< La legge Oppia
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Atto I Il prologo


ATTO SECONDO


La scena rappresenta un tablino in casa di Marco Porcio Catone. Soffitto di legno a cassettoni, senza ornamenti, o dorature; pareti rozzamente dipinte; pochi e semplici arredi. Un Larario nel fondo, con entro le immagini di Saturno e di Opi. A destra uno stipo di ferro, con suvvi un gruppo di terra cotta, che rappresenta la lupa e i gemelli. A sinistra una tavola, su cui si vedono pezzi di stoffa e una scatola di aghi da cucire. A fianco della tavola una sedia alta con spalliera e senza bracciuoli, collo sgabello davanti, e vicino ad essa un canestro da lavoro. Sulla tavola è anche un codice dalle carte di legno.

SCENA PRIMA

Valerio, e un servo che sta per andarsene.

(Lucio Valerio è vestito a un dipresso come il suo collega Marco Fundanio nell'Atto primo. Per far varietà, può avere sotto l'angusticlavio una tunica intima, di color violetto, e sovra ambedue la toga anch'essa violetta).

Valerio

Bene, non importa; aspetterò. Va pure per le tue faccende, che, tornando egli da Tuscolo, non abbia a sgridarti.

(il servo esce)

Se Fulvia venisse! Di solito, a quest’ora, ella si aggira per l’atrio. Che è ciò?

(vedendo il codice sulla tavola)

Ah, il Trinummo, la nuova commedia di Plauto. Che vena, che festività, che sale, in questo capo ameno di Sarsinate! E come il popolo ha ragione di volergli bene! Sarà bello, come tutta la roba sua, questo Trinummo; ma io preferirò sempre l’Epidico. E perchè? Lo sai tu, Valerio tribuno, il perchè? Com’era bella Fulvia, l’altro giorno, in teatro! Dei buoni! e che fatica ho durato, per salir fino a lei! Quella benedetta scalinata non volea più finire. Ci aveva le gambe impacciate, il tribuno Valerio! Egli, avvezzo ai frastuono delle assemblee, si trovava lassù, tra il primo e il second’ordine di sedili, come un pulcin nella stoppia. Ah, mai ho sudato tanto come allora; e in fede mia, se non era la vergogna, avrei dato volta, appena fatti i primi scalini. Ma quando giunsi da lei, come fui pagato della mia costanza, al vedere imporporarsi la bella guancia, all’udirmi dare il benvenuto da quella voce divina!... E tarda ancora! Tra poco sarà qui il Console, e addio colloquio sperato! Pazienza, leggiamo!

(squaderna il codice, leggicchiando a spizzico)

Ah, se la piglia colla moda! «Volesse Dio che in questo paese, più che alla moda, s’avesse un po’ di rispetto al costume dei nostri vecchi e alla parsimonia antica! Questa è la morale, oggidì: quel che ti piace, è lecito. L’ambizione è santificata dall’uso; le leggi! poverine! vedetele in Campidoglio; le sono impiccate al muro con chiovi di ferro. La moda, sì, la moda maledetta, bisognerebbe impiccarvi!» La scena è in Grecia; ma qui si parla di Roma. Questa piacerà a Catone. Il suo amico poeta lo serve a puntino, con questi colpi di frusta.... Ma infine, perchè questo ritardo?

(alzandosi spazientito)

Ah, donne, donne!... E dicono che amate? Non è vero. Vi lasciate amare, e voi.... voi non sentite un bel nulla. Infatti, se ella mi amasse, sarebbe già qui!

(passeggia stropicciando il codice tra le mani)

Figurarsi, se non lo sa! Son qui tutti i giorni!.... Ed io, sciocco, che mi disponevo quest’oggi a chiederla in moglie.... che stavo mulinando le parole da dire a Marco Porcio!... Stupido animale! Vedi come corrispondono alle tue premure le donne! Per la prima che amo, son bene conciato davvero.

(battendo stizzito il volume sulla tavola)

SCENA II.

Maccio Plauto e Detto.

(Maccio Plauto, bel vecchio di cinquantott’anni, indossa una tunica e una toga di color amaranto carico. Un bastonello tra mani. Calzari di cuoio. Pètaso di feltro, pendente giù dalle spalle).

Plauto

Orbene, e che ti ha fatto il mio povero Trinummo, da maltrattarlo in tal guisa?

Valerio

(da sè)

Eccone un altro! Addio colloquio!

Plauto

Tribuno della plebe, tu usurpi l’autorità degli Edili. Soltanto ad essi spetta di ammettere, o di scartare la roba nostra.

Valerio

Perdonami; ero sovra pensieri, per certe cose mie.... che non francano la spesa d’essere raccontate. Ma, tu lo sai, Tito Maccio; io ti stimo grandemente.

Plauto

E grandemente ami. Fai tutto alla grande.

Valerio

Io amo? E chi, di grazia?

Plauto

Tale che non è lungi di qua. Non ho i più bei piedi, ma ho i due migliori occhi di Roma.

Valerio

Ed infatti tu hai veduto in me ciò che io non vedo, nè so.

Plauto

Saresti tu l’ultimo a conoscer te stesso? Non mi farebbe meraviglia. L’uomo, sia detto sui generali, è il meno sagace degli animali.

Valerio

Di’ pure il più stupido! Io stavo per l’appunto dicendolo a me stesso, quando tu sei entrato. Ma, poichè vuoi farmi innamorato per forza, che pensi tu della donna!

Plauto

Dei buoni! io non potrei parlartene che per mia esperienza.

Valerio

E quale è stata la tua esperienza?

Plauto

Grama assai, Lucio Valerio; oh, grama assai! Ne amavo una.... Tra parentesi, non ne ho amato che una.... sul sodo. Ero giovine, venuto a Roma per desiderio di gloria, con un viatico di baldanza, di fede, di speranza e di amore; tutte cose da giovani, che non sono mai troppe, a chi fa il viaggio della vita. Ne mangi oggi, ne mangi domani, e, senza avvedertene, la vettovaglia si scema. Un bel dì, fai per guardar nella sacca.... Addio roba mia; la è sfumata. Per fartela breve, vidi la bella in teatro, alla recita della mia prima commedia, che non dispiacque ai Romani. Gloria ed amore!... Queste due allegrezze mi capitarono insieme. Ma come fare per giungere fino a lei, e, giunto, per rimanervi? La poesia era una magra raccomandazione, in quella casa di gabellieri arricchiti. Cerca cerca, non trovai niente, più al fatto mio che di darmi al traffico, per diventare un grosso mercatante. Lo vedi di qui, un poeta mercatante? Io fui proprio quel desso e pigliai presto il tracollo. Fino a tanto ne ebbi nel forziere, pagai; quando non ce ne furono più, mi diedi per morto in balìa del mio ultimo creditore. Le dodici Tavole parlano chiaro: «Se il debitore non paga, nè altri per lui, il creditore lo porti via con sè, carico di ferri, del peso di quindici libbre; o meno pesanti, se al creditore piace». Vedi che cortesia di Tavole! E fortuna che di creditori io ne avevo uno solo! Se ne avevo due o tre, c’era l’altro articolo che faceva proprio al caso mio: «Il creditore tolga al debitore la sua libertà, e, se gli torna, lo venda di là dal Tevere. Se poi ci sono più creditori, il terzo giorno del mercato, se lo facciano a spicchi». E la legge pietosa aggiunge che, se un creditore, poverino, ne tagliasse un po’ più del necessario, non gli si mandino per questo i littori a casa. Io dunque ebbi un solo creditore e cansai di finire salciccia; ma ebbi il peggio che da un solo mi potesse toccare; fui posto alla màcina, come un giumento.

Valerio

Povero Tito Maccio! A tutti, in Roma ne seppe male.

Plauto

Ma non a lei, non alla donna per cui mi trovavo in quel guaio. Quando ella udì della nuova arte che imparavo, rise, rise saporitissimamente. Poverina! Aveva così bei denti!

Valerio

Tu le hai perdonato?

Plauto

Che vuoi? Macinando grano pel mio creditore, macinavo filosofia per me; non di quella greca, col mantello unto e bisunto, col bastone e gli scartafacci; filosofia vera, filosofia paesana, che m’è andata in tanto sangue. Meritai allora d’esser libero, poichè avevo vinto me stesso. Dal creditore mi riscattai, tornando a scriver commedie, che gli Edili accettarono e pagarono. Quanto agli amori, alla larga! Feci come il cane, che non passa più rasente alle botteghe dove fu bastonato.

Valerio

Non amasti più?

Plauto

Amai sì, ma leggermente, pochin pochino, ad oncie, a scrupoli, come il greco Arcàgato spaccia le sue medicine, che il malanno se lo porti. L’amore, Valerio mio, non dee soggiogarci; non la passione ha da vincer l’uomo, bensì l’uomo la passione.

Valerio

Parole! Ci s’accosta al fuoco per riscaldarci, e la fiamma ci s’appicca alla tunica.

Plauto

Ah sì! ti ho veduto infatti alla recita del mio Epidico, ed eri un incendio. Via, Lucio Valerio, lascia correre tutto il male ch’io t’ho detto delle donne. Era la vendetta d’un autore inascoltato, che ti vedeva tutt’occhi e tutt’orecchi per lei.

Valerio

Chi, lei?

Plauto

Oh bella! Lei; quella che è lei; l’unica che possa e debba esser lei. Se non lo sai, t’istruisco; lei è un modo dittico e calzante di dire F.... U.... L....

Valerio

Basta! Se ti sente qualcuno....

Plauto

Eh, se mi sente lei, non le dorrà certo. Amate, ragazzi, amate; è questa ancora la più bella commedia, anzi il più bel poema del mondo; nè Omero l’ha scritto, nè Ennio, che è l’Omero latino, scriverà il somigliante.

Valerio

Ah, io temo che ella non mi ami!

Plauto

Davvero? Oh povero amico! Ma senti! il mio Epidico t’ha fatto servizio; vuoi che ti faccia servizio l’autore? Ne entro a lei, e....

Valerio

No, non incomodarti, non c’è bisogno.

Plauto

Aah!... Al fratello dunque? L’ho lasciato nel Foro, dove siamo scesi, tornando da Tuscolo; appena e’ torni in casa, ti servo.

Valerio

No, per amor del cielo! Questa passione del tuo amico è ancora un segreto.

Plauto

Sì, come la tosse.

Valerio

Perchè?

Plauto

Tutta Roma lo sa. Se tu fossi uno di quei vagheggini sconclusionati che s’aggirano intorno a questa e a quella, nessuno avrebbe posto mente alla cosa. Una più, una meno, chi ne fa conto? Ma veder cercata da Valerio una donna, da Valerio, il benvoluto del popolo, da quel Valerio, di cui era tanto più notevole l’austerità, quanto più era appariscente la persona, chi non si sarebbe fermato a ragionarci su? Caro mio, una cosa è da farsi, e presto; parlarne al Console.

Valerio

Ci pensavo fino da ieri....

Plauto

Bravo; così va fatto.

Valerio

Ma.... non ardisco.

Plauto

Tu, tribuno della plebe?

Valerio

Io, sì, io, tribuno della plebe, non ardisco. Che c’entra l’ufficio, nelle cose del cuore? Io non ardisco parlare, non ardisco confessare il mio segreto a quell’uomo, da cui dipende la mia felicità.

Plauto

Ha da stiacciare la noce, chi vuole la polpa. Il guscio del Console è un po’ ruvido, concedo; ma il cuore è ottimo. Fa a modo mio, Lucio Valerio, parlane a lui, e quest’oggi. Egli è tornato di buon umore dalla campagna. Tutto era in ordine colà. Il grano promette; la vigna ha fatto prodigi; sei altri vitelli son nati in questo mese; gli schiavi di catena han lavorato di buona voglia a sterrargli un campo che sarà messo a coltura; l’aia, il cortile, la stalla, sono lucenti come uno specchio. Egli non ha avuto che a lodare e, rimontando in cocchio, mi ha detto che se ne andava più contento all’impresa di Spagna. Sai che partirà fra quattro giorni, appena sia respinta, com’è da credersi, la proposta del tuo collega Fundanio. Vedrai, gli è proprio il momento buono per entrargli del tuo negozio. Te la concede, amico mio, te la concede; tu se’ nato vestito.

Valerio

Tu mi consoli, Tito Maccio; credo che avrò la forza di aprirgli l’animo mio. Ma ecco; mi par la sua voce.

SCENA III.

Marco Porcio Catone, Erennio littore e Detti.

Catone indossa il laticlavio, tunica di lana bianca, partita sul dinanzi da una larga striscia di porpora. Toga bianca di lana. Petaso in capo, che deporrà nello entrare. Capegli rossi e crespi. Calzari di cuoio.

Erennio ha tunica bigia, e toga. Capegli lunghi e barba. Fasci senza scure, nella mano destra, appoggiati sull’òmero. Una verga bianca nella mano sinistra.

Catone

(di dentro)

Per tutti gli Dei dell’Averno, che sì ch’io t’ho a conciar come meriti, matricolato furfante!

Plauto

Ahi! gira il vento.

Catone

(entrando, sempre rivolto indietro)

Non ammetto scuse. Fammene un’altra di queste e dal servizio della tua padrona ti mando difilato a girare la màcina.

Plauto

È dura cosa, la màcina; io la conosco.

Catone

Ah, non badare, Tito Maccio! Del resto tu avevi il debito. Chi non paga di borsa paghi di persona.

Erennio

(in disparte)

Così sta scritto.

Catone

Ma vedi questi bricconi! Se la va di questo passo in Roma, tra un anno, o due, bisognerà darsi alla macchia.

Plauto

Con chi l’hai tu?

Catone

Col mio servo, per Bacco, o, a dire più veramente, col servo di mia moglie. Una perla, quando io l’ho comperato! Ed ecco, me l’hanno guastato anche lui! Ah greci! Chi ci libera dai greci! Noi li abbiamo vinti; essi ci ammorbano. L’è una vera peste ellenica. Ieri parto, lasciando la casa sana. Torno, e già c’è penetrato l’inimico. Figùrati Valerio.... Ohè, Valerio!

Valerio

(che era andato verso la fauce a curiosare nel peristilio, torna sollecito)

Son qua.

Catone

Figùrati; entro in casa e trovo il servo di mia moglie che usciva. Si tira da un lato, il manigoldo, e con la sua voce sguaiata mi sfrombola un chere despòtu; mi saluta in greco! A me! Ma dove le imparano, dico io? Perfino Erennio, il mio littore, ha impallidito dallo sdegno. Non è egli vero?

Erennio

La lingua dei padri è sacra, come il diritto dei Penati di Roma.

Plauto

(da sè)

Bravo, il littore! O non pare una delle Dodici Tavole?

Catone

Ma! Eppure egli c’è in Roma della gente che se ne dimentica, gente a cui non è più sacro il Campidoglio, gloria e amore dei nostri antichi, nè i numi laziari, nè i laziari costumi. Grecheggiano! È la loro manìa. Nulla distingue più i giovani romani educati in Roma, dai giovani greci educati in Atene. E il vecchio spirito romano se ne va, cede di contro all’alito di questa genìa, la più perversa e intrattabile del mondo, la quale non ha dato, che cicaloni, spaccamonti, acchiappanuvole.

Valerio

Pure, ha dato Leonida!

Catone

Ti concedo Leonida. Ma abbiam mestieri di andare per fuoco da loro, noi che ci abbiamo il tempio di Vesta? Leonida! Leonida! Io ti oppongo Quinzio Cedicio, tribuno militare nella prima guerra punica, che salvò l’esercito romano, tratto in agguato, in una stretta di Sicilia. Toccava alle nostre armi la sorte di Caudio, e con peggiore vergogna, poichè, gl’inimici stavolta erano cartaginesi. Che fa Cedicio? Piglia con sè pochi animosi, si tira addosso tutto l’impeto dei nemici, cade crivellato di ferite sopra un monte di cadaveri; intanto, l’esercito romano sfila e si salva. Ora, io lo dimando a te; che cosa ha fatto Leonida, più di Cedicio? Rispondi!

Plauto

(piano a Valerio)

Io non lo so; ma so quello che hai fatto tu;.... una sciocchezza!

Catone

Che cosa borbotti anche tu? Tu che vai sempre a cercarmi in Grecia gli argomenti delle tue commedie?

Plauto

(da sè)

La burrasca si volge su me!

(a Catone)

Dei buoni! Ma i poeti, nelle commedie, fanno tutti così. Spacciano i fatti loro come avvenuti ad Atene, acciò la favola paia più facile a mandar giù.... Piace il greco? Diamo alla commedia il sapor greco; ma sia romano l’amaro; questo è l’essenziale. Tu sai quel che dicono gl’intendenti di me; che mi son gittato il pallio greco addosso, ma alla scapestrata, così che di sotto mi scappa d’ogni parte la toga.

Catone

Ed è più degna portatura, la toga! Ah, giuro a Saturno, e ad Opi, vecchi dèi paesani; o ci casco sotto, o sradico fin le ultime barbe di questi cialtroni da Roma.

SCENA IV.

Licinia, Fulvia e Detti.

(Licinia e Fulvia sono vestite come nell’Atto primo, ma senza il ricinio in capo.)

Licinia

(a Valerio, che è andato incontro alle donne, fino alla fauce)

Che è ciò? In collera forse? Abbiamo udito a gridare....

Catone

Ah, siete qua, voi, maestre di greco?

Licinia

Di greco? e chi lo sa, il greco?

Catone

Eh, non lo si sa? ragione di più per cincischiarlo. È la lingua alla moda; che importa non saperla? ci si prova ugualmente e si fa quanto basta per disimparare la propria. E non è solo la lingua che si perde; è il costume che si corrompe; è la fibra romana che s’infiacchisce. O padre Quirino! Ancora non sono i cent’anni da che Pirro minacciava di abbattere la giovine potenza romana; son forse venti, che, dopo la strage di Canne, Maertale consigliava d’incalzare alle porte di Roma; Cartagine è in piedi; Annibale è vivo ancora e fremente vendetta; e già i romani credono di potere impunemente gittar fra le ciarpe gli austeri costumi che furono la loro difesa, e diedero loro la padronanza d’Italia!

Plauto

Marco, non sei tu troppo severo con essi?

Catone

Non sono severo. Amo ciò che facevano i nostri padri; vorrei che i figli fossero di quella tempra su cui si fiaccarono i ferri di tante nazioni congiurate ai danni di Roma. Si traligna, te lo dico io, si traligna. Ami le citazioni greche? Eccotene una. Noi siamo infemminiti; non sapremmo più tendere l’arco di Ulisse; i nervi intorpidiscono nel braccio. Ah, i nostri padri non conoscevano mica tante delicature, e non erano meno felici per questo! Una casa comoda, senza sfoggio di marmi, di arredi e di vasellame d’argento; il rame luccicava alla parete e la sobrietà negli occhi; servi erano quanti bastavano a lavorare la terra, non già per accudire agli svariati uffizi di portinaio, cameriere, valletto, arricciator di capegli, coppiere, scalco, cantiniere, cuoco, sguattero e va dicendo. Allora i padroni faticavano in compagnia dei servi, davano loro l’esempio de’ gravi travagli e de’ pasti frugali, sotto il pergolato domestico. Io mi glorio di queste mani, che hanno seminato esse il mio grano e potato le mie viti; me ne glorio assai più che di vederle impugnare questo bastoncello d’avorio. Austere erano le nostre madri, perchè traevano la vita nel loro santuario, preparando il pasto, intendendo alla nettezza della casa, o torcendo il fuso, mentre venian ragionando d’antiche storie e di fortissimi esempi alla famiglia raunata. I giovani, allora, succinti, abbronzati dal sole, crescevano saldi alla fatica, destri ai giuochi del Marte sabino, non già alle amorose follie del Marte greco. Anch’essi concedevano un’ora alla gioia, si sollazzavano anch’essi, ma di gaie favole campestri, piene di sale paesano, che davano il riso facile e largo.

Plauto

Riso che tu hai dimenticato stamane, tornando da Tuscolo.

Catone

Ah, gli è vero, Tito Maccio, e tu mi riprendi a ragione di questa mia sfuriata. Ma se mi fanno uscire ad ogni tratto dai gangheri! Basta, siam gravi e pacati; non è egli vero, Erennio? Qui non bisogna avvilire la dignità dell’ufficio.

Erennio

Quando il Console tuona contro i molli costumi, egli è sempre nella dignità dell’ufficio.

Catone

Ah, ah! Bravo, Erennio! Tu almeno non citi dal greco. Andiamo, via; l’ora è tarda, e questa benedetta dignità dell’uffizio ci chiama al campo di Marte.

Licinia

Sei giunto pur dianzi!...

Catone

Ci ho le mie legioni da passare in rassegna. Cara mia, a giorni si parte. Sarei già in viaggio per questa impresa di Spagna, se Marco Fundanio non m’avesse gittato quella sua proposta tra’ piedi. Cassare la legge Oppia! Una legge che, se non la ci fosse, bisognerebbe proporla! O dove è andato a pigliar l’imbeccata, quel ragazzaccio di Fundanio? Già si capisce; me lo avran sobillato le belle patrizie! Queste poppatole non pensano ad altro che a lisciarsi, a razzimarsi, a coprirsi d’oro e di porpora, come di gualdrappe e sonagli si cuoprono i cavalli alla fiera.... Mettimele in qualche commedia, Tito Maccio, e ci faremo un po’ di buon sangue.

Licinia

Marito mio.... poichè ti vedo di buon umore.

Catone

Anzi buonissimo. Di’ su! Non ti amo io sempre anche quando alzo un pochino la voce?

Licinia

Epperò ardisco parlare. Tu l’hai col tribuno Fundanio. Ma che c’è egli di male, se le donne chiedono di potersi ornare un tal poco, per piacer meglio ai mariti?

Plauto

(da sè)

Ai mariti! ben detto!

Catone

Che c’è? Che c’è? che siete sciocche e sguaiate. Ohè, dico, non mi mettete la casa a soqquadro! Poc’anzi il servo che pizzica di greco; adesso la ribellione alle leggi. Ah, volete lo sfarzo! Vi darò tutto io! Avrete porpora ed oro a staia, ancelle, staffieri e donzelli e carrozze da scarrozzare! All’uscio non picchieranno che visitatori a modo! il ricamatore, l’orefice, il lanaiuolo; trecconi, merciai di frange d’oro, di tuniche, di camicette; tintori, vuoi in color di fiamma, vuoi di violetto, o di cera; sartori d’abiti, colle maniche alla foggia asiatica; rigattieri, tessitori, profumieri, e più sorte di calzolai, che vi calzino, ora alla greca ed ora alla romana. Ve li darò io, i fronzoli; ve lo darò io lo sfoggio, da piacer meglio ai mariti. Vedrete che larghezza di console! Roma è guasta; bisogna correggerla, risanarla col ferro e col fuoco, incominciando di qua. Che te ne sembra, Valerio? Saremo noi così sori, da lasciarci soverchiare dalla ambizione e dalla follia delle donne? Suvvia, che pensi?

Valerio

Ah, io?... Penso che le donne son pure inesplicabili, coi loro capricci.

(Fulvia, che fino ad ora è stata arcigna con Valerio, si muove per andarsene, verso la fauce)

Catone

E bisogna frenarle!... Dove vai tu?

(a Fulvia)

Fèrmati, e fa tuo pro’ dei consigli! Oh, vedete qua, che cosa mi tocca di udire in casa mia? contro il diritto e la maestà maritale? Da brave, bandite il vecchio costume e mettetevi le leggi sotto i piedi! Oramai, non vi mancherà più che di ber vino e di costituirvi in repubblica di Amazzoni.

Erennio

(da sè, in disparte)

La donna che berrà vino, sia flagellata dal marito e poi ripudiata. È legge di Romolo.

Catone

Andiamo via, se no, perdo il mio buon umore e Plauto mi riprenderà di bel nuovo. Venite?

(a Plauto e a Valerio)

Erennio, precedimi e raduna gli altri littori. Piglierete i fasci colle scuri, poichè si va fuor del Pomerio, al campo di Marte.

(Erennio esce)

A voi altre il buon dì, e non mi preparate altre molestie; intendiamoci!

(Catone esce. Valerio si accosta a Fulvia, che non lo degna pur d'uno
sguardo; indi, inchinatosi a Licinia, si allontana, in atto disperato)

Plauto

(accompagnandosi a Valerio)

Amico mio, quest’oggi, non fai che sciocchezze. Da prima citi Leonida al fratello; adesso dài della capricciosa alla sorella.

Valerio

Ah! darei del capo ne’ muri.

Plauto

Senti, fa meglio ancora; dà un giro in piazza; lascia il Console pe’ fatti suoi e torna qua, ad implorare il tuo perdono.

(Plauto e Valerio escono)

SCENA V.

Fulvia e Licinia, sole.

Fulvia

Finalmente, sono andati. Ah! non ne potevo già più.

Licinia

Hai udito tuo fratello, che tantafera?

Fulvia

Ho udito Valerio che gli teneva bordone, io! Tutto a modo suo, che pare il suo eco!

Licinia

Confessa, per altro, che sei stata troppo in contegno con lui. Poverino! Egli soffriva, come se fosse alla tortura.

Fulvia

Ti pare? Ne godo; soffra un pochino anche lui. Oh, io non amo gli uomini così umili ed obbedienti...

Licinia

Cogli altri uomini?

Fulvia

Ci s’intende. Ed egli imparerà a volersi mettere sulle pedate di mio fratello, a chinar la testa, come se parlasse un oracolo, a dirgli così sia, in tutto e per tutto. Dimmi, cognata; come ti è parso che se ne andasse?

Licinia

Colle mani ne’ capegli. Non vorrei che se li strappasse, povero giovinotto!

Fulvia

Oh, imparerà, imparerà a disprezzare le donne! Lascia che strappi!

Licinia

Purchè non pigli i tuoi rigori sul sodo e non si allontani per sempre!

Fulvia

Mi spaventi, cognata! Credi che davvero non tornerà? Oh, se non tornasse, se non tornasse subito, sento che l’odierei.

Licinia

Ih, che furia! Non avrai da odiare; il tuo scongiuro fa effetto. Hanno aperto l’uscio di casa. Mi par lui, nell’androne.

Fulvia

Sì, è lui. Che cosa viene a fare? Io me ne vado.

Licinia

Eh via, fanciullona! Andrò io e farete la pace. Questo qua non è così intrattabile come il Console.

(esce dalla fauce)

Fulvia

Te ne vai? Ah, eccolo sotto l’atrio!

(siede in fretta e piglia un pezzo di stoffa, per mettersi a cucire)

SCENA VI.

Fulvia e Valerio

 

Valerio

(avanzandosi peritoso verso di lei)

Fulvia!

Fulvia

(alzando gli occhi in atto di meraviglia)

Sei tu? Hai dimenticato qualche cosa?

Valerio

Oh, nulla.

(si aggira irresoluto qua là; indi si accosta alla scranna di lei)

Lavori?

Fulvia

Lo vedi.

Valerio

(accennando il drappo che ella ha sulle ginocchia)

Che è ciò?

Fulvia

Lana.

Valerio

Che risposta!

Fulvia

E qual altra, se è lana? Non hai tu occhi?

Valerio

Ah, così non li avessi....

(Fulvia alza le spalle in atto d'impazienza)

che non sarei venuto in tanta pena!

Fulvia

Ti senti male! Chiamo Licinia, che è dotta di farmachi....

(in atto di smettere il lavoro)

Valerio

No, gli è inutile; Licinia non ha farmachi per me.

Fulvia

E tu va da un medico.

Valerio

Non valgono i medici, per questo mio male!

Fulvia

Un male insanabile, adunque?

Valerio

Ben dici, insanabile!

(accosta uno scanno davanti alla tavola, e fa per sedersi)

Fulvia

Fatti più in là; mi togli la luce.

Valerio

Ma, la vien di lassù, la luce, e non da questa parte.

Fulvia

Io non la penso così.

Valerio

E sia; eccoti servita!

(ritira lo scanno dall'altro lato della tavola: ripiglia
il codice di Plauto, e leggicchia a caso)

«Il rimproverare un amico, quando ei se lo meriti, per qualche suo mancamento, è cosa increscevole, ma utile assai, nella vita». Hai tu a riprendermi d’alcuna cosa? Dimmi, te ne prego.

Fulvia

Parli con me? Credevo che tu leggessi.

Valerio

Sì, ho letto una massima di Plauto. Non ti par giusta?

Fulvia

Chi ha da pentirsi di qualche suo mancamento, può giudicarne. Io non so nulla.

Valerio

Ah! Fulvia!... Se tu me lo consenti.... vorrei dire una cosa.

Fulvia

E tu dilla.

Valerio

Ma temo che tu vada in collera....

Fulvia

E tu non la dire.

Valerio

Infine.... la gente dice....

Fulvia

Che cosa dice la gente?

Valerio

Che io.... ti amo.

Fulvia

Ah, dice, questo? Ma tu avrai risposto....

Valerio

Che è vero.

Fulvia

Cortese bugia! Ma io non ne avevo bisogno, perchè non m’importa nulla.... di quanto dice la gente.

Valerio

Bugia! E perchè?

Fulvia

Perchè io sono una donna, e le donne, tu non le ami, le stimi soltanto per quel poco che valgono; stare in casa, filare, tessere e distribuire il còmpito alle fantesche.

Valerio

Io?

Fulvia

E dici che bisogna tenerle a freno, rintuzzarne l’orgoglio....

Valerio

Io?

Fulvia

E le chiami superbamente: questo sesso arrogante.... questo indomito animale....

Valerio

Io, Fulvia? Ma io non ho detto ciò?

Fulvia

Fundanio t’ha udito.

Valerio

Fundanio!... il tribuno?

Fulvia

Lui, sì, lui! Non sei tu del resto contrario alla sua proposta?

Valerio

Ma non ne viene di conseguenza che io abbia detto queste parole. Ah! Marco Fundanio avrà da fare con me!

Fulvia

Sì, bravo! un litigio tra voi! Vi sgozzerete nel Foro....

Valerio

Al Campidoglio, nel tempio di Giove, dovunque lo troverò, dovrà rendermi conto....

Fulvia

Di ciò che non potresti negare. Fundanio avrà male udito; a me non fa mestieri la testimonianza di Fundanio. Io t’ho udito, e basta. Ah, noi siamo inesplicabili, coi nostri capricci? Siam capricciose, adunque? Siam pazze?

Valerio

Non ho inteso dir ciò. Non sapevo spiegare a me stesso i tuoi inaspettati rigori. Te ne chiedo perdono.

Fulvia

Gli è comodo assai! Ma, se tale non era l’animo tuo, chè non hai risposto al Console?

Valerio

A tuo fratello? Al grande Catone?

Fulvia

Ah, in fede mia, bella scelta ha fatto la plebe romana! Un tribuno, che ha paura di dire il fatto suo ad un Console!

Valerio

Che parli tu di paura? Di’ rispetto, amore, venerazione, per quel nobile uomo, le cui virtù io mi propongo ad esemplare in ogni atto della mia vita.

Fulvia

Orbene, imitalo e non se ne parli più.

Valerio

(dopo una breve pausa)

Non adirarti, Fulvia. Che debbo io fare per....

Fulvia

Lasciare in pace questi aghi.... e questa matassa, che mi si arruffa.

Valerio

Ti aiuto a dipanarla?

Fulvia

No. Il tuo esemplare potrebbe coglierti sul fatto e trovarti bene infemminito, o forte romano! Dove andrebbero gli austeri costumi, che debbono essere la forza e il presidio di Roma?

Valerio

(passeggia a passi concitati per la sala; indi si accosta da capo)

Che cosa fai?

Fulvia

Me l’hai già chiesto una volta.

Valerio

E tu non m’hai risposto.

Fulvia

Segno che non credevo necessario di dirtelo.

Valerio

È lunga assai; mi pareva una veste nuziale.

Fulvia

E so lo fosse? Che cos’ha da importartene, a te?...

Valerio

Ah, gli è che ho fatto un sogno.... ad occhi aperti. Avevo chiesto una fanciulla in isposa.... bella, oh, bella, come....

Fulvia

Lascia i paragoni.

Valerio

Sì, perchè nessuna cosa al mondo può paragonarsi a lei. Il capo di casa me l’aveva concessa, ed ella portava il mio anello di ferro, emblema della nostra fede, là, nel quarto dito della mano manca, dove ci hai la vena che corrisponde al cuore.

Fulvia

Che c’entro io?

Valerio

Ah, dicevo così per dire. Tu eri.... cioè, ella era la mia sperata. Poco dopo, con gran cortèo di congiunti, di amici, e di pronubi, andavamo al Pontefice massimo, per la cerimonia nuziale. Era bella, nella sua lunga veste di candida lana, colla cintura stretta alla vita dal nodo d’Ercole, colla sua corona di fiori e verbene sul capo, ravvolta nel flammèo, meno splendido delle sue guance, suffuse del colore della modestia.... come le tue in questo punto. Ed ella veniva a casa mia, toccava l’acqua e il fuoco, preparati sul mio limitare; nè io diventavo il suo signore, ma essa la signora mia, per tutta la vita. E fui felice allora..... e lo ero ancora stamane, pensando che avrei chiesta la mano di quella donna a suo fratello....

Fulvia

Ah, non ha più padre?

Valerio

No, ella è sotto la potestà d’un suo fratello maggiore.

Fulvia

E non l’hai chiesta?

Valerio

No, perchè ella non m’ama.... ed io perderò la ragione.

Fulvia

(alzandosi da sedere)

Sarebbe un gran male! Una mente così salda, formata a così buona scuola, ornata di così savie massime!.... Non potresti più fare il tuo discorso per la legge Oppia, tuonare anche tu dai rostri, contro la vanità di questo sesso arrogante.... di questo indomito animale.

Valerio

Ah, non temere! Tacerò, lo giuro al tuo genio tutelare, tacerò!

Fulvia

(con accento ironico, passeggiando lungo la scena)

Ma parlerà il Console per noi, e giungeremo egualmente ai nostri fini.

Valerio

Ma che debbo io fare? Mettermi contro di lui?

Fulvia

(fermandosi con piglio risoluto davanti a Valerio)

Se veramente ami la donna di cui sognavi, gli è il meno che tu possa fare per lei. Ti dicono eloquente, l’unico in Roma che possa contendere al Console la palma del Foro. Perchè starti addietro, quando puoi procedere a pari? Farti eco umilissimo altrui, quando puoi dir cose nuove e ben tue? Ah, siete, stolti, voi, colla vostra manìa di metter freni da per tutto, di far camminare il mondo a ritroso, di tener noi sotto un’eterna tutela! Non ci fate villanìa di parole; ma i fatti, i fatti vostri, ci offendono. Roma, Roma, voi dite! Anch’io l’amo, ma non di questo cieco amore, che soffoca i suoi cari, e, a tutto volendo provvedere, diventa una nuova maniera di supplizio. Nulla di troppo, o censori! La corda troppo tesa si spezza. Anch’io m’attenterò di tuonar le mie massime. Una repubblica che non può reggersi, se non facendo violenza a tutti gli istinti di natura, non è degna di vivere. Sparta è caduta sotto il suo medesimo peso. Vada anche Roma, se ha da essere quale la vorreste voi, indietreggiando cent’anni, e così vadano tutti gli Stati, dove è pregio di cittadini la ruvidità, virtù la ferocia, e le catene simbolo dell’unità e della forza.

Valerio

Hai ragione; che dirti? hai ragione. Ma andar contro a lui?... Sarebbe un tradimento. Impossibile! impossibile! E come ardirei io guardarlo in faccia? come rimetter piede in questa casa? Via, Fulvia, mia diletta Fulvia, che te ne giova, a te, di questi vani ornamenti?... Non sei tu bellissima tra le belle? Te ne supplico, non mi mettere a contrasto col console; io non sono da tanto.

Fulvia

Ah, tu vuoi l’amor facile? Il mio è a prezzo d’un sacrifizio. Guadagnalo.

Valerio

Fulvia, te ne scongiuro....

Fulvia

Non una parola di più!

Valerio

Dimmi, almeno.... Mi ami tu?

Fulvia

(dopo essere rimasta alquanto perplessa)

No!

(si libera da lui, e fugge per la fauce)

Valerio

Ah! fermati, Fulvia!... Partita! Che farò io? Austerità romana, tu corri oggi un gran risico!

(si allontana precipitoso)


FINE DELL'ATTO SECONDO

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