi e
fortuna era costui molto ridottato in cristianità, come potente,
bellicoso, irresistibile 1. Per le stesse cagioni, sospinto da sua
natura e fatto cieco dalle prosperità, ei montò agevolmente, e
inaspettatamente cadde. Non prima occupò il trono di Manfredi, che
prese a guardar di là dal mare l’impero greco, di là dal Garigliano
l’Italia superiore; lacerati, l’un da eresia, tirannide, e pretensione
di due schiatte di principi, l’altra dalle parti politiche; e la
potenza di Roma vedea presta ad aiutarlo, là col pastorale, qua con la spada guelfa. Pertanto si die’ Carlo, dall’anno sessantasei all’ottantadue, a novelle ambizioni, che senza tenerci strettamente all’ordine dei tempi, ma più al legame de’ fatti, discorreremo a parte a parte.
E pria direm come da que’ disegni re Lodovico il chiamò a sterile impresa. Ardente di pio zelo faceasi Lodovico a ritentar l’affricana terra, fatale a Francia; per tutta cristianità bandiva la crociata, sforzandosi a ricondurvi il secolo già inchinato ad altre brame, e il fratello che amava meglio a spiegar la croce contro i ricchi cristiani. Gli ambasciatori di Francia mandati a sollecitar Carlo alla crociata, richiedeanlo inoltre della restituzione del danaro sovvenutogli quand’egli era povero principe del sangue reale, e non reso or che il re di Francia si trovava in bisogni assai maggiori de’ suoi 2. Nè Carlo ebbe fronte di ricusar l’invito alla guerra; ma temporeggiò, consigliando sotto specie del ben della impresa l’util proprio: che si facesse il primo impeto sopra il reame di Tunisi, tributario a Sicilia infin da’ tempi normanni, e allora ricalcitrante a quel peso. Infine ragunata in Sicilia l’armata, passò in Affrica re Carlo, ad avvantaggiarsi ei solo nella perdita de’ suoi. Trovò l’oste di Francia a campo a Tunisi, diradata da fame, pestilenza, ferro nimico: il fratel suo non trovò, il santo e forte Lodovico, il quale colto dalla contagione, rendè l’ultimo fiato, pur mentre Carlo sbarcava, il venticinque luglio milledugentosettanta. Delle cui brame non curossi Carlo, nè del sepolcro di Cristo; e come nell’altra crociata, appena ricattatosi di prigione, avea abbandonato il fratello per andare a molestar i novelli suoi sudditi di Provenza, così or patteggiò col re di Tunisi: sgombrasse l’esercito battezzato, con restar libero in quelle province il cristian culto; stipulò per sè stesso una grossa somma di danaro, e l’aumento del tributo3. Allor dissero vendetta celeste dell’abbandonata guerra, una tempesta che fracassò nel porto di Trapani l’armata ritrattasi d’Affrica, sì che l’acquistato danaro rimase preda delle onde4. Peggio ne andò in pezzi per cristianità tutta il nome di Carlo, per aver dato di piglio nelli avanzi di quel miserando naufragio; spogliato i guerrieri della croce, i fratelli suoi d’arme, sotto specie di uno statuto di Guglielmo il Malo, che appropriava al fisco le robe dei naufraghi5. Ma a Carlo eran ciance: vedea solo i tesori via alla possanza; la possanza via ai tesori.
Per isfrenata signoria di una corrotta corte e d’un clero accanito in teologici assottigliamenti, l’imperio di Costantinopoli cadeva in quel tempo: senza buone armi; nemico per fiero scisma ai cristiani di ponente; da’ barbari scemo di vastissimo paese. Un’oste crociata di Veneziani e di Francesi s’era già impadronita della capitale stessa; avea locato un conte di Fiandra sul solio di Costantino. Ma, a danno maggiore, non pure allignando quella nuova dominazione, i principi greci fuggenti ripigliavan animo a combatterla: Michele Paleologo infine, usurpato per misfatti il rinascente imperio di gente greca, rinnalzaval con animo e senno, occupando Costantinopoli nel milledugentosessantasette, e scacciando al tutto gli stranieri; ma la forza e dignità dello imperio non potè ristorare. Prendendo allor a peregrinare in ponente, Baldovino, il latino imperatore, dopo vano accattar aiuti dagli altri principi ortodossi, gittavasi infine in braccio a re Carlo6. Innanzi la passata a Tunisi, innanzi la guerra di Corradino, appena messo il pie’ in Italia, macchinò Carlo l’occupazion dell’impero greco: chè ciò eran manifestamente i patti, che a corte e nelle stanze medesime di papa Clemente, ei fermò con Baldovino; vero accordo tra potente e mendico. Perchè riguardando, scrivea l’Angioino, alle calamità di Terrasanta, a’ travagli della Chiesa, alla desolazione di Grecia, e commiserando l’abbietta fortuna dell’imperatore, promettea portare entro sei anni un esercito al racquisto dell’impero; ma da questo andavano scorporati a favor suo il principato di Acaia e Morea, e ’l reame di Tessalonica; e tornavagli dippiù la terza parte de’ conquisti, e l’aspettativa del solio stesso di Costantinopoli, mancando il sangue de’ Courtenay; oltrechè la bambina Beatrice di Carlo fidanzavasi a Filippo unico erede di Baldovino7. Mirò pochi anni appresso al dominio utile del principato di Morea, di cui per tal trattato avea acquistato il diretto dominio; ond’avvenne che i Francesi quivi trapiantati, i quali molto s’eran allegrati della vittoria di Carlo sopra Manfredi, allor tutto sentirono il peso dell’amistà con un vicino forte e ambizioso, che non abborrì dall’arricchirsi delle spoglie della dinastia francese de’ Ville-Hardoin. Perchè Guglielmo di questa gente, principe di Acaia e Morea, incalzato dal Paleologo, dandosi anch’egli in balía di Carlo, disposò a Filippo figliuol dell’Angioino, Isabella sua figlia ed erede: e venuto esso a morte, e anco Filippo, i sovrani di Napoli presero il titolo di quel combattuto principato; ritennero la Isabella come prigione in Napoli; e usurpavano il paese del tutto, tra protezione e alta signoria, se non era per la guerra di Sicilia8. Nel medesimo tempo si apriva la strada Carlo I alla selvatica Albania con le solite arti: si facea da quei turbolenti chiamare al trono: e legavasi ad essi col vecchio ludibrio de’ giuramenti; con sì bella scambievole fidanza, che a sicurare i suoi uficiali e guerrieri mandati in quelle regioni, richiedea statichi albanesi, e in Aversa li custodia strettamente9. Per tal modo approcciavasi alla sede dell’impero greco, circondavala, insidiavala d’ogni dove10.
E in Italia, spento Corradino, e con lui l’ardir novello de’ Ghibellini, l’usato gioco fe’ montar parte guelfa: per la cui riputazione, e del papa, e della vittoria, s’aggrandiva re Carlo; ridendosi ormai de’ limiti che la gelosia della romana corte aveagli assegnato nella investitura del reame. Ripigliò in Roma l’uficio di senatore: tornò a comandare in Toscana da vicario imperiale, e a perseguitare senza freno i Ghibellini11: saltò in Piacenza: in Piemonte molte cittadi occupò; molte in Lombardia, talchè quivi poco mancò nol creassero principe. Genova dapprima insidiò con gli usciti; poscia assaltò scopertamente con le armi; e innanti che denunciasse la guerra, spogliò i Genovesi che ne’ suoi reami mercatavan sicuri: onde se la forte repubblica il fiaccava nelle battaglie di mare, non gli mancò pasto all’avarizia. I suoi intanto, non era violenza o ingiuria che non osassero. Guidone da Monteforte, a Viterbo, nel tempio, tra i riti del sacrifizio di Cristo, levava l’empie mani a trucidare e trascinare Arrigo, principe reale inglese; e, sgridato più che punito, il sacrilego assassino campò. Altri ad altri misfatti si sciolsero, men ricordati dalle istorie perchè versavasi men illustre sangue12. Ma la rabbia delle parti accecava gli uomini a questi evidenti mali della signoria straniera; e in que’ primi tempi della passata di re Cario, la fece anzi richiedere in varie città. Ed egli alternando forza e frode, qui mettea piè da signore, là da protettore; spogliata una provincia, con quell’oro assoldava masnade che ne occupassero un’altra; ai pochi e forti, perchè gli fosser sostegni, prostituiva le sostanze e i dritti più santi dei cittadini: e s’avanzava a gran passi al dominio di tutta la penisola.
Tuttavia quella che l’avea suscitato cominciò a reprimerlo: la romana corte, che di sgherro già sentival padrone. Clemente non fe’ che ammonirlo, perchè poco visse oltre la vittoria. Vacò il pontificato poi tre anni; ne’ quali cresciuta la possanza di Carlo, i fratelli del sacro concistoro, non bastando a frenarla, ne colser odio e terrore. Indi esaltato Gregorio X nell’anno milledugentosettantuno, come vivuto fuori d’Italia e delle parti, ed entrato ne’ nuovi sospetti della romana corte, nuovi consigli tentò. Aveano i predecessori fomentato le divisioni d’Italia, ed ei fe’ ogni opera a risanarle; aveano difficultato la elezione dell’imperatore, ed ei la procacciò; sì che fu data quella corona a Ridolfo d’Hapsburgo, picciol signore, ma uomo di grandissimo animo, fondator della grandezza della casa d’Austria. Il Paleologo intanto a schivare i colpi dell’avara pietà di ponente, sforzava i suoi che assentissero la processione dello Spirito Santo dal Padre e sì dal Figliuolo, ch’era l’importanza dello scisma; e per maneggi e supplizi non persuase il clero greco, ma n’ebbe una sembianza di rassegnazione. Allor Gregorio potendo con onor del pontificato fermar la pace col Greco, onde si toglieva il pretesto all’ambizione di Carlo, correndo il settantaquattro ribenedì il Paleologo nel concilio di Lione, e nel grembo della Chiesa l’imperio orientale raccolse. Mal potremmo apporci or noi qual deliro miscuglio di pensieri fervesse nel tempo di questo concilio nella mente di Carlo; religioso a un tempo, e ardente di tutte tirannesche voglie13. Gravi autorità portano14 ch’un suo medico propinasse veleno a san Tommaso d’Aquino, morto nell’andata al concilio; perchè il re temea non si spiegasse a suo danno quel possentissimo ingegno, che il nimicava per odio di famiglia o abborrimento della pessima signoria, e nel suo libro del governo de’ principi, quantunque partigiano della monarchia, avea sfolgorato con le più fiere invettive la tirannide d’un solo, e fattone uno specchio, nel quale Carlo potea guardarsi e riconoscere le sue sembianze15. Reo o no Carlo, quest’accusa almen prova di che fosse tenuto capace. Più certa la rabbia con che posava, sforzato da’ decreti di Lione, le armi apprestate contro il Greco. Al tempo stesso vedeasi tagliati i passi anco in Italia dalla riputazione di Ridolfo, per avviluppato che costui si trovasse nelle guerre tedesche. E fu tanto, che nel settantaquattro, riscotendosi primi gli Astigiani dall’insopportabile giogo, Carlo avea perduto il Piemonte e Piacenza; e negli altri dominî dell’Italia di sopra ormai vacillava. Il prudente pontefice l’abbassava, senza venir con esso a manifesta discordia16.
Morto Gregorio nel corso di sì alto disegno l’anno milledugensettantasei,
si rinfrancò l’Angioino; e pensando di qual momento gli fosse un papa
a sua posta, ogni pessim’arte adoprò nelle elezioni de’ tre pontefici,
ch’entro un anno fur visti regnare e morire. Ripigliò i preparamenti
allora della guerra col Paleologo: ravvivò le pratiche in Acaia, ove
mandò innanzi picciole forze, dai Greci agevolmente oppresse17:
infine il titolo di re di Gerusalemme a’ tanti suoi aggiunse. Vano
nome quest’era ormai, disputato da parecchi principi cristiani.
Federigo II imperatore aveal preso in dote; passato era poi col dritto
al reame di Sicilia ne’ figli di Manfredi; e altri pretendeanvi, e tra
essi una Maria d’Antiochia, principessa tapina e raminga; dalla quale
Carlo il comprò per vitalizio di quattromila lire tornesi sul contado
d’Angiò, parendogli scala a nuove grandezze, e nuovo pretesto
all’impresa di Grecia, perchè teneasi che quell’impero, nido
d’eresiarchi e sleali, tagliasse la via ai luoghi santi, e che indi il
re di Gerusalemme onestamente potesse assaltarlo18. Per tal
modo ripigliava con maggior vigore tutte le antiche ambizioni; e circuiva a ciò ogni conclave con violenza ed inganno, quando l’anno settantasette, abbassata tra’ cardinali la parte francese, valse più della malizia di lui l’italian consiglio, che condusse al pontificato Niccolò III19.
Di grande animo, di smisurati pensieri fu Niccolò20; superbo,
sagace, chiuso nei disegni, veemente all’oprare, non curante della
giustizia ne’ mezzi purchè il fine conseguisse, ch’era ingrandir la
Chiesa per ingrandire gli Orsini; e a nobile effetto il menava:
sgombrare l’Italia d’ogni dominazione straniera. In Italia disegnava
fondar novelli reami, e darli ad uomini di sua schiatta: vedeva
ostacoli a questo l’imperatore e il re; battea dunque Carlo con
Ridolfo; Ridolfo con Carlo; ambo con l’autorità della Chiesa. Al
Tedesco strappò la concessione della Romagna, tenuta infino allora
feudo imperiale: tolse al Francese l’uficio di senator di Roma, il
vicariato di Toscana; e con forte mano il trattenne dall’impresa di
Grecia, ch’egli sempre più affrettava; fomentando da un canto gli
scandali tra i Greci intolleranti del domma nuovo, mal insinuato con
le prigioni, gli accecamenti, e i patiboli; e dall’altro canto
accagionando il Paleologo di questi turbamenti medesimi, e sleale chiamandolo, e falso nella ritrattazione dall’eresia. Contuttociò il pontefice gli negò sempre favore alla impresa21: ond’ei si volse a sfogar contro gli occupatori di Soria la rabbia e il natural talento di rapacità: mandovvi Ruggier Sanseverino conte di Marsico, con titol di vicario del reame di Gerusalemme, e genti e navi, che dalla presa di Acri in fuori, tornarono senza alcun frutto22. Tra Niccolò e Carlo privato sdegno rinvelenì l’odio di stato, quando chiesta dal papa per un suo nipote una donzella di casa d’Angiò, ricusavala Carlo. «Perch’ei s’abbia rosso il calzamento, rispose stracciando le lettere di Niccolò, suo principato non è retaggio; non può il suo mescolarsi col sangue de’ reali di Francia.» Que’ detti, riportati, furon punta di coltello al cuor del pontefice, che tenea la gente Orsina niente inferiore a casa d’Angiò, e sè molto di sopra: onde serbolli a rugumarne e alimentare lo sdegno; ancorchè durassero tra lui e ’l re le sembianze di pace23, per mutua simulazione, e perchè quegli in ogni altra cosa usò riverente col pontefice, ondeggiando sempre tra ambizione e paura del Cielo. Ma non era uom per l’Orsino, il quale sciolto d’ogni riguardo, maturava i colpi, e aspettava il destro a vibrarli24. Profonda intanto sembrava in tutta Europa la pace25.
D’altra parte altri elementi sorgeano a conturbarla. Costanza figliuola di Manfredi, sposa di Pietro re d’Aragona, pretendea, com’erede ultima degli Svevi, la corona di Sicilia e Puglia26; e Pietro salito sul trono lo stesso anno della esaltazione di Niccolò III, ancorchè in picciol reame più magistrato che principe, uom di mente e d’animo grandissimo era. Divisa la Spagna in quel tempo in parecchi stati: alcuno ne teneano i Mori; gli altri, riconquistati da’ cristiani, con larghi ordini reggeansi, misti di monarchia, d’ottimati e di popolani, convenienti a liberi uomini, che per la nazionale indipendenza e la religione, mille pericoli avean durato insieme e duravano. Riconoscean lo stesso principe i reami di Aragona e Valenza, e la Catalogna o contea di Barcellona, ma la sovranità pressochè tutta dalle corti di ciascuno di quegli stati esercitavasi; composte di prelati, baroni, cavalieri, e rappresentanti di città; altere di lor franchezze; scienti della propria possanza. Somigliante agli efori di Sparta stava in Aragona a petto a petto col re l’inviolabile _Justiza_; il quale a nome dei baroni giuravagli il dì del coronamento: «Essi che valeano ciascun quanto il re, tutti insieme assai più di lui, ubbidirebbergli se lor franchezze mantenesse; e, se no, no27.» Indi alti spiriti nei soggetti, miti costumi eran quivi nei re; sopra tutt’altri di que’ tempi, facili alle udienze, dimestichi, senza riti di sussiego o sospetto, compagnevoli, e umani28. Con questi ordini, con questi sudditi, poveri d’altronde e parteggianti, non potea Pietro divisare conquisti; e pur le qualità dell’uomo vinsero gli ostacoli della società in cui vivea. Inoltre per indole imperiosa e severa, avea concitato contro a sè durante il regno del padre i baron catalani, usi all’anarchia; avea mal purgato il suo nome dall’infamia del fratricidio di Ferrando Sanchez figliuol bastardo di re Giacomo, ch’egli assediò, e pressel fuggente, e il fe’ annegare, scusandosi che Ferrando praticasse contro la sua vita con Carlo d’Angiò29. Ma insieme s’era segnalato l’infante Pietro per coraggio e gran vedere nelle guerre di Valenza e di Murcia30; avea saputo adoperar la divisione degli ottimati; e salito in grande rinomanza militare, e dotato di quella forza che rapisce e costringe gl’intelletti minori, poteva egli bene adunar a un’impresa di ventura quei suoi avvezzi a star sempre in sulle armi, or contro i Mori, or contro le altre genti spagnuole, or tra sè stessi, ed or piratescamente assaltando questa e quell’altra città del Mediterraneo. Picciol’oste sarebbe a fronte di re Carlo; ma audacissima, spedita, fatta a posta a guerre irregolari, e subite fazioni.
Le quali condizioni bilanciando in mente, taciturno, e come s’ad altro attendesse, ascoltava Piero le continue rampogne della sua donna. Perchè da lei non dileguandosi per volger d’anni il cordoglio dell’ucciso padre, dello occupato reame, del patibolo di Corradino; l’acceso femminil pensiero incusava di viltà ogni differimento alla vendetta: e pregava Costanza, e sdegnavasi, e chiamava dappoco lo sposo, e ai figliuoli insegnava che careggiandolo, e abbracciandogli le ginocchia, ricordassero senza stancarsi l’invendicata morte dell’avolo31. Sorridea Pietro; e a disegni, non a querele, si ristringea con Ruggier Loria, Corrado Lancia, e Giovanni di Procida32.
Di questi il primo, nato di gran legnaggio, nella terra di Scalea in Calabria33, imparentato colla siciliana famiglia de’ conti d’Amico, e signor di feudi in Sicilia e in Calabria34, venuto era fanciullo seguendo la regina Costanza, con madonna Bella madre sua, nutrice della reina; e a corte d’Aragona si era educato nelle armi e nelle astuzie. Pietro molto amore gli pose; il fe’ cavaliere con Corrado Lancia, giovanetto congiunto della reina; e una sorella di Corrado a Ruggiero sposò. I due cognati prestantissimi si fecero in armi: e avvenne che Corrado, pria dell’altro che tanto dovea vantaggiarlo di gloria, ebbe nome, e segnalossi capitan di navi catalane, in fatti audacissimi sopra Saraceni35. Giovanni di Procida per altra via più combattuta venne in grazia al re d’Aragona. Nacque costui, o fu allevato in Salerno; ebbe alto stato appo l’imperator Federigo e Manfredi, e oltre il feudo di Procida molti beni allodiali in Salerno; fu medico assai riputato36; e tradusse dal greco in latino, o compilò in latino, le massime di filosofia morale degli antichi sapienti37. Narrano alcuni, a ringrandir Giovanni e rendere più patetici i suoi casi, che volontario ivane in bando, trafitto di mortal rancore perchè uomini francesi per violenza contaminasser la moglie e la figliuola di lui, uccidessero il figlio che difendeale; e di tanto misfatto negassegli giustizia il re38. Ma non sì drammatico appar questo esilio dai documenti, che attestan Giovanni fatto ribelle innanzi il milledugentosettanta, probabilmente per la guerra di Corradino, e se gittan qualche barlume su i suoi domestici torti, dan luogo a tal sospetto più tosto dopo l’esilio che innanzi39. Come noto nella corte di Manfredi, Giovanni cercò asilo appo la reina Costanza in Aragona; ov’ebbe da Pietro le signorie di Luxen, Benizzano, e Palma; cortigiano suo fidatissimo divenne, e consigliere40: ch’uomo fu di molta saviezza e dottrina, aguzzato anco la mente da un intenso odio, e dalle aspre sue vicende ammaestrato a maneggiare questi sì vari e sfuggevoli animi degli uomini. Quegli usciti, dall’amaro soggiorno in corte straniera non volgendo altro nell’animo che la patria loro e la vendetta contro quella rea mano che li cacciò, forte stigavano il re. Tritavan insieme con esso le condizioni delle cose; la mala contentezza de’ popoli in Sicilia e Puglia; la tirannide stolta di Carlo; i disegni del papa; i timori del Paleologo: aver questi oro e non armi; Aragona il contrario; Roma saette d’altra tempra: s’accozzerebber pure; battesse l’ali questo Carlo, gli aggiusterebbero il colpo. E spiavan, vegliavano; ad ogni nuovo eccesso di Carlo, spuntava nel cupo consiglio d’Aragona un sorriso41. Memorabil epoca in cui i quattro principi che tenean la più parte delle regioni europee bagnate dal Mediterraneo, furono ad un medesimo tempo di gran valore, e di grandi vizi, degni se non di lode, certo di fama. In Oriente il Paleologo, usurpatore, ma ristorator d’un impero, fraudolento più che forte, tremava di re Carlo. Questi agognando a tal vastità di dominio, distruggea col mal governo la propria base in Sicilia ed in Puglia. Di ponente il re d’Aragona più giovane, più sagace e meno potente, torvo e cheto pigliava lena per islanciarsi addosso al conquistatore. Inaccessibile a timore sulla cattedra di san Pietro, rigoglioso nella smisurata autorità, e non meno nel proprio ingegno, e nella non ben acquistata ricchezza, l’italiano pontefice guardava le passioni di quegli stranieri: e chi sa a quali speranze non ne saliva? Forse un viver più lungo di Niccolò III avrebbe spento in altra guisa la dominazione angioina, e mutato le sorti d’Italia. Ma volle il Cielo che re Carlo non fosse umiliato da’ potenti, ma sì dalla plebe; e che la sua rovina si consumasse nel modo che men poteva uomo immaginare: per una rissa di volgo, in Palermo!
Pietro ordinavasi a sforzo di guerra, sì come è mestieri, dice Montaner, con amistà, danari, segreto. Fe’ tregua di cinque anni col re di Granata42: con Castiglia lega; e meglio se n’assicurò prendendo due giovanetti principi più vicini alla corona che non era Sancio loro zio, chiaritone erede, onde il re d’Aragona potea così a ogni piè sospinto sturbare il vicin reame43. Provossi da un altro canto a serbare l’antica benivolenza con Filippo di Francia, marito della sorella, statogli amicissimo in gioventù, e or molesto coll’occupazione di Montpellier44. Con lo stesso re Carlo o coprì i disegni e mostrò l’odio, come scrive il Montaner, che sarebbe stata anco arte sopraffina, o dissimulò gli uni e l’altro, come Carlo stesso poi rinfacciavagli, venendo a dimostrazioni d’amistà, e trattato di matrimonio tra un figliuol suo con una figlia dell’Angioino45. Con ciò messe in punto gli arsenali di Valenza, Tortosa, Barcellona46; e maneggiò sì accortamente i suoi baroni e borghesi, che richiestili di sussidi per tale impresa, dicea, da tornarne grande utile al reame, con insolita docilità porgean essi il danaro47. Queste disposizioni, e i preparamenti d’armi e di navi che ne seguitarono, attestan gl’istorici più degni di fede.
Taccion del rimanente le pratiche con l’imperator di Costantinopoli e
coi baroni siciliani, da altri storici meno autorevoli composte come
in azione drammatica. Giovanni di Procida, al dir di costoro, esule
volontario per la supposta ingiuria atroce, n’è protagonista;
rassomiglian ombre gli altri personaggi, che la istoria figura ben
altrimenti: Pier d’Aragona, Michele Paleologo, Niccolò III,
Alaimo da Lentini, e più altri nobili uomini di Sicilia. Non pensan, non osan essi senza Procida: al sol vederlo ogni fiata rompono in lagrime come fanciulli; ei solo, sospinto da amor di patria e desio di vendetta, va, torna, muta sembianti, ignoto ha credenza da’ grandi; ei solo disegna, comincia, e fornisce l’impresa. Ignorando che Giovanni fosse esule dal sessantotto o sessantanove, come il mostrano i diplomi, e fatto uom di re Pietro, favoleggian costoro che venutogli in mente il disegno di tor la Sicilia a re Carlo, da sè solo cominciava a trattarlo con principi di fuori, e congiurati in casa. A Costantinopoli si portò l’anno settantanove, com’uscito che cercasse in quella corte asilo e stipendio; spacciandosi medico, ed uom di stato, delle cose di Sicilia espertissimo. Trovò sì piana la via appo il greco imperadore, che quegli in segreto luogo sopra una torre venne ad abboccamento con esso: e quivi Procida il tentò con favellar degli armamenti di Carlo a’ danni suoi; a lui perduto d’animo e piangente fe’ balenare innanzi agli occhi una speranza. Onde Michele, che l’imperio vedea sossopra, e Carlo sì intento e minaccioso a mala pena trattenuto da papa Niccolò, avidamente abbracciava il partito di turbargli i reami; e profferia centomila once d’oro: fermata l’impresa, le porgerebbe. Si infinse allor Procida scacciato dalla bizantina corte. Vestiti i panni di frate minore, furtivo in Sicilia entrò, che per esser più oppressa, o più disposta per le città più grosse, l’indole degli uomini, e la difesa dei mari, più opportuna gli parve al gran colpo. Appena Procida a’ noti suoi del sicilian baronaggio disse di congiura, deliberati vi si tuffarono. Con lui vengono a parlamento Gualtier da Caltagirone, Alaimo da Lentini, Palmiere Abbate, ed altri valenti baroni: Procida accenna la via d’uscire dall’insoffribil servaggio: rivela gli aiuti dell’imperatore greco; i disegni sullo aragonese: ordina con loro che annodate tutte le fila, sollevin la Sicilia a ribellione: e richiedeli di lettere credenziali, che della congiura re Pietro certificassero. Avutele, sotto i panni stessi di frate, passa a corte di Roma.
Correa già l’anno milledugentottanta, e papa Niccolò a castel Soriano soggiornava, quando un fraticello gli fe’ chiedere occulta udienza; e raccolto, incominciò ad avvolgersi in misteriosi parlari, toccando la eccessiva potenza di Carlo, le ingiurie private al pontefice, le condizioni d’Italia. Procida nominossi alfine: all’attonito pontefice aperse quant’erasi ordito. Aggiungono, e par fola manifesta, ch’ei con l’oro bizantino comperasse l’assentimento del papa; il quale sì altamente ambiva, nè facea di mestieri corromperlo, perchè si volgesse a’ danni di Carlo48. Dicono, e la credo dello stesso conio, ch’entrato nella congiura, Niccolò per segretissime lettere confortasse l’Aragonese; e del siciliano reame investisselo. Ma guadagnato il papa, sopraccorrea Giovanni in Catalogna; trovava re Pietro lontano, così continuano quegli storici, da ogni speranza dell’impresa; ed egli ne presentava il pensiero, esponea le trame ordinate, mostrava i trattati e le lettere. Così svolse a’ suoi intenti il re d’Aragona. A ragguagliarne gli altri congiurati, ripiglia il viaggio: sbarca a Pisa; rivede il pontefice a Viterbo; i siciliani baroni a Trapani; quinci una galea veneziana sconosciuto il reca a Negroponte; di lì a Costantinopoli. E vien ultimato col Paleologo il trattato della guerra contro Carlo: a dar guarentigia più salda, un altro se n’appicca di parentado tra le corti di Grecia e d’Aragona; il quale non si nasconde, ma serve di colore al Paleologo per mandar legato un suo cavaliere, messer Accardo di Lombardia; cui son affidate trentamila once d’oro delle promesse, che a Pietro le rechi. Accardo e Procida insieme entrarono in nave.
In questo la morte di papa Niccolò fu per distrugger tutto l’ordito. Per viaggio seppela Giovanni da una nave pisana, e a messer Accardo la occultò. Approdarono a Malta, come s’era ordinato prima co’ baroni siciliani: in segreto luogo i cospiratori adunaronsi. Ed eran muti, ansiosi, parlavan sommesso della perdita del congiurato pontefice; e chi temporeggiar volea, chi lasciar ogni pensiero della ribellione, quando Procida surse a rampognarli, a confortarli: fosse amico o avverso il papa novello, ormai non mancherebbero le forze: Accardo, e loro il mostrava, non venirne ozioso spettatore: qui il sussidio bizantino; pronti in Aragona guerrieri e naviglio; e che temeano? perchè con animi sì femminili entrare in congiure? Ma a loro, già intinti sì profondamente, non gioverebbe lo starsi; risaprebbesi la trama, e morrebber da cani. Con tai rimbrotti li rapì seco all’estrema conclusione. Fu in Aragona da poi; rappresentò a Pietro l’ambasciatore di Grecia, e l’oro; vinse i rinascenti timori del re. Gli armamenti affrettaronsi allora; il dì fermossi e il modo che la Sicilia sorgerebbe a vendetta49.
Tale il racconto della congiura, che dicon si conducesse per due o tre
anni. I particolari nè niego, nè affermo io, perchè non ne ho
fondamenti; ma non mi sembran verosimili al tutto. Che tra Pietro e ’l Paleologo si maneggiasse un trattato per togliere a Carlo il
reame di Sicilia, il tengo io certo, per quel che disse e fece poi
contro ambidue papa Martino; e perchè Tolomeo da Lucca afferma aver
veduto l’accordo; essere stato trattato da Giovanni di Procida e
Benedetto Zaccaria da Genova, con altri Genovesi dimoranti in terra
del Paleologo; e aver questi fornito danari allo Aragonese50. Le trame con alcuni baroni di Sicilia, non rafforzate di valida autorità istorica, il replico, probabili mi sembrano, ma non certe. Falso è che la pratica, si strettamente condotta, fosse a punto riuscita a produrre lo scoppio del vespro; perchè questi compilatori della congiura ci
pongon fole da romanzo, e imbattonsi in cento errori manifesti; perchè i successi discordan dalla supposta cagione; perchè gli scrittori più
autorevoli il tacciono, come nel capitol seguente diremo, e più
largamente nell’appendice. Vagliate tutte le memorie de’ tempi tornano
a questo: che Piero agognava alla corona di Sicilia: che s’armava: che
praticò per aiuti di danaro con l’imperator di Costantinopoli,
minacciato da re Carlo; che Procida fu tra i suoi messaggi: che si
tramò forse con alcun barone siciliano: ma che maturavano e
preparavano tuttavia, quando il popolo in Sicilia proruppe. In questo
intendimento al fil della istoria io torno; il quale non si smarrisce
per la dubbiezza di quelle pratiche tenebrose, che nella rivoluzione
punto o poco operarono51.
Riseppersi innanzi la morte di papa Niccolò gli appresti del re
d’Aragona. Era nei porti suoi e di Majorca una fervid’opra a
costruire, a spalmar galee e navi da trasporto; fabbricar armi; adunar
vittuaglie: scriveansi i marinai; si prometteano stipendi per un anno
a chi militar volesse a cavallo o a pie’: talchè per quanto Piero si
studiasse a far chetamente, il romore s’udiva da lungi. Onde i Mori di
Spagna e d’Affrica, avvezzi a questi aragonesi assalti,
affortificavansi alla meglio; nè stavan senza sospetto i cristiani
principi: tra i quali Carlo assai per tempo avvisò aversi a guardare
sì in questi domini italiani, e sì in Provenza; oppressa al paro,
vicina alla Spagna, e dai Catalani osteggiata altre volte52.
Apparecchiava Carlo in questa stagione la detta impresa di Soria; ma
non lasciò di munirsi in casa con forze navali, che guardasser le
costiere; e in Sicilia aumentò oltre il doppio le provvedigioni delle
regie fortezze53. Intanto bramoso d’investigar l’animo
dell’Aragonese, a Filippo di Francia ei scrisse: e questi per
legati e lettere amichevolmente domandò a Pietro la cagion di tanto
di Odogrillo 27 " 55
Castel di Siracusa 27 " 57
Palagio di Siracusa 9 " 60
Castel superiore di Taormina 27 " 77
Castello inferiore 22 1/2 " 50
di Agosta 10 1/2 " 57
di Cefalù 85 1/2 " 325 1/2
Palagio di Palermo 18 " 200
Castell’a mare di PAlermo 29 " 100
di Licata 40 " 90
di Monteforte 27 " 104
di Vicari, che non avea provvedigione " " 50
di Caronia " " 27
di Castiglione " " 30
di Lentini " " 100
di Marineo " " 100
di Geraci " " 60
di San Filippo " " 100
di Caltanisetta " " 30
di Santo Mauro " " 30
di Avola " " 30
Di Caltabellotta " " 30
Varie cose sono da notarsi in questo documento. La prima che non si vittovagliavano tutte le fortezze regie di Sicilia, ma a un di presso due terze parti delle medesime tralasciandone molte sì in monte e si in maremma. La seconda che per la provvigione si preferiva il miglio al frumento o per lo minor caro, o per lo minore rischio di ribollire e guastarsi. Lo stato delle fortezze regie sei anni innanzi si legge in un diploma del 3 maggio 1272 cavato anche sal r. archivio di NApoli e pubblicato dall’er. Michele Schiavo nelle memorie per la storia letteraria di Sicilia, tom. 1, parte 3, pag. 49 e seg. In questo leggonsi oltre i notati nel diploma del 1278 che or ora trascrissi, i castelli di Rametta, SAn Fratello, Nicosia, Castrogiovanni, Mineo, Licodia, Modica, Garsiliato, Calatabiano, Corleone, Sciacca, Girgenti, Carini, Termini, Favignana, Camerata; ma vi mancano quelli di Odogrillo e Castiglione, e il castel disottano di Taormina. Si scerne di più dal diploma del 1272, che erano affidati alcuni a castellani col soldo di due tari al giorno, altri a castellani scudieri col soldo di tari uno e grana quattro, e vi erano consergi col medesimo stipendio, e servienti con grana otto al giorno. La maggior forza de’servienti, o vogliam dire soldati a pie’, era nel 1272 nelle fortezze di Messina, Castrogiovanni, Cefalù, e Ni- armamento; se contro infedeli, proffersegli aiuti d’uomini e danari. S’avvolse allora in ambagi lo Spagnuolo: non accennare al re di Francia per certo, nè a suoi collegati: a chi, vedrebbesi ai fatti: ma prima, nol saprebbe persona al mondo: ch’ei s’armava senz’aiuti di niuno, onde a niuno dovea spiacere il silenzio. Somiglianti risposte ebber da lui il re di Majorca fratel suo, quel di Castiglia, quel d’Inghilterra54. Invano il ritentò più vivo Filippo, con mandargli anco moneta nel supposto dell’impresa contro i Mori55. Onde il re di Sicilia incerto pur dello scopo, inviò in Provenza Carlo figliuol suo principe di Salerno, in voce ad adunare armati per l’impresa d’Oriente, in realtà per vegliar da vicino, e guardare il paese56.
In questo momento la fortuna arrise a Carlo l’ultima volta. Tra que’ sospetti ch’egli avea di Pietro, ira contro il Paleologo, dispetto della nimistà del papa, vide trapassare il papa d’agosto milledugentottanta: e respirando, e non istando un attimo a pensarsela, se alla morte di Gregorio avea tant’osato a governare il conclave, or gittavasi ai più rotti partiti. Sommosse il popol di Viterbo, sì che traea fuor dal conclave tre cardinali di casa Orsina. Serrò il rimanente; tolse loro ogni cibo fuorchè pane e acqua57; e forse di furto, come in una elezione antecedente, recar fece altre vivande ai cardinali francesi perchè stessero più forti a negare il voto a quei di parte italiana58. Per queste arti, di febbraio milledugentottantuno, Martino IV di nazione francese fu papa, o ministro di Carlo. Congiunta dunque nel re la sua possanza, e la smisurata del roman pastore, a grandi eventi si dava principio. Divampò d’un subito in Italia la guelfa rabbia. Affidò il papa a Francesi i governi tutti di Romagna; rifece Carlo senator di Roma; con una crudele persecuzione de’ Ghibellini servì a sue ambizioni59. Duro viso mostrava intanto a re Pietro. Come gli oratori di lui veniano a complire per la esaltazione del papa, e sollecitavan la canonizzazione di frate Ramondo da Pegnaforte, santo uomo spagnuolo, gittando anco qualche parola su i dritti della Costanza al sicilian reame, brusco replicava Martino: non isperasse il re d’Aragona mai grazia alcuna dalla santa sede, se non pria soddisfattole il censo; il quale la romana corte pretendea, interpretando per ligio omaggio la pia peregrinazione d’un di quegli antichi principi a Roma60. Di lì a poco, tentando nuov’arte, parve più dolce Martino. Mandò a Piero un frate Jacopo dei predicatori, a richieder, tra autorevole e benigno, contezza di quel sì occulto disegno; inibire ogni atto ostile contro principi cristiani; contro infedeli profferire benedizioni e sussidi. Ma chiuso, e pur non mendace, ringraziavalo Piero: pregasse il Cielo per l’esito della guerra; lo scopo nol domandasse. «Tanto ho caro, conchiudea, questo segreto, che se la mia manca il sapesse, con la dritta la mozzerei.» All’ostinato silenzio crebber nella parte francese i sospetti. Ma poco vi stette sopra re Carlo, che teneasi ormai secondo a Dio solo; onde sfogò con superbe parole: saper bene falso e sleale questo Pietro; ma nascondesse il segreto a sua posta, ei, Carlo d’Angiò, non curare sì picciol reame, nè principe sì mendico61.
E parendogli già sua la Grecia sospirata per dieci anni, smisurate forze apparecchiava: bandìa la guerra; e la croce prendea, la croce del ladrone, sclama Bartolomeo de Neocastro, non quella di Cristo62. L’afforzò il papa di scomuniche, e di danari; le prime contro il Paleologo e i Greci indurati nello scisma; i danari presi dalle decime ecclesiastiche, pretestandosi rivolte al racquisto di terrasanta le pie armi del re63. Si collegaron con esso i Veneziani, per brama di popol mercatante a tornar signore in quelle regioni sì commode a’ commerci: e forniano una flotta; e patteggiavano partizione de’ conquisti64. La Sicilia e la Puglia intanto s’empian di guerrieri: suonavano di preparamenti di guerra. Immensi materiali raccolgonsi nell’arsenal di Messina, e in altri porti dell’isola e di terraferma: sudano i valenti artigiani di Messina e Palermo a fabbricar arme ed arnesi: scemansi a fornir la cavalleria gli armenti di val di Mazzara; munizioni d’ogni sorta s’apprestano in ogni luogo65. Cento galee di corso, dugento uscieri, che navi eran da trasporto, e teride, e altri legni assai metteansi in punto. Capitanati da quaranta conti, ben diecimila cavalli e un’oste innumerevole di fanti s’istruivano al gran passaggio66. Debolmente potrebbe resistere il Paleologo; sarebbe occupata Costantinopoli, la Morea, tutto l’impero; darrebbesi corpo ai titoli regî d’Albania, di Gerusalemme. Non delirava Carlo, se pensava a questo; e immaginava l’Italia spartita tra lui e il papa; e vedea brillare nelle sue mani la spada di Belisario e lo scettro di Giustiniano.
Ma l’Italia ch’era base a que’ vasti disegni, già mancava a Carlo
d’Angiò. Dico di tutta l’Italia dal Lilibeo alle Alpi, perchè in tutta
veggo sparse uguali opinioni. L’amor patrio di municipio, che tanto
giovò, e tanto nocque alla Italia, per sua natura sdegnava le
dominazioni straniere; e tendeva a scacciarle, quando le avea messo su
l’interesse d’una fazione. I Guelfi stessi e i Ghibellini, mentre
nimicavano la nazione contraria a lor nome, non troppo si fidavano
dell’amica: e similmente la corte di Roma chiamava gli oltramontani
per signoreggiar l’Italia col mezzo loro, e non altro. Così tra il
tumulto di tante passioni di municipio, di parte, e del pontificato
stesso, parlava agli animi la segreta voce del sentimento nazionale
latino. La schiatta, il clima, le usanze, la postura de’ luoghi, le
leggi di Roma, le lettere latine, le splendide tradizioni istoriche,
tutto destava questo pensiero; che non può sconoscersi
nell’Italia del medio evo: ed era argomento ad alte speranze; perchè gl’Italiani si sentian cuore quanto gli altri popoli, e civiltà assai maggiore. I più vasti intelletti pertanto pensavano, che unite le forze dell’Italia, si sarebbe non solo racquistata l’indipendenza, ma fors’anco la gloria di Roma antica; e faceansi a sciorre il problema in vari modi. Niccolò III divisava quattro reami italiani; Dante, poco appresso, sospirava la ristorazione dell’impero romano sotto i re di sangue germanico; Niccolò di Rienzo, non guari dopo, intraprese la rigenerazione della repubblica in Campidoglio, e il Petrarca con maschio canto esaltava l’impresa. Nè mancò nell’universale il desiderio di quei grandi intelletti; che anzi s’era assai propagato a’ tempi della lega lombarda sotto il colore guelfo contro la schiatta tedesca; e tutto si volse contro la francese, quando Carlo d’Angiò la fece stanziare in Sicilia e Puglia, e in molte altre parti d’Italia, e diè luogo al contrasto de’ costumi, all’invidia dei privilegi, alla insolenza degli uni, alla intolleranza degli altri, alla superbia delle due genti venute a contatto. Cooperaronvi la resistenza misurata di Gregorio X, la passione di Niccolò III, e per contraria ragione l’ambizione di Carlo, la connivenza di papa Martino. S’accostava questo novello sentimento agli umori di parte ghibellina, tendea temporaneamente allo stesso scopo, ma in sè stesso era molto più grande, più nobile, più puro. Esso rapì Dante a parte guelfa; esso trovò un nome diverso dal ghibellino, come diversa era l’indole. Le due genti con antichi vocaboli si chiamavano i Latini e i Gallici; ed evocavano tutte le nimistà de’ tempi di Brenno, anche quando avveniva che si combattesse sotto una medesima bandiera guelfa, nelle relazioni politiche di tanti piccioli stati.
Spicca negli scritti siciliani, si vede manifestamente ne’ fatti di quel tempo, il sentimento nazionale latino. Esso fu che nel primo assedio di Messina, nella tempesta dello assalto universale che dava l’esercito angioino, misto d’oltramontani e di abitatori del reame di Napoli e d’altre province italiane, consigliò ai Messinesi di risparmiar nei tiri le schiere italiane, che certo combatteano con uguale riguardo. Veggiamo indi Pier d’Aragona cogliere l’util politico della carità latina, e liberare i prigioni di questa nazione. Veggiamo i popoli in Calabria e in Puglia sforzarsi per tanti anni a seguire la rivoluzione siciliana. Nè ricorderò le parole degli altri scrittori, che sono noti, e si allegheran sovente in appresso; ma, quelle della rimostranza de’ Siciliani contro la prima bolla di papa Martino che li ammonì a tornare sotto il giogo, sono sì opportune e significative, che meritano special menzione. Perchè l’orgoglio del lignaggio italiano anima e infoca tutta questa epistola, che s’indirizzava al collegio de’ cardinali quasi fosse il senato di Roma. Gl’improvera il favore dato ai Francesi contro gl’Italiani; mette a riscontro distesamente i costumi delle due nazioni; incolpa gli stranieri del loro clima, della barbarie delle nazioni vicine; e di libidine, d’avarizia, d’ebbrezza, di crapula, d’ogni torto che aveano, d’ogni torto che non aveano. Si compiace al contrario a ricordare la doppia nobiltà del lignaggio d’Italia, che allude all’etrusco e al troiano, o al romano e al greco; a notar la prudenza, il contegno, la prontezza degli intelletti, la serenità de’ volti, e con aperto errore anche la tolleranza degli animi italiani; chiama in aiuto Lucrezia, Virginio, Scipione; motteggiando i Francesi perchè prendessero a imitare più tosto le ispide genti del settentrione, che la civile moderazione e libertà degl’Italiani; e mostrando che la sorte dà i regni, ma la virtù li mantiene, e che più si guadagna con la saviezza che con la forza. Questo scritto batte con una stessa sferza i governi angioini di Sicilia, di Napoli, di Romagna; allude al vespro col vanto che gli stranieri non avesser dato il guasto impunemente alle campagne d’Italia: sclama al papa con veemenza: «Sdegna, o padre, l’Italia, sdegna le dominazioni straniere!» L’autore imbrattò questo nobil pensiero con l’arroganza tutta e la ferocia de’ Quiriti; com’ei mescolò alla giusta difesa della rivoluzione, l’apologia di orrori che dovea condannare; ma non men fortemente ciò prova che il sentimento latino era sparso in Italia67.
E che l’antagonismo di nazione fosse reciproco, e che fosse sentito in tutta l’Italia, si vede, tra cento altri fatti, dalle parole di Guglielmo l’Estendard, vicario di re Carlo in Roma; il quale, poco innanzi l’ottantadue, ascoltando un nobile romano che si lagnava della misera condizione della patria, non ebbe rossore a risponder preciso, squarciando il velo della tirannide: non credesse al fine che spiaceva al re veder consunto e dissipato quel popolo turbolento; Roma fatta una bicocca68. In quel medesimo tempo una rissa accesa in Orvieto tra Latini e Francesi, divenne tumulto; e vi si gridò morte ai Francesi; e Ranieri capitano della città, portato dagli umori di nazione più che da que’ dell’uficio, negossi con un pretesto dal racchetarla69. Non andò guari che in Forlì cadeano da due mila Francesi, o per una frode di guerra, o per una meditata vendetta, che non si sa bene, ma in ogni modo è manifesto l’odio più che di giusta guerra che portò questa strage; e le favole stesse che l’attribuirono a Guido Bonati astrologo e filosofo, mostrano in che bollore fosse l’opinione pubblica70. S’era insinuato l’odio di nazione già da gran tempo ne’ penetrali della corte di Roma, tra il contegno e la senile prudenza de’ fratelli del sacro collegio; che si divisero non in Guelfi e Ghibellini, ma in Latini e Francesi; e lottavano nelle elezioni de’ pontefici; ed erano a tale innanti l’esaltazione di Martino, che senza la scoperta forza di Carlo, qualche altro fier latino succedeva a Niccolò III. Nel pontificato di Niccolò, la romana corte s’era data già a lacerare apertamente il nome francese. Tra gli altri un Bertrando, arcivescovo di Cosenza, uom di lettere, pratico del mondo e dabbene, nel biasimar severamente i soprusi della gente di Carlo, si fece una volta a profetarle sterminio. «Chi avrà vita, disse Bertrando, chi avrà vita vedrà masnadieri abietti sorger contro questi superbi, e scacciarli dal regno, e abbatter loro dominazione: e tempo verrà che si creda offrir olocausto a Dio al trucidare un Francese71.» Così la politica romana o presagiva o affrettava il passaggio da’ pensieri alla vendetta e alle armi! I pensieri eran comuni a tutta l’Italia: particolari cagioni ne fecero scoppiare in Sicilia la rivoluzione del vespro.
Con gli appresti alla guerra di Grecia, crebbero le estorsioni, crebbero gli aggravî; e quindi a dismisura la mala contentezza de’ popoli. Sono sforzati i baroni a fornir non solo le milizie feudali, ma anco le navi; se alcun tarda, gli si occupano i beni72; nobili e vassalli, obbligati e non obbligati al militare servigio, strascinansi all’esercito. Cominciarono indi in Sicilia a prorompere disperate voci; lagnandosi il popolo, che dovesse portar guerra alla Grecia amica, in servigio dell’oppressor francese; e mormorando lo scarso stipendio per tre mesi soli, al quale si darebbe fondo prima di giugnere in Romania, senza lasciar pure di che vivere alle famiglie in Sicilia. Ripugnavano alla impresa; ma tremavan al re. «Oh fuggiamo! gridavano; fuggiamo dalle case nostre, per asconderci in boschi e in caverne; e sarà viver men duro. Anzi di Sicilia si fugga, ch’è terra di dolore, di povertà, di vergogna. Non fu più schiavo di noi il popol d’Israello sotto re Faraone: e risentissi, e spezzò le catene. E ne narran poi le glorie degli antichi nostri! Vili bastardi siam noi; snervati dalle divisioni, da’ vizi: noi di cristianità il popol più abbietto!73»
E quanti si tenean da più del volgo impetuoso, non isgannati da sperienza, ritentavan pure la ignobil via delle querele. A Roma si volsero, non ostante le ostili opinioni che la Sicilia avea contro la corte di Roma più che tutto altro popolo cristiano, senza perciò vacillare nella fede di Cristo. Sì fatte opinioni eran sì vive, che i Francesi per villania chiamavanci paterini74; e segno non men dubbio ne danno gli scritti nostri di quel tempo, ne’ quali il rozzo stile, al toccar della corte di Roma, rinfocasi a un tratto, sfavilla d’immagini scritturali, suona le aspre parole del ghibellin poeta. Il che nascea in parte dagli universali umori d’Italia; e dalla cultura delle lettere, in cui primo tra gli altri popoli italiani s’esercitò quel di Sicilia sotto gli Svevi75; in parte dall’antica indipendenza de’ nostri principi dal papa, dagli spessi contrasti loro, dalle spregiate censure, dalle vicende stesse della repubblica del cinquantaquattro, messa su dai papi e abbandonata dai papi; e dal tristo dono infine di quest’angioino re. Nondimeno, perch’ei, come usurpatore, conoscea feudal signore il papa, e la religione a quei dì teneasi come pauroso fantasma, non patto di giustizia e di pace, parve ai nostri, che il sommo pontefice solo riparar potesse lor torti, pastor egli e sovrano. Perciò allo scoppiare del vespro i Siciliani poi gridavano il nome della Chiesa. Perciò al francese Martino supplici or ne venivano a nome di Sicilia tutta, due sacerdoti eletti tra i più venerandi e savi del regno. Bartolomeo vescovo di Patti, e frate Bongiovanni de’ predicatori fur questi. Forniano con grande animo la missione consigliata da credula miseria. A corte del papa, presente Carlo, orarono: e «Mercè, Bartolomeo cominciava, mercè o figlio di David; il demonio la figliuola mia fieramente travaglia:» e tra pianti e rampogne sponea la grave istoria. Superfluo è a dire che si fe’ sordo Martino. Carlo dissimulò: ma usciti i due oratori dal palagio, i suoi scherani li circondarono; trasserli in duro carcere. Macerato da quello il frate espiò a lungo la sua virtù cittadina; corruppe i custodi il vescovo di Patti, e fuggissi76.
E niente domato dalla violenza, tornò in Messina; e contò i suoi casi: e la gente all’udirli, piangea di rabbia. In questo mezzo quanti vengan da Napoli affermano essere al colmo l’ira del re, per quella contumace ripugnanza alla guerra di Grecia, per quella missione al papa; ch’ei volgerebbe l’adunato esercito contro la Sicilia; che vorrebbe sterminar questa genia querula e incontentabile; dar la terra ad altri abitatori, e farla colonia77. Queste voci spargeansi per insensata iattanza di cortigiani, o tema di popol tiranneggiato; ed eran se non altro misura dell’odio. Il quale, per comunanza di mali e di brame, avea dileguato ogni ruggine tra le nostre città, tra le famiglie, tra i vassalli e i siciliani feudatari. Pochi pel re teneano; talchè accresceangli l’odio, non le forze. Il clero seguiva o precorrea l’opinione pubblica; com’è manifesto dalla missione di Bartolomeo e Bongiovanni, e dallo zelo con che andò in tutto il corso della rivoluzione, ad onta delle infinite scomuniche papali. I nobili siciliani, pochi e oppressi, non potendo far parte da sè medesimi, ingrossavan la popolare: quanti eran complici, s’anco si voglia, di re Pietro, ammalignavan le piaghe, suggeriano sommesso qualche speranza. Il malcontento mise in un fascio le persone de’ governanti e i principî del governo, e die’ alla parte popolare tal forza, tal numero, che avanzava d’assai le condizioni ordinarie, e che sollevava la Sicilia mezza feudale alle idee de’ più democratici popoli italiani. Faceansi a ricordare i tempi del buon Guglielmo, tempi di pace, e dovizie, e franchezze; a deplorare la svanita repubblica del cinquantaquattro; e abbellito dall’immaginativa, con invidia a dipingere il viver lieto delle italiane cittadi, senza re, senza feudatari, senza Francesi. Nè solo travagliavali il martello di povertà, e gli aggravî nell’avere e nelle persone, e ’l timore del peggio; ma sopra tutto la gelosia delle donne, usurpate dagli stranieri per forza, o prezzo, o seduzione di vanità e di fortuna. Era stampato in tutti gli animi inoltre quel Carlo, brusco, vecchio, avaro, crudele, spregiator d’ogni dritto, alla Sicilia nimicissimo. Il viver di violenza, in sedici anni avea potentemente operato sull’indole niente morbida del sicilian popolo, e n’avea tramutato le sembianze. Di festevole si fe’ tetro: increbbero i conviti, i canti, le danze: «e mute pendeano (scrissero i Siciliani poscia a papa Martino ) pendean mute l’arpe dal caprifico e dal salice infruttuoso.»--«Febbrili battean tutti i polsi, dice un’altra rimostranza del misero popolo; dubbiosi scorreano i giorni, ansie le notti, e fino i sogni conturbati dalle minacciose sembianze degli oppressori; nè viver si potea, nè pur morire tranquillo.» Quel poetico brio degli animi siciliani, a cupa meditazione die’ luogo, a tristezza, a vergogna, a nimistà profonda, a brama ardentissima di vendetta. Feroci passioni, che propagaronsi da chi soffriva le ingiurie in sè, a chi le vedea solo in altrui; dalli svegliati a’ tardi; dagl’iracondi ai miti; dagli animosi a’ dappoco; e invasarono ogni età, ogni sesso, ogni ordine d’uomini. La foga delle passioni private, l’abbaco de’ privati interessi, tacquero un istante, o anch’essi drizzaronsi a quel fitto universal pensiero; più possente di ogni macchina di congiura, perchè spregia il vegliar sospettoso de’ governanti, e li soperchia a cento doppi di forze78. Così entrava in Sicilia l’anno milledugentottantadue. Alcuni cronisti, pargoleggiando col volgo, notavano, che di febbraio, mentr’era papa Martino in Orvieto, una foca presa alle spiagge di Montalto, e portata a corte del papa come nuova generazione di belva, mise muggiti sì lamentevoli e paurosi, che la gente n’agghiacciò di orrore; e dietro i successi di Sicilia, non restò dubbio esser venuto quel mostro a presagire al papa le calamità che pendeano79.
- ↑
- D’Esclot, cap. 64.
- Cronica di Morea, lib. 2.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
- Paolino di Pietro, in Muratori R. I. S. tom. XXVI, ag.
- Montaner, cap. 71.
- Benvenuto da Imola, comento alla Divina Commedia, al verso:
- Cantando con colui dal maschio naso.
_Purgat_., c. 7.- Carlo d’Angiò, con quest’indole niente poetica, fece pure qualche verso, perchè n’avea sempre agli orecchi nella corte di Provenza. Il sig. C. Fauriel, ne’ cenni biografici intorno a Sordello, Bibliothèque des Chartes, tom. IV, nov. et déc. 1842, ha dato una traduzione della risposta ritmica di Carlo ad alcuni versi di Sordello che il tacciavano d’ingratitudine. Sordello vivea alla corte del conte di Provenza; l’avea seguito all’impresa contro Manfredi; ma ammalatosi in Novara di Piemonte, vi restò lungo tempo dimenticato, in preda alla malattia e alla povertà. Le istorie di Francia ci danno molti esempi della sfacciata avarizia mostrata da Carlo in Francia, prima che la potesse spiegare in più vasto campo sul trono di Sicilia e di Puglia; e ci attestano insieme la giustizia di san Luigi che l’obbligava a rendere il mal tolto.
- ↑ Diploma senza data d’anno, negli archivi del reame di Francia, J. 513, 51. È il ragguaglio che davano a san Luigi l’arcidiacono di Parigi, e il maresciallo di Francia, incaricati di questa missione.
Essi trattarono:
- 1º. della crociata, richiedendo Carlo d’andarvi e procacciar soccorsi di navi, d’uomini e di vittuaglie:
- 2º. del pagamento di 8,000 marchi per la dote della regina moglie di san Luigi (su la contea di Provenza); di 7,000 marchi dovuti per testamento del conte di Provenza (Raimondo Berengario); e di 30,000 lire sovvenutegli al tempo dell’altra crociata e della sua prigionia:
- 3º. dell’affare d’una gabella, che non si spiega altrimenti.
- ↑
- Raynald, Ann. ecc. 1270, §. 23.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 37.
- Muratori, Ann. d’Italia, 1270.
- Saba Malaspina, lib. 5, cap. 1.
- Gesta Philippi III, di frate Guglielmo de Nangis, in Duchesne Hist. Franc. Script., tom. V, pag. 516.
- ↑ Gio. Villani, lib. 7, cap. 38.
Raynald, 1278, §. 24. - ↑ Annali genovesi, in Muratori R. I. S., tom. VI, pag. 551.
Diploma di Carlo I, dato di Trapani a 2 settembre decimaquarta, Ind. (1270), tra’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 2, fog. 60. - ↑ Gibbon, Decline and fall of the Roman Empire, cap. 62, e i contemporanei citati da esso.
- ↑ Questo trattato dato di Viterbo il 27 maggio 1267, è pubblicato dal Buchon, in annotazione alla Cronica di Morea, lib. II, ed. 1840, pag. 148 e seg. Il matrimonio tra la Beatrice e Filippo si mandò ad effetto nel 1273. Morto Baldovino si confermò tra Carlo e il genero, divenuto imperatore titolare, il trattato del 1267, per un atto dato di Foggia il 4 novembre 1274, una copia del quale data da Filippo il Bello nel 1306, e autenticata col suggello reale di Francia, si trova negli Archivi del reame di Francia, J. 509, 15, ed è pubblicata dal Du Cange, Histoire de l’Empire de Constantinople, Docum., pag. 24. Questo genero poi vivea a spese di re Carlo, come il mostrano i diplomi del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 3, 5, 6, 7, 10, dati a 2 maggio 1277, 4 settembre e 10 dicembre 1276; ultimo febbraio e 23 maggio 1277, e 6 ottobre 1276; pei quali porgeasi danaro a Filippo, allora titolato imperatore di Costantinopoli per la morte del padre.
- ↑
- Cronica di Morea, citata di sopra, lib. 2.
- Raynald, Ann. ecc. 1269, §. 4.
- Saba Malaspina, cont., loc. cit., pag. 336.
- D’Esclot, cap. 64.
- E i diplomi accennati nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 98, nota 4.
- In un altro diploma del medesimo archivio segnato 1268, A, fog. 152, dato il 8 maggio 1278, si legge un Eustasio capitan generale di Carlo in Acaia.
- ↑ Diplomi indicati, e un d’essi pubblicato nel citato catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 98 e 120.
In un altro diploma dato di Napoli il 25 febbraio, non si sa di quale anno, nel r. archivio di Napoli reg. segnato 1268, O, fog. 87 a t. si legge:- «_Karolus Dei gr., rex Sicilie et Albanie, Gazoni Chinardo militi, in regno Albanie vicario generali, etc._» Ed altri due diplomi della stessa data a Guglielmo Bernardi marescalco di quel regno.
- ↑ Fornisce intorno a questi preparamenti qualche particolarità un diploma dato di Napoli il dì 8 aprile tredicesima Ind. 1270. Per questo è condotto al servigio di re Carlo, con soldo di 8,000 lire tornesi per un anno, Ferrando di Sancio del sangue reale di Aragona (forse dee dire Castiglia) con 40 militi a cavallo, 40 scudieri e 20 balestrieri a cavallo, a condizione di militare nel regno o nell’impero di Costantinopoli, e di trovarsi in punto a Trapani il 1 agosto di quell’anno. Ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2, fog. 17.
- ↑ Diploma di Carlo I al comune di Siena perchè facesse diroccare le case dei Ghibellini che rifiutavano di sottomettersi. È dato del 1272, e pubblicato dal sig. Buchon, Nouvelles recherches historiques sur la Principauté française de Morée, tom. I, pag. 27 e 28.
- ↑
- Muratori, Ann. d’Italia, 1268 a 1272, ossia i contemporanei quivi citati da lui.
- Saba Malaspina, lib. 4 e 5.
- Annali genovesi, lib. 9, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 554 e seg.
Quanto all’assassinio del principe Arrigo, è indubitata la colpevole indulgenza di re Carlo verso gli omicidi. Benvenuto da Imola nel comento su la Divina Commedia al verso: «Mostrocci un’ombra dall’un canto sola, ec.» Inf., c. 12, riferisce il dilemma che si facea a biasimo di Carlo: «Se il sapea fu un ribaldo; se no, perchè nol punì?»
Ma quanto men volea punire, tanto più romor ne fece, anche per riguardo alla corte di Roma. Un diploma del 23 marzo (1271) nel r. archivio di Napoli, reg. 1268, O, fog. 99, porta queste parole: che il re volea vendicare tal misfatto come se commesso in persona d’un suo figliuolo. Nondimeno il provvedimento contenuto in questo diploma è di staggir le castella e i beni feudali de’ fratelli Simone e Guidone da Monteforte; ch’era un gastigo non molto spiacevole al re, il quale per lo momento incamerava que’ beni. - ↑
- Muratori, Ann. d’Italia 1271 a 1274, e i contemporanei ivi allegati, che sarebbe superfluo citare altrimenti.
- Gibbon, cap. 62.
- Raynald, Ann. ecc. 1271 e 1275.
- ↑ Gio. Villani, lib. 9, cap. 218, di maggiore autorità in questo, perch’ei fu guelfo:
- Carlo venne in Italia, e per ammenda
- Vittima fe’ di Corradino, e poi
- Ripinse al ciel Tommaso per ammenda.
DANTE, _Purg_., c. 20.e il comento di Benvenuto da Imola, che accredita il sospetto dell’avvelenamento. Io l’ho posto in dubbio, non trovando noverato questo tra i misfatti di Carlo dagli scrittori che non glien’avrebbero perdonato punto, come sono il Neocastro, lo Speciale, Montaner, D’Esclot. Ma dall’altro canto la innocenza non mi par dimostrata sì netta, come crede il cav. Froussard nella dissertazione su Pietro Glannone, e ’l regno di questo Carlo I.--Atti dell’Academia di Lucca, tom. VIII.--Il sig. Froussard si lascia trasportar dalla gloria militare di Carlo, fino a scagionarlo de’ vizi suoi più noti. Chiama ambizioso e superbo, ma non crudele, colui che facea mozzare i piè a’ disertori, arder vivi i presi in battaglia, e marchiar colla moneta rovente gli accorti cittadini che non passassero al valor edittale i suoi carlini d’oro. Nel modo stesso siamo assai lontani dell’accettare l’apologia del Froussard per la iniqua condannagione di Corradino.
- ↑ De regimine principum ad regem Cypri, san Tommaso d’Aquino, opusc. 20, nel tom. XVII della ediz. Venezia, 1593.
- ↑ Muratori, Gibbon, Raynald, loc. cit.
- ↑ Saba Malaspina, cont., p. 336 e 337.
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 336.
- Mss. della vittoria di Carlo I di Angiò, pubblicato in Duchesne, Hist. Franc. Script., tom. V, pag. 850.
- Joannes Iperius, Chron. monast. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, p. 754.
- D’Esclot, cap. 64.
- Raynald, Ann. ecc. 1272, §. 19, e 1277, §. 16.
- Giannone, Ist. civ., lib. 20, cap. 2.
Tra questi son da notarsi il diploma del 26 dicembre 1294, alla citata pag. 151, per pagamento di once 800 all’anno a questa Maria, _dicte quondam domicelle de Hierusalem_; e l’altro del 21 agosto 1292, dal quale si ricava, con un certo divario dall’attestato de’ cronisti, che il primo accordo con Carlo d’Angiò s’era fatto per 400 lire tornesi e 10,000 bizantini saraceni d’oro all’anno; che la corte di Napoli tardò i pagamenti; che Maria n’ebbe ricorso al papa; e che così si prese una via di mezzo a pagarla, con molto suo discapito. - ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 337.
- ↑ Il suo nome anzi di salire al pontificato, era Giovanni Gaetani di casa Orsina.
- E veramente fui figliol dell’Orsa,
- Cupido sí per avanzar gli Orsatti,
- Che su l’avere, e qui me misi in borsa.
DANTE, _Inf_., c. 19. - ↑
- Muratori, Ann. d’Italia, 1277 a 1280.
- Raynald, Ann. ecc., 1277 a 1280.
- Saba Malaspina, cont., pag. 338.
- ↑
- D’Esclot, cap. 64.
- ↑
- Ricordano Malespini, cap. 204.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 54.
- Cronaca sic. della cospirazione di Procida, in di Gregorio, Bibl. arag. tom. I, pag. 254.
- ↑ Da tutti gli storici contemporanei, e meglio dai fatti si ritrae
ciò manifestamente.
Si ricordino ancora i versi di Dante:- Però ti sta che tu se’ ben punito,
- E guarda ben la mal tolta moneta
- Ch’esser ti fece contro Carlo ardito.
_Inf_., c. 19. - ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 339.
- ↑ Credeasi allora che i figli maschi di Manfredi fossero morti, perchè Carlo d’Angiò li tenea in carcere, forse con grandissimo segreto, accreditando la voce della morte, per toglier qualunque speranza ai partigiani di casa sveva. I figli di Manfredi eran bambini quando Carlo prese il regno; nè egli si volle bruttare di quattro assassinî di tal sorta, d’altronde non utili, e ben suppliti da una prigionia segretissima e sepolcrale. Così gli storici contemporanei portano spenta la discendenza maschile di Manfredi, e sol di lui rimasa Costanza, e la seguente sorella Beatrice, che fu liberata nel 1284 per la vittoria dell’armata siciliana nel golfo di Napoli. La diplomatica, la quale sovente corregge le tradizioni istoriche, ci ha mostrato che vivessero a lungo dopo la morte di Manfredi i suoi figliuoli Arrigo, Federigo ed Enzo. Alcuni istorici napoletani trassero dagli archivi di quel reame dei diplomi per gli alimenti che forniansi in carcere a quegli sventurati principi sotto il regno di Carlo II; e il Buscemi nella vita di Procida ne pubblicò uno dato di Melfi il 30 giugno settima Ind. (1294), nel quale, forse per errore di chi l’avea copiato da’ registri di Napoli, l’ultimo de’ giovanetti è chiamato Anselmo in vece di Enzo. Io mi sono avvenuto rifrustando que’ registri in due documenti, che sembranmi più importanti perchè attestano che i detti principi vivessero insino al 1299, e che allora si ordinasse di escirli dalla prigione, e liberi mandarli a Carlo II con un cavaliere. Ciò avvenne al tempo che Giacomo di Aragona aiutava gli Angioini contro il fratello Federigo e i Siciliani, e appunto pochi giorni anzi la sua vittoria del Capo d’Orlando; talchè sarebbe da congetturarsi che il re di Napoli volle far cosa grata a Giacomo, ch’ei cercava in tutti i modi a tenersi amico ed ausiliare. Ma par che quest’atto di generosità tosto si fosse dileguato, e che fossero tornati in altra prigione i figli di Manfredi. Giacomo andò via da Napoli poco men che nemico: e Carlo non avrebbe osato turbare il governo di Federigo in Sicilia con questi altri pretendenti, che poteano ben sollevare contro di lui lo stesso reame di Napoli.
I due citati diplomi del 1299 leggonsi, Docum. XXIX e XXX. - ↑
- Ved. Surita, Ann. d’Aragona.
- Blanca, Comment. rer. Aragon.
- Mariana, Storia di Spagna.
- Robertson, Vita di Carlo V. Introd. sez. 3, note 31, 32.
- ↑ Montaner, cap. 20, vivamente rappresenta che i re di Aragona viveano assai familiari co’ loro sudditi, con giustizia ed affabilità. Ma in fatto sotto questo linguaggio accenna le libertà del paese, dicendo che ognuno era sicuro della proprietà e persona: e perciò «i Catalani e gli Aragonesi sono più alti di cuore, vedendosi così trattati a lor modo; e nessuno può esser valente uomo di guerra se non è alto di cuore.» Aggiugne, che ognuno a suo piacere fermava per via i re, e parlava ad essi, o li invitava a nozze, o desinari, e ch’essi sovente albergavano nelle case private.
- ↑
- D’Esclot, cap. 68, 69, 70.
- Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica di Baluzio, ed. 1688.
- ↑
- Montaner, cap. 10, 13, 14.
- D’Esclot, cap. 65, 67, 74.
- Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 16.
- Veggansi anche, Montaner, cap. 37.
- Saba Malaspina, cont., pag. 342.
- Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 340 a 342.
Per vero egli non scrive il nome di Corrado Lancia, ma solo di Loria e Procida, e, aggiugne, altri usciti italiani. Ma ritraendosi dal Montaner la grande riputazione di Corrado a corte d’Aragona per armi e consiglio appunto in questo tempo, non è dubbio che quel nobile siciliano avesse partecipato in tutti i disegni. - ↑ Diploma negli archivi della corona aragonese, citato dal Quintana, Vidas de Españoles celebres, Paris, 1827, tom. I, pag. 93.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 87.
Nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II segnato 1291, A, fog. 88, si legge un diploma dato il dì 8, forse di gennaio 1275 o 1276, ch’è un attestato del servigio feudale prestato a Capua da Riccardo Loria per sè, Giacomo, Roberto, Ruggiero, e due donne tutti della stessa famiglia, che aveano diviso tra loro i castelli di Loria, Lagonessa e Castelluccio in Basilicata.
Ruggier Loria fu nipote di Guglielmo d’Amico, primo marito di Macalda Scaletta. Villabianca, Sicilia nobile, part. 2, lib. 3, pag. 528 e 529. - ↑ Montaner, cap. 18, 19, 30, 31.
- ↑ Di Gregorio, Annotaz. alla Bibl. aragon., tom. 1, pag. 249 e 250.
Ved. altresì il Giannone, Ist. civ. e Buscemi. Vita di Giovanni di Procida, e i documenti da noi citati nel cap. XV, intorno i beni del Procida.
È noto il marmo della chiesa di Salerno, dato il 1260, pubblicato dal Summonte, e trascritto dal Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 249, dal quale si hanno i titoli di Giovanni di Procida, e ch’ei facesse costruire quel porto. Un altro pregevol monumento per Giovanni di Procida ha trovato il mio concittadino Francesco Saverio Cavallari, egregio artista, zelante e infaticabile nel ricercare, abilissimo nel delineare, e intelligente nello illustrare gli antichi monumenti d’arte, non solo per tutta la Sicilia, ma sì in parte della terraferma italiana. Nella cappella di san Matteo della cattedrale di Salerno, sotto la effigie del santo in mosaico, il nostro artista s’accorse di una picciola figura in ginocchio ch’ei ritrasse diligentemente, in pie’ della quale si leggono questi due versi:Hoc studiis magnis fecit pia cura Johannis
De Procida, dici meruitque gemma Salerni.A’ documenti fin qui pubblicati per dimostrare l’alto stato ch’ebbe Giovanni di Procida presso Manfredi, aggiugnerò la notizia d’un altro che si legge nel r. archivio di Napoli, reg. 1269, D, fog. 9. È un diploma di Carlo I dato il 22 giugno tredicesima Ind. (1270), nel quale se ne cita un di Manfredi del 25 agosto ottava Ind. (1265), dato per _Joannem de Procita_, e indirizzato a Risone Marra intorno l’uficio di maestro segreto e portulano di Sicilia. Questo diploma conferma che Giovanni fu cancelliere di re Manfredi.
- ↑ Ho veduto tra’ Mss. della Biblioteca reale di Francia, nel volume segnato 6,069. V. un manoscritto latino del secolo XIV che porta il titolo: _Incipit liber philosophorum moralium antiquorum et dicta seu castigationes Sedechie, prout inferius continetur, quas transtulit de greco in latinum magister Johannes de Procida_. È una raccolta o compendio delle massime che correano sotto i nomi di Sedecia, Hermes, Omero, Solone, Pitagora, Diogene, Socrate, Platone, Aristotile, Alessandro, Tolomeo, Gregorio, ec., e finisce con un capitolo, intitolato _Sapientium dicta_. Io la credo piuttosto una compilazione che una traduzione. Il titolo di _magister_ mi accerta della identità della persona dell’autore col nostro G. di Procida, il quale non par che guadagni in fama letteraria quanto ha perduto in fama politica. È qui da ricordare qual fosse la corte di Federigo imperatore e di Manfredi. Federigo, educato fin dalla sua fanciullezza in Sicilia era perito negli idiomi tedesco, francese, latino, greco, arabo; poetò in volgare; amò gli studi filosofici; dettò un opuscolo di storia naturale; e promosse gli studi in tutta l’Italia. A lui forse si deve il pronto sviluppo della lingua illustre d’Italia. Manfredi fece alcune aggiunte al libro di Federigo, scrisse versi italiani, favorì molto i letterati e gli studi. Sul particolare delle lettere greche e dello studio de’ filosofi greci, noi sappiamo che Bartolomeo di Messina per comando dell’imperatore voltò dal greco in latino l’etica d’Aristotile, e un libro su la cura de’ cavalli, e che Moisè da Palermo nello stesso tempo scrisse una somigliante traduzione d’un libro d’Ippocrate. Veg. Tiraboschi, Stor. lett. d’Italia, tom. IV; di Gregorio, Discorsi. Dopo ciò si comprendrà più facilmente come Giovanni di Procida fosse avviato a questi studi; e senza dubbio si riferirà al ministro di Federigo, di Manfredi e di Pietro e Giacomo d’Aragona la citata raccolta di sentenze degli antichi filosofi.
- ↑
- Petrarca, Itinerario Siriaco.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
- Boccaccio, De casibus virorum illustrorum, lib. 9, cap. 19.
- ↑
- Diploma del 29 gennaio 1270 per la inquisizione de’ beni confiscati a una lunghissima lista di ribelli, tra i quali si legge Giovanni di Procida.
- Diploma dato di Capua del 3 febbr. 1270, pel quale Carlo I die’ un sussidio, su i confiscati beni dotali, a Landolfina moglie di Giovanni di Procida da Salerno, come non partecipe della colpa del marito, «il quale per alto tradimento commesso, come dicesi, contro la maestà nostra, allontanossi dal regno.» Questi diplomi cavati dal. r. archivio di Napoli conservatisi ne’ Mss. della Bibliot. com. di Palermo, Q. q. F. 70, e sono stati pubblicati dal Buscemi, nella Vita di Procida, docum. 2 e 3.
- ↑ Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 13.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag 340 a 342.
- ↑ Montaner, cap. 37, 44.
- ↑
- Montaner, cap. 40.
- Bernardo d’Esclot, cap. 76.
- ↑
- D’Esclot, loc. cit.
- Montaner, cap. 38, 39.
- Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
- ↑ Montaner, cap. 38, 42. L’asserzione contraria si legge in un manifesto di re Carlo I recato da Muratori, Ant. Ital. Dissert. 39, tom. III, pag. 650; e ve n’ha un cenno nel Memoriale dei podestà di Reggio, Muratori, R. I. S., tom. VIII, p. 1155.
- ↑ Montaner, cap. 36.
- ↑
- Ibid., cap. 41.
- Veggansi ancora per questi particolari Bart. de Neocastro, cap.16; Cron. del mon. di S. Bertino; Surita, Ann. d’Aragona, ec.
- ↑ Alcuni han creduto legger questo nei versi di Dante:
- E guarda ben la mal tolta moneta, ec.
_Inf._, c. 19.Nell’appendice, io tento d’accostarmi ad una migliore spiegazione di questo luogo della Divina Commedia.
- ↑
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 57, 59, 60.
- Ricordano Malespini, cap. 206 a 208.
- Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 249 a 263.
- Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S. tom. IX, pag. 952 e 953.
- Cronica di frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 11, 12, in Muratori, R. I. S. tom. IX, pag. 686.
- ↑
- Tolomeo da Lucca, lib. 24, cap. 4, in Muratori, R. I. S. tom. XI, pag. 1186-87.
- Pachymer, lib. 6, cap. 8, parla di una grande alterazione nella moneta d’oro fatta in questo tempo dal Paleologo, per fornir sussidi agli Italiani.
- ↑ Veg. l’appendice.
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 342 a 345.
- Montaner, cap. 44, 45, 46, 47.
- ↑ Questi preparamenti son taciuti dagli storici contemporanei, che anzi accagionan Carlo di soverchio disprezzo. Ma ne’ registri della sua cancelleria trovansi date nel 1278 delle provvisioni che non si possono in alcun modo attribuire all’impresa di Soria. Perchè, lasciando i molti armamenti navali citati in questo capitolo, pag. 85, nota 2, che possono anche parer troppi, considerate le poche forze che in fatto andarono in Asia, leggiamo evidentemente ciò che ho detto nel testo, in due diplomi, l’un del 13 marzo sesta Ind. 1278, e l’altro del 6 agosto medesimo anno, r. arch. di Napoli, reg. di Carlo I segnato 1268, A, fog. 95 e 89.
Quel di marzo risguarda le galee destinate alla custodia delle marine di Principato e Terra di Lavoro; l’altro è per le provvedigioni di miglio nei castelli di Sicilia.
Il re comandava di aumentarle dal 1 settembre vegnente in questo modo:Fortezza di Messina da salme 112½ a 240 di Scaletta 20 » 48 di Milazzo 45 » di San Marco 30 » 99 di Odogrillo 27 » 55 Castel di Siracusa 27 » Palagio di Siracusa 9 » 60 Castel superiore di Taormina 27 » 77 Castello inferiore 22½ » 50 di Agosta 10½ » 57 di Cefalù 85½ » 325½ Palagio di Palermo 18 » 200 Castell’a mare di Palermo 29 » 100 di Licata 40 » 90 di Monteforte 27 » 104 di Vicari, che non avea provvedigione » » 50 di Caronia » » 27 di Castiglione » » 30 di Lentini » » 100 di Marineo » » 100 di Geraci » » 60 di San Filippo » » 100 di Caltanissetta » » 30 di Santo Mauro » » 30 di Avola » » 30 di Caltabellotta » » 30 Varie cose sono da notarsi in questo documento. La prima che non si vittovagliavano tutte le fortezze regie di Sicilia, ma a un di presso due terze parti delle medesime, tralasciandone molte sì in monte e sì in maremma. La seconda che per la provvedigione si preferiva il miglio al frumento; o per lo minor caro, o per lo minore rischio di ribollire e guastarsi. Lo stato delle fortezze regie sei anni innanzi si legge in un diploma del 3 maggio 1272 cavato anche dal r. archivio di Napoli e pubblicato dall’er. Michele Schiavo nelle memorie per la storia letteraria di Sicilia, tom. I, parte 3, pag. 49 e seg. In questo leggonsi oltre i notati nel diploma del 1278 che or ora trascrissi, i castelli di Rametta, San Fratello, Nicosia, Castrogiovanni, Mineo, Licodia, Modica, Garsiliato, Calatabiano, Corleone, Sciacca, Girgenti, Carini, Termini, Favignana, Camerata; ma vi mancano quelli di Odogrillo e Castiglione, e il castel disottano di Taormina. Si scerne di più dal diploma del 1272, che erano affidati alcuni a castellani col soldo di due tarì al giorno, altri a castellani scudieri col soldo di tarì uno e grana quattro, e vi erano _consergî_ col medesimo stipendio, e servienti con grana otto al giorno. La maggior forza de’ servienti, o vogliam dire soldati a pie’, era nei 1272 nelle fortezze di Messina, Castrogiovanni, Cefalù, e Nicosia. Ma nel 1278 par che si volesse adunare più gente in quelle di Cefalù, Palermo, Messina, Monteforte, Milazzo, Lentini, Marineo, San Filippo; nè la posizione geografica basta a spiegare questa mutazione di disegni militari. Forse gli umori delle popolazioni, lo stato delle fabbriche di queste fortezze, e altre circostanze meno a noi note vi contribuirono, e l’essersi dato in feudo (che di tutte non fu certamente) alcuna di quelle terre.
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 342 a 345.
- Montaner, cap. 44, 45, 46, 47.
- ↑
- Ric. Malespini, cap. 208.
- Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 261.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 345.
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 346.
- Ric. Malespini, cap. 207, e gli altri contemporanei citati dal Muratori, Ann. d’Italia, 1281.
- ↑ Saba Malaspina, lib. 6.
- ↑
- Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 762.
- Saba Malaspina, cont., pag. 349, 351.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 58.
- ↑ Surita, Annali d’Aragona, lib. 4, cap. 13 e 16.
- ↑
- Cron. sic. della cospirazione di Procida, l. c., pag. 262.
- Ric. Malespini, cap. 208.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 60.
- Montaner, cap. 42, con qualche diversità. Al capitolo 49 porta come data da Pietro al conte di Pallars quella risposta del mozzar la mano sinistra se sapesse il segreto.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 13.
- ↑
- Raynald, Ann. ecc. 1281, §. 25, e 1282, §§. 5, 8, 9, 10, e nota del Mansi al §. 13.
- Tolomeo da Lucca, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1186.
- ↑
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
- Saba Malaspina, cont., pag. 350.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 350.
- ↑
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
- Ric. Malespini, cap. 206.
- Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 251.
- ↑ Docum. VII.
- ↑ Saba Malaspina, cont., p. 352.
- ↑
- Nangis, in Duchesne, Hist. fr. script., tom. V, pag. 357 e seg.
- Muratori, Ann. d’Italia, 1282.
- ↑ Muratori, ibid.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 338, 339.
Le parole della profezia son queste: _Tempus adhuc videbit qui vixerit, quod Scarabones ejicient de regno Gallicos et in multitudine, etc._ Io ho creduto che _Scarabones_ suoni in italiano masnadieri, saccardi, soldati irregolari; perchè questa parola, che non si trova nel glossario del Du Cange, è identica a _Scaranii_, _Scaramanni_, _Scamari_, _Scarani_, _Scarafonus_, vocaboli che vengono dalla radice _Scara_ (_acies_, _cuneus copiæ militares_), o piuttosto da _Scara_, una delle angherie feudali, onde si dicevano _Scaranii_, ec. i famigliari de’ magistrati, i fanti incaricati della riscossione di alcuni balzelli, e in generale gli armigeri della più disordinata e spregevole maniera di milizia. Indi l’italiano _scherani_. - ↑ Diplomi dell’8 novembre 1280, 21 aprile e 27 giugno 1281 nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 218, 222 e 227.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 350, 351.
- ↑
- Ibid. pag. 355.
- Anonymi Chr. sic., loc. cit., pag. 147.
- ↑ Dante Alighieri, De Vulgari Eloquio, lib. 1, cap. 12.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 13.
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.
- ↑
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2 e 4.
- Epistola de’ Siciliani a papa Martino, nell’Anonymi Chr. sic., cap. 40, l. c.
- Bart. de Neocastro, cap. 13.
- Docum. VII.
- ↑
- Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., T. III, pag. 609.
- Mss. della vittoria di Carlo d’Angiò, in Duchesne, Hist. fr. script., tom. V, pag. 851.
- Cron. del Mon. di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anecd. tom. III, pag. 762.
- Francesco Pipino, Chron. lib. 4, cap. 29, in Muratori, R. I. S., tom. IX.