< La guerra del vespro siciliano
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Capitolo V Capitolo VII



Nuovi oltraggi de’ Francesi in Palermo. Festa a Santo Spirito il dì 31 marzo: sommossa: eccidio feroce per la città. Gridasi la repubblica. Sollevazione di altre terre. Adunanza in Palermo, e partiti gagliardi che prende. Lettere de’ Palermitani ai Messinesi, i quali seguon la rivoluzione. Ordini pubblici con che si regge la Sicilia, e si prepara alla difesa. Opinione sulla causa prossima di questa rivoluzione.--Marzo a giugno 1282.


I Siciliani maledissero e sopportarono infino a primavera del milledugentottantadue. Nè gli appresti di guerra in Ispagna si vedean forniti; nè in Sicilia, se alcun era che li sapesse, potea aver luogo a prossime speranze. Stavan sul collo al popolo gli smisurati armamenti di re Carlo contro Costantinopoli: l’isola imbrigliavano da quarantadue castelli regi, posti o in luoghi foltissimi, o nelle città maggiori1, e più numero che ne teneano i feudatari francesi2: raccolti e in sull’arme gli stanziali: pronte a ragunarsi a ogni cenno le milizie baronali, ch’erano in parte di suffeudatari stranieri. E in tal condizione di cose, che i savi meditando e antiveggendo non avrebbero eletto giammai ad un movimento, gli officiali di Carlo prometteansi perpetua la pazienza, e continuavano a flagellare il sicilian popolo.

La pasqua di resurrezione fu amarissima per nuovi oltraggi in Palermo; capitale antica del regno, che gli stranieri odiarono sopra ogni altra città, come più ingiuriata e più forte. Sedeva in Messina Erberto d’Orléans vicario del re nell’isola: il giustiziere di val di Mazzara governava Palermo; ed era questi Giovanni di San Remigio, ministro degno di Carlo. I suoi officiali, degni del giustiziere e del principe, testè s’erano sciolti a nuova stretta di rapine e di violenze3. Ma il popolo sopportava. E avvenne che cittadini di Palermo, cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entrati in un tempio a pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione di Cristo, tra i riti di penitenza e di pace, trovarono più crudeli oltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra loro i debitori delle tasse; strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li traggono al carcere, ingiuriosamente gridando in faccia all’accorrente moltitudine: «Pagate, paterini, pagate.» E il popolo sopportava4. Il martedì appresso la pasqua, cadde esso a dì trentuno marzo5, una festa si celebrò nella chiesa di Santo Spirito. Allora brutto oltraggio a libertà fu principio; il popolo stancossi di sopportare. Del memorabil evento or narreremo quanto gli storici più degni di fede n’han tramandato.

A mezzo miglio dalle australi mura della città, sul ciglion del burrone d’Oreto, è sacro al Divino Spirito un tempio6; del quale i latini padri non lascerebber di notare, come il dì che sen gittava la prima pietra, nel secol dodicesimo, per ecclisse oscuravasi il sole. Dall’una banda il dirupo e il fiume; dall’altra corre infino a città la pianura, la quale in oggi ingombrasi per gran tratto di muri e d’orti, e un chiuso, negro di cipressi, tutto scavato di tombe, e sparso d’urne e di lapidi rinserra la chiesa con giusto spazio in quadro; cimitero pubblico, che si costruì al cader del decimottavo secolo, e la dira pestilenza del milleottocentotrentasette, esiziale a Sicilia, in tre settimane orribilmente il colmò. Per questo allor lieto campo, fiorito di primavera, il martedì a vespro, per uso e religione, i cittadini alla chiesa traeano: ed eran frequenti le brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano lor danze: fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da’ rei travagli un istante, allorchè i famigliari del giustiziere apparvero, e un ribrezzo strinse tutti gli animi. Con l’usato piglio veniano gli stranieri a mantenere, dicean essi, la pace. A ciò mischiavansi nelle brigate, entravano nelle danze, abbordavan dimesticamente le donne: e qui una stretta di mano; e qui trapassi altri di licenza; alle più lontane, parole e disdicevoli gesti. Onde chi pacatamente ammonilli se n’andasser con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma i rissosi giovani alzaron la voce sì fieri, che i sergenti dicean tra loro: «Armati son questi paterini ribaldi, ch’osan rispondere»; e però rimbeccarono ai nostri più atroci ingiurie; vollero per dispetto frugarli indosso se portasser arme; altri diede con bastoni o nerbi ad alcun cittadino. Già d’ambo i lati battean forte i cuori. In questo una giovane di rara bellezza, di nobil portamento e modesto7, con lo sposo, coi congiunti avviavasi al tempio. Droetto francese, per onta o licenza, a lei si fa come a richiedere d’armi nascose; e le dà di piglio; le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio allo sposo; lo sposo, soffocato di rabbia: «Oh muoiano, urlò, muoiano una volta questi Francesi!» Ed ecco dalla folla che già traea, s’avventa un giovane; afferra Droetto; il disarma; il trafigge; ei medesimo forse cade ucciso al momento, restando ignoto il suo nome, e l’essere, e se amor dell’ingiuriata donna, impeto di nobil animo, o altissimo pensiero il movessero a dar via così al riscatto. I forti esempi, più che ragione o parola, i popoli infiammano. Si destaron quegli schiavi del lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!» gridarono; e ’l grido, come voce di Dio, dicon le istorie de’ tempi, eccheggiò, per tutta la campagna, penetrò tutti i cuori. Cadono su Droetto vittime dell’una e dell’altra gente: e la moltitudine si scompiglia, si spande, si serra; i nostri con sassi, bastoni, e coltelli disperatamente abbaruffavansi con gli armati da capo a piè; cercavanli; incalzavanli; e seguiano orribili casi tra gli apparecchi festivi, e le rovesciate mense macchiate di sangue. La forza del popolo spiegossi, e soperchiò. Breve indi la zuffa; grossa la strage de’ nostri: ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento8.

Alla quieta città corrono i sollevati, sanguinosi, ansanti, squassando le rapite armi, gridando l’onta e la vendetta: «Morte ai Francesi!» e qual ne trovano va a fil di spada. La vista, la parola, l’arcano linguaggio delle passioni, sommossero in un istante il popol tutto. Nel bollor del tumulto fecero, o si fece dassè condottiero, Ruggier Mastrangelo, nobil uomo: e il popolo ingrossava; spartito a stuoli, stormeggiava per le contrade, spezzava porte, frugava ogni angolo, ogni latebra: «Morte ai Francesi!» e percuotonli, e squarcianli; e chi non arriva a ferire, schiamazza ed applaude. S’era il giustiziere a tal subito romore chiuso nel forte palagio: e in un momento, chiamandolo a morte, una rabbiosa moltitudine circonda il palagio; abbatte i ripari; infellonita irrompe: ma il giustiziere le sfuggì, che ferito in volto, tra le cadenti tenebre e ’l trambusto, inosservato montando a cavallo con due famigliari soli, rapidissimo s’involò. Intanto per ogni luogo infuriava la strage; nè posò per la notte soppraggiunta; e rincrudì la dimane; e l’ultrice rabbia non pure si spense, ma il sangue nemico fu che mancolle9. Duemila Francesi furono morti in quel primo scoppio10. Negossi ai lor cadaveri la sepoltura de’ battezzati11; ma poi si scavò qualche carnaio ai miserandi avanzi12; e la tradizione ci addita la colonna sormontata di ferrea croce13, che pose in un di quei luoghi la pietà cristiana, forse assai dopo il tempo della vendetta. Narra la tradizione ancora, che il suon d’una voce fu la dura prova onde scerneansi in quel macello i Francesi, come lo _shibbolet_ tra le ebree tribù; e che se avveniasi nel popolo uom sospetto o mal noto, sforzavamo col ferro alla gola a profferir _ciciri_, e al sibilo dell’accento straniero spacciavanlo. Immemori di sè medesimi, e come percossi dal fato gli animosi guerrieri di Francia non fuggiano, non adunavansi, non combatteano; snudate le spade, porgeanle agli assalitori, ciascuno a gara chiedendo: «Me, me primo uccidete»; sì che d’un gregario solo si narra, che ascoso sotto un assito, e snidato coi brandi, deliberato a non morir senza vendetta, con atroce grido si scagliasse tra la turba de’ nostri disperatamente, e tre n’uccidesse pria di cader egli trafitto14. Nei conventi dei minori e dei predicatori irruppero i sollevati; quanti frati conobber francesi trucidarono15. Gli altari non furono asilo: prego o pianto non valse; non a vecchi si perdonò, non a bambini, nè a donne. I vendicatori spietati dello spietato eccidio d’Agosta, gridavano che spegnerebber tutta semenza francese in Sicilia; e la promessa orrendamente scioglieano scannando i lattanti su i petti alle madri, e le madri da poi, e non risparmiando le incinte: ma alle siciliane gravide di Francesi, con atroce misura di supplizio, spararono il corpo, e scerparonne, e sfracellaron miseramente a’ sassi il frutto di quel mescolamento di sangui d’oppressori e d’oppressi16. Questa carnificina di tutti gli uomini d’una favella, questi esecrabili atti di crudeltà, fean registrare il vespro siciliano tra i più strepitosi misfatti di popolo: che vasto è il volume, e tutte le nazioni scrisservi orribilità della medesima stampa e peggiori; le nazioni or più civili, e nei tempi di gentilezza, e non solo vendicandosi in libertà, non solo contro stranieri tiranni, ma per insanir di setta religiosa o civile, ma ne’ concittadini, ma ne’ fratelli, ma in moltitudine tanta d’innocenti, che spegneano quasi popoli interi. Ond’io non vergogno, no di mia gente alla rimembranza del vespro, ma la dura necessità piango che avea spinto la Sicilia agli estremi; insanguinata coi supplizi, consunta dalla fame, calpestata e ingiuriata nelle cose più care; e sì piango la natura di quest’uom ragionante e plasmato a somiglianza di Dio, che d’ogni altrui comodo ha sete ardentissima, che d’ogni altrui passione è tiranno, pronto ai torti, rabido alla vendetta, sciolto in ciò d’ogni freno quando trova alcuna sembianza di virtù che lo scolpi; sì come avviene in ogni parteggiare, di famiglia, d’amistà, d’ordine, di nazione, d’opinion civile o religiosa.

La ferocità del vespro, togliendo ai mezzani partiti ogni via, fu pur salute a Sicilia. Quella insanguinata notte medesima del trentuno marzo, tra la superbia della vendetta, e lo spavento del proprio audacissimo fatto, il popolo di Palermo adunato a parlamento si slancia di lunga più innanti: disdice il nome regio per sempre: statuisce di reggersi a comune, sotto la protezion della romana Chiesa. Alla quale deliberazione il mosse quel mortalissim’odio

contro re Carlo e suoi governi; e la rimembranza del duro fren degli Svevi; e per lo contrario quella sì gradita della libertà del cinquantaquattro; e l’esempio delle toscane e lombarde repubbliche; e il rigoglio di possente cittade, che infranto da sè stessa il giogo, nella propria virtù s’affida. Il nome della Chiesa s’aggiunse a disarmar l’ira papale, o piuttosto a tentar l’ambizione, o ad onestar la ribellione sotto specie che scacciando il pessimo signore immediato, non si violasse lealtà al sovrano onde quegli teneva il regno. Ruggier Mastrangelo, Arrigo Barresi, Niccoloso d’Ortoleva cavalieri, e Niccolò di Ebdemonia, furono gridati capitani del popolo, con cinque consiglieri17. Al baglior delle faci, sul terreno insanguinato, tra una romoreggiante calca d’armati, con la sublime pompa del tumulto s’inaugurò il repubblican magistrato; e i suonatori dìer nelle trombe e nei moreschi taballi; e migliaia di voci gioiosamente gridarono «Buono stato e libertà!» L’antico vessillo della città, l’aquila d’oro in campo rosso, a nuova gloria fu spiegato; e ad ossequio della Chiesa v’inquartaron le chiavi18.

A mezza notte Giovanni di San Remigio si restò dalla rapida fuga a Vicari19, castello a trenta miglia dalla capitale; dove a fretta e furia picchiando, la gente del presidio avvinazzata nelle medesime feste che avean partorito tanta strage in Palermo, a stento riconobbelo; e ammettendolo, stralunava a veder il giustiziere fuor di lena, insanguinato, senza stuolo, a tal’ora venirne. Tacque allor Giovanni: la mattina a dì appellava alle armi i Francesi tutti de’ contorni, agguerrita gente, e vera milizia feudale; e, rotto il silenzio, confortavali a scansare e vendicar forse il fato dei lor compagni. Ed ecco l’oste di Palermo, che a cercar del fuggente s’era mossa co’ primi albori, entrata sulla traccia, a gran passo a Vicari giugne. Accerchiò confusamente la terra: bruciava di slanciarsi, e non sapea veder modo all’assalto: perciò diessi a minacciare, e intimar la resa; profferendo salve le persone, e che Giovanni e sua gente, poste giù le armi potessero imbarcasi per Acquamorta di Provenza. Essi sdegnando tai patti, e spregiando l’assaltante bordaglia, fanno impeto in una sortita. E al primo l’arte soldatesca vincea; e sparpagliavansi i nostri: se non che entrò nella battaglia una potenza maggiore dell’arte, il furor del vespro, rinfiammatosi a un tratto nelle sparse turbe, che arrestansi, guardansi in viso: «Morte ai Francesi, morte ai Francesi!» e affrontatili con urto irresistibile, rincacciano nella rocca laceri e sgarati i vecchi guerrieri. Vana prova indi fu de’ Francesi a riparlar d’accordo. Sconoscendo tutta ragion di guerra, i giovani arcadori di Caccamo saettarono il giustiziere affacciatosi dalle mura; e lui caduto, avventossi la gente tutta all’assalto; occuparon la fortezza; trucidarono tutti i soldati; i cadaveri gittarono in pezzi ai cani e agli avvoltoi. Tornossi l’oste in Palermo20.

Intanto volando strepitosa la fama di terra in terra, fu prima in que’ contorni Corleone a levarsi, come principale di popolazione e importanza, e anco per cagion de’ molti lombardi nimici al nome angioino e guelfo21, e degli insoffribili aggravî che le avea portato la vicinanza de’ poderi del re. Questa città, soprannominata poi l’animosa, gittandosi certo con grande animo appresso alla capitale, mandavale oratori Guglielmo Basso, Guglielmo Corto, e Guigliono de Miraldo, ad offrir patti di unione, fedeltà e fratellanza tra le due cittadi; scambievole aiuto con arme, persone, e danaro; reciprocità de’ privilegi di cittadinanza, e della franchigia di tutte gravezze poste su i non cittadini. Ignoriamo or noi se venne da’ reggitori repubblicani di Palermo o dai patriotti di Corleone il pensiero della lega, ma a chiunque si debba, esso per certo dà a veder preponderante in que’ primi principî l’elemento municipale, e sostituito alla connessione feudale il legame federale de’ comuni, che fu il vessillo sotto il quale la rivoluzione del vespro occupò tutta l’isola. Convocato il popol di Palermo, assente a una voce que’ patti; e per suo comando, i capitani e ’l consiglio della città giuranti sul vangelo co’ legati di Corleone a dì tre aprile, e stendonsi in forma d’atto pubblico22; promettendo anco Palermo aiutar l’amica città alla distruzione del fortissimo castel di Calatamauro23. Intanto un Bonifazio eletto capitan del popolo di Corleone, con tremila uomini uscì a battere il paese d’intorno: dove fur messi a ruba e a distruzione i poderi del re; domati all’uopo della siciliana rivoluzione gli armenti che si nudriano con tanta cura per l’esercito d’Oriente; espugnate le castella dei Francesi; saccheggiate le case; e tanto spietata corse la strage, che al dir di Saba Malaspina, parea ch’ogni uomo avesse a vendicar la morte d’un padre, d’un fratello o d’un figlio; o fermamente credesse far cosa grata a Dio a scannare un Francese24. Così propagavasi in pochissimi dì il movimento per molte miglia all’intorno, da medesimità di umori, prepotenza d’esempio, e vigor de’ sollevati. Ebbe pure in parecchi luoghi una sembianza, che inesplicabile sarebbe a chi volesse non ostante il detto di sopra trovar ordimento e cospirazione in codesti tumulti. Perchè le popolazioni di gran volontà mettevano al taglio della spada gli stranieri, ma dubbiavan poi a disdire il nome di re Carlo25. Per altro pochi giorni tentennarono, che le rapì quell’una comun passione, e la forza dei ribelli: onde a mano a mano chiarironsi anch’esse, scelsero i condottieri di loro forze a combattere i Francesi, scelsero lor capitani di popolo; e questi alla capitale inviarono, la cui riputazione le avea fatto sì audaci, e tutte in essa or affidavansi e speravano26.

Raccolto in Palermo questo nocciol primo dei rappresentanti della nazione, ispirolli quel valor medesimo onde in una breve notte erasi innalzato a grandezza di rivoluzione il tumulto palermitano. Rincoravanli col brio dei maschi petti la plebe, mescolata de’ sollevati di tutte le altre terre, che discorrea la città raccontando impetuosamente d’uno in uno i durati oltraggi e la vendetta, e alto gridando: «Morte pria che servire a’ Francesi.» Onde appena congregato il parlamento de’ sindichi della più parte di val di Mazzara, assentiva il reggimento a repubblica sotto il nome della Chiesa, «Evviva, romoreggiava il popolo interno, evviva! libertà e buono stato;» e tutti ad osar tutto accendeansi, quando Ruggier Mastrangelo, a rapirseli sì innanzi che potesser dominare gli eventi, risoluto sorgeva ad orare in questa sentenza:

«Forti parole, terribili sagramenti ascolto, o cittadini, ma all’operare niun pensa, come se questo sangue che si versò, compimento fosse di vittoria, non provocazione a lotta lunga, mortale! E Carlo, il conoscete voi, e i manigoldi suoi mille, e vi trastullate a dipingere insegne! Lì in terraferma le genti, le navi pronte alla guerra di Grecia; lì brucian di vendetta i Francesi; entro pochi dì su noi piomberanno. Trovin porti schiusi allo sbarco; trovin l’aiuto de’ nostri vizi; ed ecco che si spargono per la Sicilia; gl’incerti popoli sforzano con l’arme; ingannanli co’ nostri odî malnati; seduconli a promesse; li strascinano a tutt’obbrobrio di servitù, e a impugnar contro noi l’armi parricide. Libertà o morte or giuraste; e schiavitù avrete, e non tutti avrete la morte: chè stanchi alfine i carnefici, serbano a lor voglie il gregge de’ vivi. Siciliani! ai tempi di Corradino pensate. Sterminio ne sarà lo starci; l’oprare, gloria e salvezza. Col nerbo di nostre forze, bastiamo a levar tutto infino a Messina il paese; e Messina or no, non sarà dello straniero: comuni abbiano legnaggio, e favella, e glorie passate, e ignominia presente, e coscienza che la tirannide e la miseria delle divisioni son frutto. Insanguinata la Sicilia tutta nelle vene degli stranieri; forte nel cuor dei suoi figli, nell’asprezza de’ monti, nella difesa de’ mari, chi fia che vi ponga pie’ e non trovi aperta la fossa? Il Cristo che bandìa libertà agli umani, ei che ispirovvi questo santo riscatto, ei vi stende il braccio onnipossente se da uomini or voi vi aiutate. Cittadini, capitani dei popoli, io penso che per messaggi si richieggan tutte le altre terre di collegarsi con esso noi nel buono stato comune: che con le armi, con la celerità, con l’ardire s’aiutino i deboli, si rapiscano i dubbiosi, combattansi i protervi. A ciò spartiti in tre schiere corriam l’isola tutta a una volta. Un parlamento generale maturi i consigli poi, unisca le volontà, e decreti gli ordini pubblici; chè Palermo, ne attesto Iddio, Palermo non sogna dominio; ma la comun libertà cerca, e per sè l’onor solo de’ primi perigli.»

«E il popolo di Corleone, ripigliò Bonifazio, seguirà le sorti di questa generosa città, della Sicilia ornamento e presidio. Tremila suoi prodi Corleone qui manda, a vincere o morir con voi. Sì, ma se morir dovremo, cada insieme chiunque patteggi per lo straniero nell’ora del sicilian riscatto. Ruggiero, animoso tu nella pugna, savio tu nel consiglio, la parola di salvezza parlavi. Orsù tradisce la patria chi tarda; prendiamo l’armi, ed andiamo.27

«Andiamo andiamo!» risposegli tonante la voce del popolo28: e con meravigliosa prestezza cavalcarono i corrieri, s’adunarono gli armati, e in tre schiere spediti mossero. L’una a manca ver Cefalù, l’altra a dritta su Calatafimi prese la via, la terza s’addentrò nel cuor dell’isola per Castrogiovanni29: e le insegne spiegavano del comune, con le chiavi della Chiesa dipinte intorno intorno; e la fama precorreale, e il desio degli animi. Indi senza contrasto ogni terra disdisse il nome di re Carlo; con una concordia bella, se non era anco nello spargimento del sangue francese. A’ Francesi dieron la caccia per monti e selve; li oppugnarono ne’ castelli; perseguitaronli in cento guise, con tal rabbia che ai campati dalle mani dei nostri venne in odio la vita, e dalle più munite rocche, dagli asili più riposti si dier nelle mani del popolo che chiamavali a morte; taluno dall’alto di una torre si lanciò. In qualche luogo per vero furono, per virtù loro o fortuna, scacciati soltanto, spogli sì d’ogni cosa; e rifuggiansi questi a Messina30. Ma avrà eterna fama il caso di Guglielmo Porcelet, feudatario o governatore di Calatafimi, stato giusto ed umano tra lo iniquo sfrenamento de’ suoi. Nell’ora della vendetta e nei primi impeti, giunta a Calatafimi l’oste di Palermo, non che perdonar la vita a Guglielmo e ai suoi, lo confortò e onorò molto, e rimandollo in Provenza: il che mostri come il popolo degli eccessi suoi n’ha ben d’onde31.

A guadagnar Messina in questo mezzo ogni sforzo fu posto32, non essendo chi non vedesse l’importanza del sito, del porto, della grossa e opulenta città; nella quale stava il nodo della guerra; e necessità stringea di trarsela amica, o piombar tutti disperatamente su lei. Di Messina temeasi per le ruggini antiche; ma se ne sperava per essersi aperti gli animi nelle afflizioni recenti, ed anco per aver molti Messinesi in Palermo soggiorno, e cittadinanza, e appicco di commerci e parentele. Si die’ opera alle pratiche dunque; che delle private e più efficaci non è passata infino a noi la memoria; delle pubbliche ne resta una lettera data di Palermo il tredici aprile, che fu spacciata per messaggi, e incomincia: «Ai nobili cittadini dell’egregia Messina, sotto re Faraone schiavi nella polve e nel fango, i Palermitani salute, e riscossa dal servil giogo col braccio di libertà. E sorgi, dice l’epistola, sorgi o figliuola di Sionne, ripiglia l’antica fortezza.... abbian fine i lamenti che partoriscon dispregio; dà di piglio alle armi tue, l’arco e la faretra; sciogli i vincoli dal tuo collo;» e Carlo or va chiamando Nerone, lupo, lione, immane drago; e or volta alla città di Messina sclama: «Già Iddio ti dice: togli in collo il tuo giaciglio e va, che sei sana,» or i cittadini esorta «a pugnare con l’antico serpente, e rigenerati nella purezza de’ bambini, succhiare il latte di libertà, cercar giustizia, fuggire calamità e vergogna33.» Mentre i Palermitani con tai faville bibliche tentavano que’ cittadini, Erberto d’Orléans s’afforzava nelle armi straniere, e nei nobili Messinesi di parte angioina, che s’eran prevalsi in cento soprusi contro i lor concittadini, ond’ora strettamente per lo vicario teneano. E dapprima inviò ad osteggiar Palermo sette galee messinesi, sotto il comando di Riccardo Riso, colui che nel sessantotto con poche navi aveva osato affrontar tutta l’armata pisana, e or correa nella guerra civile a perder l’onore di cittadino e il nome di prode. Perchè congiuntosi con quattro galee d’Amalfi, che ubbidiano a Matteo del Giudice e Ruggier da Salerno, a bloccare il porto di Palermo si pose: e com’altro non potea, approcciato alle mura facea gridare il nome di Carlo, e a’ nostri minacce e villanie. Ma rispondean essi nella mansuetudine dei forti: «Nè le ingiurie renderebbero, nè i colpi: fratelli i Messinesi e i Palermitani; sol nemici i tiranni: quelle armi contro i tiranni volgessero.» E inalberavan su i muri a canto all’aquila palermitana, lo stendal della croce di Messina34.

E la città di Messina, o que’ ne teneano il municipal governo, a dimostrazione di lealtà, il dì quindici aprile mandavano cinquecento lor balestrieri capitanati da un cavalier Chiriolo messinese, a munir Taormina, che non l’occupassero i sollevati35. Il popolo al contrario, sentendosi bollire il sicilian sangue nelle vene, com’incalzavan gli avvisi del tumulto di Palermo, e degli altri, e dello eromper de’ sollevati per l’isola, delle stragi, delle fughe, de’ mille casi accresciuti o composti dalla fama; e come i Francesi vedea pavidi e ignudi riparar anelando in Messina, cominciò a digrignar contro i soldati d’Erberto36, ch’erano un grosso di secento cavalli tra francesi e calabresi, condotti da Pier di Catanzaro; e pareano al vicario sì duro freno che il popolo non sel trarrebbe giammai37. Onde il popolo che ciò sapea, una volta proruppe in ferocissime parole, che per poco si rimase da’ fatti: e quei vedendosi mal sicuri in città, parte si ritraeano nel castel di Matagrifone, parte nel real palagio presso Erberto, il quale in mal punto volle far mostra di gagliardo; con che il popol dubbio si doma, il risoluto s’affretta. Perchè mandati novanta cavalli con Micheletto Gatta ad occupare le fortezze di Taormina, quasi non fidandosi de’ Messinesi del presidio, costoro che li vedean salire sì alteramente in ostile sembianza, stimolati da un cittadino per nome Bartolomeo, li salutarono con un grido di ingiuria e una grandine di saette; e appiccarono la zuffa. Caddervi quaranta Francesi: gli altri a briglia sciolta si rifuggiro nel castello di Scaletta: e i nostri, abbattute le insegne di Carlo, su Messina marciarono a sforzarnela a ribellione.

Dove tra’ mille che voleano e non osavano, Bartolomeo Maniscalco popolano, con altri molti congiurò a dar principio ai fatti. Intanto preparandosi le armi a respingere i sollevati di Taormina, deploravano i cittadini più posati la imminente effusione del civil sangue; il popolo stava a guinzaglio38; nè erano neghittosi i cospiratori. Forse allor fu, ch’entrata in porto una galea palermitana, dandosi a trucidar alcuni Francesi, affrettava l’evento39: ma raro avviene in così fatti incendi scerner netto qual fosse la prima scintilla. Era il ventotto aprile. Scoppian tra la commossa plebe le grida «Morte ai Francesi, morte a chi li vuole!» e incominciano gli ammazzamenti: pochi allora, perchè il minacciar sì lungo avea sgombrato dalla città la più parte de’ Francesi. Maniscalco in questo coi suoi fidati, innalza in luogo dell’abborrita insegna d’Angiò la croce messinese: per poco ei capo del popolo; ma fosse modestia sua, o forza de’ cittadini maggiori che prevalson sempre nell’industre Messina, per loro consiglio la notte stessa risegna il reggimento al nobil uomo Baldovin Mussone, poche ore innanzi tornato con Matteo e Baldovin de Riso dalla corte di Carlo. La dimane poi ragunato in buona forma il consiglio della città, Mussone fa salutato a pien popolo capitano: e invocando il nome santo di Cristo, si bandì la repubblica sotto la protezion della Chiesa: con grandissima pompa fu spiegato il gonfalone della città. Eletti insieme a consiglieri del nuovo reggimento, i giudici Rinaldo de’ Limogi, Niccoloso Saporito, l’istorico Bartolomeo de Neocastro, e Pietro Ansalone; e gli officiali tutti, financo i carnefici, quasi a mostrare che la spada della giustizia sottentrasse a disordinata violenza; ma troppo presto era ciò per tanto rivolgimento. Richiamaronsi il dì trenta aprile le galee da Palermo; inviaronsi in vece messaggi di amistà e federazione40.

Erberto, non più sicuro nella sua rocca, all’intendere que’ casi ripigliò il vecchio ordegno delle divisioni, senza migliore fortuna. Della famiglia Riso41, che s’era con lui serrata per coscienza di colpe, spacciò Matteo a tentare il Mussone. Al quale venuto Matteo, dinanzi gli altri consiglieri ammonivalo con le parole d’una torta politica: ripensasse alla smisurata possanza del re: questo pazzo tumulto rapire a Messina il premio che già se le apparecchiava per la ribellione palermitana: che gli erano i Palermitani ch’avesse a insanir con loro? in che re Carlo avea offeso lui o la città? «Tu, diceagli, poc’anzi leale al re, a noi amico, e nel viaggio compagno, tu quest’odio covavi nel cuore! E or, non che trattenere il popol da tanta ruina, furibondo lo sproni! Per te, per la patria ormai fa senno; tempo ancor n’è42.» Ma sdegnoso gli die’ in sulla voce Baldovino, meglio intendendo l’onore e gl’interessi della città, che quei medesimi della Sicilia erano; nè i consiglieri e’ cittadini dubbiarono tra il far Messina meretrice dello straniero, o libera sorella delle altre siciliane città. Rigettati però que’ volgari inganni, Baldovino solennemente innanzi al Riso rinnovava il giuramento di mantenere la siciliana libertà o morire; ed esortollo a seguir egli stesso la santa causa: conchiuse, tornasse ad Erberto a offrir salva la vita a lui e ai soldati, se lasciato armi e cavalli e tutt’arnese, dritto ad Acquamorta navigassero, promettendo non toccar terra di Sicilia, nè altra vicina. I quali patti assentì il vicario; e li infranse appena con due navi ebbe valicato mezzo lo stretto; che in Calabria tutto pien d’ostili disegni approdò, a congiungersi43 con Pier di Catanzaro; il quale avvisato di quanto s’ordiva, s’era già prima imbarcato co’ suoi Calabresi, abbandonando sì cavalli e bagaglio all’ira del popolo44.

Alle condizioni medesime del vicario s’arreser poi con tutte lor genti Teobaldo de Messi, castellan della rocca di Matagrifone, e Micheletto co’ rifuggiti a Scaletta: de’ quali il castellano, imbarcato sur una terida, più volte dal porto fe’ vela, e i venti o il suo fato vel risospinsero; l’altro nel castello fu rinchiuso, e i soldati suoi nel palagio della città, a sottrarli al furor della moltitudine. Nè campavan essi perciò. Ritornavano il dì sette maggio le galee da Palermo, portando prigioni due di quelle d’Amalfi state lor compagne, e gli animi o dallo esempio accesi, o esacerbati dal dispetto della snaturata e inutil fazione contro Siciliani: onde a sfogarli chiedeano sangue francese. I cittadini rinnaspriva intanto la rotta fede d’Erberto. Perilchè, come la galea di Natale Pancia, entrando in porto, rasentò la terida del castellano, fattole cenno di terra, salta la ciurma su quella nave, afferra e lega i prigioni, e li scaglia a perir miseramente in mare. A tal esempio ridesto subitamente il furore in città, corresi al palagio; i soldati presi a Scaletta popolarmente son trucidati. A stormo suonavano le campane; i radi partigiani de’ Francesi tremando rannicchiavansi; armato e insanguinato il popol calava a torrenti. Al suo furore non fecero argine i maggiori della città: chè anzi, scrive il Neocastro partecipe al certo de’ consigli, presero a camminare più franchi nelle vie della rivoluzione, vedendovi sì intinta e ingaggiata la moltitudine45.


Per tal modo entro il mese di aprile46, cominciata in Palermo con disperato coraggio, comunicata a tutta l’isola con attività e consiglio, si fornì in Messina questa memoranda rivoluzione, che dall’ora del primo scoppio s’addimandò il vespro siciliano. Vi fur morti, dice il Villani47, da quattro mila Francesi; e, qualunque sia stato il numero, che non abbiamo da più sicure fonti, certo vasta corse e miseranda la strage, ma necessaria in quel tempo; onde a ragione il popol nostro orgogliosamente serba infino ad oggi le memorie di quell’antica feroce virtù. E ben gli scrittori d’Italia contemporanei, disserla, chi maravigliosa e incredibile, chi opera diabolica ovvero divina; quando non solamente franse il potere di re Carlo, tenuto fino allora invincibile; ma nella stessa prima conflagrazione, invano tentarono i governanti di ridur Palermo con le undici galee, invano di fortificare o tener in fede gli altri luoghi più vicini a Messina: e non vi fu inespugnabil fortezza che non cadesse sotto le mani de’ liberatori, non città o terra che non li seguisse. Ricorda pur la tradizione, e d’oggi in poi il proverà anche un documento, come il castel di Sperlinga, capitanato da Pietro Lamanno, solo in tutta l’isola facesse lunga difesa, per virtù del presidio, e fede de’ terrazzani; che passò poi in proverbio: «Ciò che ai Siciliani piacque, Sperlinga sola negò;» e il popolo tuttavia punge con tal motto chi discordi da un voler comune. Onde i soldati del presidio e i terrazzani n’ebbero sorte diversa; e ciascun secondo suo merto: i primi lodati e guiderdonati dal governo angioino48; i secondi passati appo la nazione con ingrata memoria, per tal pertinacia in un reo partito, che non merta dirsi costanza. Ma da queste poche centinaia in fuori, è maravigliosa la unanimità di quegli antichi nostri; tanto più, quanto eran prima, e furon appresso del ricordato periodo, straziati da divisioni municipali, e tutte nel vespro si tacquero; anzi Messina generosamente si die’ al movimento comune, non ostante che allora il vicario di re Carlo sedesse in Messina, e che dopo il vespro Palermo ripigliasse l’influenza antica nel governo dell’isola. Ma la unanimità nelle grandi masse agevol è per uguaglianza di brame e forza di esempio. E per tal cagione i fatti di Palermo con le medesime sembianze nacquero successivamente in ogni luogo, e si ebbero i medesimi ordini, de’ quali or faremo parola.


Il reggimento a comune sotto il nome della romana Chiesa, prendean, come s’è narrato, tutte le città e terre49, fors’anco le baronali, di cui molte avean cacciato i feudatari francesi, tutte godeano il privilegio di municipalità, secondo gli ordini pubblici de’ tempi normanni e svevi. Fatte dunque repubbliche, il popolo elesse, dove uno, dove parecchi capitani, e vario numero di consiglieri; i quali dapprima furono popolani, o nobili senza grandi vassallaggi, militi, che è a dir cavalieri, scelti come ogni altro cittadino per propria riputazione; e se alcun d’essi nascea d’illustre sangue, il poco avere e l’ambizione il rendea popolano50. E ciò intervenne in un reame stato due secoli feudale, perchè i baroni stranieri e nuovi, abborriti per quegli aggravî ch’erano inusitati in Sicilia, caddero involti nella medesima ruina del governo regio; i baroni antichi, pochi di numero, battuti delle proscrizioni e dalla povertà, non eran forti abbastanza. Per tali cagioni, e per l’impeto del movimento che nacque dal popolo, par siano stati democratici al tutto quegli ordinamenti repubblicani d’aprile milledugentottantadue. E in vero le deliberazioni più importanti si presero dal popol convocato in piazza51. Come le città libere d’Italia, le nostre si tenner l’una dall’altra indipendenti; ma ammonite dal pericolo che ognun vedea sovrastare, si strinsero in lega a mutua difesa e guarentigia52; se per marche o province o unitamente nell’isola tutta, non ben si ritrae da’ pochi diplomi avanzati infino a’ nostri tempi, nè da’ cronisti, che dir delle leggi o non sapeano, o sdegnavano. Dubbio indi è se per deliberazione della lega venissero sostituiti agli antichi giustizieri, o se fossero stati eletti capitani di popolo da tutti i comuni d’una o più province, que’ che Saba Malaspina registra: Alamanno53, capitano in val di Noto e poi in tutta l’isola; Santoro da Lentini, in val Demone e nel pian di Milazzo; Giovanni Foresta, in quel di Lentini; Simone da Calafatimi nei monti de’ Lombardi; e altri in altre regioni e città54: uomini ed ordini oggi oscuri, perchè nulla operarono, o perchè poco durarono; sendo sopraggiunto a capo di cinque mesi re Pietro, e prima prevalsa la fazione che, messa giù la repubblica, chiamollo al trono. Nè sembra che questi, o altri siano stati rivestiti della potestà che or chiameremmo esecutiva; perchè niun vestigio di loro autorità abbiamo nelle carte pubbliche nostre55, o nelle fiere invettive della corte di Roma; ma in tutti i ricordi del tempo si scorge che le città, soprattutto Palermo e Messina, che vantaggiavano ogni altra di riputazione e di forza, operassero come corpi politici, collegati con le altre e non contaminati da discordia, ma independenti. I Palermitani infatti mandavano oratori al papa a ragguagliarlo de’ successi, e impetrare la protezione della Chiesa56. I Messinesi più gradito messaggio spacciarono all’imperador Paleologo, un Alafranco Cassano da Genova, che per amor del popolo di Messina navigò tra gravi pericoli infino a Costantinopoli57. Nelle altre parti del governo dello stato, da sovrani operarono i magistrati del comune. Molti accordaron franchige: e quel di Messina rendeva all’arcivescovo il castel di Calatabiano, e altri beni tenacemente negati dal fisco sotto la signoria di re Carlo58.

Del rimanente certissimo appare che gl’interessi comuni dell’isola si maneggiassero per un’adunanza federale; la quale per l’antico uso si chiamò parlamento, ma in altro modo che i soliti parlamenti si compose; mancandovi il principe, e fors’anco i baroni: poichè nel primo principio di questa repubblica, sol veggonsi legami tra municipio e municipio, sol dicono gli storici di congregati sindichi delle città, d’invito a tutte le terre ad entrare per sindichi nel buono stato comune, e simili parole che suonano rappresentanza cittadinesca e non baronale. E come i parlamenti regi, senza tempo nè luogo certo, in quella età a comodo del re si adunavano; così questi, secondo i bisogni della nazione, in Palermo o in Messina59. Sovrastando le armi di re Carlo, i parlamenti prendean opportune deliberazioni: si fornisse di vittuaglia per due anni Messina: i valenti arcieri e balestrieri de’ monti rafforzasser quella città: con uomini e navi si custodissero Catania, Agosta, Siracusa, importanti città sulla costiera di levante; e su quella di settentrione, Milazzo, Patti, Cefalù. Nascean tali appresti dall’uno irremovibil proposito di non tollerar mai più il giogo francese, nel quale tutti accordavansi, ancorchè nei mezzi si dissentisse; quando chi pensava accostarsi alla Chiesa più strettamente e ribadir gli ordini di repubblica, e chi chiamare alcun principe straniero con giusti patti60. Ma senza sangue, senza accanite fazioni ciò si trattava. Bello indi l’immaginare questa siciliana famiglia, rinata a vita novella, che senza gelosia, senza veleni d’interiore nimistà, fervea nell’opera della comune difesa, strigneasi ne’ consigli, adunava le forze, e pacata deliberava ad ordinare più stabile reggimento. Sperandosi durevole il presente, si pensò contar nuov’era dal gran fatto della rivoluzione; talchè in parecchi diplomi leggiamo l’intitolazione: «Al tempo del dominio della sacrosanta romana Chiesa e della felice repubblica, l’anno primo61

A Procida, alla congiura, come nel capitol dinanzi accennammo, davano alcune cronache l’onore di questa nobil riscossa; e l’han seguito i più, talchè istorie e tragedie e romanzi e ragionari d’altro non suonano ormai. Io sì il credea, finchè addentrandomi nelle ricerche di queste istorie, mi accorsi dell’errore. Degli autori primi d’esso, pochi sono contemporanei, gli altri qual più qual meno posteriori, tutti sospetti da studio di parte, e vizio manifesto in alcuni fatti. Ma i contemporanei di testimonianza più grave, e italiani e stranieri, alcuno de’ quali candidissimo, segnalato tra tutti Saba Malaspina, che fu pur marcio guelfo, e segretario di papa Martino, e informato meglio che niun altro de’ casi di Sicilia, dicono al più di vaghi

disegni di Pietro; della cospirazione con Siciliani non fan motto; molto manco de’ congiurati raccolti in Palermo: e portan come gl’insulti de’ Francesi in quel dì, e più la «mala signoria che sempre accora i popoli soggetti, mosser Palermo»; che è la sentenza del sovrumano intelletto d’Italia62, contemporaneo, veggente più che altr’uomo, e rigorosamente verace. Nè le scomuniche e i processi dei papi, nè gli atti diplomatici susseguenti contengon l’accusa della congiura motrice immediata del vespro; ma biasman Pietro d’aver preso il regno dalle mani de’ ribelli, e averli sollecitato per messaggi dopo la rivoluzione. Concorre con l’autorità istorica la evidenza delle cagioni necessarie d’altri fatti che son certi: Pietro non essere uscito di Spagna, nè pronto, allo scoppio della rivoluzione: in questa nessuno scrittore far menzione del Procida: niuno de’ maggiori feudatari primeggiar ne’ tumulti, o nei governi che ne nacquero: la repubblica, non il regno di Pietro, gridarsi, e per cinque mesi mantenersi: popolani tutti gli umori: Pietro passar dopo tre mesi, e non in Sicilia, ma in Affrica: allora, stringendo i perigli, i baroni impadronitisi dell’autorità chiamarlo alfine al regno. Da questi e da tutti gli altri particolari, si scorge essere stata la rivoluzione del vespro un movimento non preparato, e d’indole popolana, singolare nelle monarchie dei secoli di mezzo. Se no; baroni che congiurano con un re, e gridan repubblica; cospiratori che senza essere sforzati da pericolo, danno il segno quando non hanno in punto le forze; fazione che vince, e abbandona lo stato ad uomini d’un ordine inferiore, sarebbero anomalie inesplicabili, contrarie alla natura umana, non viste al mondo giammai. Le varie narrazioni degli istorici, e i ricordi diplomatici leggonsi nell’appendice. A me par se ne raccolga: che Pietro macchinava: che i baroni indettati con esso aizzavano forse il popolo, ma non si sentivano per anco forti abbastanza, e bilanciando e maturando forse non avrian mai fatto ciò che la moltitudine compì senza rifletterci. Il popol era mosso senza saperlo dall’antagonismo nazionale; ma ben sapea i suoi mali, e che rimedio ce n’era un solo. Gli aggravî per l’impresa di Grecia, gli oltraggi della settimana innanzi pasqua in Palermo, l’intollerabile insulto di Droetto colmaron, colmaron la misura: si trovò tra le tante migliaia una mente o leggiera o profonda, con una mano risoluta, che cominciò. Prontissimo il popol di Palermo di mano e d’ingegno, si lanciò in un attimo a quell’esempio, perchè tutti voleano a un modo, da parer congiura a mediocre conoscitore, che non pensi come sendo disposti gli animi, ogni fortuito caso accende sì eguale, che trama od arte nol può. Que’ che si fecer capi del popolo allora preser lo stato; ordinaronlo a comune, come portavano gli umor loro; per la riputazione del successo il tennero, finchè la influenza de’ baroni lentamente spiegossi, e il pericolo si fe’ maggiore. Allora la monarchia ristoravasi; allora esaltavan re Pietro; allora, io dico, operava la congiura, se v’ebbe congiura; nel vespro non mai. Al meraviglioso avvenimento poi tutto il mondo cercò una cagione meravigliosa del pari: dopo breve tempo, il fatto del vespro e quel della venuta di Pietro si ravvicinarono e si confusero: scorsi alquanti più anni, trapelava qualche pratica anteriore: alcuno forse l’accrebbe, vantandosi. E nel reame di Napoli, e nell’Italia guelfa, e in Francia con maggiore studio si propalò quella voce della congiura; parendo gittar biasimo su i Siciliani, e scemarne al reggimento angioino. Così via corrompendosi il fatto, si passò dalla congiura di Procida con tre potentati, a quelle strane favole della uccisione di tutti i Francesi in Sicilia in un dì, anzi in un’ora, della cospirazione di una intera nazione per molti anni; non che non vere, impossibili cose. L’ignoranza, le difficili comunicazioni, la rarità delle cronache, gli animi inchinati sempre più al meraviglioso che al vero, diffusero anco l’errore; come nei tempi nostri, in condizioni materiali che son tutto il contrario, avviene ancora. Gl’istorici successivi copiaronsi l’un altro; molti riferirono, senza dar giudizio, le due opinioni della congiura, e della sommossa spontanea. Tacendo qui gli altri, noterò come Gibbon dubitò, e solo perchè fu ingannato da uno anacronismo; Voltaire della congiura si rise. Non è baldanza dunque se affidato in tutte queste ragioni e autorità, la espressata opinione io sostengo63.

  1. Veggansi le liste de’ castelli regi a p. 99 e seg.
  2. Parlandosi di tempi feudali questo non ha bisogno di prova. Nondimeno ricorderò il castel di Calatamauro, alla cui distruzione collegaronsi i Corleonesi e i Palermitani; e quel di Sperlinga, ove i Francesi fecer testa: i quali erano fortissimi senza dubbio, e pur non leggonsi nella lista dei castelli del re.
  3. Bart. de Neocastro, cap. 14.
  4. Anon. Chron. sic., cap. 38.
  5. È certo che in quell’anno la pasqua si celebrò a dì 29 marzo. Giovanni Villani porta il fatto di Palermo il lunedì 30 marzo, lib. 7, cap. 61; Bartolomeo de Neocastro similmente il 30 marzo, capit. 14. Ma Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 4, dice il 31; la storia anonima della cospirazione di Procida, e Bernardo D’Esclot, cap. 81, il martedì appresso la pasqua; e l’Anon. Chron. sic., l. cit., p. 145, e gli Annali di Genova, Muratori R. I. S., tom. VI, portano espressamente il 31 marzo, martedì appresso la pasqua. Ho seguito dunque questa autorità.
  6. Allora apparteneva a un monastero di Cisterciensi.
  7. I contemporanei tacciono il nome di costei, e della famiglia. Mugnos, scrittor del secento e favoloso, la disse figliuola di Ruggier Mastrangelo. Perchè ei non cita autore alcuno de’ tempi, nè d’altronde si raccomanda per alcun lume di critica, nol citerò nè in questo, nè in altro luogo della narrazione.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
    • Bart. de Neocastro, cap. 14.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 354.
    • Montaner, cap. 43.
    • D’Esclot, cap. 81.
    • Annali Genovesi, in Muratori, R. I. S. Tom. VI, pag. 576.
    • Giachetto Malespini, cap. 209.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
    • Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit, pag. 264.
    Nello Speciale si legge l’insulto del Francese altrimenti, e controppa chiarezza: temerarius illam in.... titillavit.

    Veggansi ancora gli altri contemporanei citati nell’appendice.
    • Bart. de Neocastro, cap. 14 e 15.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 355.
    • Veggansi ancora Montaner e d’Esclot ne’ luoghi citati. Il palagio di Palermo era una importante fortezza, come si scorge dal diploma del 6 agosto 1278, citato sopra a pag. 99, nota 2.
  8. * Bart. de Neocastro, cap. 22.
    • La Cron. anonima della cospirazione dice tremila, a pag. 265.
  9. Bart. de Neocastro, cap. 15.
  10. Fazello, Istoria di Sicilia, deca 2, lib. 8, cap. 4.
    Ai tempi del Fazello si mostravan di queste sepolture presso la chiesa di San Cosmo e Damiano.
  11. Questa colonna restò lungo tempo in piazza Valguarnera; e oggi, rimossa dal centro, si vede nell’angolo orientale dell’isolato del convento di Sant’Anna la Misericordia. È assai rozza, nè gli artisti la credono del secolo XIII. Ma ciò non dee toglier fede alla tradizione; perchè la colonna potè essere alzata, o rinnovata molto tempo appresso.
  12. Saba Malaspina, cont., pag. 355.
  13. Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 264, ove leggesi: «Andaru, a li lochi di frati minuri, e frati predicaturi, e quanti ci ndi truvaru chi parlassiru cu la lingua francisca li aucisiru ’ntra li clesii.» Ciò si riscontra con la tradizione dell’uccider cui parlava con l’accento straniero.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 355 e 356.
    • Cron. anon., loc. cit., pag. 265.
    • Bart. de Neocastro, cap. 14.
    • Chron. S. Bert. in Martene e Durand, Anec., tom. III, pag. 762.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
    • Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142.
    • Franc. Pipino, ibid., pag. 686.
    • Giachetto Malespini, cap. 209.
    E gli altri citati nell’appendice.
  14. Bart. de Neocastro dice Mastrangelo capitano con parecchi consiglieri. Questi furono, Pierotto da Caltagirone, Bartolotto de Milite, notaio Luca di Guidalfo, Riccardo Fimetta milite, e Giovanni di Lampo. I quali nomi e quei degli altri tre capitani di popolo, si leggono nel diploma riportato, Docum. IV.
    Questo diploma, inedito e poco o niente conosciuto, ci mostra anche il principio della federazione tra le nascenti repubbliche siciliane, e la forma del novello governo municipale di Palermo.
    Il bajulo, negli ordini normanni e svevi, era il magistrato d’ogni comune, con giurisdizion civile, e carico della riscossione delle entrate regie, e di quella che in oggi si dice amministrazione civile. Nell’esercizio della giurisdizione l’assisteano uno o più giudici. Su le faccende più rilevanti, deliberavano talvolta i cittadini adunati a consiglio. Nella rivoluzione, preso dal popolo il poter politico, la parte esecutiva s’affidò a quegli stessi capitani di popolo che l’imperator Federigo avea vietato tanto severamente, e ad alcuni consiglieri. In fatti la proposta della lega con Corleone è fatta a questi nuovi magistrati, stando presenti soltanto il bajulo e i giudici; ma questi ultimi poi nella stipolazione dell’atto federativo che contenea anche reciprocità di franchige dalle tasse municipali, non restarono spettatori oziosi, nè intervennero per la sola forma come il notaio e i testimoni, ma insieme col capitano e i consiglieri, e tutti a nome e per mandato del popolo, fermarono i patti, e giuraronli. Anzi i loro nomi sono scritti immediatamente dopo que’ de’ capitani e prima de’ consiglieri. Donde è chiaro che nell’affidarsi il novello potere a’ nuovi magistrati, si lasciò agli antichi il maneggio della parte amministrativa, perchè era tempo da pensare ad altro che a riforme di questa natura.
    Del capitan del popolo di Palermo dopo il vespro, d’Esclot non dice il nome, ma che fu un cavaliere savio e valente. Saba Malaspina nomina il Mastrangelo, che forse fu il principale, ed ebbe tutta la riputazione. Montaner lo confonde con Alaimo da Lentini.
    • Bart. de Neocastro, cap. 14.
    • Anon. Chron. sic., pag. 147.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
  15. Il castel di Vicari in fatto si legge tra le fortezze regie di Sicilia nel citato diploma del 6 agosto 1278.
  16. Bart. de Neocastro, cap. 15; e con errori la Cron. anon. sic., a pag. 264.
  17. Veggasi il diploma del 20 febbraio 1248, citato qui appresso, cap. 13.
  18. Veggasi il documento IV. Corleone era città di molta importanza. Oltre le tante memorie che ne dà l’istoria, non è superfluo notare che addimandavasi di Corleone un antico ponte su l’Oreto, del quale gli avanzi ritengono l’antico nome, e si veggono a mezzo cammino a un di presso tra i novelli due ponti della Grazia e delle Teste. Si ricordi che nella distribuzione di moneta del 1279 (Docum. III), Corleone fu tassata poco men che il terzo di Palermo, e quasi al paro di Trapani. Questo rincalza la testimonianza del Malaspina pe’ 3,000 nomini che Corleone mandò in oste pochi giorni dopo il vespro.
  19. Castello a dieci o dodici miglia da Corleone, tra i comuni di Contessa e Santa Margherita; e or i contadini il chiamano Calatamaviri. Se ne veggono le rovine sulla sommità di un poggio di base triangolare, inaccessibile da due lati, aspro ed erto del terzo, che sta a cavaliere alla strada tra quei due comuni, a manca di chi dal primo vada al secondo. Due ordini di grosse mura cingeano per tutta la larghezza quella sola costa accessibile del monte; sorgea sulla cima una torre, della quale restan le vestigia, e sì delle case sparse ne’ due ricinti. Entro il secondo v’ha una cisterna capace, ben costruita, e ben conservata. Da tai ruderi si può anche argomentare la importanza di questa fortezza, che tenea in molto sospetto i vicini.
  20. Saba Malaspina, cont., pag. 356.
  21. Bart. de Neocastro, cap. 18.
  22. Saba Malaspina, loc. cit.
  23. Questi discorsi di Ruggiero e Bonifazio son portati da Saba Malaspina, cont., pag. 356 a 358, non sappiamo se per uso istorico, o perchè ei li seppe veri. In ogni modo mi è parso conservarli; e molte inutili frasi n’ho tolto, poco o nulla aggiuntovi del mio.»
  24. Saba Malaspina, cont., pag. 358.

    Di questa mossa parla anche d’Esclot, cap. 81, con minore esattezza nei particolari, ma sano giudizio dell’intento; scrivendo come que’ di Palermo rifletteano che non uscirebber salvi da questa rivoluzione, se non procacciando il medesimo effetto per tutta l’isola.
    Anche Montaner, cap. 43, accenna questo progresso della rivoluzione; ma al solito suo con molti errori.
  25. Anon. chron. sic., pag. 147.
    • Saba Malasplna, cont., pag. 358.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
    • La uccisione progressiva de’ Francesi è anche riferita dal Montaner, cap. 43.
  26. Bart. de Neocastro, cap. 15.
  27. Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
  28. È pubblicata questa epistola dall’Anon. chron. sic., pag. 147 a 149, nella Bibl. arag. del Gregorio, tom. II; dal Lünig, Codex Italiæ diplomaticus, tom. II, n. 49, ma con errore di data; e in altri libri.
    Mi è parso pregio dell’opera trascrivere nel docum. V questa epistola, importantissima per l’argomento e per lo stile. Essa fu tenuta in molto pregio in que’ tempi, e si trova in molte collezioni epistolari. Avvene una copia nella Bibl. reale di Francia, MS. 4042, ch’è un volume di epistole di Pietro delle Vigne, del card. Tommaso da Capua e d’altri. È seguita immediatamente dalla prima bolla di scomunica di Martino IV, e da una risposta a quest’atto del papa, indirizzata a’ cardinali, che io pubblico al docum. VII. L’autenticità di questo documento per altro è convalidata dal d’Esclot, cap. 81, il quale ne porta una parafrasi, sovente con le medesime parole del nostro originale; se non che la data, certo erronea, è del 14 maggio.
    Gio. Villani, lib. 7, cap. 61, dice ancora di tali pratiche «di quegli di Palermo contando le loro miserie per una bella pistola, e ch’elli doveano amare libertà, e franchigia, e fraternità con loro.»
    Bart. de Neocastro a cap. 19 e 20 foggia a suo modo, lontanissimo da ogni verosimiglianza, e l’epistola e la risposta, con quella che gli pareva arte oratoria, e quel che gli pareva amor della sua patria.
    • Bart. de Neocastro, cap. 15.
    • Anon. chron. sic. pag. 147.
    • Fazzello, deca 2, lib. 1, cap. 2, racconta una battaglia tra queste navi messinesi e le palermitane, capitanate da Orlando de Milio esule di Palermo. Seguendo il mio proposito di non prestar fede che ai contemporanei, ho taciuto questo fatto, niente certo e brutissimo.
  29. Bart. de Neocastro, cap. 24.
  30. Bart. de Neocastro, ibid.
  31. Saba Malaspina, cont. pag., 358.
  32. Bart. de Neocastro, cap. 24.
  33. Anon. chron. sic., pag. 147.

    D’Esclot, cap. 81, porta troppo brevemente la rivoluzione di Messina, e non senza inesattezze.
  34. Bart. de Neocastro, cap. 24, 25, 30.
    I nomi di quei giudici si ritraggono da un diploma del 10 maggio 1282, ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116, trascritto dal tabulario della chiesa di Messina. Ivi si legge l’intitolazione: Tempore dominii Sacrosanctæ Romanæ Ecclesiæ et felicis communitatis Messanæ anno I. Residente Capitaneo in Civitate Messanæ nobili viro domino Baldoyno Mussono una cum suscriptis judicibus civitatis ejusdem, etc. Or questo una cum, fa comprendere che i detti giudici, nome che allor davasi a tutti i legisti, fossero compagni nel governo al capitano, cioè i consiglieri de’ quali parla il Neocastro, ch’era un d’essi appunto.
  35. Da tutte le memorie del tempo appare, che questa famiglia de Riso da Messina fu nobile, e potente, e piena d’uomini valorosi, ancorchè sventuratamente si fossero gittati al tristo cammino di parteggiare contro la patria. Di ciò fu punita severamente questa schiatta: spentane la più parte; gli altri condotti a mendicare un pane da’ nemici del lor paese. De’ tre fratelli di cui fa menzione il Neocastro, per nome Riccardo, Matteo, e Baldovino, questi ultimi furono morti a furia di popolo in Messina di giugno 1282; il primo dicollato sopra una galea alle bocche del golfo di Napoli dopo la battaglia del 6 giugno 1284, nella quale avea portato le armi contro i suoi concittadini. Giacomo e Parmenio loro nipoti, de’ quali anche parla il Neocastro, e Arrigo, Niccoloso, un altro Matteo, Squarcia, Scurione, e Francesco, di cui veggonsi i nomi in parecchi diplomi, si rifuggirono in terra di nimici, e da loro ebbero sussidi, ufici lucrativi, e aspettativa di feudi. Mi par bene porre qui una lista di documenti risguardanti questa famiglia.
    1274.--Niccoloso de Riso era giustiziere in Bari. Diploma del 27 maggio quinta Ind. (1277), r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 29, a t.
    1286, 9 luglio.--Diploma di re Giacomo di Sicilia. Concede a Guglielmo Conto, e a Venuta da Messina alcuni beni di maestro Palmiero (forse Parmenio) de Riso, fellone, e di Niccoloso de Riso figliuolo del fu Corrado; il qual Niccoloso era stato preso nella battaglia del porto di Malta, ed era prigione tuttavia. Pubblicato dal di Gregorio, Bibl. arag., tom. II, pag. 500.
    1287, 15 gennaio.--Sussidio di once dodici all’anno, dato da’ governanti di Napoli alla famiglia di Parmerio de Riso uscito di Sicilia. Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 21.
    1292, 8 luglio.--Sussidio di once due al mese ad Arrigo de Riso, che per fedeltà al re avea perduto ogni cosa. Ibid., pag. 94.
    1298, 29 settembre e 10 ottobre.--A Squarcia de Riso, giustiziere d’Apruzzo oltre il fiume di Pescara. Ibid., pag. 207.
    1299, 19 marzo.--Diploma di Carlo II, pel quale è conceduto _Squarcie de Riso Messane militi dilecto familiari et fideli suo_ il castello e terra _Sancti Filadelli situm in valle Demonis_ (San Fratello) in luogo di quel di Sortino datogli _olim serviciorum tuorum intuito_, ma non occupato dalle armi regie. Reg. del r. archivio di Napoli. 1299, A, fog. 48, a t. 1299, 9 aprile.--Per consegnarsi della moneta dalla zecca di Napoli ad Arrigo de Riso da Messina fedele del re, ec. Ibid., fog. 31, a t.
    Detto, ultimo aprile.--_Mattheo de Riso militi statuto super recollectionem presentis donj in Aversa._ Ibid., fog. 66.
    Detto, 2 maggio.--_Henrico de Riso de Messana militi_, per altre faccende di re Carlo. Ibid., fog. 66.
    Detto, 5 maggio.--Assegnata una rendita di 30 once all’anno in dote a Cecilia de Riso, figliuola di Squarcia, in merito della fedeltà di costui, e dei gravi danni sostenuti ne’ suoi beni. Ibid., fog. 55, a t.
    Detto, 9 giugno.--Accordate cent’once in dote alla figliuola di Scurione de Riso milite, ch’era esule e soffrente per lealtà.---Ibid., fog 90, a t.
    Detto, 23 giugno.--Conceduta a Squarcia de Riso la terra di Melise in val di Crati. Ibid., fog. 96.
    Detto, 14 luglio.--Conceduta a Matteo ed Arrigo de Riso militi, e a Francesco de Riso da Messina la terra di Geremia in Calabria. Ibid.
  36. Son le parole stesse del Neocastro voltate in italiano, e in qualche luogo abbreviate.
  37. Bart. de Neocastro, cap. 25, 26.
    Alcuni istorici de’ secoli appresso affermarono che Erberto fosse stato ucciso a Messina. La verità della testimonianza di Bartolomeo de Neocastro è confermata da vari diplomi, che mostrano Erberto vivente e al servigio di Carlo, dopo la rivoluzione di Messina. Leggonsi nel r. archivio di Napoli, il primo nel reg. 1283, A, fog. 81, ch’è dato di Napoli il 21 giugno duodecima Ind. (1284); l’altro a fog. 50 dato di Cotrone il 19 agosto dello stesso anno; e tra il fog. 15 e il 18 parecchi altri indirizzati a questo Erberto giustiziere di Principato, o riguardanti lui stesso.
  38. Saba Malaspina, cont., pag. 358.
  39. Bart. de Neocastro, cap. 27, 28, 29, 30.
    Conferma che Teobaldo de Messi sia stato castellano del castello di Messina, appunto come dice il Neocastro, un diploma del 21 marzo 1278; dal quale anco si vede che al presidio di quella rocca eran posti cavalieri e fanti oltramontani, pagati i primi alla ragione di un tarì d’oro, gli altri di grana otto al giorno. R. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 143.
    Sembra che vi fossero stati, ancorchè pochissimi, oltre la famiglia Riso altri partigiani de’ Francesi.
    In un diploma di Carlo I dato il 20 settembre duodecima Ind. (1283) è ordinato al capitano di Geraci di fornir sei once d’oro a Francesco de Tore da Milazzo, che per seguire il re avea perduto tutti i suoi beni in Sicilia; il qual danaro si dovea togliere da’ beni de’ traditori in Geraci. Dal r. archivio di Napoli, reg. 1283, A fog. 56, a t.
    Un altro diploma del 24 settembre 1299 accordava l’uficio di giudice in Girgenti, al momento che quella città si ripigliasse pel re, ad Arrigo d’Agrigento, esule e spogliato d’ogni cosa per amor del re. Reg. 1299-1300, C. fog. 70, a t. Ma resta in dubbio se costui fosse uscito fin dall’82, o ribellato nel 99.
    Per un altro del 19 maggio tredicesima Ind. (1300) Carlo II raccomandava a Roberto guerreggiante in Sicilia, di rendere ragione a Benincasa da Paternò, spogliato de’ suoi beni per fedeltà al re. Il padre di costui anche fedele, e perciò preso da Corrado Capece, avea venduto, per riscattarsi, alcuni beni dotali senza assentimento della moglie e de’ figli, che or li voleano rivendicare. Ibid., fog. 368.
  40. Anon. chron. sic., pag. 147.

    Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
  41. Lib. 7, cap. 61.
  42. Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit, ho inteso dire cento volte da quei che amano i motti latini. Il popolo con maggior vivezza suol dire solamente: «Sperlinga negò.» E questo proverbio parmi testimonianza istorica sì valevole da correggere gli scrittori contemporanei che tacquero il caso di Sperlinga; i nazionali per non perpetuare una memoria spiacevole, gli stranieri per non saperla. Il docum. XIII. mostra che alcuni soldati di Carlo si eran lungamente difesi nel castel di Sperlinga, il che sarebbe stato difficilissimo senza la volontà degli abitanti.
    • Anon. chron. sic., pag. 147.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 358 e 359.
  43. Eriguntur in terris populares rectores, et capitanei fiunt in plebibus ad Gallicos persequendos, etc. Malaspina, cont., pag. 336.
    • Diploma del 3 aprile 1282, docum. IV.
    • Bart. de Neocastro, cap. 27, 37, 41.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 356, ec.
    • Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576. Ivi si legge: Et missis sibi invicem nuntiis, conjuraverunt se ad invicem.
    • Saba Malaspina, cont, pag. 358.
    • Bolla di Martino IV, in Raynald, Ann. ecc., 1282, §§. 13 a 18. Per questa son disciolte le confederazioni per avventura fatte tra i comuni di Sicilia ribelli. È notevole che si parla sol di comuni di Sicilia, anche nelle ammonizioni a tornare all’ubbidienza, e nelle minacce di gastighi; quando il divieto d’aiutar questi ribelli è fatto largamente a principi, conti, baroni, e comuni esteri. Novella prova dell’indole tutta popolare della rivoluzione del vespro, e della condizione de’ ribelli, che già si sapea a corte di Roma il 9 maggio, data della bolla.
    • D’Esclot, cap. 81, e Saba Malaspina, loc. cit., suppongono che le altre città di Sicilia avessero giurato ubbidienza al comune di Palermo. Tra quelle non fu per certo Messina: e i diplomi citati nel corso di questo capitolo, e tutte le altre autorità portano piuttosto a confederazione, che a dominio di Palermo. Forse l’avea di fatto, non di dritto, come prima nella rivoluzione, come antica capitale, e più forte di popolo.
  44. Troviam del nome di Lamanno o Alamanno molti uomini e di parte nostra e di parte angioina nelle memorie di questi tempi. Il docum. XIII mostra che un Alamanno era il castellano di Sperlinga assediata da’ nostri, e un altro dello stesso nome tra i guerrieri del presidio. Un diploma del 9 febbraio 1278 dal r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 63, a t., è indirizzato a Guidone di Alemania giustiziere di Capitanata. Un Bertoldo Alemanno si legge tra i guerrieri di Messina fatti prigioni nel combattimento di Milazzo a 12 giugno 1282, veg. il capitolo seguente. Raimondo Alemanno nel 1287 fu con Giacomo all’assedio di Agosta, veg. il cap. 13. Per altro è probabile ch’esistessero diverse famiglie di tal cognome, preso, com’era solito in que’ tempi, dalla patria di questo o quell’altro Alemanno che veniva ad abitare in Italia.
  45. Saba Malaspina, cont., pag. 358.
  46. Dal Surita, Annali d’Aragona, lib. 4, cap. 18, sappiamo che Bartolomeo de Neocastro, in una sua storia in versi, riferiva essere stati dal parlamento generale che si tenne in Messina, eletti sei uomini al governo provvisionale dell’isola in questo tempo. Gli altri storici non ne fanno motto; nè lo stesso Bartolomeo nella sua cronaca in prosa. Indi non mi è parso per questo sol barlume allontanarmi dalle altre memorie tutte. Forse Neocastro mal espresse l’uficio de’ capitani delle province; forse Surita mal comprese quel gergo latino, che se è oscuro in prosa, peggio dovea invilupparsi in poesia. Chi ami più minuti ragguagli di questo perduto poema o racconto, vegga il di Gregorio, Bibl. aragon., tom. I, pag. 11 e 12.
    • Bart. de Neocastro, cap. 18.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 63.
    • Giachetto Malespini, cap. 210.
  47. Bart. de Neocastro, cap. 50.
  48. Diploma del ..... 1282 dal tabularlo della chiesa di Messina ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. II. 4, fog. 117. Questo è dato certo di luglio o agosto, perchè vi si legge il nome di Alaimo capitano della città, e la decima Ind. Vi son contrassegnati come testimoni Gualtiero da Caltagirone, Bonamico, Natale Ansalone, e altri nomi noti in queste istorie.
  49. I parlamenti tenuti in Palermo si son citati sopra, e un altro se ne leggerà nei capitoli seguenti. Quel che deliberò gli appresti alla difesa fu tenuto in Messina, come si può congetturare da un luogo di Saba Malaspina citato qui appresso; e da un altro della perduta istoria in versi di Bartolomeo de Neocastro, del quale fa menzione Surita, negli Annali d’Aragona, lib. 4, cap. 18.
  50. Saba Malaspina, cont., pag. 359 e 360.
  51. * Diploma del 15 agosto 1282, recato dal Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131.
    • Atto del 10 maggio 1282, cavato dal tabulario della chiesa di Messina, ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116.
    • Diploma del..... 1282, ibid., fog. 117.
    Fors’anco si scrisse negli atti l’anno primo della repubblica, seguendo l’uso della corte di Roma e di tutti gli altri principati del tempo, ove si notava la indizione e l’anno del principe, e anche talvolta del feudatario, piuttosto che l’anno dell’era volgare.
  52. Paradiso, canto 6.
  53. Veggasi l’appendice.

Note

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