< La messa di nozze
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II. Il convegno
I. L'arrivo del Senegal III. Sul lago

II.

Il convegno.


— Castelmaggiore!... A Castelmaggiore!...

Il treno, entrato rapido e strepitoso sotto la tettoia, rallentò improvvisamente la corsa, stridendo per tutte le ferree giunture; la voce del conduttore risonò annunziando il nome della città, e Lodovico Bertini sorse in piedi, nello scompartimento deserto, e si accostò allo sportello. Un facchino, un vecchio a cui la candida barba scendeva fin sul petto del camiciotto di lavoro, lo aperse togliendo di mano al viaggiatore la valigia e la borsa.

— Dove va il signore? All’albergo?

— No; mi fermo qui, al Caffè. Riparto col direttissimo delle 9 e 15; verrete a riprendere il bagaglio qualche minuto prima dell’arrivo del treno.

— Stia tranquillo: alle 9 e 10 sarò da lei.

I viaggiatori in partenza si affollavano dinanzi alle carrozze; gli arrivati facevano ressa all’entrata del ristorante, intorno al bancone con le vivande e le bevande; il carro coi sacchi della posta cigolava sulle tre ruote, spinto a mano da un fattorino che avvertiva di far largo; il capostazione esaminava un foglio alla luce di una delle grandi lampade ad arco. Entrato nella sala, Bertini udì le voci del personale di servizio richiamare al loro posto i partenti, lo sbattere degli sportelli, il fischio della locomotiva; quando sedette dinanzi al tavolino di marmo vide il convoglio sfilare col suo carico di vite, con le sue luci fioche dietro i vetri appannati e le tendine abbassate.

Un cameriere gli si presentò, domandando:

— Comanda?

— Tè e latte, con qualche biscotto.

Quantunque non avesse desinato prima di mettersi per via, sentiva di non poter prendere cibo. Aveva la gola stretta e la testa in fiamme. Dalle grandi arcate aperte sotto la tettoia veniva una brezza frizzante che gli faceva passare qualche brivido per il corpo senza rinfrescargli la fronte. Quando il vassoio con le cogome, il piattello, la chicchera e la salvietta gli fu posto dinanzi, egli non toccò nessuna di quelle cose: trasse dalla tasca interna dell’abito il portafogli e ne cavò la lettera ricevuta due sere innanzi, per espresso. Appena due sere innanzi, dopo un mese e mezzo di silenzio, cinquanta giorni dopo l’arrivo del «Senegal», egli aveva rivisto i caratteri di Rosanna!

Sette settimane erano trascorse senza che ella avesse trovato modo di fargli pervenire una parola, lasciandolo solo col suo dolore, vagante di luogo in luogo, senza casa, senza pace, senza tregua. Fuggito la stessa sera dell’arrivo del piroscafo, non si era sentito capace di ridursi, secondo le prescrizioni di lei, a Promonte, sul lago, presso i parenti. Come portare nella casa paterna l’ambascia che lo struggeva? Come spiegare alla sorella, al cognato, la tempesta scatenatasi nel suo cuore? In quei luoghi dove pure aveva tanto vissuto, dove aveva dato forma alle sue concezioni più vaste, ora sentiva che gli sarebbe mancato il respiro. Che avrebbe fatto, non potendo più lavorare? Che avrebbe detto, non potendo parlare se non di lei?... Alla verde conca del lago meraviglioso, sulle vette dominatrici della terra, adunatrici di nembi, nelle valli inargentate dalle acque spumose, sotto i boschi solenni, egli aveva sognato di tornare; ma con lei, per molto o per poco, pur di farla partecipe di quelle bellezze, pur di associarla ai ricordi della sua prima vita. Ma ella si era negata, adducendo di non poter entrare nella sua casa, di non voler presentarsi ai suoi parenti, a sua sorella, che doveva conoscere o sospettare i loro rapporti, e che l’avrebbe severamente giudicata; e, come sempre, nulla era valso a farla ricredere. Troppo, a quell’ora, gli sarebbe stato grave chiudersi lassù, mentre non solo il suo sogno si disperdeva, ma anch’ella era come perduta per lui; e col bisogno di stordirsi, di evitare quanto potesse rammentargli la sua condizione sciagurata, di fuggire da sè stesso, era andato dove nessuno lo conosceva, dove nessuno gli avrebbe chiesto che cosa lo martoriasse: in Isvizzera, errando per monti e per valli, saltando dai treni sui piroscafi e dai piroscafi sui treni, riparando dalle città rumorose negli alpestri villaggi, tornando dalle alte solitudini alla baraonda dei grandi alberghi e dei «Kursaal», cercando ovunque invano di dimenticare i pensieri molesti e di dissipare le immagini odiose. Disperando di riuscirvi, non sapendo che fare della sua vita, era ridisceso in Italia per ridursi finalmente, secondo il volere di lei, al paese natale, presso i congiunti, sostenuto dalla superstiziosa lusinga che lì, dove ella gli aveva raccomandato di recarsi e promesso di scrivergli, la sua lettera sarebbe arrivata più presto. Ma, sul punto di eseguire i suoi comandamenti, la tentazione di rivederla, non fosse che da lontano, di sfuggita, un istante, passando secretamente da Firenze, si era impadronita del suo spirito e lo aveva soggiogato.

Andato a nascondersi nello studio ancora tutto odorante di lei, tutto pieno dei ricordi di lei, dei fiori secchi, delle trine, dei ventagli, dei ritratti, delle crete dove egli aveva riprodotto la stupenda sua forma, si era tenuto lontano dai ritrovi degli amici e dei conoscenti, aveva poi cominciato ad aggirarsi cautamente intorno ai luoghi dove avrebbe potuto incontrarla: invano. Una notte s’era spinto fin sotto la sua casa, ma il domani all’alba era fuggito ancora una volta, per aver visto e immaginato con gli occhi della mente, dietro quelle finestre chiuse, dietro quei muri ciechi, un altro al suo posto, accanto a lei, carezzare la sua fronte, baciare le sue labbra, vivere la sua vita. Allora, allora soltanto si era rifugiato a Promonte, per rintanarsi nel suo covo come una bestia ferita. Aveva il cuore lacerato e sanguinante. Invano la ragione gli rappresentava che questo era lo scotto inevitabile del bene fruito; invano l’egoismo gli consigliava di aspettare tranquillamente il giorno in cui ella lo avrebbe richiamato. Non era più sicuro di riacquistare la felicità di prima. Quand’anche null’altro dovesse sopravvenire a distruggerla, il ricordo delle pene sofferte l’avrebbe intorbidata. Al pensiero che la creatura amata era stata di un altro, un moto di repugnanza, di repugnanza fisica, lo arretrava. Ma non solamente sentiva che ella era stata contaminata nel corpo, vedeva che anche l’anima sua gli sfuggiva. Per aver lasciato passare tanto tempo senza rammentarglisi, bisognava che un rivolgimento fosse avvenuto nel suo cuore, nella sua vita. Come negare, contro l’evidenza, la forza degli affetti, dei doveri e degli interessi che lo avevano prodotto? L’uomo che le aveva dato il proprio nome, che dedicava alla casa fondata con lei tutte le sue energie, che le assicurava un’esistenza facile e larga, godeva di privilegi indistruttibili; ne godeva il figlio tornato a lei, forse più che l’altro vissuto sempre al suo fianco. Di questa creaturina, del posto che aveva occupato nel cuore della madre, egli era stato geloso. Ora la gelosia impotente lo rodeva, lo umiliava al pensiero che la madre era tutta dei figli, la moglie tutta del marito. Parlandole o scrivendole, egli avrebbe potuto farsi valere, rammentarle le parole dettegli e le prove dategli, contrastarla a tutti coloro che la riprendevano, vincerla ancora una volta; da lontano, costretto al silenzio, doveva incrociare le braccia, abbandonare indifesa la causa dalla quale dipendeva la sua vita. O forse insistere, contraddirla, contrariarla, sarebbe stato inutile, come era stato inutile tutto quanto le aveva detto perchè non andasse incontro al marito, perchè si contentasse di aspettarlo a casa sua. Che cosa era dunque il bene che gli voleva, se non la faceva capace di arrendersi a un suo desiderio, sia pure smodato?... Poi pensava che anch’egli l’aveva ferita, una volta, molto più profondamente, dicendole che, libera, non l’avrebbe sposata; e allora riconosceva che entrambi si erano mantenuti fedeli al proponimento di esser sinceri, di uniformarsi alla realtà esteriore ed intima, alla verità necessaria ed amabile. Ma ora, no; ora non più; ora non riconosceva altra verità fuorchè il suo dolore, altra realtà fuorchè il bisogno di lenirlo; ora non chiedeva, non aspettava, non cercava altro che una menzogna, ma pietosa e salutare. E non ne trovava, e non ne sperava. Ella non gli avrebbe mai scritto, come non gli aveva mai detto: «Amo te solo, odio mio marito». Una simile certezza lo avrebbe forse pacificato, gli avrebbe dato forza per sopportare le separazioni, le contrarietà, la partecipazione di un altro al possesso di quel corpo la cui anima sarebbe stata tutta sua. Egli doveva invece contentarsi di una parte di quella vita, della minor parte. L’avrebbe forse totalmente perduta, se il marito non fosse andato più via. Non era questo il pericolo? Che fare per evitarlo, come riprendersi il suo bene, senza che nessuno, mai più, glielo potesse contendere?...

Talvolta egli avea tentato di reagire contro la passione, di resisterle, di contenerla. Altri amori giudicati necessarî alla sua vita non erano finiti senza che egli ne fosse morto? Prima non si era appagato di ciò che le donne altrui avevano potuto o voluto accordargli? All’idea di prenderne una per sè non si era sempre ribellato? Due o tre volte, bensì, nella prima giovinezza, la tentazione era stata fortissima, avvalorata dai consigli dei parenti, dalle esortazioni della madre; ma non si era sempre vinto, e sua madre non era morta col dolore di lasciarlo solo? La libertà non gli era sembrata un bene tanto grande da potersi pagare con qualche cosa di più penoso ancora che non la solitudine? Nel matrimonio non aveva visto una convenzione micidiale all’amore, e dell’amore non aveva sempre avuto bisogno per le sue ispirazioni d’artista?... Ma il ragionamento, il ricordo della tenacissima opinione di tutta la sua vita restavano inefficaci contro il dolore. Nel suo dolore egli riconosceva ora che il legame indissolubile, sempre evitato come il più grave dei danni, non era un ostacolo alla felicità, se altri ora se ne giovava per distruggere la felicità sua. Quella convenzione giudicata funesta all’amore era il patto che garentiva il possesso. La sua condizione di amante costretto a nascondersi, a fuggire, a cedere il posto usurpato, a vedere un altro occuparlo da padrone legittimo, era sciagurata e intollerabile.

I giorni e le settimane erano passati lenti, eterni, numerati ad uno ad uno, misurati ad ora ad ora, senza che egli sapesse che cosa accadeva della creatura diletta, che cosa potesse fare egli stesso per averne notizie: se tornare a Firenze, se scrivere a qualche amico, se scriverle direttamente, a rischio di tradirla. La paura che il caso l’avesse tradita, che suo marito avesse scoperto il loro secreto, trovando una lettera, udendo qualche parola sfuggita al bambino od ai servi, arrestava il moto del suo cuore; ma quantunque il sospetto non fosse da escludere, qualche altra cosa, una voce interiore, un oscuro presentimento gli diceva che no, che nulla era stato scoperto, che ella era al sicuro, che il suo silenzio dipendeva unicamente dalla sua volontà. Infinitamente più che l’impossibilità di far nulla per avere qualche notizia, per uscire da quell’ansia, lo umiliava, lo mortificava e lo avviliva l’idea che la volontà di lei fosse determinata da ragioni che egli non poteva combattere. Il bisogno di signoreggiare quella vita, di occuparla tutta di sè, di uniformare alla propria volontà quella volontà forte e tenace, alimentava il fuoco della sua passione. Nessun’altra donna lo aveva avvinto con le blandizie, con le lusinghe, con le illusioni, quanto costei con la resistenza e l’ostilità. Tutto quanto aveva fatto, nei primi tempi, per vincerla, era stato invano: ella gli si era accordata, inaspettatamente, quando aveva voluto, quando egli ne aveva perduto la speranza. Nonostante la dedizione, dopo il possesso, con tutte le prove d’amore ottenute, egli aveva più volte sentito di non essere penetrato fino agli ultimi recessi dell’anima sua. Ora che un altro gliela contendeva, ora che egli non poteva vivere senza trionfare di costui, senza saperla sua interamente, perdutamente, come una cosa inerte, come la cera duttile, come la creta malleabile, ora ella si dava tutta a quell’altro, restava lontana, chiusa, inaccessibile. La tentazione di fuggirla, piuttosto che contentarsi del poco che gli avrebbe concesso, si era insinuata allora nel suo pensiero, lo aveva investito e dominato. Non era giustizia, no, che egli spasimasse così, mentre nella nuova vita che ella ora viveva non trovava modo d’infondergli fede, di dargli speranza e coraggio.... Improvvisamente, la sua lettera era giunta, quella lettera sulla quale si era precipitato avidamente, che aveva letta e riletta tanto da poterla ripetere senza dimenticarne una sillaba, e che, nondimeno, ora, nel silenzio della stazione deserta, tornava a rileggere ancora una volta.

La lettera diceva:

«Partirò posdomani, sola, col direttissimo delle 7 e 25 per arrivare a Milano il giorno dopo, alle 7 e 50. Torna domani a Firenze, prenota due cabine dello «Sleeping» facendoti dare due biglietti separati, e mandami il mio. Riparti con l’accelerato delle 6 e 33, scendi alla stazione di Castelmaggiore e aspetta alle 9 e 15 il passaggio del mio treno, dove salirai a raggiungermi. Alla stazione di Milano mi lascerai: mio marito ritorna da Londra».

Tutto era stato puntualmente eseguito. Lasciato immediatamente Promonte, egli era corso a Firenze, all’ufficio della Compagnia dei «Wagons-Lits». Il commesso aveva voluto rilasciare un solo biglietto per le due cabine, non comprendendo come persone che dovevano viaggiare insieme avessero bisogno di biglietti separati; ma poi glieli aveva pur dati, ed egli aveva spedito a Rosanna, in lettera raccomandata, quello che doveva servire per lei. Era partito con l’accelerato delle 6 e 33, aspettava ora il passaggio del direttissimo; ma, rileggendo quella lettera, come quando l’aveva letta la prima volta, tutte queste istruzioni, tutte le circostanze nelle quali le aveva effettuate, sparivano dalla sua memoria: i suoi occhi e il suo pensiero si fermavano sulle parole dell’ultimo rigo: «Mio marito ritorna da Londra». Per tornarne, doveva esservi andato; se ella gli moveva ora incontro, non ve lo aveva accompagnato; era dunque rimasta sola per qualche tempo, poco o molto, non poteva dir quanto, una settimana per lo meno: e di quel tempo di libertà non aveva saputo o voluto profittare per richiamarlo, per rivederlo, dovunque, comunque! Lo richiamava ora, sul punto di andare ancora una volta incontro a quell’uomo, per rivederlo un giorno più presto!...

A un fischio di locomotiva, breve, acuto, lontano, egli si riscosse, si guardò intorno. La stazione era ancora deserta; il padrone del Caffè sonnecchiava dentro un bussolotto illuminato dalla fiamma gialla d’una lampada a gas; il cameriere, dinanzi al banco delle vivande, parlottava con un manovratore. Egli ripiegò la lettera e la richiuse nel portafogli. Si versò un poco di latte e di tè, ne assaggiò un sorso, e ripose la chicchera. L’orologio, sul quadro dell’orario, segnava le otto e un quarto. A quell’ora ella doveva essere già partita, il treno che la portava già correva verso di lui. Un senso di gioia, trepida ma grande, lo invase a quella certezza; egli sentì il suo rancore dissiparsi. All’idea che fra un’ora sarebbe giunta, che l’avrebbe avuta tutta una notte per sè, che avrebbe potuto finalmente sfogare la piena dei sentimenti accumulati nel suo cuore, l’immobilità gli riuscì intollerabile. Chiamato il cameriere e pagatolo, si alzò, uscì fuori della sala, sotto la pensilina. I binarî liberi si dilungavano, convergendo nella lontananza, perdendosi verso le masse scure delle cabine e dei depositi, verso le linee rigide formate dalle colonne delle carrozze e dei carri immobili sotto il fioco lume della luna non ancora al primo quarto. Gli ufficî erano quasi tutti chiusi; solo quelli del capostazione, del telegrafo e dei biglietti proiettavano sul marciapiedi la luce delle loro lampade incappucciate di verde. Due o tre commessi stavano curvi sulle scrivanie, dinanzi a grossi registri ed a fogli di carta stampata; non si udiva altro rumore fuorchè il ticchettare degli apparecchi telegrafici. Chiuse le sale d’aspetto, tranne quella della terza classe, sopra i cui nudi banchi il facchino dalla barba candida ed un suo compagno erano distesi a dormire.

Per ingannare il tempo egli si mise a percorrere la fronte della stazione, da un capo all’altro; poi riattraversò la sala del Caffè ed uscì sul piazzale. Non una carrozza, non un passante, non un rumore. Sulla facciata esteriore dell’edifizio erano aperti l’ufficio del Dazio, dove due impiegati chiacchieravano fumando nelle pipe, e il passaggio d’entrata, col gabbiotto della giornalaia: una vecchietta sonnecchiante in mezzo alla mostra dei fogli illustrati, aperti nelle pagine più vistose, fra le grosse intestazioni dei quotidiani e le copertine dei libercoli pornografici. Le pozzanghere formate dall’acquazzone del pomeriggio rendevano malagevole l’avventurarsi oltre il marciapiedi; rinunziando ad entrare in città, egli cominciò a misurarlo tra i due cancelli che lo chiudevano, come aveva fatto dell’altro. Il tempo scorreva con una lentezza disperante. Passando e ripassando dinanzi al Dazio, i suoi occhi erano attratti dall’orologio i cui indici parevano immobili; per vederli un poco spostati verso l’ora attesa con la febbre nei polsi, egli prometteva a sè stesso di non guardarli troppo spesso; ma poi, quando li fissava dopo aver voltato le spalle più volte, trovava che era trascorso qualche minuto appena. Fermandosi, chiudendo gli occhi, tentava raffigurarsi la donna amata come doveva essere atteggiata in quel momento: raccolta in un angolo della carrozza sussultante nella corsa vertiginosa, sotto la luce della lampada elettrica, col viso ravvolto in un velo, col capo appoggiato alla mano guantata, con gli occhi allo sportello, immobile nella persona, ma con l’anima tesa verso di lui; e allora la tenerezza e il rancore, l’amore e la gelosia, il bisogno di stringersela al cuore e l’impeto di respingerla si avvicendavano tanto tumultuosamente da confondersi in un unico fremito, in uno spasimo solo.

Le nove meno un quarto. Ancora quaranta minuti. La stazione restava deserta: si udiva soltanto qualche fischio rauco, soffocato, di macchine manovranti lontano; qualche passo risonava, ma di persone che uscivano avviandosi alla città. Nessun viaggiatore sarebbe venuto a prendere quel treno della notte? Nessun parente od amico sarebbe sopraggiunto ad aspettare qualcuno?... Alle nove, mancando mezz’ora all’arrivo del treno, egli entrò per vedere se l’ufficio dei biglietti fosse aperto. Era ancora chiuso; il facchino dormiva ancora sulla panca della sala d’aspetto. La vendita sarebbe forse cominciata solo venti minuti prima dell’arrivo del treno?

L’attesa di quegli altri dieci minuti fu eterna. Pareva che il tempo si fosse arrestato, che non potesse più scorrere, che la stazione fosse abbandonata, che la vicina città fosse morta. L’arrivo di due o tre persone, silenziose, senza bagaglio, gli parve un avvenimento, un ritorno alla vita. Ma nessuno sportello si schiudeva ancora, nulla preannunziava la partenza, neanche ora che mancavano venti minuti soltanto, che ne mancavano diciannove. Che cosa avveniva? Quand’anche il treno fosse in ritardo, la vendita dei biglietti non doveva cominciare all’ora regolare? Forse gli orologi esterni anticipavano su quello del capostazione? Per quale incantesimo nessuno appariva? Non era egli in preda ad un incubo? Aveva realmente ricevuto una lettera di lei? Era una cosa reale, quel convegno in treno? Non era una stravaganza, una immaginazione, una irragionevole speranza?... Diciotto minuti soltanto — e gli sportelli restavano ancora sbarrati.... Allora, per uscire da quell’incubo, per udire una voce, per sapere qualcosa, s’avvicinò alla giornalaia.

— Il direttissimo non arriva alle nove e un quarto?

— Alle nove e un quarto, sissignore.

— Ma allora perchè non aprono la biglietteria?

La vecchia inforcò gli occhiali, guardò un suo grosso orologio di acciaio, e disse:

— Ecco: apriranno a momenti.

Ma passò ancora un altro minuto, ne passarono due, senza che gli sportelli si schiudessero. E a un tratto due uomini uscirono dall’interno della stazione, uno dei quali diceva all’altro:

— Non si parte fino a domani.

Egli credè d’aver frainteso. Poi il sangue gli rifluì tutto al cuore e la vista gli si offuscò. Con passo dapprima malfermo, poi precipitato, rientrò sotto la tettoia nel punto che alcuni manovali attraversavano i binarî e gruppi di commessi si formavano dinanzi agli ufficî, scambiando notizie e domande e commenti.

— Al bivio del Saliceto.... La linea è ingombra.... Si appronta il carro-attrezzi.... Una falsa manovra dello scambio.... Il treno merci è rovesciato.... E il direttissimo?

Una fiamma gli salì al viso, il suolo gli mancò sotto i piedi. Corse all’ufficio del capostazione, non lo riconobbe perchè tutti gli usci erano aperti, ormai, e tutte le stanze illuminate; domandò a un uomo seduto dinanzi ad una scrivania:

— Scusi, signore: mi vuol dire che cosa è accaduto?

— Non so precisamente; la linea è ingombra.

Riuscì, trovò finalmente il capo sulla soglia del suo ufficio, intento a rimproverare uno dei suoi dipendenti.

— Non ho bisogno delle vostre osservazioni!... Andate al vostro posto senza tante chiacchiere.... Desidera? — domandò poi, con voce appena meno brusca, al viaggiatore che portava la mano al cappello.

— Vuol favorire di dirmi che cosa è accaduto? Io aspetto il direttissimo delle nove e un quarto....

— La linea è stata ostruita da un treno merci che manovrava al bivio del Saliceto.

— Ma il direttissimo?

— Il direttissimo sarà avvertito e fermato a tempo e luogo....

Poi, voltategli le spalle ed avvicinatosi al telefono, gridò nel portavoce:

— Signor ingegnere?... Sì, la seconda squadra sarà pronta a momenti.... Com’è?... La gru sta in consegna al Movimento.... Prenda le binde da otto tonnellate.... Va bene!... Sissignore: alla cabina numero 8.... Come?... Ha deragliato?... Perdio!... Vengo subito!...

Lasciato l’apparecchio, lanciò un ordine al sottocapo:

— Trattenga l’842 a Santa Rufina, telegrafi che per linea ingombra non lo posso ricevere. Mi mandi subito la seconda squadra.

E s’allontanò rapidamente, scavalcando le linee dei binarî, facendo cenno con tutt’e due le mani di seguirlo agli uomini schierati sul marciapiedi centrale.

Stordito, smarrito, Bertini volse intorno lo sguardo.

Che cosa era avvenuto? Nessuno glielo avrebbe spiegato? Un brivido gli passò per la schiena al pensiero del pericolo che minacciava la creatura diletta, al disastro che forse era già avvenuto. Non era forviato il convoglio che la trasportava? O il treno che facevano fermare a Santa Rufina era il suo?

— Per favore!... Sentite!... — disse ad un guardasala, fermandolo mentre gli passava dinanzi. — Qual è il numero del direttissimo che si aspettava per le nove e un quarto?

— 28.35, signore.

— Siete sicuro che non sia l’842?

— Sicurissimo! L’842 è un misto che dovrebbe arrivare alle 9 e 42, ma che sarà fermato a Santa Rufina.

— E il direttissimo?

— Era già transitato da Santa Rufina quando è sopravvenuto l’accidente al treno merci.

— Ma allora come e dove sarà avvertito del pericolo?

— È stata formata la correntale.

— Come sarebbe a dire?

— Ogni guardiano va al casello vicino trasmettendo al compagno la notizia dell’accidente e l’ordine di disporre i segnali di fermata.

— E quanto occorrerà per liberare la linea?

— Signor mio, chi può dirlo?... Due ore potevano bastare; ma forse non ne basteranno quattro.... Il capotecnico e il capodeposito avevano subito avvertito il Servizio trazione; il signor ingegnere con la prima squadra era subito accorso sopra una macchina, il carro-attrezzi era già pronto; ma quando hanno fatto per attaccarlo alla macchina ha deragliato. Se lo vuol vedere, vada laggiù in fondo, presso il castelletto idraulico, dove c’è quel chiaro.... Lavorano a soccorrere il carro di soccorso!...

E sorrise discretamente, gettando intorno una cauta occhiata, per paura che l’avessero udito.

Bertini corse nella direzione indicata. La fatalità si complicava, una volontà ostile e maligna pareva volesse accumulare gli ostacoli, moltiplicare i pericoli. Alla luce fumosa delle torce a vento si vedeva il carro degli attrezzi pencolare fuori delle rotaie: la piattaforma dalla quale doveva essere spinto nella buona direzione non era stata assicurata, non aveva le rotaie combinanti con quelle del binario, e poco era mancato che la massa pesante non si fosse rovesciata.

— Via le leve! — gridava il capostazione agli uomini intenti alla manovra. — Tofano e Giacomelli, montate su a scaricare le binde.... Quelle da quattro basteranno.... Animo, via!...

Gli uomini si arrampicarono sul carro carico d’ogni sorta d’ordegni e di congegni: argani, morse, chiavi, martelli, mazze, una fucina, ruote di cordami, spessori di legno, torce a vento, fiaccole a petrolio. Sollevata una binda da quattro tonnellate, la passarono oltre il parapetto, porgendola ai compagni.

— A noi, svelti! — ordinò ancora il capo. — Disponetela fra la testata e il traversone.... Più su, più su: all’angolo, ho detto.... Ma qui, perdio, sotto lo spigolo, o parlo turco?... Così!... Forza di braccia!

Le braccia nerborute girarono il manubrio della macchina, dapprima agevolmente, poi, quando essa affrontò il peso del carro, con una tensione violenta, con uno sforzo penoso. Sotto la spinta possente il carro si scosse un poco, si sollevò di qualche centimetro; a un tratto traballò scricchiolando.

— Ferma!

Tolta una fiaccola di mano a un operaio, il capo si cacciò sotto le prime ruote, ne esaminò la posizione; poi percorse tutto il fianco fino a quelle posteriori.

— Un’altra binda qui, al centro del traversone.... — Ma udendo improvvisamente un lontano tintinnare di campanello, si volse a chiamare: — Marziani!... Il capotecnico?...

— Eccomi, signor capo.

— Diriga lei l’operazione. Io vado a ricevere l’accelerato.

Un treno sopravveniva infatti dall’altra parte della linea, dove nessun ostacolo si era frapposto; e Bertini domandava tra sè per quale fatalità l’accidente aveva dovuto prodursi dalla parte di Firenze, nel preciso momento in cui, dopo tanta pena, egli aspettava Rosanna. E in un improvviso ritorno dell’ansia sopita dinanzi allo spettacolo dello sforzo sostenuto dai lavoratori, si volse ad uno degli astanti:

— Il direttissimo è stato fermato?

— Certamente, a quest’ora.... Se no, sarebbe andato a sfondare il treno merci deragliato.

— Come si saprebbe? — domandò ancora, trepidante.

— Eh! Le male nuove le porta il vento.

— A che distanza da qui è il bivio del Saliceto?

— A quattro chilometri e mezzo.

— E Santa Rufina?

— A dodici chilometri.

Restava da sapere in qual punto della via interposta fosse fermato il convoglio. Certo, in aperta campagna, lontano dalle stazioni, senza precise notizie dell’accaduto, del pericolo corso, della durata della sosta. Come far sapere qualche cosa a Rosanna? Come rassicurarla? Egli si struggeva di non poter far nulla, invidiava gli operai sudanti a mettere in piano il carro, si torceva le mani per non poterle adoperare com’essi, per non potersi cacciare sotto le ruote a rimetterle a posto, con la febbre di veder rimossi gli ostacoli, quel primo ostacolo.

Le notizie dell’accidente passavano ora di bocca in bocca, con più precisi particolari: il deviatore della cabina numero quattro, per un falso segnale del manovratore, aveva aperto lo scambio al treno merci mentre la colonna era in moto; l’ago si era spostato fra un’asse e l’altra del primo carro, dando la diramazione sopra il binario per il quale doveva transitare il direttissimo, ostruendo la linea di corsa: l’ingegnere dell’ufficio di trazione, con una squadra di operai raccolta alla prima notizia, era sul posto, ma non poteva far nulla senza gli attrezzi. E dalla stazione, cessato lo squillare del campanello, veniva il rombo del treno accelerato arrivante a tutto vapore, fischiando e stridendo, condannato poi anch’esso a restarsene inerte, ad aspettare la liberazione del binario e l’arrivo del direttissimo. La macchina si staccava e si allontanava; i viaggiatori, avvertiti dell’accaduto, si sparpagliavano in folla sotto la tettoia, entravano nel Caffè, si spingevano verso la piattaforma attratti dal chiarore delle torce, e Bertini vide fra gli altri una coppia di giovani sposi in costume da viaggio, il marito appoggiato al braccio della moglie, stretto a lei, sfiorante con la falda del berretto basco il velo che ella teneva sollevato sulla fronte e che lasciava scoperto un visetto rotondo, grazioso, infantile.

— Largo!... Indietro!... Favoriscano di sgombrare!

Il capo, sopravvenuto, faceva scostare i curiosi con aspra voce di comando; Bertini dovette obbedire in preda ad un nuovo cruccio, quasi ricacciato più lontano da Rosanna, quasi impedito di affrettare con la tensione della volontà e l’impeto del desiderio la liberazione del carro. Sotto la tettoia crocchi di viaggiatori si scambiavano le notizie, commentandole aspramente; alcuni stranieri volgevano intorno sguardi incerti e sospettosi; visi inquieti di donne si vedevano spiare dai finestrini del treno immobile; il Caffè era invaso, tutti i tavolini occupati da gente rumorosa e contrariata; solo i due giovani sposi, l’uomo sempre al braccio della donna, si sorridevano, fermi dinanzi al banco, scegliendo nei quadri mobili delle cartoline illustrate quelle con le vedute di Castelmaggiore: liberato il braccio della moglie, il marito le offriva una penna col serbatoio, ed ella riempiva i cartoncini uno dopo l’altro, curva sopra un angolo del banco, passandoli poi al compagno che vi aggiungeva la propria firma.

Un moto d’irritazione cacciò Bertini lontano dallo spettacolo di quella felicità. Riavvicinandosi alla piattaforma, vide le luci muoversi e una colonna di candido vapore sprigionarsi dal fumaiuolo della macchina, mentre un fischio breve ed acuto lacerava l’aria: il carro, finalmente liberato, era trainato verso il luogo del bisogno. Allora, come trascinato anch’egli da quella forza bruta, come attratto da un potere occulto, s’avviò lungo i binarî deserti diramantisi a ventaglio gli uni dagli altri. Non sapeva fin dove sarebbe andato, ma si sentiva sospinto nella direzione del convoglio immobile in mezzo alla campagna deserta.

Secondo che avanzava, oltre gli edifizî e le cabine e i castelli idraulici, il ventaglio si restringeva, le stecche d’acciaio rientravano una nell’altra, riducendosi al doppio binario di corsa. Fitte siepi lo fiancheggiavano, una bassa e intricata vegetazione di robinie, dalla quale emergevano i fusti frondosi degli eucalitti; tratto tratto un cancelletto vi si apriva, oltre il quale si vedeva la campagna bagnata dal lume della luna vicina al tramonto: un chiarore scialbo ed umido avvolgente i filari dei gelsi e dei salici, qua e là riverberato da pozze d’acqua. Non una bava di vento, non una voce nel silenzio grave dell’alta notte; solo l’arpeggio eolio dei fili telegrafici, in prossimità dei pali risonanti come casse di strumenti armonici. Le rotaie d’acciaio si distendevano rigide e diritte, sempre più lontano; parevano rincorrersi a perdita di vista, verso l’infinito, verso l’inarrivabile. Bertini procedeva per la solitudine, con gli occhi, gli orecchi, tutti i sensi aperti ed intenti a cogliere segni di vita, credendo di udire l’eco dei fischi della locomotiva di soccorso, di scorgere il chiarore delle fiaccole rischiaranti il lavoro dei manovali; ma nulla si scorgeva ancora, nulla si udiva.

La vista della stazione e dei fabbricati che l’attorniavano era anch’essa perduta nella lontananza: solo una punta di vivo fuoco rosseggiava in cima a un disco. Fremente, febbricitante, egli andava, andava, col proposito, col bisogno di raggiungere il bivio del Saliceto, di sapere qualche cosa di preciso; ma più s’inoltrava, più l’inquietudine, l’ansia, la paura gli facevano tremare il cuore. Quantunque la via ferrata fosse una guida infallibile, gli pareva di non poter più trovare quel bivio, d’essersi avviato sopra un altro binario, d’aver lasciato la buona strada. Perduta la nozione del tempo, credeva d’aver percorso chilometri e chilometri, d’essersi dilungato enormemente, d’aver marciato da ore: l’orologio, che aveva dimenticato di rimontare, non andava più. La linea non doveva esser libera, ormai? Il convoglio non stava per sopravvenire, precipitoso, inarrestabile, portandosi via la creatura amata, lasciandolo solo in mezzo alla campagna muta ed oscura? La prudenza consigliava di tornare indietro, di raggiungere la stazione, di aspettare lì, tranquillamente, come gli altri viaggiatori, come i due sposi in viaggio di nozze; ma allora, rivedendo con la mente quella coppia felice, egli sentiva più acuta, più tormentosa, più intollerabile tutta la propria pena. Spasimava da due mesi, dal giorno in cui era giunto l’avviso dell’arrivo del marito, ma non mai come ora. Se per un istante, al pensiero dell’imminente incontro con la diletta, aveva potuto illudersi sperando nel ritorno dei giorni felici, ora, nelle tenebre addensate col tramonto della falce lunare, nel sonno silenzioso della terra, nella solitudine inanimata di quegli ignoti luoghi, l’inganno riusciva evidente. Che vita era questa che lo sbalestrava fuori della sua casa, fuori del suo paese, che lo faceva errare a quell’ora per la campagna, aspettando un treno arrestato da un improvviso pericolo? Superato quello, quali altri, quanti altri sarebbero sorti? Rosanna andava a raggiungere ancora una volta il marito: dove, come, quando, per quanto tempo l’avrebbe rivista? Quell’uomo sarebbe ripartito, forse, ma per ritornare; il tempo della sua lontananza se ne sarebbe volato via, come se n’era volato tant’altro. La serena fiducia, la certezza del possesso assoluto, della comunione perfetta non era possibile senza l’unione che egli aveva dichiarato di non voler contrarre neppure ipoteticamente, e che sempre, prima di quell’amore, aveva giudicata odiosa e repugnante. Allora tutta la sua vita sentimentale, dai primi albori, dagli ingenui amori dell’adolescenza alle fiamme della giovinezza, gli passò per la memoria: quante prove fallaci, quante illusioni perdute, ritrovate, riperdute ancora, fino a quest’ultima! Stanco, vecchio, morto, il suo cuore aveva palpitato ancora una volta grazie alla creatura miracolosa; egli aveva gioito, sofferto, vissuto per lei; comprendeva che dopo di lei non avrebbe potuto più ricominciare, e che, quand’anche, mai più avrebbe trovato un’anima simile a quella; sentiva che tutti questi motivi lo spingevano ad afferrarsi a lei, disperatamente; ed a quell’ora, con quell’ansia nel cuore, ecco, finalmente riconosceva che il legame solenne, sancito, benedetto, era il solo che potesse umanamente garantire il possesso; e nulla gli pareva più desiderabile e degno che prendersi Rosanna, unirsi a lei per la vita e per la morte, dare al mondo lo spettacolo della loro felicità come lo davano quegli sposi in viaggio di nozze, sorridenti della contrarietà sopravvenuta, noncuranti di giungere un poco più presto o un poco più tardi, certi di portare con sè tutto il proprio bene. Perchè non era ella libera? Che cosa occorreva perchè si liberasse?... Allora, come al bagliore di lampi interiori, i recessi più tenebrosi del suo pensiero si illuminavano, quelli dove appariscono le possibilità più chimeriche, dove sorgono le tentazioni inconfessabili....

Un chiarore lontano, incerto, sorto dal fondo della linea, fermò ad un tratto la sua attenzione. Un uomo con una lanterna in mano si veniva avanzando; la lanterna, pendente dal braccio disteso lungo il fianco, lasciava in ombra il viso del sopravveniente, bagnandogli i piedi di luce.

— Venite dal bivio di Saliceto? — domandò Bertini quando colui, un cantoniere, gli giunse dinanzi e alzò la lanterna per guardarlo in faccia.

— Nossignore, vengo dal casello 374.

— Dove è stato fermato il direttissimo?

— Al passaggio a livello del Fossone.

— Quanto manca perchè la linea si sgombri?

— La linea è sgombra; vado a....

— È sgombra?...

Egli non udì altro, voltò le spalle al guardiano, corse verso la stazione, con la folle paura di non giungervi a tempo. Sull’angusto passaggio dove s’era avanzato agevolmente a brevi passi, riusciva malagevole correre; più volte fu sul punto di perdere l’equilibrio, più volte distese le braccia per ripararsi dall’imminente caduta. Con le orecchie fischianti, gli pareva di udire il lontano rombo del treno in moto, si rivoltava un istante a guardare indietro, poi riprendeva la corsa, rassicurato per poco. Al pensiero che la notizia non era ancora giunta alla stazione, moderò l’andatura; riprese a correre col timore che le disposizioni per ricevere il convoglio fossero state trasmesse per telegrafo o per telefono. Una voce, sul punto che passava dinanzi a un casello, gridò:

— Ferma!... Chi è?...

Non rispose, non si fermò, spronato dalla vista del riverbero diffuso lontanamente dai lumi della stazione. Quando vi giunse, trafelato, ansante, il campanello annunziante che il disco era aperto cominciava a squillare; i viaggiatori rimasti a terra riprendevano i loro posti sull’accelerato, si udivano voci di richiamo, gli sportelli sbattere con colpi secchi:

— In vettura!... In vettura!...

Non c’erano più facchini; egli si rivolse al cameriere del Caffè perchè gli portasse le valigie. E finalmente i fanali del treno, i grossi occhi roventi apparvero nella distanza, s’ingrossarono sulla metallica fronte della locomotiva spinta a tutta forza, vomitante dense volute di nero fumo squarciate dal candido vapore del fischio lungo, insistente, interminabile. Figure di uomini e di donne in piedi si profilarono nei vani luminosi delle finestre, nessuno nella carrozza coi letti, tutta chiusa, come deserta.

Un dubbio attraversò il pensiero di Bertini: se Rosanna non c’era? Se non era partita, per un contrattempo, per un caso imprevedibile?

— Il signore ha la cabina 7 e 8? — gli domandò il conduttore aiutandolo a montare sul terrazzino.

— Sì. Da che parte?

— Favorisca....

— Avete saputo dell’accidente?

— E come!... Siamo rimasti più di tre ore fermi in aperta campagna!... Ecco la sua cabina. Desidera che le prepari il letto?

Gli rispose di sì dopo un istante di esitazione, pensando che il breve indugio lo avrebbe liberato per sempre da quell’uomo. Cercò di sporgersi da un finestrino per vedere l’ora all’orologio della stazione e regolare il suo: tutti i vetri erano rialzati e fermati.

— L’ora, per piacere?

— È la una meno un quarto.

Già la macchina, dopo la rapida sosta, lanciava un nuovo fischio: la carrozza si scosse, cominciò la corsa. E non appena il conduttore lo lasciò solo, egli aprì l’uscio del gabinetto di toletta. Vedendo apparire una figura maschile, trasalì indietreggiando per istinto; poi riconobbe sè stesso nel giuoco degli specchi. Portò la mano ancora tremante alla maniglia dell’altro uscio, lo aperse. Vide gli occhi di Rosanna cercare i suoi. Era seduta sul lettuccio, col velo rialzato sulla fronte, le mani nude congiunte in grembo. Le cadde in ginocchio dinanzi, le prese le mani, se le strinse al petto. Soffocato dal tempestoso pulsare delle arterie, non potè nel primo istante articolare una parola; poi balbettò:

— Sei tu?... Sei tu?...

— Che è stato? Siamo in ritardo?

— Come?... Non sai?... Quattro ore, quattro ore che aspetto, tremando, fremendo al pensiero del tuo pericolo.... Non ti sei accorta di nulla?... Dormivi?...

— Ho dormito, sì: ero tanto stanca. Ma veglia e sonno m’accorgevo che il treno era immobile, udivo rumore di passi, voci di sconosciuti.... Che è stato?

— La linea ingombra, ostruita da un treno merci.... Ma che importa? Tanto meglio, se non hai saputo.... Sei tu? Sei tu? Sei tu?... Lasciati guardare.... Lo sai da quanto tempo non ti vedo?... Che luce fioca mandano queste lampade!... Lo sai da quanto tempo ti aspetto? Lo sai che ti credevo perduta? Lo sai che non ti vo’ perdere?

Anch’ella alzò lo sguardo luminoso al grappolo delle lampadine elettriche.

La cabina, con la levigatezza del suo mogano, con la lucentezza dei suoi ottoni, aveva l’aspetto di un mobile, di un grande armadio rotolante. Quantunque nel fracasso della corsa vertiginosa nessuno potesse udire dal prossimo scompartimento, egli abbassò ancora la voce, le domandò quasi all’orecchio:

— Sei tu? E sei mia? Sei mia, di’?...

Rivoltatasi verso di lui, passandogli una mano sulla fronte, ella rispose:

— Non vedi che cosa faccio per te?

Allora tutta la sua passione soffocata, umiliata, disconosciuta, traboccò. Scotendo la testa, con voce amara, egli protestò:

— Che fai? Sei rimasta sola, non so quanto, mentre quell’uomo era a Londra, e mi chiami ora soltanto, ora che vai ad incontrarlo un’altra volta!

Ella non rispose.

— Mentre una sola cosa confortava il mio dolore, l’idea che non fossi libera, che ti torturassi come me per non potermi vedere, per non potermi dir nulla, tu eri padrona di te stessa, e non mi chiamavi, non mi scrivevi!... E ora ti stupisci dei miei dubbî!... Non sai dunque, non capisci, non intuisci quel che ho sofferto, quel che soffro, dal giorno che ti lasciai dinanzi al «Senegal», da quando ti vidi al fianco di quell’uomo, ricongiunta a lui, baciata da lui?

All’evocazione del ricordo, la gioia di averla ritrovata, di sentirsela vicina, cadde repentinamente; il dolore, la gelosia, il corruccio, tutte le immagini esasperanti e tutti i pensieri maligni tornarono a invaderlo.

— Che hai fatto? Dove sei stato? — domandò ella, dolcemente, prendendogli una mano, come per placarlo.

— Non lo so, che cosa ho fatto; non lo so ridire, come ho vissuto. Sono stato a Promonte, ma prima a Firenze, per tentar di vederti.... Rimproverami, anche! — esclamò con più forza, vedendola accigliarsi. — I torti sono miei, anche! Io dovevo starmene tranquillo, dovevo sentirmi sicuro e felice, dopo averti vista laggiù, sulla banchina, tutta occupata di quell’uomo e dei vostri figli, senza un saluto, un cenno, uno sguardo per me; dopo essermi nascosto da voi, da te, come una spia, come un ladro! Non so, non so; senza l’amico che mi stava accanto, non so come, non so dove avrei trovato la forza di padroneggiarmi.

— Era Perez?

Non le rispose a voce, assentì con un breve moto del capo, incalzando:

— Mi passasti accanto, dinanzi al cancello, e non mi guardasti neppure; non t’accorgesti neppure allora di me che fremevo e spasimavo, tutta infervorata non so da che, non so perchè!

— Ti vidi.

— Che gli dicevi?

— Non mi rammento.

— Non ti rammenti! Ma mi rammento io, io che ti vidi sparire in quel carrozzone d’albergo, io che mi sentii a un tratto divenuto estraneo a te, solo, abbandonato, perduto, senza saper che fare della mia vita, con la folle tentazione di seguirti ancora, di raggiungerti per afferrarti e portarti via, sotto i suoi occhi, sotto gli occhi dei tuoi figli, dinanzi a tutti; poi col bisogno di fuggire, di non restare più un solo istante in quei luoghi, quella sera, quella notte, la notte della contaminazione....

Con voce grave, guardandolo negli occhi, ella disse:

— Fosti tu che volesti seguirmi. Non ti pregai di rinunziare a quest’idea? Che vi hai guadagnato?

Egli rispose duramente:

— Avrei sofferto peggio se non vi avessi visti. E mi pento di non aver preso una stanza in quell’albergo! Avrei meglio misurato tutta la tua capacità di fingere!

E lasciò la sua mano, la respinse, si ritrasse.

— Perchè?

Ella era calma, serena, sicura di sè stessa; il tono della sua voce nel muovere la domanda rivelava una curiosità che non teneva molto ad essere appagata.

Egli la guardò un tratto senza dir nulla.

Il convoglio precipitava la sua corsa, si sprofondava nelle tenebre, rombando e strepitando, come quello che lo aveva portato via la notte della contaminazione. Egli non fuggiva questa volta, come allora; si vedeva anzi al fianco la donna che aveva allora lasciata ad un altro; ma il ricordo dell’incubo risorse nella sua memoria. Si rivide con la fronte ardente al gelido vetro, con gli occhi sbarrati nelle tenebre fuggenti, o fisi all’orologio, per calcolare il momento nel quale la coppia sarebbe rimasta sola: «Alle dieci.... o forse alle undici.... fra un’ora.... fra mezz’ora.... Ora!...» Una pesantezza plumbea lo aveva abbattuto sul sedile, moti di nausea gli erano saliti dalle viscere alla gola nei tempestosi scotimenti di quella corsa pazza, traendolo dallo stuporoso assopimento. Poche altre notti erano tanto durate nella sua vita; nessuna luce egli aveva tanto spiata come quella del nuovo giorno, con la quale ella sarebbe finalmente uscita dalle braccia di quell’uomo; ma nè il nuovo giorno, nè i tanti altri che erano seguiti, nè tutti quelli che seguirebbero potevano dissipare interamente l’incubo e ridargli la fede perduta. Ecco: Rosanna era lì, accanto a lui, sola con lui nella carrozza lanciata attraverso lo spazio, ma egli sentiva di non averla per sè.

Ella diceva, tranquillamente:

— Che cosa pretendevi? Volevi che non mi occupassi di mio marito per badare a te? Volevi che mi sottraessi al suo abbraccio, ai suoi baci, che non li ricambiassi? Per qual motivo? Con quale pretesto?

Egli stese le braccia, alzò il viso, proruppe con voce tremante di tenerezza amara, di timido rimprovero, di passione umiliata:

— Perchè sei mia, perchè sei l’amor mio, la donna mia....

— Non è vero.

— Non è vero?

Ella fece per replicare con altrettanta vivacità; poi parve farsi forza, stringendosi una mano nell’altra. Dopo una pausa, tranquillamente, lentamente, spiegò:

— Lo sai, qual’è la verità, e non dovrei aver bisogno di ripeterla, ora. Per il mondo, per la legge, per i miei figli, io sono di mio marito. La fatalità mi ti sospinse dinanzi un giorno, quando ero sola, quando cercavo un amico. Cercavo un amico, ed ho preso un amante.... Ma no, non credere che io vada mendicando attenuanti. Ti avrei preso anche se non fossi stata sola. Mi turbasti troppo, mi piacesti troppo: anche questa è verità. Forse altre avrebbero resistito alla tentazione; io provai, ma non vi riuscii. Pago la mia debolezza, sai! O credi d’essere il solo a soffrire, con la tua gelosia? Io soffro della falsità in cui vivo, delle menzogne che dico, degli inganni che ordisco. Tu ti senti ingannato, ed hai ragione, sì; perchè se ti amassi come nei romanzi o sul teatro, avvelenerei mio marito, piuttosto che sottopormi alle sue carezze! Ti senti ingannato, ne soffri, e nel tuo dolore non pensi all’altro inganno che io infliggo, al tradimento che commetto, infinitamente più grave.

— No, perchè egli non sa. Chi non sa non soffre.

— Hai ragione, perchè io non conto. Che importa se soffro io?

Vi era tanto rimprovero nella calma apparente della sua risposta, che Lodovico chinò la fronte, con l’atteggiamento di chi sente il proprio torto senza potere o volere confessarlo. Dopo un breve silenzio le riprese la mano, appoggiò la fronte sulla sua spalla, mormorando:

— Mi perdoni, Rosanna?

— Di che? — fece ella, scotendo il capo, con un sorriso ironico e indulgente insieme.

— Di che? Di volermi bene?

— Lo capisci, lo sai, lo senti che se dico queste cose, se soffro questi tormenti, è perchè ti voglio bene? — A voce più bassa, ma più fervida, più appassionata, soggiunse: — Te ne voglio più che non credessi, sai! Non te ne ho voluto mai tanto. Ora, ora soltanto conosco e misuro quanto te ne voglio.

Appressatosi a lei, spinto addosso a lei dagli sbattimenti del treno serpeggiante precipitosamente per vie curve, si sentì tutto aderire al suo fianco soave. La cinse con le braccia, le ricercò con la bocca la bocca.

Ella si ritrasse, sciolse il nodo delle mani intrecciatesi alla sua vita:

— No, lasciami.

La sua voce era sommessa e dolce, ma ferma e risoluta. Egli obbedì, tacitamente.

— Tu misuri ora soltanto — riprese ella — il bene che mi vuoi, io misuro ora soltanto la colpa che ho commessa. Quando mi vincesti, quando mi diedi a te la prima volta, non provai nulla del rimorso che avrebbe dovuto invadermi. Ti rammenti che te lo dissi, ti rammenti, di’?

— Sì.

— Guardai dentro di me, dissi a me stessa: «Ho tradito la fede giurata, sono adultera, adultera». Ma queste parole non ebbero nulla del loro senso. E non già perchè mi fossi assuefatta all’idea della caduta. Mi conosci. Te lo direi. Mi ero anzi creduta padrona di me stessa, mi pareva moralmente e materialmente impossibile tradire mio marito. Perchè lo avrei tradito? Perchè era lontano? Per appagare un appetito, allora?... Ma quando ti conobbi, quando ti amai, mi parve altrettanto impossibile resistere a questo amore. Tu dubitasti dell’esistenza di mio marito perchè era assente; io me ne dimenticai. Come tu non t’inquietasti al pensiero che un giorno sarebbe tornato, così non vi pensai neanch’io. Noi abbiamo sempre coraggio per affrontare i pericoli lontani. Ora egli è qui. Io sono caduta nelle sue braccia uscendo dalle tue....

Egli domandò furiosamente:

— Di’, che ti ha fatto?

Ma senza lasciarle il tempo di rispondere una sillaba, ingiunse con mal contenuta violenza, chiudendole la bocca:

— No! Taci!

Ella rise d’un riso sottile ed ambiguo. Voleva dire che non avrebbe parlato, anche senza il divieto? O che egli stesso, fra poco, avrebbe ripetuta la domanda? O che parlare e tacere era tutt’uno?

— Ora, vedi, — riprese pacatamente, — io so che cosa è il tradimento. Lo so ora, che v’inganno entrambi.

— No! — scattò egli ancora. — Tu non lo inganni, lui!

— No?

— O non lo inganni più, perchè sei tornata a lui e ti sottrai a me, e sei pentita d’esserti data a me; perchè lo ami, o ricominci ad amarlo, mentre non mi ami più, se pure mi amasti mai!

Dapprima ella scosse il capo, poi fece un gesto d’assenso, poi ripetè:

— Non ti amo; non t’ho mai amato. Naturalmente.

— Mi ami? Mi ami ancora? D’amore, ami me solo?

— No.

— Ci ami entrambi? Come puoi amare due uomini a una volta? Ami in lui il tuo protettore, il padre dei tuoi figli? Di quali sofistiche distinzioni sei capace? Parla, rispondi! Che cosa ti sentiresti di fare per provarmi l’amore che dici di portarmi?

— Che cosa vorresti che facessi?

— Lascialo, seguimi, dammi tutta la tua vita!

L’espressione del sentimento pervenuto al parossismo, della necessità intuita negli interminabili giorni vissuti insopportabilmente lontano da lei, riconosciuta un’ora innanzi, al sorgere del mortale pericolo sulla via ignota, in mezzo alle tenebre, gli era salita alle labbra impetuosa, irrefrenabile, irrevocabile. Stretto alle braccia di lei, con gli occhi perduti negli occhi di lei, aspettava ora la parola che avrebbe segnato il suo destino. Con l’animo sospeso, sentì che il treno rallentava, in prossimità di una stazione: attenuandosi il frastuono, arrestandosi la corsa, gli parve che anche quel formidabile ed incosciente congegno partecipasse all’ansiosa sua aspettazione.

Ella indugiava a rispondere. Lo guardava fiso, negli occhi, nell’anima. Mentre le voci dei conduttori annunziavano un nome incomprensibile, disse finalmente, pianissimo, passandosi una mano sulla fronte:

— Vuoi che lo lasci?... Lo vuoi proprio?... Sarebbe molto più facile che tu non creda.

Sulle prime egli non comprese. Poi, come un lampo, un dubbio gli attraversò la mente, il dubbio antico, dei primi giorni: ella non doveva essere unita legalmente a quell’uomo. Tutti i sospetti concepiti due anni innanzi, nell’incontrarla sola, in un albergo di montagna, lo invasero, confusamente; rivide in lei l’avventuriera sospettata, riprovò il moto di diffidenza che lo aveva fatto indietreggiare.

— Come sarebbe a dire? — proferì, dopo una lunga pausa, mentre il suono soffocato della cornetta e il fischio della locomotiva annunziavano la ripresa della corsa.

— Dico che la nostra unione non è indissolubile.

— Non siete maritati?

L’ambiguo sorriso tornò ad incresparle l’angolo della bocca.

— Siamo maritati.

— Allora?

Ella si prese la sinistra nella destra, considerando il cerchietto d’oro dell’anello nuziale lucente nella penombra. Lo fece girare un poco nel dito eburneo, poi lo trasse, lo guardò contro la luce.

— Allora, possiamo divorziare. Quando ti domandai se, libera, mi avresti sposata, ti spiegai che la mia domanda non t’impegnava a nulla, perchè la legge della Stanlesia non ammette il divorzio. Ti nascosi la verità.... quella volta sola!... Nella Stanlesia il divorzio è ammesso; come negli Stati più liberali dell’America del Nord, si può pronunziare per dodici motivi diversi.... Questo anello si può spezzare, io posso tornar libera, sposare chi voglio....

E lo guardò.

Considerando anch’egli il cerchietto d’oro, sentì lo sguardo di lei pesargli addosso. Comprendeva di dover dire, con impeto: «Sì, è ciò che sognavo, è ciò che volevo, è ciò che voglio; la soluzione insperata, la felicità assicurata. Perchè non me lo hai detto prima? Perchè non mi hai risparmiato tante pene?...» Ma una specie di afasia gli impediva di proferir verbo. Sentiva di doverle strappare quell’anello, di dover fare il gesto di buttarlo via; ma una specie di paralisi gli saliva dalla mano al braccio, come un gelo. Il suo lungo dolore degli ultimi mesi, il suo spasimo di un’ora addietro per la campagna oscura e taciturna, la sua decisione d’un istante prima, cadevano, si disperdevano, nel crescere e nell’aggravarsi di un senso di diffidenza ostile. Un dubbio gli balenava nella mente: non aveva ella taciuto finora per calcolo, per esasperarlo, per portarlo al grado della follia...? Lo aveva, ingelosito per ridurlo docile, inerte, pronto ai suoi voleri. Voleva esser sposata. Non gli aveva chiesto una prima volta, come per misurare l’amor suo, se, libera, l’avrebbe sposata? Questo era, evidentemente, il suo scopo! Ed egli che un momento prima si sarebbe legate le mani e i piedi pur di averla tutta e per sempre sua, ora, a un tratto, poichè la proposta veniva da lei, ma non francamente pronunziata, insinuata piuttosto, come una semplice possibilità; ora che ella gli poneva dinanzi, quasi per adescarlo, il cerchietto d’oro lucente, il simbolo della catena, ora egli si ribellava, sentendosi preso come in un tranello. Di no, di no, doveva rispondere di no, spiegando tutto il suo pensiero, poichè si era proposto di dir sempre la verità, poichè l’aveva detta e l’aveva pretesa da lei; ma quando alzò gli occhi, quando si vide guardato negli occhi, gli mancò il coraggio di significare una verità della quale comprendeva la bruttezza.

— Egli consentirebbe? — domandò, per indugiare ancora un poco prima di dire la menzogna.

— Se saprà che ho un amante, domanderà egli stesso il divorzio.

— Perchè non m’hai detto prima che avevamo questa via d’uscita?

Con la fronte e le sopracciglia un poco corrugate nello sforzo di fissare gli occhi negli occhi di lui, ella rispose domandando a sua volta:

— Perchè te lo avrei detto, mentre egli era lontano e tu tranquillo?

— Hai ragione!

— Perchè te lo avrei detto, quando mi dichiaravi che la libertà ti era troppo cara?

— Hai ragione! Ed io sono stato punito di quella risposta! Ma benedico le mie sofferenze perchè mi hanno preparato quest’ora di gioia. Tu spezzerai questo anello, ne porterai un altro, il mio, fino alla morte.

Senza lasciarlo con gli occhi, stringendosi ancora più a lui, ella insistè:

— Vuoi?... Proprio, vuoi?

— Ne dubiti?

— Non lo dici per condiscendenza? Ti senti di legarti per sempre? Sei sincero come le altre volte? Non mi nascondi nulla, in fondo all’anima?

Dopo un istante di lotta interiore, egli confessò:

— Sì, ti ho nascosto qualche cosa.... Non sono stato sincero. Mi è parso.... ho creduto.... non so.... Ti giuro che mi sarebbe sembrato un sogno, se m’avessero detto che potevi ancora liberarti da quell’uomo.... Ma ora.... quando l’hai annunziato tu stessa.... Non so.... il nostro cuore è così complicato....

— È vero. Hai temuto ch’io ti sforzassi?

— No, non questo precisamente. Perchè mi sforzeresti? Tu hai tutto da perdere lasciando tuo marito.... Egli ti ama ragionevolmente, ti lascia sola per anni, ha cieca fiducia in te. Della mia gelosia, delle mie esigenze, sai già qualche cosa.... Egli lavora per te, ti assicura una vita molto più larga che io non potrei.... Ma sì, lasciami dire: bisogna metter nel conto anche questo, se bisogna dir tutto.... Se mi proponi di sciogliere il tuo matrimonio per unirti a me, null’altro può guidarti fuorchè l’amore che mi porti. Ti chiedevo una prova dell’amor tuo: me la dài. Grazie, Rosanna!

Una gran tenerezza gli faceva tremare un poco la voce. Tutti quegli argomenti egli non li aveva cercati, non li aveva accattati come pretesti: erano vere ragioni emerse spontaneamente dal fondo del suo pensiero, come espressioni di verità lampanti. I cattivi sospetti erano stolti. Dopo averlo riconosciuto, dopo aver confessato il moto di diffidenza, si sentiva migliore, degno del suo perdono.

— Rosanna, tu m’hai compreso e perdonato. È vero che mi credi senza che io aggiunga altre parole?

— Sì, ti credo, — proferì ella, gravemente.

Egli si abbandonò. Passata una mano alla sua vita, stringendosi al suo fianco, aderendo a lei, guancia contro guancia, mormorò:

— Rosanna, è detto. Da due mesi, dal giorno che mi annunziasti il suo ritorno, questo è il primo momento che traggo liberamente il respiro. Se mi avessi annunziato prima la possibilità di questa soluzione.... No: non ti rimprovero! Forse avrei tentato di resistere, come ho resistito ora.... Ma non te ne dolere: è una prova; vuol dire che il bisogno di averti tutta per me è tanto forte da trionfare delle mie inveterate consuetudini di vita e di pensiero. Io non volli mai legarmi ad una donna, neanche a te: lo sai, te lo dissi. Ma in questi due mesi di spasimi insopportabili, una rivoluzione è avvenuta nella mia vita; a poco a poco, ogni giorno, ogni ora che passavo lontano da te, sentivo sorgere, ingigantire ed urlare la necessità di farti mia, di farmi tuo, per sempre. Stanotte, qualche ora addietro, quando ti ho aspettata struggendomi di desiderio doloroso, quando ho udito che un pericolo terribile era sorto sulla tua via, compresi che questa vita non è più possibile. Rosanna, la legge sociale e morale vuole che ogni uomo abbia una sua propria donna: io l’ho trasgredita, ma perchè non avevo ancora trovato chi prendermi. È venuta la mia ora, l’ora della crisi, della rinnovazione. Grazie a Dio non è troppo tardi, ma non è neanche presto, e non ho più tempo da perdere. Affretta il giorno della tua liberazione, e di qui ad allora ti giuro che non farò più nulla che ti dispiaccia. Se vuoi che non ti veda più, che non ti scriva più, che sparisca, non mi costerà nulla obbedirti, sorretto dalla divina speranza, dalla certezza beata. Andrò ad aspettarti in capo al mondo, o a Promonte. Ci sposeremo lassù, vedrai finalmente il mio paese, entrerai da padrona nella mia casa; ci sposeremo nella chiesa dove si sposò la mamma mia....

Sentì che ella scoteva la testa. Si volse a guardarla. Ella diceva di no, con una mossa del capo, tacitamente.

— Non a Promonte? In un altro sito?... Dove tu vorrai!

— No.

— Come?... Non vuoi?... Non mi credi?...

— Ti credo, te l’ho già detto. Ma perchè questo matrimonio si sciolga, perchè io torni libera di contrarne un altro con te, c’è ancora una difficoltà.

— Quale?

Ella sorse in piedi. Lungo le strette curve sulle quali il treno volava, la carrozza era scossa, urtata, sbattuta così violentemente, che riusciva molto difficile mantenersi ritti. Afferrata con la sinistra all’orlo della cuccetta superiore, ella distese la destra a cercare qualche cosa in mezzo alle borse ed alle scatole che vi erano sparpagliate.

— Che ti occorre? — domandò egli, sorgendo a sua volta.

— La borsetta a mano.

— Quella di cuoio?

— No, quella di maglia.

— Eccola.

Frugatovi dentro, tra il fazzolettino di pizzo, i guanti, le fialette, il portamonete, ne trasse una lettera, gliela porse senza dir nulla e si lasciò ricadere sul lettuccio.

Egli rimase in piedi, addossato alla parete, per leggere sotto la lampada. La lettera portava un francobollo inglese, con la stampiglia dell’ufficio di Londra; sulla busta, il nome e l’indirizzo di Rosanna, scritti con caratteri grandi, larghi, forti: la scrittura del marito, che egli riconobbe per averla vista sopra un’altra lettera odiosa: quella annunziante il suo ritorno. Il testo, in inglese, diceva:

«Cara Rosanna, mia cara moglie, ti avverto che ripartirò per l’Italia lunedì prossimo e che arriverò a Milano martedì, col treno delle 7 e 55 del mattino. Come mi promettesti, ti aspetto laggiù per tornare insieme con te a casa nostra, dove passeremo gli ultimi giorni prima della cerimonia. Io sono pronto, e non dubito che anche tu abbia tutto preparato. Ho molto piacere che tu abbia scelto un paesetto del lago dove nessun indiscreto ci disturberà; approvo pienamente che i ragazzi siano affidati alla famiglia di tua cugina. Cara moglie mia, a ben presto e per sempre».

Dopo aver letto, egli rilesse ancora, per comprendere, ascrivendo alla sua imperfetta conoscenza della lingua l’oscurità di quelle espressioni.

— Che cosa vuol dire? — le domandò poi, abbassando il foglio, senza tornarle a fianco.

— Non hai capito?

— Io no.... Tranne....

— Tranne?

— Che tu non m’abbia ingannato, assicurandomi che siete legalmente uniti.

— Non ti ho ingannato. Ma ti ho spiegato che ci maritammo con una legge che consente il divorzio, che lo pronunzia molto facilmente, per molti motivi, compreso il consenso reciproco.

— Allora?

— Allora, quella cerimonia i cui effetti si possono annullare con un semplice atto di volontà, quel matrimonio contratto fuori del mondo civile, dinanzi ad un giudice di pace mezzo selvaggio, non ci sembrò la cosa solenne che dovrebbe essere, che è per tutti gli altri. Allora, siccome mio marito è cattolico, e più che cattolico, credente, fu stabilito che avremmo celebrato un giorno il rito religioso in Europa, per santificare la nostra unione, per renderla veramente indissolubile.

— E non ci avete pensato ancora?

— Non ancora.

— E lo celebrerete ora?

— Sì.

— Egli è venuto apposta?

— No. Io stessa gli ho chiesto di effettuare il nostro antico proponimento.

— Tu? Quando? Ora? — pronunziò egli con impeto.

— Ora.

La guardò, poi si guardò intorno, come non sapendo dove fosse, come cercando qualche cosa intorno a sè. Nella corsa sempre più turbinosa, pareva che da un momento all’altro le lucide e fragili pareti della cabina dovessero sfasciarsi, che il pesante carrozzone dovesse forviare e frantumarsi. Ora, sotto una lunga successione di interminabili gallerie, il fracasso era talmente assordante come se intere montagne franassero.

— Tu?... — ripetè l’esterrefatto, pianissimo, quasi in un soffio, chinandosi verso di lei, afferrandola agli omeri, figgendole gli occhi nell’anima, trapassandola con lo sguardo infiammato.

— Sì, io.

— Tu, ora? Dopo aver visto la mia pena al solo pensiero del ritorno di quell’uomo? Quando c’era una via d’uscita da quest’inferno, tu stessa l’hai chiusa? Mi dirai almeno perchè?

E le strinse così forte le mani, che ella disse, con un ritorno dell’ambiguo sorriso:

— Mi fai male, sai!

— Ti spezzo! — scattò egli, esasperato dal suo sorriso, improvvisamente e confusamente sovvenendosi dei suoi lunghi dinieghi, delle sue resistenze, delle sue ostilità, con l’impeto folle di trarne vendetta, d’infrangere le morbide forme di quell’anima dura ed avversa. — Se tu persisti in questo proposito, se non dichiari a quell’uomo che hai mutato idea, ti spezzo, ti uccido piuttosto.

Ella rise più sottilmente ancora, dicendo:

— Via, non esagerare.... Noi non ci amiamo fino al delitto.

Improvvisamente egli la lasciò, le voltò le spalle, mosse un passo, afferrò la maniglia dell’uscio per ripassare nella propria cabina. La voce di lei lo trattenne: la voce non più fredda e incisiva, ma tenera e dolce come nei momenti migliori.

— Sei capace di riconoscere la verità?

— Che cosa vuoi dirmi? — proruppe egli ancora. — Che recito? Che recitiamo entrambi? Che recitano tutti? Che l’amor nostro, che tutto l’amore è una finzione, che tutta la vita è un inganno? Grazie. Lo so.

Ella gli stese le due mani, prese le sue, se lo trasse a fianco.

— Stammi a sentire.... Vienimi qui vicino, così.... Stammi a sentire senza interrompermi.... La vita è quella che è. Così com’è, una logica rigorosa la governa.... Un giorno tu mi dicesti che non mi avresti sposata, e fosti sincero. Zitto, lasciami parlare: non voglio essere interrotta, ti dico!... Fosti sincero, fosti nella logica della situazione d’allora. Io ero sola; nessuno ti dava ombra; perchè avresti menomata la tua libertà?... Sai perchè ti feci quella domanda? Per vedere se avresti mentito. Mentii io stessa, ti nascosi la possibilità di sciogliere il mio matrimonio, per proporti il caso astratto, per leggere nel fondo del tuo pensiero. Una promessa bugiarda mi avrebbe fatto dubitare di tutte le altre tue parole. Fosti sincero, e mi piacesti, e te ne fui grata. Ora dici che mi sposeresti, ora ti duoli perchè voglio escluderne la possibilità, e sei sincero ancora. Con la tua gelosia contro l’uomo che viene a riprendermi, non trovi, non puoi trovare altra uscita fuorchè nel rompere questo legame e nell’accettare di unirti con me. Anche questa è logica, anche ora dici quel che senti, quel che devi sentire: io non dubito delle tue parole. Ma se ciò che ora ti seduce si avverasse, se io fossi tua moglie, sai quale sarebbe la logica della situazione nuova? Quando mio marito non fosse più mio marito, quando non avesse più nessun diritto su me, quando non si frapponesse più fra noi, tu non saresti più geloso di lui, ma probabilmente di altri; e allora ti pentiresti di avere rinunziato alla possibilità di lasciarmi se io ti tradissi, o più semplicemente il giorno in cui l’amor nostro fosse finito; perchè lo sai, è vero? che l’amore, come ogni altra cosa, finisce? Un uomo giunto all’età tua senza avere provato il bisogno di prender moglie, può ridursi a portar via quella d’un altro, ma per pentirsene poi, per accusare di sciocchezza sè stesso e di calcolo quell’altra....

— Che dici? — tentò di interrompere egli, in un impeto di protesta.

— Non io; lo hai già sospettato tu stesso, or ora....

— Non m’hai compreso! Non m’hai perdonato!

— Ma sì, ma sì: ho compreso benissimo. Nulla di più naturale ed umano....

— Ma non sai che un’altra donna, nella tua condizione....

— Lo so: altre donne, nella mia condizione, darebbero qualche anno di vita per la possibilità di unirsi indissolubilmente all’amante. Lo so: vi sono mogli che per raggiungere questo scopo fanno l’impossibile, affrontano lunghi processi, adducono le più tristi e penose menzogne, rinnegano la patria.... E stammi a sentire: finchè non ti avevo incontrato, io mi rallegravo del mio privilegio. Non ammettevo di dover tradire mio marito; ma pensavo pure talvolta, leggendo un romanzo, udendo una musica, ricordando i sogni della prima gioventù, che un giorno avrei potuto essere esposta ad una tentazione irresistibile.... Quel giorno avrei potuto mettere d’accordo il mio cuore e la mia coscienza, con la facilità di ottenere il divorzio dalla legge africana. E se alla nostra unione manca ancora la consacrazione religiosa, dopo tanti anni, ciò non è stato già per la lontananza di mio marito, per i troppo brevi suoi ritorni; ma perchè io stessa ho indugiato pensando che fosse stolto rinunziare alla via d’uscita, nel caso che avessi amato un altro uomo.

— E vi rinunzi ora che mi ami? — disse egli, interrompendola violentemente, torcendole una mano.

Ella rispose, guardandolo in faccia:

— Sì, perchè ti amo.

Per un momento egli rimase attonito, senza fiato, come sospeso in un dubbio oscuro. Ella gli prese la testa fra le mani, gli accostò la bocca alla bocca.

— Perchè t’amo, capisci? mio malgrado, contro ragione, non so come, non so quanto; e perchè questo è il solo modo d’amarti ancora e d’essere amata da te. Tu m’amerai finchè sarò d’un altro: che m’importa del tuo tormento? Finchè sarai geloso, mi amerai, da morirne; il giorno che fossi tua moglie l’amor tuo finirebbe nella sicurezza, nella sazietà. Io sono orgogliosa anche, sai, e non voglio doverti nulla. Anche se fossi povero e mi dessi il solo tuo nome, ti resterei obbligata, e non voglio! Voglio obbligarti io, invece; voglio che tu stesso debba a me qualche cosa, poco o molto, non importa, non foss’altro ciò che l’amor mio è stato finora nella tua vita d’uomo e d’artista.

Allora egli tremò, abbagliato dalla nuova bellezza diffusa nel viso di Rosanna, dalla luce sfolgorante nel suo sguardo, oppresso e come impaurito dall’ebbrezza prodotta dalle parole di lei, dal ritrovare in lei finalmente, dopo i lunghi dubbî e gli sconforti e le disperazioni, la donna amante che gli si era concessa dopo una lunga resistenza, ma senza falsi pudori, senza ipocrisie, senza calcoli, per impeto di simpatia, per forza di desiderio, per slancio di passione; allora, col cuore stretto dalla vergogna per i sospetti concepiti un momento prima, con l’anima chiusa dal dolore nel veder dileguarsi per volere di lei l’insperata possibilità, egli pianse. Non una parola gli uscì dalla gola stretta nello spasmo, dalle labbra bagnate dalle grosse lacrime che gli rigavano il volto.

— Non voglio che tu pianga! — disse ella, accigliandosi, ritraendosi. — Non mi piace il pianto d’un uomo. E poi, di che ti lagni? Hai dimenticato ciò che mi dicesti una volta?

Egli la guardò senza rispondere, senza comprendere. Tante cose le aveva dette! A quale alludeva?

— Non ti rammenti che prevedendo la fine dell’amor nostro, io previdi anche che dopo di te avrei preso necessariamente un altro amante, e poi un terzo, e poi un quarto, e che mi sarei a poco a poco ridotta come le donne che hanno perduto ogni diritto al rispetto?

Il ricordo atroce irruppe nella sua mente. Infatti!... Senza una parola nè un accento di rimprovero, accertando semplicemente una verità patente ed una legge ineluttabile, ella aveva affermato l’impossibilità di fermarsi nella via degli errori; gli aveva riferito il giudizio letto in un libro: «Si trovano donne che non hanno avuto mai amanti, non se ne trovano che ne abbiano avuto uno solo». Atroce, atroce la pena allora sofferta. Ella non gli aveva rimproverato di averla sospinta per la lubrica china, ma egli stesso ne aveva provato un rimorso acutissimo. Una gelosia inaudita, la gelosia contro gli ignoti, ignoti ancora a lei stessa, in braccio ai quali ella sarebbe caduta, lo aveva morso. Per evitare l’estremo avvilimento di quella creatura, per evitare a sè stesso il rimorso intollerabile, per salvare le anime loro, egli le aveva proposto di lasciarsi, piuttosto, in piena passione, di amarsi da lontano, dolorosamente ma puramente, di non amarsi piuttosto in nessun modo, se a questo patto ella si sarebbe sentita sicura da nuove cadute.

— Non ti rammenti che mi offristi di rinunziare a me, per salvarmi?... Te ne rammenti, è vero?... E allora, non ti lagnare! Lasciami stringere a mio marito: è il mezzo di garentirmi contro nuovi pericoli e di vivere solo, eternamente, nella mia memoria.

Egli chinò il capo, chiudendosi la bocca col fazzoletto, per reprimere il nuovo impeto di pianto.

— Non piangere! — ingiunse ella ancora.

— Tu che comprendi tante cose, — le rispose, amaramente, con voce rotta, — non comprendi il mio dolore?... Non comprendi che io darei la vita per averti conosciuta prima, quando nessun’ombra aveva sfiorato questa tua anima, quando nulla avrebbe potuto impedirti di accettare il mio nome?

Ella tacque un poco, a capo chino, con lo sguardo fiso; poi disse, piano:

— Sì, prima.... forse....

— Ed anche ora! — insistè egli, stendendo le braccia, cercando di stringerla a sè, di vincerla con la forza dei muscoli e l’impeto delle parole. — Ed anche ora, Rosanna; se tu vuoi, se credi all’amor mio, se sei capace di leggermi nel cuore, di vedervi la fiamma che lo investe e lo brucia. Se non vuoi che il rimorso avveleni tutta la mia vita, dimmi di sì, dimmi di sì; altrimenti dovrò credere che tu intenda punirmi, giustamente, perchè quando mi proponesti la prima volta l’ipotesi della nostra unione, ricusai di accoglierla. Sii generosa, non mi serbare rancore....

— Non te ne serbo.

— Allora non t’impegnare, Rosanna! Sai ancora in tempo! Non ti chiedo altro che d’aspettare ancora un poco, per rassicurarti, per provarti che non posso mutare, qualunque cosa avvenga; che abbandonarmi a te, riposare in te, darti quanto mi resta di sentimento, di ingegno e di vita, è l’unico mio desiderio, l’ultimo mio bisogno....

Ella scosse il capo, senza rialzarlo.

— No. Mai.

Egli si premè tra le mani la fronte scottante; poi, levatosi, si appressò al finestrino, col petto oppresso, il respiro mozzato dall’aria ormai greve della cabina, avido di ristorarsi al soffio della notte. Restò invaso dallo stupore alzando la tenda: albeggiava, il cielo impallidiva sulla terra ancora avvolta nell’ombra, le masse vegetali si profilavano dense e nere sul lividore dell’orizzonte. Oltre la linea della siepe fuggente e stormente al soffio impetuoso prodotto dalla corsa del treno, i campi rigati dai solchi delle piantagioni, pezzati dalle culture, divisi dai fossi; i casolari vigilati dagli alberi d’alto fusto, nel mezzo dei chiusi, dormivano ancora, parevano abbandonati, deserti, senza forme viventi, senza chiarori alle finestre, senza fumi ai comignoli: solo nelle profondità dello spazio ricominciava la vita col dramma eterno della notte e del giorno, con la tacita pugna della luce e delle tenebre personificata nei miti antichissimi, perpetuantesi nel tempo interminabile. Il convoglio fuggiva verso la notte in fuga, come nella folle intenzione di raggiungerla, e gli occhi del dolente tentavano di rifugiarvisi, gonfî di nuove lacrime dinanzi all’agonia di quella notte d’amore e di dolore.

— È giorno?

La voce di lei, la mano di lei appoggiatasi alla sua spalla lo fecero trasalire.

— Di già!

Poi, scorgendo gli occhi lacrimanti:

— Ancora? — soggiunse, crucciata.

Egli disse, in tono di amara preghiera, scrollando il capo:

— Che ti fa?... Lasciami piangere!

Il suo pianto era queto e dolce, senza singhiozzi. Piangendo le passò un braccio attorno al collo, posò la fronte sulla sua spalla. Sempre tentando d’infrenare l’impeto della commozione, disse:

— Capisco.... capisco.... Forse hai ragione.... forse l’amore finirebbe se ti avessi tutta per me.... Tristo cuore, il nostro.... Tristo amore, che ha bisogno di sentirsi insidiato, di lottare per vivere....

— Tutta la vita è lotta.

— È vero. È vero.

Di momento in momento la luce si diffondeva vittoriosa; il cielo dell’orizzonte già splendeva come un’immensa lastra d’argento tagliata da un fuso di nubi che s’indorava dalla parte del sole imminente. Egli volse lo sguardo da quello spettacolo agli occhi della donna. Anche in lei, anche nell’anima sua, un contrasto di luci e d’ombre, fulgori di bellezze e oscurità profonde. Come giudicarla, se anch’egli aveva il sentimento della propria miseria, se temeva di spingere lo sguardo nelle oscure profondità della propria coscienza?...

— Che ore saranno?... — domandò la sua voce.

Egli trasse l’orologio.

— Sono le sei e dieci.

— Milano è vicina!... Rientra nella tua cabina. Ho bisogno di restar sola.

— Vado. Mi richiamerai?

— Sì.

Le sfiorò la fronte con un bacio lieve, e la lasciò. Ancora il giuoco degli specchi, nel passaggio, lo fece sussultare; poi, aperto il finestrino della sua cabina, si abbandonò sul lettuccio. Con gli occhi alla luce trionfante, abbacinato, cullato dal moto del treno dopo la notte insonne, sentì il suo pensiero annebbiarsi. Era partito la sera precedente? Non era passato un tempo lunghissimo, dal momento che aveva ricevuto la lettera di Rosanna? Quante cose, nel giro di poche ore! L’attesa alla stazione, il pericolo sulla linea ingombra, la corsa lungo il binario.... Ma quanti maggiori mutamenti nelle disposizioni del suo cuore, quanti più gravi avvenimenti nella sua intima vita! Dalla gioia al pensiero di rivederla dopo tanta separazione, al proposito di rimproverarla acremente per il lungo abbandono; dalla paura di perderla spaventosamente in uno scontro di treni, all’ebbrezza di stringersela viva sul vivo cuore; dalla rivelazione della possibilità del divorzio, alla inesorabile deliberazione del ribadimento della catena.... Di un altro! Di un altro! Era d’un altro, restava d’un altro, sarebbe sempre stata d’un altro. Il treno la trasportava con la velocità del vento incontro a quell’uomo, traversava senza fermarsi le stazioni minori, sostava un istante nelle più importanti, riprendeva la sua corsa fatale verso la mèta. Ora non più ostacoli lungo la via ferrata, libera fino all’estremo orizzonte sui pingui campi ridestati dal sole. Così fossero sorti altri ostacoli! Se almeno quel convoglio si fosse infranto contro un altro, se si fosse precipitato in un abisso, se si fosse bruciato tra le fiamme d’un incendio inestinguibile! Null’altro avrebbe potuto impedire che Rosanna raggiungesse suo marito, che rendesse più stretto il nodo coniugale. Meglio la morte, meglio morire schiacciato, arso, annientato con lei, dopo avere intravvisto la possibilità di farla sua!... Ecco, roteanti nella corsa del treno, le case del suburbio milanese; ecco il conduttore apparire sull’uscio: «Siamo a Londra, signore». A Londra? Come mai tanto lontano? Ma via, giù dal letto per entrare nella cabina di lei, a darle l’ultimo bacio. Vuota, la cabina; ella stava fuori, nel corridoio, in piedi dinanzi ad una finestra, fra gli altri viaggiatori pronti a discendere; e non uno sguardo per lui, quasi fosse divenuto un estraneo, quasi non lo avesse mai conosciuto. Non si conoscevano più, come sotto il «Senegal»: ella era d’un altro. Ecco: quell’altro aspettava sotto la tettoia, faceva cenni di saluto alla donna sua; ma allora ella si rivoltava, rientrava un istante nella cabina e traendolo a sè lo baciava sulla bocca....

Il bacio lo destò. Il sogno non era stato tutto ingannatore; ella era china su lui, sorridente, odorante, fresca dopo il lavacro mattutino.

— Lévati, dormiglione: siamo a Milano. Distese le braccia per stringerla a sè, ma ad un tratto udì picchiare. Rialzatasi rapidamente, ella sparì dietro l’uscio del gabinetto.

— Avanti, chi è?

Il conduttore entrò annunziando:

— Siamo arrivati, signore.

— Grazie. Va bene. Pensate alle mie valigie.

Si alzò, si ricompose, uscì nel corridoio. Ella vi era già, gli sorrise, gli stese la mano, come riconoscendolo in quel punto.

— Avete dormito bene, Bertini?... — A voce più bassa soggiunse: — Ti permetto di accompagnarmi.

Egli dubitò di avere udito male. Non gli aveva scritto che alla stazione di Milano doveva lasciarla, che dovevano fingere di non conoscersi? Ma poichè ella si rivoltava, quasi a richiamarlo, ad attirarlo presso di sè, la raggiunse e l’aiutò a discendere.

Un altro treno sopraggiungeva in quel momento, empiva la tettoia di frastuono e di fumo.

— Chiasso? — domandò ella al facchino.

— Chiasso, sissignora.

Ella cercò tra la folla dei viaggiatori attraversanti i binarî, avviantisi alle scale d’uscita.

— Eccolo!... — disse, riconoscendo l’alta figura del marito, intento anch’egli a guardarsi intorno; poi ingiunse: — Seguimi.

Lodovico la seguì macchinalmente. Prima che potesse riflettere, che potesse considerare quale fosse la nuova volontà di lei, la vide scambiare un bacio col consorte e poi rivolgersi verso di lui:

— Francesco, ho il piacere di presentarti il signor Bertini.... un grande scultore italiano.... un mio buon amico, col quale ho fatto insieme il viaggio....

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