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XII.
Insomma, tornò a casa spaurita ancora e tremante, ma quasi confortata dalla coscienza d’una vittoria, e più dal pensiero d’aver mostrato un coraggio, che non credeva d’avere. Il fatto ch’egli avesse sfuggito il suo sguardo, quando s’era voltata, le parve sulle prime un segno di ravvedimento e di vergogna, che desse a sperar bene per l’avvenire; e si ricordò dei consigli del Garallo, che diceva che col popolo ci voleva ardimento e vigore, e delle idee della maestra Baroffi, secondo la quale bastava una parola nobile e appassionata ad aprire i cuori più duri. Ma rinvenne ben presto da queste illusioni ripensando il passato orrendo del giovane, la sua crudeltà con la madre, la sua cinica scostumatezza, quell’indimenticabile grido di aiuto di quel disgraziato che, essendo inseguito da lui, si sentiva alle calcagna la morte, e non vide più nel suo contegno di poc’anzi che il timore d’una resistenza vigorosa di lei, che avrebbe dato luogo a una lotta e chiamato gente. E nondimeno andò quella sera a far scuola con minor trepidazione che curiosità di vedere in qual nuovo atteggiamento egli se le sarebbe presentato. L’atteggiamento fu nuovo, infatti; ma non per l’appunto quale essa lo immaginava. Egli non mostrava più odio, nè pareva che rimuginasse più dei propositi tristi: mostrava, come se la vedesse per la prima volta, una certa curiosità attenta, nella quale appariva smorzato il risentimento del suo orgoglio per la ripugnanza ch’ella gli manifestava. E s’ella avesse potuto penetrar nel cervello di lui, avrebbe scoperto ch’erano appunto la sua indignazione di poche ore prima, il suo pianto strozzato, la sua altera invocazione della memoria paterna, che l’avevano mutato in quel modo. Non perchè l’aspetto e le parole di lei gli avessero toccato il cuore; ma perchè eran stati per lui una cosa nuova, una rivelazione di sentimenti e di forze sconosciute, ch’egli non aveva mai visto, nè immaginato nell’animo di una donna. Egli la guardava con curiosità come una creatura al tutto diversa da quella che s’era raffigurata, e oscura in parte alla sua intelligenza; la guardava come se capisse per la prima volta che sotto alle ragioni, ch’egli poteva spiegarsi, della sua avversione per lui, ce ne fosse una più profonda, più delicata, più forte, radicata più addentro nell’anima, che non gli riusciva bene di comprendere. Oltrechè egli pure, sebbene più tardi degli altri, cominciava a sentire l’influsso della presenza, ch’era quasi una compagnia, di quella donna, tanto diversa d’aspetto, d’animo e di modi da tutte le donne ch’egli aveva conosciuto fino allora. Signore, egli non ne aveva mai viste che passare per la strada e non gli era anche occorso di esperimentare ch’esse fossero diverse dal concetto che egli e i suoi pari, secondo la propria natura, se ne formavano: che è quanto dire di creature fra le quali e quelle praticate da loro, non ci fosse che la differenza del vestito e delle maniere; chè se un’altra ce ne fosse stata, doveva essere nelle prime un più raffinato pervertimento, una, benchè nascosta, più sfacciata corruzione dell’anima e della carne, prodotta dalla mollezza e dalla facilità maggiore della vita. Ma questa che aveva davanti correggeva alquanto le sue idee. Era la prima signora ch’egli vedeva da vicino e a suo agio, tutte le sere; la prima che gli discorresse sovente e che, in un certo senso, si curasse di lui; la prima di cui egli sentiva, per dir così, il soffio e il calore, e di cui poteva notare a suo agio, come in casa sua, per due lunghe ore tutti i giorni, ogni gesto, ogni moto del viso, ogni inflessione di voce. Egli cominciò a notar tutto questo, non appena l’orgoglio quetato gli lasciò un po’ libera la facoltà dell’osservazione, e tutto questo gli riusciva singolare e gli cominciava a far pensare che tutta quella gentilezza non fosse soltanto vernice o artifizio d’educazione, come prima credeva. Era veramente una creatura d’una nuova specie per lui. Nonostante il suo orgoglio selvaggio, nato, come quello dei pochi compagni della sua tempra, da una prepotente e indeterminata ambizione, e da una coscienza confusa di facoltà non comuni, soffocate dalla povertà e dall’ignoranza, egli principiava a riconoscere vagamente in lei qualche cosa di superiore a sè, che lo umiliava senza inasprirlo. Egli prese a seguitare attentamente, con l’occhio e col pensiero, tutti gli atti di lei, e le espressioni del viso, e gli accenti, quasi cercando il perchè dell’effetto che gli facevano, come si cerca ciò che vuol dire una musica. E gli accadeva spesso di ribellarsi a quell’effetto con lo scherno, ritornando al sospetto abituale d’un’arte finissima di civetteria; ma non si poteva arrestar più a lungo in questo sospetto. Provava anche a ribellarsi a sè medesimo, suscitandosi nella mente delle immagini oscene, mettendo l’immagine di lei in luoghi e scene vive nella sua memoria, fra le quali essa le apparisse come trasformata e tinta del loro sozzo colore, cercando con la fantasia quanto ci potesse essere in lei di meno lontano dalla natura propria, i pensieri più occulti, delle debolezze, delle aberrazioni, delle vergogne. Ma per quanto facesse, la sua figura finiva sempre con sollevarsi dall’ombra e dalla mota in cui si sforzava di immergerla e gli si ripresentava sempre così, come appariva dietro a quel tavolino, con quella fronte bianca, con quella grazia fanciullesca, con quella timidità dignitosa, con quel non so che di strano e soggiogante, di cui non poteva comprendere la vera essenza, e insieme gli piaceva e lo stizziva, lo maravigliava, lo avviliva, lo ammansava, gli faceva, all’uscita, sputar delle bestemmie più grosse e delle oscenità più brutali, come per rieccitare la forza della sua natura contro l’ammollimento che si sentiva entrare nel sangue.
Quest’effetto fu lento, e la maestra non se n’accorse da prima, anche perchè pareva che di tanto in tanto egli mirasse a tener viva tra la scolaresca la sua reputazione di rompicollo senza riguardi e senza paure con qualche bravata che desse scandalo o suscitasse baccano. Ma faceva questo in una nuova maniera, più per chiamar l’attenzione sopra di sè, che per recar offesa alla maestra; la quale, trapelando il suo pensiero, non si adontava di quegli atti come per l’addietro. A capo di pochi giorni, peraltro, notò in lui altre novità: una certa diligenza calligrafica nei lavori di casa, un leggero mutamento d’intonazione nella lettura, come s’egli si sforzasse di vincere la sua raucedine e di modular meglio la voce, e un modo d’ascoltare e d’accettare le sue correzioni che non era più quello di prima; oltrechè cercava quasi di prolungarle, con obbiezioni e domande monosillabiche, come avrebbe fatto d’una conversazione gradita. Una sera, essendo caduta alla maestra la penna, che rotolò fino a piè del primo banco, egli passò di sotto con un movimento rapidissimo, la raccolse e glie la porse; e questo destò nella classe un mormorio di stupore. Le rese un altro servigio anche più cortese. Si affacciavano qualche volta alla buca del calorifero dei topi enormi, che venivano dalla vicina concerìa, passando per i condotti d’acqua; e la scolaresca, senza che si movesse nessuno a cacciarli, si divertiva degli atti di ribrezzo che faceva la maestra a sentirli strepitare contro la reticella di ferro. Una sera, essendo i topi ricomparsi, e mostrando la maestra il ribrezzo solito in mezzo alle risate dei ragazzi, egli guizzò di sotto il banco e andò a dare un calcio nella reticella; dopo di che, per mascherare la cortesia dell’atto, tornò al suo posto lanciando alla classe una facezia in gergaccio, che provocò nuove risa. Ciò non di meno, anche quell’atto fu notato e, messo insieme con gli altri indizi, cominciò a destare un certo sospetto negli scolari più astuti. Uno dei primi a darne segno fu il piccolo Maggia. Egli prese a vigilare la maestra e il giovane, correndo continuamente coi suoi occhi di faina, con una rapidità fulminea, dall’uno all’altra, tossendo leggermente quando essa interrogava lui, dando del gomito al vicino e ammiccando agli altri quando gli pareva che il Muroni stesse in troppa attenta contemplazione della signorina: con le debite cautele, però, perchè conosceva l’amico, e non c’era da scherzare. Ma la Varetti se n’accorse, e sebbene, per istinto, ora che lo vedeva mutato, fosse disposta a guardare il giovane con minor diffidenza e a interrogarlo più spesso, pure faceva l’una e l’altra cosa il più raramente possibile, intimidita, tormentata dalla continua vigilanza di quei due occhi sorridenti e maligni del ragazzo, che le frugavan nell’anima. Ma, insomma, dal peggior tormento era liberata e viveva più tranquilla.