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Questo testo fa parte della raccolta Commedie (Aristofane)
LA PACE D’ARISTOFANE
COMEDIA VIII.
Persone de la favola.
Servo. | Hierocle. |
Un’altro servo. | Fattor de la falce. |
Trigeo. | Fattore de la celata. |
Figlij di Trigeo. | Venditor de la celata. |
Mercurio. | Venditor de’l corsaletto. |
Guerra. | Fattore de la Tuba. |
Cidemo. | Politore de la lancia. |
Coro de gli Agricoli Athmonei. | Figlio di Lamaco. |
Servo di Trigeo. | Figliuol di Cleonimo. |
SERVO.
Poorta, porta a’l Cantaro la massa prestamente.
- Al.S.
- Eccomi.
- Ser.
- Dagliela a’l poltrone.
- Al.S.
- Ne mai possa egli mangiar più dolce massa.
- Ser.
- Dagli l’altra massa fatta di sterco de muli.
- Alt.
- Eccomi anchora.
- Ser.
- Dove è quella, che di nuovo hai portata? non l’ha egli divorata?
- Alt.
- Per Giove sì. ma pigliatala tutta, se l’ha follata sotto à i piedi.
- Ser.
- Prestissimamente pistane molte, e spesse.
- Alt.
- O huomini collettori di sterco agiutatemi per amor di Dio, se non mi volete soffocato.
- Ser.
- Da l’altra a’l busone, che dice che ne ha voglia d’una trita.
- Alt.
- Ecco. huomini certo mi pare essere liberato da quest’huomo. e nissun mi dice à me macinante, ch’io mangi.
- Ser.
- Cancaro portane una, e un’altra, e un’altra, et tridane de le altre.
- Alt.
- Non per Apolline, ch’io non starei sopra à la sentina, la portarò ben’io.
- Ser.
- Per dio. tira à le forche, và t’impicca.
- Alt.
- Se alcun di voi il sà, me lo dica, dove comprarò io un vaso nuovo. certo niuna cosa mi pareva intravenire più misera e infelice, che io macinando dovesse dare da mangiar a’l Cantaro. ei sì come un porco caga, overo una cagna, e malamente si sforza e si estolle di superbia, e non pensa degna cosa il mangiare, se non gli metto inanti come à una donna una rava pista, non facendo mai altro tutto il dì che tridare. vederò un poco se hormai ha finito di mangiare, così aprendo un pochetto la porta, che’l non mi urga. affermati, non cessarai hoggi da mangiare fin che crepato non ti troviamo in un cantone? in che modo questo sto maledetto inchinatosi mangia, come luttatore gittatosi fuora i ganassali, e batte la testa, e le mani et à che guisa? e circõmenandole, come faciono quelli che tranno le grosse corde per le navi, cosa sordida, e di male odore, e edace, e di che dio è mai tale agiunta?
- Ser.
- Non sò. di Venere già non mi pare, manco de le gratie. è di costui, non che’l sia mostro, di Giove pervio.
- Alt.
- Hor alcuno de gli spettatori dirà, il giovane pare esser savio, poi che cosa è questa? à che poi il Cantaro? poi gli dice un’huomo ionico (penso però che dica oscuramente sopra di Cleone) che lui sanza vergogna mangia il sterco humano, ma intrando darò da bevere a’l Cantaro.
- Ser.
- Dirò io il parer mio sopra questi putti, e huominuzzi, e huomini, et sopra à quelli che s’essaltano d’essere da piu di costoro. il mio patrone ha una frenesia nuova, non come voi, ma à un’altro modo nuovo. guardando ne’l cielo di giorno così sbadachiando riprende Giove, e dice. Giove che pensitu di far? metti giu la scova, non scovar la Grecia, lascia, lascia stare. Tacete che mi par di udirlo.
- Tri.
- che vuoi tu far ò Giove a’l popol nostro? non saperai che guastarai la cità?
- Ser.
- Ecco il male ch’io diceva. udite un’essempio di matezza, come un luttatore che dice quando gli è montato la colera. Udirete, ch’egli ha detto tra se: in che modo anderò io per la diritta via da Giove? poi facendo certe scalette con queste vuole andar a’l cielo ascendendo, fin che giu cascando se sgrima il capo. hieri dopo queste cose disceso, non sò dove ha introdotto un’alto e grande Cantaro, il quale vuole che io gli tenda. e palpandolo come se fusse un cavallino: ò pegasetta (ei dice) penna generosa, in che modo mi farai volar per la buona via Giove? Ma voglio vedere che inchinatosi lo facia. ò misero me. venite, venite quà vicini. il mio patrone s’estolle a l’alta, à l’aere, à cavallo su’l Cantaro.
- Tri.
- Cheto, cheto asino mio, non mi andare troppo superbamente. subito ne la fortezza tua ti confidarai, nanci che vega e dissolva i nervi de i membri con l’impeto de le ale, et di gratia non mi inspirar mal nissuno, ma se questo vuoi fare, resta piu presto in casa.
- Ser.
- O messer patron.
- Tri.
- Taci, taci.
- Ser.
- Doue vuoi tu remigare cosi à l’alta?
- Tri.
- Per tutti i Greci, voglio far un’altr’astutia nuova.
- Ser.
- Che voli tu? huomo vano sei tu savio?
- Tri.
- Laudar bisogna e non malamente, niente grugnire, ma ululare, dì à questi huomini che tacijno, e che sopra edifichino mandre e vie con nuovi quadrelli, quadrelli, e che si serino il buco.
- Ser.
- Non tacerò io mai se non mi dici, dove vuoi volare.
- Tri.
- Che in altro luogo, che à Giove in cielo?
- Ser.
- Che openione è la tua?
- Tri.
- Gli voglio dire, che vuol fare de tutti i Greci.
- Ser.
- Se non, l’accusarai?
- Tri.
- L’accusarò lui che vuol dare la Grecia à i Medi.
- Ser.
- Per Dionisio, non farà mai vivendo io.
- Tri.
- Altro non gli è se non questo, oime, oime, oime, ò figlie il padre abandonandovi se ne và via nascosamente a’l cielo. pregate il padre ò infelici abandonate.
- Fig.
- O padre ò padre, vera è la fama in casa nostra, che lasciandomi con gli ucelli vuoi andare à i corvi? è niente di vero? dimilo ò padre, se mi ami.
- Tri.
- Egli è da pensare ò figliuole. di questo vero mi condoglio con voi quando cercarete de’l pane, papa mi domandarete. in casa non era poco argento, e se io ben facendo tornerò anchora, haverete à l’hora una fugazza grande, e un pugno cotto in essa.
- Fig.
- che via farai? nave certo non ti guidarà à tal via.
- Tri.
- Un cavallin che vola. non pagherò io nollo.
- Fig.
- Poi che openion è la tua ò patercino, cavalcando il Cantaro spingerlo à i dei?
- Tri.
- Ne le favole d’Esopo s’è trovato un solo ucello andar andar à i dei.
- Fig.
- Hai detto incredibile cosa padre, padre caro. in che modo un’animale sporco è andato à i dei?
- Tri.
- Gli andò per il passato per l’odio dell’aquila, volgendo l’ova e attristatosi.
- Fig.
- Hor bisognava che gli giugnesti l’ala de’l Pegaso, à ciò che tu paressi à i dei piu tragico.
- Tri.
- O misero tu mangiarai à me doi pani. dunque di quel pane ch’io mangio, satierò costui.
- Fig.
- Et se’l cascasse ne l’humido profondo del mare, in che modo sendo volatile, potrà egli scampar fuora?
- Tri.
- Io ho bene il temone à proposito, che doperarò. Cantaro poi ha fatto il navigio ne’l Nasso.
- Fig.
- Poi, che porto t’haverà sendo portato?
- Tri.
- Ne’l Pireo è già il porto di Cantaro.
- Fig.
- Advertissi bene, che errando non cadi giu, e che divenuto zoppo tu non dij lo argomento à Euripide, onde ne nasca la Tragedia.
- Tri.
- Et queste cose mi saranno in cura, hor alegratevi. e voi per le quali ho affanno, non pettegiate ne cacate per tre dì. però che se costui à l’alta sentirà l’odore, gettandomi giu con la testa mi ingannerà. Hor Pegaso alegramente và inanti, havendo l’aureo suono de gli archi, movendoti con le splendide orecchie, che fai tu? che fai? quando tu odori le fetide vie, confidandoti partiti da la terra. poi istendendo la corsiva ala, dirittamente te andarai ne le corti di Giove, retirando però il naso da la puzza, e da tutti gli hodierni cibi. Che fai quì cacando ne’l Pireo ò huomo, presso à le putane? se mi ammazzarai, non mi sotterrarai? non mi gittarai à dosso molta terra? e mi piantarai sopra un serpillo, e mi gittarai à dosso de l’onguento. però che se io casco, di tal morire morirò. la cità di Chio bisognava pagare cinque talenti per il tuo culo solamente. oime quanto ho io temuto, non più cavillando parlo. ò ingenioso avertiscemi, ho gia un certo spirito che si mi volge a’l boligolo: e se non mi servarai, satiarò io il Cantaro. Ma mi par essere apresso à gli dei, e vego gia la rocca di Giove. non m’aprirete?
- Mer.
- O signor Hercole, d’onde ho sentito io una voce d’huomo, che scelerità è questa?
- Tri.
- Cavallo cantaro.
- Me.
- O scelerato, audace, impudente, ghiotto, e poltrone in cremesino, e sceleratissimo. in che modo sei venuto, e asceso quà o sceleratissimo di scelerati? che nome è il tuo, non lo dirai?
- Tri.
- Sceleratissimo.
- Me.
- Di che generatione sei tu? dimilo.
- Tri.
- Sceleratissimo.
- Me.
- Chi è tuo padre?
- Tri.
- Mio padre sceleratissimo.
- Me.
- Per la terra ti farò morire, se non mi dici il nome tuo. Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/418 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/419 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/420 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/421 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/422 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/423 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/424 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/425 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/426 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/427 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/428 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/429 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/430 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/431 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/432 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/433 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/434 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/435
- M.
- Di molte & antiche le quali à l’hora lasciò, primamente t’hà interrogato che fà Sofocle?
- T.
- O felice, egli patisce una maravigliosa cosa,
- M.
- Che?
- T.
- Di Sofocle ne vien Simonide.
- M.
- Simonide? in che maniera?
- T.
- Che vecchio sendo & marcido per guadagnare egli naviga sù una stuora.
- M.
- Che quel Cratino è savio?
- T.
- E morto, che i Laconi l’hanno assaltato.
- M.
- Che gli è intravenuto?
- T.
- Che? Pallido è venuto, imperoche non tolerava à vedere un' urna rotta piena di vino, & altre cose che poi pensare farsi per la cità. Però non ti lasciaremo ò regina mai per alcun tempo.
- M.
- Hor piglia il frutto di queste cose, questa moglie tua con la quale stando ne li campi ti farai d’iracemelli.
- T.
- Vien qua ó dilettissima, & baciami, parerò io messer Mercurio offenderti in alcuna cosa, spingendo sù il frutto?
- M.
- Non, se beverai la bevanda blechonia: ma prestissi mamète guida questa speculatione pigliandola cõ consilio à colui, di che l’era prima.
- T.
- O consiglio beato di speculatione, quanto bruodo di tre dì sorberai? quante interiori divorerai, & carni cotte? hor ò diletto Mercurio da senno alegrati. Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/437 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/438 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/439 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/440 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/441 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/442 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/443 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/444 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/445 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/446 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/447 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/448 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/449 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/450 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/451 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/452 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/453 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/454 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/455 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/456 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/457 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/458 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/459 Pagina:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu/460
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